Gli stati di vita del cristiano

Indice

La Scolastica e lo « stato di perfezione »

Non poté venir taciuto il fatto che lo status quo venutosi a creare nel primo Medioevo esercitò un influsso decisivo sulla speculazione della Scolastica circa gli stati di vita.

Poiché però d'altra parte questa speculazione è costruita sulle premesse patristiche e inserisce con cura nel suo edificio di pensiero i testi dei Padri, si doveva mettere a punto una molteplice sovrapposizione di strati e prospettività.

È bene, prima della considerazione della « sintesi » scolastica, dare uno sguardo al suo condizionamento storico, che può venir riassunto in quattro affermazioni.

1. Lo stato clericale appare in una duplice luce, poiché da una parte l'intera pienezza dello stato d'elezione ( come la videro i primi secoli ) appare in esso riassunta ( sacerdozio oggettivo e soggettivo ), mentre d'altra parte il nuovo sviluppo ha portato ad uno svincolamento della funzione pura e semplice ( nel « prete secolare ») dalla soggettiva « perfezione evangelica » ( nello « stato religioso » ).

Ciò si manifesterà nella sorprendente teoria che il vescovo, in forza del suo ufficio, è nello « stato di perfezione », mentre il clero a lui subordinato viene contato nello stato secolare.

2. Lo stesso stato religioso, da una parte, col rapido fiorire degli ordini mendicanti ha compiuto un passo essenziale al di là dell'epoca patristica e anche di quella benedettina.

L'idea di « perfezione evangelica» è entrata in uno stadio di riflessione più avanzata e di consapevole autointuizione; quello che nell'epoca precedente era implicito si chiarisce nell'esplicita teoria dei tre voti, all'incirca nel medesimo tempo in cui ciò che era implicito nell'amministrazione dei Sacramenti si esplicita nell'espressa dottrina dei sette Sacramenti.

Con ciò si rafforza per il momento la distanza fra le due forme di stato d'elezione.

3. Tuttavia l'idea di stato religioso conserva pur sempre, grazie al perdurante appoggio ai testi patristici, una coloritura simile a quella del cristianesimo delle origini.

Ciò si manifesta in primo luogo nel fatto che lo stato religioso si considera sempre, nel suo insieme, come stato laicale, così come in effetti i taumaturghi, gli eremiti, i cenobiti, i monaci di S. Basilio, Benedetto e Francesco d'Assisi furono primariamente laici.

Si manifesta inoltre nel fatto che è ancora preponderante la tendenza contemplativa e perciò il carattere apparentemente puramente personale, quasi privato, della via monastica alla perfezione.

L'idea che perfezione evangelica e missione ecclesiale ( che non necessariamente deve essere funzionale ) appartengono inseparabilmente l'una all'altra è rimasta quasi completamente estranea alla speculazione scolastica.

Con ciò è già data la quarta affermazione.

4. L'intera considerazione degli stati di vita si sposta sotto il segno del concetto di « stato di perfezione ».

Questo ha certo il vantaggio che il concetto di perfezione viene delineato più chiaramente, ma anche il considerevole svantaggio che così venne posto fortemente in primo piano il lato del tendere ed esercitare soggettivamente la santità ecclesiale, mentre il lato oggettivo della missione e del carisma sbiadiva dietro di esso.

I monaci, che a dire il vero erano quelli che soprattutto davano forma a questa speculazione, avevano con questo già un certo vantaggio nei confronti del clero, in qualunque modo poi si compisse l'intera formazione della dottrina sugli stati di vita all'interno di spesso incresciose rivalità fra i due stati.

Per Tommaso stato di vita significa, come già in precedenza abbiamo esposto, una immutabile forma di vita che conferisce a colui che vive in essa una determinata, delimitata perfezione riposante in se stessa.

Ora però egli riferisce immediatamente questa perfezione, che come tale è propria di ogni stato, al concetto cristiano di perfezione, cosicché la graduazione degli stati di vita appare allo stesso tempo come una graduazione della loro perfezione: « distinctio diversitatis fidelium accipi potest ( … ) per respectum ad perfectionem, et secundum hoc accipitur diffe-rentia statuum, prout quidam sunt alliis perfectiores » (S Th II II q 183 a 3c ).

