Gli stati di vita del cristiano

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Grazia e missione

Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come sfato della grazia tout court, in cui l'uomo è stato da Dio posto e deve rimanere.

Di fronte a questo stato generalmente umano c'è lo stato personale dell'uomo singolo, la posizione inconfondibile che determina la sua esistenza, in cui Dio lo ha posto e che da alla sua vita il vero contenuto, anzi la sua stessa giustificazione.

Questa posizione viene determinata dalla grazia della missione personale.

Già il generale stato dell'uomo è conferimento di grazia da parte di Dio; non solo un regalo, anche se inaudito, che l'uomo riceve passivamente, ma un sostegno rappresentato da un compito da eseguire, una trasmissione di poteri dall'archetipo ( Urbild ) alla copia ( Abbild ), un incarico che questi deve eseguire nell'autonomia della sua distanza dall'archetipo e per il quale è stato provvisto dei necessari mezzi e poteri.

Questa dimensione attiva della sua destinazione toglie all'uomo la sensazione di esser sempre solamente colui che riceve il dono, e lo abilita ad una corrispondente coscienza del proprio stato.

Così la grazia si rivela realmente come grazia.

Se essa fosse solo l'unilaterale dimostrazione di benevolenza di un re nei confronti di un mendicante sarebbero sempre in luce solamente il re e i suoi beni, mentre il mendicante sarebbe importante solo come colui che viene illuminato, ma in sé sarebbe soltanto un oggetto indifferente.

Solo allorché la grazia colpisce intimamente colui che la riceve e lo rinnova, lo innalza e lo nobilita in modo tale che egli diventa realmente colui a cui la grazia lo destina, cioè uno che è stato dotato di proprietà e qualità speciali tipiche della libertà autentica, della nobiltà autentica e dell'autentico sostegno che viene da una funzione regale, solo allora colui che è stato così innalzato diventa capace sulla base di questa grazia di adempiere alla sua nuova posizione con la dignità e la naturalezza richieste, senza venir continuamente trattenuto e ricacciato indietro dal pensiero della sua provenienza, dell'abisso che lo separa dall'altezza del suo ministero, solo allora la grazia ha portato a termine la sua opera e adempiuto se stessa.

Visto dal punto di vista di colui che elargisce la grazia, è come se la grazia si svincolasse da lui per passare in colui che la riceve.

Colui che dona la grazia non crede affatto di dover constatare che tutti quanti scruteranno subito in colui che ha ricevuto la grazia i contrassegni di un puro e semplice aver ricevuto una grazia per dare onore alla verità, subito tracceranno la linea di separazione tra natura e grazia.

Il donatore ha piuttosto il desiderio che il ricevente si muova nel regalo che gli fu elargito in maniera talmente naturale come se in esso risiedesse la sua vera essenza.

Se egli adotta un forestiero come figlio, egli vuole che questi si senta veramente tale, che dimentichi e non guardi più alla distinzione tra sé e il figlio nato in casa.

Certo il ricevente si comporterà viceversa.

Malgrado ogni naturalezza che gli è permessa e donata egli non dimenticherà mai che tutto ciò che egli è ( e lo è realmente ) lo può essere per grazia.

Quanto più alto è il rango a cui egli è stato elevato, tanto meno egli si scambierà per colui che lo ha posto in tale rango.

Se guardasse solamente a se stesso andrebbe a finire presumibilmente in una situazione psicologica inestricabile: oscillerebbe tra una disinvoltura assunta per far piacere al donatore e un imbarazzo radicato nella sua propria essenza, e questa situazione potrebbe crescere fino ad una sorta di spaccatura della coscienza e di tutta la sua struttura vitale, una metà della quale sarebbe quella di un servo, mentre l'altra sarebbe quella di un uomo libero.

E così angustiato potrebbe facilmente giungere a sentir salire dentro di sé una specie di risentimento nei confronti di colui che gli ha donato la grazia ponendolo in questa situazione di impaccio.

Tutto questo cambia, però, appena la grazia assume internamente la figura della missione personale.

Adesso essa non si posa più sul ricevente soltanto come un magnifico vestito che lascia sotto di sé continuare ad esserci tutta la povertà di mendicante della sua essenza e della sua origine.