Egli delimita questa divisione nei confronti di quella degli uffici ( officia ), i quali deputano quelli che li rivestono a diverse « actiones », come di fronte a quella dei gradi che possono esser presenti all'interno del medesimo stato o del medesimo ufficio, senza mutare la loro costituzione fondamentale.

Ogni stato di vita cristiano, se è veramente tale, ha la sua perfezione a lui commisurata, in primo luogo a partire dal concetto filosofico di stato di vita, in secondo luogo dalla visione teologica che una durevole forma di vita nella Chiesa deve essere disposta in modo tale da garantire a colui che vive in essa il conseguimento della perfezione cristiana, che consiste nell'amore ( ibid. q 184 a 3c ).

Lo « stato di perfezione » in senso forte sarà però quello la cui forma di vita, come tale, cioè stabile e immutabile, ha come fine esclusivamente il raggiungimento dell'amore perfetto.

« Sic ergo in statu perfectionis proprie dicitur aliquis esse, non ex hoc quod habet actum dilectionis perfectae, sed ex hoc quod obligat se perpetuo cum aliqua solemnitate ad ea quae sunt perfectionis » ( ibid. a 4c ).

A questo « stato di perfezione » appartengono secondo Tommaso tanto i religiosi quanto i vescovi, non però gli altri chierici che stanno sotto il vescovo.

Questi formano insieme con gli altri credenti lo stato cristiano generale, anche se per il loro ministero possono rivendicare una speciale dignità.

I religiosi sono entrati in questa forma di vita attraverso i loro voti, coi quali essi hanno rinunciato al mondo per vivere solamente per Dio.

« Similiter etiam Episcopi obligant se ad ea quae sunt perfectionis, pasto-rales assumentes officium, ad quod pertinet, ut animam suam ponat ( pastor ) prò ovibus suis, sicut dicitur Gv 10, ( … ) unde Apostolus dicit 1 ad Tim ult: confessus bonam confessionem coram multis testibus ( id est in sua ordinatione, ut Glossa ibidem dicit ); adibetur etiam quaedam solem-nitas consecrationis simul cum professione praedicta ».

Il vescovo formula dunque un « voto » ( professio, confessio ) di porre definitivamente tutta la sua esistenza a servizio del gregge a lui affidato.

Tommaso cita in seguito specialmente Dipnigi ( Eccl. Hier. 5 ), chiarendo il motivo e la necessità di questo « voto »: il vescovo è « participativus integrae totius hierarchicae virtutis », è attraverso il suo ufficio ( questo è da notar bene! ) « illuminativus » di tutta la Chiesa ed è colui che comunica le grazie e le energie divine ( ibid. a 5c ).

Questo fatto Tommaso non vuol farlo valere per i preti subordinati al vescovo, né in base al loro « ordo », né in base alla « cura » trasmessa loro dal vescovo.

Per quanto concerne l'orde, « accipunt potestatem, quos-dam sacros actus perficiendi, non autem obligantur ex hoc ipso ad ea quae sunt perfectionis ( nisi quatenus apud occidentalem Ecclesiam in susceptione sacri ordinis emittitur continentiae votum, quod est unum eorum quae ad perfectionem pertinent ) ».

Certo per l'esercizio delle funzioni sacerdotali c'è bisogno di una « interior perfectio », ma poiché « ad eos non peninet principaliter pastorale officium nec obligatio ponendi animam prò ovibus » ( ibid. a 6 ad 3 ), essi per questo non sono posti, come il vescovo col suo voto, nello stato di perfezione.

Anche per quanto concerne la « cura » essi non lo sono; « nec enim obligantur ex hoc ipso vinculo perpetui voti ad hoc quod curam animarum retineant, sed possent eam deserere vel transeundo ad religionem, etiam absque lilicentia episcopi ( … ) vel parochiam dimittere et simplicem praebendam accipere sine cura, quod nullo modo liceret, si essent in statu perfectionis: nemo enim mittens manum ad aratrum et respiciens retro, aptus est regno Dei ( Lc 9 ) » ( ibid. a 6c ).

Questa per noi sorprendente teoria di S. Tommaso è il punto terminale di un lungo sviluppo; essa può venir compresa solo se allo stesso tempo si prendono in considerazione i gradini previi in essa riconoscibili.