Essa gli porta un compito, un campo d'attività e allo stesso tempo una gioia di svolgere questo compito, cosicché egli può identificarsi con esso e in esso vedere il nuovo e autentico senso della sua esistenza.

Essa gli dona un punto centrale che come un magnete polarizza tutte le energie della sua natura in direzione di una figura chiara ed eretta, che non si lascia aggiungere come un corpo estraneo alle grandezze già enumerate o le importuna come un peso oppressivo, ma richiede invece queste energie come operai disoccupati vengono assunti per un compito che attira e che remunera bene.

Questa è la forza della grazia della missione.

Chi l'ha compresa, osa porre a suo servizio tutto ciò che trova in sé.

Egli comprende che all'infuori di questo centro che gli è stato donato non ha alcun altro centro proprio; comprende che senza questa missione le sue energie diverrebbero infruttuose e inutili, mentre considerate alla luce della missione potrebbero tutte venir rese utili.

Poiché la missione non è generale e impersonale come un vestito confezionato, essa è stata pensata proprio per lui e adattata a lui come il regalo più personale.

Grazie ad essa soltanto l'uomo diviene persona in senso pieno.

Il fine ultimo dell'uomo fu da sempre un fine soprannaturale e da sempre egli fu destinato a pervenire al suo adeguato sviluppo in questa dimensione che si trova al di là della sua natura.

Mai dunque si può dedurre la sua vera destinazione partendo semplicemente dalle disposizioni naturali e dai tratti del carattere di una natura umana.

L'amore perfetto a Dio e al prossimo, che è il contenuto del comandamento principale, non è una vocazione che si scopre o addirittura si adempie a partire dalle forze della natura.

E neppure si può indovinare la personale volontà di Dio, che determina il senso della vita di un uomo, partendo da una qualche prefigurazione contenuta nelle predisposizioni umane.

Potrebbe benissimo essere che due uomini con predisposizioni naturali del tutto simili siano stati predestinati per missioni completamente diverse: l'uno per l'azione nel mondo, l'altro per la contemplazione nel convento; oppure l'uno per il pieno dispiegamento delle sue energie naturali nel servizio di Dio, l'altro invece per il sacrificio di queste nel medesimo servizio.

Su che cosa deve essere delle forze di una natura umana decide esclusivamente la missione che Dio le conferisce e che ultimamente proviene sempre immediatamente da Lui.

Come Egli ha impresso in ogni uomo la destinazione all'amore e gli ha donato per grazia il fine e le forze per raggiungerlo, così ha collocato ogni singolo uomo nel suo stato, che è il luogo e la forma in cui egli deve tendere al suo destino.

Ogni vita ottiene così un centro eccentrico.

Attorno ad esso ognuno deve ordinare le sue forze naturali e renderle disponibili in ordine ad esso.

Questa sarà la forma concreta in cui egli esegue la sua vocazione all'amore, e questa esecuzione sarà il suo servizio.

L'uomo non ha assolutamente alcun punto di paragone a partire dal quale poter rischiarare il carattere paradossale della sua posizione originaria.

Mai egli può scindere l'analogia del suo essere nei confronti di Dio in una parziale identità e parziale alterità.

Da una parte egli, che ha ricevuto doni in sovrabbondanza, è in tutto una creatura.

Non può considerarsi divino per la grazia ricevuta e chiamare invece creaturale la propria natura.

E neppure egli può chiamare divina la sua missione ( che lo rende persona ) e creaturale invece il suo esser soggetto spirituale ( Geistsubjektsein ).

Egli non può chiamare divina l'anima che Dio gli ha insufflato col proprio alito e creaturale invece il suo corpo fatto dalla polvere della terra.

Come un tutto, anche con tutti i suoi doni così intimi che provengono dai tesori di Dio, come un tutto egli è costituito creatura di Dio, che deve ultimamente con la propria volontà adempiere la volontà di Dio.

Egli non può dire a se stesso per consolazione che egli così compie solamente quel bene assoluto che ogni essere dotato di ragione deve di per sé mirare a conseguire, che perciò la sua « eteronomia » coincide con la sua « autonomia », che il suo riverente servizio con cui onora Dio è ultimamente solo l'esecuzione della sua autodeterminazione.