L'immagine che Tommaso abbozza del vescovo è quella del perfetto buon pastore, di colui che è vera immagine riflessa di Cristo, che insieme con Lui da la sua vita per le sue pecore, ponendo tutta la sua esistenza a disposizione della sua missione, in maniera solenne e irrevocabile.

In questa immagine sfumano, corrispondentemente all'immagine patristica e biblica dell'unità dello stato d'elezione, i contorni di essere e dover essere, di funzione oggettiva e di soggettiva consacrazione e dedizione completa.

È l'immagine che, ancora completamente all'interno della tradizione giovannea, aveva del vescovo abbozzato Ignazio di Antiochia.

È ancora una volta l'immagine del « gerarchico » che del vescovo abbozzò nella sua « Gerarchla divina » Dionigi l'Areopagita.

Nella sua maniera di guardare mistico-liturgica non c'è spazio alcuno per una considerazione morale, un'aspirazione: ogni grado della « gerarchia » viene descritto in una visione puramente ideale, in cui esso appare come copia diretta della celeste « gerarchia » degli Angeli.

Ognuno è qui quello che deve essere; l'oggettiva perfezione del rispettivo stato è l'unica unità di misura della perfezione soggettiva, che appare come assorbita in quella dello stato.

Il vescovo è talmente il perfetto prete e maestro, il suo ministero viene talmente visto nella pura esecuzione, in cui tutta la dedizione personale e l'impegno è come assorbito e integrato, che in tale visione rimane appena spazio per il lato della richiesta o esortazione a vivere anche personalmente in maniera corrispondente al suo stato.

In dettaglio, la struttura della Chiesa si presenta in Dionigi nella forma seguente:

Stati comunicanti Stati riceventi funzioni
Gerarca ( Vescovo ) Monaci Perfezionare
Prete Laici Illuminare
Liturgo ( Diacono ) Penitenti eCatecumeni Purificare

Da ciò risultano le seguenti relazioni:

1. In quanto gli stati comunicanti stanno complessivamente al di sopra dei riceventi, lo stato monastico si riannoda come quarto allo stato del liturgo.

In Tommaso questo si rispecchierà nell'affermazione: « Semper agens praestantius est patiente; in genere autem perfectionis secundum Dionysium episcopi se habent ut perfectores, religiosi autem ut perfecti, quorum unum pertinet ad actionem, alterum autem ad passionem; unde manifestum est quod status perfectionis potior est in episcopis quam in religiosis" ( II II q 184 a 7c ).

2. D'altra parte tanto il vescovo quanto il monaco stanno entrambi sul gradino dei perfetti.

Se i diaconi devono occuparsi prevalentemente dei penitenti e dei catecumeni da purificare, e i preti del popolo ecclesiale da illuminare, i vescovi devono da parte loro occuparsi della perfezione dei monaci: « Il sacro ordine dei monaci ( … ) è sottoposto al potere perfezionante dei gerarchi e viene ( … ) elevato dalla loro sacra scienza alla completa perfezione in gradi corrispondenti » ( Hier. eccl. 6,1,3 ).

Accanto alla subordinazione di stato presbiterale e stato laicale, al quale appartengono i monaci, sta dunque la coordinazione dei due stati di perfezione, che si rispecchia in Tommaso nell'affermazione: « Et inde est quod Dionysus ( … ) perfectionem attribuii solis episcopis quasi perfectoribus et monachis quasi perfectis; illuminationem vero attribuii presbyteris tanquam illuminatoribus per sacramentorum admi-nistrationem, et sacro populo tamquam illuminandis; purgationem vero diaconibus tamquam purgatoribus et ordini immundorum tamquam purgandis » ( Quodl. 3,17c ).

Questo però non basta.

Il monaco così « illuminato » passa da parte sua, per il domenicano Tommaso, all'azione: egli diventa dottore e di qui viene promosso al medesimo rango del « perfector » episcopale: « In aedifìcio spirituali sunt quasi manuales operarli, qui particulariter insistunt curae animarum, puta sacramenta ministrando, ( … ) sed quasi prin-cipales artifices sunt episcopi, qui imperant et disponunt qualiter praedicti suum officium exequi debeant; propter quod et episcopi, id est superintendentes dicuntur, et similiter theologiae doctores sunt quasi principales artifices, qui inquirunt et docent qualiter alii debeant salutem animarum procurare » ( Quodl. 1,14 ).