Egli lascerebbe in tal modo coincidere la propria libertà con la libertà di Dio, non avrebbe più bisogno di tendere l'orecchio ad alcuna parola che provenga dalla profondità di Dio, per trovare la strada della sua autorealizzazione, anzi egli non avrebbe più ( una volta fatto equivalere l'amore assegnategli come compito con la sua propria inclinazione spontanea ad amare ) alcun oggetto d'amore che se stesso.

Ma se egli ha compreso che, come dice Agostino, deve chiamarsi servo anche quando Dio lo chiama amico ( come Maria si chiama serva allorché ottiene l'attribuzione della dignità di una regina ), può e deve anche riconoscere che la parola che Dio gli rivolge ha decisamente ragione, anzi è la verità stessa.

Nella coscienza della sua creaturale distanza di copia ( Bild ) dalla sua immagine archetipica ( Urbild ) l'uomo creato e dotato della grazia ha più che mai l'incontrovertibile e sconvolgente certezza della sua vicinanza a Dio.

Dove questa vicinanza stia non lo sa però da se stesso, ma gli deve venir spiegato da Dio.

Se egli non può trovare la sua perfezione in se stesso, ma nell'esecuzione della sua missione, se egli in quanto copia e somiglianza non può volgere lo sguardo via dall'immagine archetipa ma deve imitare fedelmente, non solo in generale ma sempre e sin nel più piccolo, ogni tratto che da Dio gli viene mostrato, egli ottiene allora proprio in ciò, senza poterlo intuire da sé, partecipazione al più intimo mistero dell'amore.

Il carattere di servizio dell'amore, che prima ci era apparso come il suo distintivo contrassegno creaturale, si rivela come così essenziale all'amore da esser proprio anche dell'amore assoluto divino.

Il rapporto tra modello e copia creaturale, che appariva come rapporto tra padrone e servo, diventa improvvisamente immagine derivata ( Abbild ) di un rapporto intradivino: il rapporto tra Padre e Figlio.

Il Figlio proviene dal Padre, e viene da lui mandato nel mondo.

Egli, che come persona è la copia ( Abbild ) uguale per essenza della patema immagine originaria ( Urtiild ), non conosce altro contenuto del proprio essere che quello di corrispondere in tutto al pensiero e alla volontà del Padre.

L'amore del Figlio non è meno divino, meno assoluto di quello del Padre, e tuttavia ha internamente la forma della missione, del servizio, della « obbedienza ».

Egli non è inferiore al Padre, ma la sua eterna gioia consiste nel vedere nel Padre colui che è sempre più grande.

Egli non è meno libero del Padre, ma la forma della sua libertà consiste nell'esclusione di ogni altro volere che quello del Padre.

L'essenza del Figlio come seconda persona divina è identica con la sua processione e la sua missione dal Padre, e mentre il Figlio afferra questa missione come sua propria e si eguaglia ad essa, la riconduce al Padre a sua eterna glorificazione.

Questa divina « obbedienza » del Figlio è la sua massima libertà nell'amore, questa « povertà » del Figlio rispetto a ogni altra destinazione all'infuori di quella che il Padre gli da è la sua eterna ricchezza, e questa « purezza » del Figlio ed esclusività dell'amore con cui si è consacrato al Padre è la sua eterna fecondità.

Così libero, così ricco e così fecondo è il suo amore, che il reciproco volgersi del Padre al Figlio produce la persona dello Spirito Santo, l'espressione, il sigillo, la testimonianza e l'infinito traboccante superamento del loro indivisibile amore.

Davanti all'abisso di questo divino mistero d'amore ammutolisce ogni pensiero segreto dell'uomo che si sentiva forse danneggiato nella sua libertà dal fatto di esser creatura.

A chi appare duro dover « sempre servire », dover eguagliare il senso e lo scopo della sua esistenza alla missione conferitagli da Dio, non poter avere mai altra volontà che quella tracciata nella missione, costui guardi all'eterno Figlio.

Là imparerà che nome porta questo movimento estatico di uscita da sé per entrare nella missione ricevuta da Dio: il nome del più libero ( perché più assoluto ) amore.

Là imparerà perciò anche a comprendere che l'estasi non è una condizione privata, concessa per il proprio piacere, nella quale l'estatico ha esperienze che non toccano nessuno all'infuori di lui stesso, ma che questo stare fuori di sé porta il nome di obbedienza, un'obbedienza in cui colui che serve vuol trovare il suo piacere definitivo in nient'altro che nell'adempimento del volere di colui che lo ha mandato.

Il Figlio non si distingue dalla sua missione; in nessun momento si toglie dallo stato in cui il Padre lo ha posto per considerare se stesso in un impossibile « in sé » e inserire poi di nuovo nello stato della missione ciò che egli ha osservato e soppesato nel suo proprio valore.

Il Figlio si fonda solo nel suo eseguire, approvare ed esser debitore del volere del Padre che lo invia, e conosce se stesso solo come ciò che serve al Padre per glorificare la sua origine.

Di per sé egli è solamente materiale per questa glorificazione.

Naturalmente l'impiego del concetto di obbedienza in riferimento alla persona divina significa un trasferimento, un antropomorfismo.

Ma in fin dei conti ogni discorso umano su Dio è antropomorfo, e questo modo di parlare è stato innalzato grazie alla forma umana assunta dal Figlio ( Fil 2,7 ) a modo di parlare definitivo e insuperabile.

In questo impiego è da escludere dal concetto di obbedienza tutto ciò che ha origine dal rapporto fra Dio e creatura, nella misura in cui la creatura viene considerata come tale, vale a dire come proveniente dal nulla; è invece da mantenere e da elevare all'infinito ( nel senso della via eminentiæ ) tutto ciò che è in vigore nell'analogia tra Dio e creatura, considerata questa in quanto positiva immagine ( Abbild ) di Dio, anzi più precisamente: della Trinità.

L'obbedienza che il Figlio di Dio vive per noi nella sua natura umana non è affatto fondata solo su questa natura umana come tale e pensata come esempio per noi creature, ma è invece, come ognuna delle sue espressioni, non solo portata dalla sua persona divina, ma è anche davvero una rivelazione della sua persona divina tradotta in linguaggio umano, e così è anche una rivelazione della sua stessa persona divina.

Proprio questo atteggiamento filiale che in tutto tiene lo sguardo al Padre e in tutto vuoi essere soltanto la rappresentazione e lo splendore ( Eb 1,3 ) dell'essenza del Padre è la maniera in cui il Figlio rende a noi comprensibile la sua identità col Padre, la maniera perciò in cui egli diviene per noi « interpretazione » dell'eterno amore del Padre stesso ( Gv 1,18 ).

Se l'unico, indivisibile amore di Dio assume nella persona del Figlio la sua coloritura filiale dell'obbedienza, non è tuttavia che questa sia da pensare come tale subordinata al Padre ( alla maniera dell'eresia subordinazionista ).

Non è nient'altro che l'eterna « espressione » ( karaktér, Eb 1,3 ) del perfetto altruismo e dedizione dell'amore paterno che spinge il Padre a non tenere per sé tutta la sua essenza divina, ma a donarla invece sovrabbondantemente al Figlio.

Amore nel modo della missione generata è espressione dell'amore nel modo della missione attivamente generante.

Questo reciproco rapporto della missione diventa nella terza persona divina, lo Spirito Santo, conclusiva e piena unità d'amore, in cui lo Spirito nella sua inconfondibile personalità unisce allo stesso tempo tratti del Padre e del Figlio, dai quali egli viene spirato.

Egli è la dedizione, altruismo e missione personificata, la pura trasparenza fluente, l'amore come servizio all'amore di Padre e Figlio.

Quando perciò il Figlio rivela il suo amore al Padre nel modo tradotto dell'obbedienza, questa rivelazione è una rivelazione dell'intero amore trinitario.

D'altra parte è comprensibile che il mondo fu creato proprio secondo il modello del Figlio: che « tutto fu fatto per lui e in vista di lui », che egli « è prima di tutte le cose e tutte le cose sussistono in lui » ( Col 1,16-17 ) poiché proprio il modo filiale dell'amore eterno di Dio era il più appropriato ad essere esemplare per il giusto rapporto tra Dio e creatura.