Accanto a Dionigi è soprattutto Crisostomo ( De sacerdotio ) a influire sulla speculazione.

Egli si era spaventato davanti alla sovrastante grandezza della dignità sacerdotale e si era nascosto, per non venire eletto vescovo.

Nella sua giustificazione nei confronti del suo amico Basilio, egli innalza talmente dignità e responsabilità dello stato sacerdotale, che lo pone chiaramente al di sopra dell'ideale monastico.

Senza dubbio gioca un considerevole ruolo il sopracitato momento nel fatto che l'ideale monastico nei suoi inizi venne visto non di rado ( anche se non esclusivamente ) come una via privata, intrapresa di propria iniziativa e soprattutto in vista della salvezza propria, che poi contrastava tanto più fortemente in confronto con la « preoccupazione per le Chiese tutte » che incombeva al vescovo e al sacerdote.

Tommaso vorrà piuttosto distanziarsi da questa maniera di vedere di Crisostomo.

Egli cercherà di circoscrivere espressamente al solo ministero episcopale ciò che Crisostomo sembra dire sul sacerdozio in generale ( il II q 184 a 8 ad 1 ).

Già per Crisostomo si trattava in effetti anche dell'episcopato.

La cosa più importante è che Tommaso respinge come non pertinenti tutte le prove della superiorità di questo stato prese dalla dignità oggettiva della funzione sacerdotale.

« Auctoritas illa non pertinet ad perfectionem vitae, sed ad differentiam dignitatis ( … ) Hoc autem in quaestione non vertitur, an sit maior dignitate praelationis quicumque habens curam animarum religioso curam animarum non habente » ( Quodl. 3,17 ad 4 ).

Da questa frase diventa ora chiaro che per Tommaso, nella considerazione della perfezione di stato del vescovo, non si tratta affatto soltanto della dignità, ma dell'esistenza del criterio ultimo della perfezione evangelica: l'offerta soggettiva di tutto ciò che è proprio in favore della , salvezza delle anime.

Ne in lui ne nei Padri poteva venir detto seriamente che il trasferimento nello stato episcopale fa raggiungere al candidato ( per così dire « ex opere operato » ) una perfezione personale, quella di cui c'è bisogno per amministrare adeguatamente questo ufficio.

« Animam ponere prò ovibus » è un'esigenza che risiede nello stato, la quale anche col voto di entrata non viene soddisfatta una volta per tutte, ma deve venire ogni giorno adempiuta nuovamente.

La perfezione episcopale rimane in base a ciò intimamente costituita di due lati: essa è perfezione del ministero, il munus episcopale è « locus sanctitatis ( Gregorio, Hom. in Ev. 17 ), « ordo sacratior » ( Dionigi, Eccl. Hier., c. 5 ) - ed è in questo ministero richiesta corrispondente di santità personale: « Ne sit honor sublimis et vita deformis, ne sit deifica professio et illicita actio » ( Ambrogio. De dign. sue., c. 2 ).

E l'esigenza personale non è tanto racchiusa nel conferimento della dignità sacra, ma è piuttosto presupposta da questa, allo stesso modo in cui il conferimento di un incarico di insegnamento non rende il candidato più sapiente, ma presuppone la sua sapienza ( « Munus doctoris dici potest quasi status doctrinae, non quia facit doctum hominem, sed quod in ilio talem perfectionem supponit ac requirit.

Ad hunc ergo modum status Episcopi status perfectionis seu viri perfecti merito appellantur », Suarez, loc. cit., lib. i e 15 n 11 ).

Se i primi secoli della Chiesa, corrispondentemente alla loro generale rappresentazione della vita ecclesiale, vedono intenzionalmente essere e dover essere in questa insolubile unità e osano considerare la caduta dall'ideale come ciò che semplicemente non deve esistere ( Nichtseinsollende ), anzi da un punto di vista escatologico addirittura come ciò che non esiste ( Nicht-seiende ), non è tuttavia sfuggita ad essi l'intima doppiezza della santità episcopale.

Non a caso si cercavano allora così assiduamente ecclesiastici che possedessero un carisma personale, per impartire ad essi la consacrazione episcopale, affinché in forza di questa essi diventassero poi realmente « forma cleri » ( 1 Pt 5,3), rappresentazione del sacrificio perfetto del Buon Pastore, che deve continuarsi nella Chiesa.