« Dio volle che la comunicazione interna della sua natura e della sua essenza nella loro infinitezza uscisse anche all'esterno e si continuasse; ( … ) così estese il rapporto interno alla natura divina, nel quale egli sta nei confronti del Figlio, anche ad un uomo, generando il suo Figlio non solo all'interno di sé, ma anche all'esterno, in una natura umana creata ( … )

Se non ci fosse in Dio stesso alcuna interna comunicazione e glorificazione infinita, verrebbe a mancare la condizione base per l'incarnazione di una persona divina, non solo perché allora ci sarebbe anche in Dio una sola persona, ma principalmente perché così l'idea di una infinita comunicazione e glorificazione di Dio nel suo interno non troverebbe alcuna radice, alcun punto di collegamento ».

Così però « l'Incarnazione non appare come un evento straordinario, ma come lo sbocciare di una radice contenuta nel processo trinitario, come il dispiegamento di un nucleo che giace in esso » ( Scheeben, Mysterien (2) 1941, pp. 296-7 ).

Soltanto volgendo lo sguardo a questo amore del Figlio l'uomo comprende la sua vocazione: conoscere e guardare se stesso sotto nessun altro punto di vista che quello della missione, e così trovare nel perfetto servizio il perfetto adempimento di sé, l'eterna beatitudine, poiché per lui non c'è nessuna gioia tranne l'amore, e l'amore ha per lui la forma del servizio, o anche: perché per lui non c'è nessun'altra gioia che l'esecuzione del suo servizio, il quale consiste per lui - oh miracolo! - in nient'altro che nella vocazione all'amore.

In questa grazia originaria comunicata all'uomo sin da principio, nella quale egli fu creato e nella quale egli ottiene parte al mistero intradivino dell'amore trinitario, egli viene anche sostenuto dal doppio dono dell'azione e della contemplazione.

Esse appartengono l'una all'altra così intimamente come l'inspirare e l'espirare, come la sistole e la diastole.

L'azione è la missione in quanto la grazia di Dio è sempre il conferimento di un'attività e di un compito da portare a termine autonomamente.

In ciò Dio attira l'uomo nella sua fiducia e gli svela e tramanda una parte dei piani divini, in modo tale che egli può assumere sulle proprie forze e sulla propria creatività la realizzazione di questa parte.

La contemplazione è la medesima missione in quanto l'uomo può comprendere ed eseguire questo incarico solo attenendosi strettamente, grato per la fiducia dimostratagli da Dio, ai pensieri di Dio, senza intraprendere alcuna azione indipendente dal volere di Dio e magari ostacolante i Suoi piani, ma cercando invece di cogliere ed eseguire in tutto la volontà divina, senza volgere mai lo sguardo lontano da Dio.

Così il Padre ha trasmesso al Figlio tutto il potere, tutto il giudizio, ma il Figlio riceve questo potere non altrimenti che orientandosi sempre più strettamente secondo il volere del Padre.

« Il Figlio da sé non può far nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa.

Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati » ( Gv 5,19-20 ).

Il loro rapporto è da una parte azione, poiché ciascuno dei due opera: « Mio Padre opera sempre, e anch'io opero » ( Gv 5,17 ).

Ma quest'azione si svolge in un vicendevole rapporto di mostrare e vedere, nella contemplazione in cui il Padre si rivela sempre di nuovo al Figlio e il Figlio si dona e si apre sempre di nuovo alla rivelazione del Padre.

E anche se fra questi due aspetti c'è qualcosa come un ritmo di vita, essi non mutano tuttavia come fasi alterne che si cancellano a vicenda; il Figlio non guarda per un momento al Padre per poi di nuovo allontanarsi da lui e convenire da sé in azione ciò che ha visto.

Operando egli guarda invece continuamente verso il Padre, per non lasciarsi sfuggire nemmeno per un momento la sua indicazione, e guardando non sprofonda nell'inoperosità, ma intende la sua visione come servizio e missione, al punto tale che tutto ciò che il Padre gli mostra lo volge in azione e realtà effettiva.

In questo ritmo è posto anche l'uomo, il che non significa altro che il fatto che il suo stato originario è uno stato di preghiera.

Nell'originario movimento estatico della sua natura verso la missione di Dio egli è posto in quel movimento che lo apre a Dio da capo a piedi.

Egli riconosce in questo atto sia la sua creaturalità, che deve servire Dio e glorificarlo, sia l'infinita signoria di Dio, che ha il diritto di porre lui che è creatura in questo stato e in questa missione.

L'atto dell'afferrare la propria missione è perciò originariamente un atto di adorazione e di ringraziamento con cui l'uomo ha posto ai piedi di Dio tutto ciò che Egli gli donò come proprio, per riottenerlo da Lui nella forma che a Lui piace: quella della Sua volontà come missione.

Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione, e contiene in sé la volontà di praticarle entrambe.

Entrambe nella loro inseparabilità: essere autonomo per obbedienza e non voler essere autonomo altrimenti che nell'obbedienza.

È indubitabile che una decisione simile è sensata e attuabile solo nell'amore, ma l'uomo è fatto proprio dall'amore e perciò per l'amore.

Se egli afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell'azione o nella contemplazione.

Se egli non afferra la sua missione, allora può intraprendere ciò che vuole e darsi ad infiniti esercizi di preghiera: egli sarà però in ogni caso completamente al di fuori del mondo della preghiera.

Poiché la preghiera è vera solo laddove l'uomo esegue la sua missione.

« Non chiunque mi dice: Signore! Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » ( Mt 7,21 ).

Nel concetto di missione si incontrano tutti gli aspetti della creaturalità: la destinazione all'amore e la destinazione al servizio - e cioè in modo tale che l'amore si adempie nel servizio, e il servizio nell'amore -, la distanza da Dio e la vicinanza a Dio - e cioè in modo tale che la distanza della creaturalità trova la sua base e il suo compimento nella distanza dell'amore che il Figlio ha dal Padre, e la vicinanza si mostra nel fatto che essa è una vicinanza d'amore e quindi anche di riverenza e di servizio -, autonoma attività e contemplazione nell'offerta di sé - ma in modo tale che l'attività può essere tanto più autonoma quanto più la contemplazione è pronta a darsi e a ricevere, mentre questa a sua volta possiede la sua verità solo nell'assunzione dell'attività.

Così è sufficiente il concetto di missione per esprimere la misura piena di ciò che l'uomo deve essere: l'adempimento della missione definisce il concetto di perfezione umana.

Esso la può addirittura sostituire, poiché perfezione umana non è una grandezza che riposi in sé e sia finalizzata a sé, ma sta sempre a servizio della glorificazione dell'amore trinitario, che è l'unico scopo ultimo della creazione e a cui tutto, anche la perfezione e beatitudine delle creature, rimane ordinato.

Questa discussione, che apparentemente conduce molto lontano, a proposito di servizio e missione era in realtà la via più rapida per giungere ad una concreta visione di ciò che significa « stato di vita » nelle sue più remote origini.

L'essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e fonda.

Al di fuori di questa realtà l'esistenza creata rimane solo un incomprensibile ammucchio di materiale senza senso e forma, senza scopo e struttura.

Se si guarda alla volontà di Dio, che si esprime concretamente per ogni creatura nella sua missione personale, allora diviene piena di senso e coerente in sé come le lettere che compongono una frase.

Se si cerca invece di dare un senso definitivamente coerente alle energie corporali e spirituali, ai destini e alle situazioni, prescindendo dalla missione, si brancolerà sempre nell'incerto, anzi ci si invilupperà sempre più in un inestricabile intrico, che diventerà tanto più impenetrabile quanto più lo si interpreta soltanto in direzione dell'uomo e a partire da lui, invece di guardare insieme con lui in direzione della sua missione divina.

Se gli uomini interpretassero sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe alcun enigma o problema esistenziale, nessuna tensione o conflitto dell'anima, nessuna situazione senza via d'uscita.

Poiché essi non sarebbero occupati con se stessi o con un mondo considerato per se stesso separatamente da Dio e dall'incarico ricevuto da Dio, ma guarderebbero piuttosto sempre via da sé verso la volontà di Dio, che si manifesta ad ognuno che la cerca e che contiene il senso ultimo di tutto ciò che esiste.

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