In questa maniera la perfezione episcopale è in tanto parallela a quella monastica, in quanto entrambi offrono tutta la loro vita: gli uni per santificarsi nella personale tensione a Dio, gli altri per vivere totalmente a servizio della Chiesa.

Ciò che è comune a entrambe le forme di vita prevale però talmente che i Padri non li distinguono come due stati, ma li intendono come un unico stato di perfezione: « Patres non accurate distinguere monasticum ordinem et clericalem, sed religiosum statum in genere ea voce appellare » ( Suarez, loc. cit. lib. 3, e 3 n 10, Opp. xv 240 ).

Si vede però già che quanto più i voti si completavano l'un l'altro, l'ordine delle vergini si integrava all'interno dell'ordine religioso e la dimensione privata dell'eremitismo si mutava in quella pubblica e organizzata del cenobitismo, tanto più anche la dimensione dell'analogia nel concetto di perfezione cristiana, che dapprima appariva impersonata altrettanto bene nello stato dei chierici come in quello dei monaci, svanì e i chierici furono posti davanti ad una difficile scelta.

Dovevano vedere anche in futuro l'unità di misura della perfezione soggettivo-personale corrispondente al loro ministero oggettivo nel canone della « perfezione evangelica » sinora comune ad essi e ai monaci insieme, o dovevano distaccarsi da questo ideale e prendere l'unità di misura da un diverso ideale del loro ministero ( che per verità i monaci non avevano )?

Contro una simile spaccatura dello stato della perfezione i grandi Padri si erano opposti.

Anche se il clero dipendente dal vescovo non visse mai nella sua totalità espressamente secondo i tre consigli evangelici, tuttavia la tensione era sempre quella di farlo partecipare il più pienamente possibile, nella maniera corrispondente al suo ufficio, all'unica perfezione evangelica.

Suarez ha perciò del tutto ragione, se guardiamo le cose dal punto di vista storico - e le ricerche di Hertiing hanno confermato le sue cognizioni -, quando sottolinea che nella sua riforma del clero Agostino non introdusse alcuna innovazione ( op. cit; lib 5 e 3 n 8 ), ma mise semplicemente di nuovo in piedi una disciplina che stava vacillando, diventando così anello di congiunzione tra il clero del la comunità delle origini e il clero regolare e canonico del Medioevo.

La fissazione della perfezione evangelica sullo schema monastico ebbe per conseguenza nel clero una crescente divisione in due gruppi: alcuni che vivevano secondo il canone della perfezione evangelica come i membri degli ordini religiosi, e altri che non lo facevano.

Così si approfondì la scissione, che inizialmente non esisteva, fra il pieno ideale sacerdotale, come lo realizza il vescovo, e il clero secolare più basso, che secondo Tommaso non rientra più nello stato di perfezione.

Ciò è tanto più sorprendente in quanto a dire il vero il vescovo è obbligato non da ultimo in forza del suo ufficio sacerdotale a quell'ideale dell' « animam prò ovibus ponere », e appare innaturale separare l'uno all'altro l'ufficio episcopale e quello presbiterale al punto da assegnarli a due diversi stati.

In questo vi è senza dubbio una degradazione dell'ideale presbiterale che si può comprendere solo a partire dalle più amare esperienze dell'undicesimo secolo, allorché si comprese anche definitivamente che non era possibile guadagnare all'ideale della vita evangelica il clero regolare nella sua totalità.

Tanto più fortemente ci si attiene allora all'idea che il vero e perfetto tipo del Cristo sacerdote, il vescovo, che ha offerto la sua vita per le sue pecore, deve rappresentare in una qualche forma la piena perfezione evangelica.

È una significativa immagine speculare di questa circostanza il fatto che all'incirca nel medesimo tempo viene fissato nella Chiesa Orientale che il basso clero deve appartenere allo stato secolare - ed essere sposato, mentre i vescovi non solo non possono esserlo, ma corrispondentemente alla prassi vengono scelti dall'ordine religioso.

Questa decisione del Sinodo russo del 1274 verrà mantenuta anche per la Chiesa greco-uniate.

Ma lo sviluppo spingeva in avanti.

Lo stato della perfezione evangelica aveva acquisito attraverso Benedetto, Francesco, Domenico, un siffatto volto che ora si poneva anche per i vescovi la questione se essi dovessero adeguare a questa forma di vita anche quella parte della loro perfezione sacerdotale che è fondata non sull'essere ma sul dover essere.

In Tommaso stesso si parla ancora senza aggiunta di stato di perfezione per il religioso Come per il vescovo.

Ma poiché il vescovo non necessariamente, anzi solo in rari casi pronunciava i voti religiosi, premeva sempre più urgentemente la distinzione.

Gerson ( De consiliis evangelici!, Glorieux in, 10-26, v ), Dionigi i l Certosino ( De regulis vitae Christi, c. 1 ), distinguono ora, appoggiandosi alla teoria circa il vescovo dell'Areopagita, uno « status perfectionis acquirendae » per i religiosi e uno « status perfectionis exercendae » per i vescovi.

Anzi, si giunge, in maniera quasi provocante, ad una contrapposizione di uno « status perfectionis acquirendae » ad uno di « perfectionis acquisitae » o « adaptae » ( es. Bellarmino, De Monach., 1 1 e 2 ); l'ideale episcopale diventa ampiamente esagerato, poiché il vescovo, secondo questa concezione, possiede già ciò che il religioso cerca ancora di raggiungere.

Caetano poi certamente sfuma la distinzione altrimenti e da ad essa il suo vero volto, distinguendo tra uno « status perfectionis propriae » e « alienae » ( II II q 189 a 3).

Il religioso tende alla perfezione propria; il vescovo, come « perfector » della Chiesa, deve promuovere e produrre in forza del suo ministero la perfezione degli altri.

Per questo però egli deve possederla.

Non si potrà infatti interpretare il discorso sullo status perfectionis per il vescovo in una maniera così sbiadita da intenderlo come niente di più che una specie di « grazia di stato », che gli sarebbe comunicata con la ordinazione episcopale o col conferimento dell'ufficio.

Ancor meno ci si accontenterà di dire che la Grazia che egli deve distribuire è efficace « ex opere operato ».

Certamente «qualcuno può praticare le opere di perfezione senza essere egli stesso perfetto, può raccomandare ad altri la castità senza essere casto, e la povertà senza essere egli stesso povero.

Il motivo è che il principio adeguato di azioni perfette non è la perfezione propria, tanto più allorquando queste sono indirizzate a rendere perfetti altri.

Così uno può essere perfector, senza essere egli stesso perfectus, e per essere nello stato della perfezione è sufficiente che egli sia nello « status perficientis », anche se egli stesso non è perfectus.

Poiché però una simile maniera di operare ciò che è perfetto è altamente imperfetta e inefficace, ed è per così dire impossibile che da ciò crescano frutti ( per questo il Signore dice: Se il sale diviene scipito, con che cosa lo si potrà salare? ), bisogna allora ammettere che questo stato della perfezione da esercitare esige, per essere assunto rettamente, una personale perfezione in colui che vuole vivere in esso.

La cosa migliore sarà perciò che la perfezione sia già esistente ( ut perfectio antecedat ), come disposizione, che per l'assunzione di questo stato è ragionevole e altamente necessaria.

Infatti il Signore, prima di insediare Pietro come suo vicario, gli pose la domanda: Mi ami tu?

Non è però nemmeno così, che questa perfezione personale sia stata necessariamente conquistata in un qualche stato di perfezione: ci se la può procurare anche al di fuori di uno stato di perfezione.

Ed anche se lo stato richiede la perfezione della persona, come buona disposizione ad esso, non per questo esso è però stato di perfezione da acquistare ( status perfectionis acquirendae ), e non la comunicherà a partire da sé, « ma la richiederà in quanto perfezione acquisita altrove » ( Suarez, op. cit., lib 1 e 14 n 8 ).

Lo sviluppo dei due momenti l'uno dall'altro nella concezione dello stato della perfezione episcopale è qui dunque maturato talmente che la perfezione personale appare come il presupposto già richiesto per la trasmissione della perfezione ad altri attraverso il ministero.

Da dove il portatore del ministero prenda questa perfezione corrispondente al suo ufficio non viene detto; importante è solo che non gliela dà il ministero: « nec per se eam praestabit, sed aliunde illam petit ».1

Una simile visione, che ha minato dall'interno e ha scalzato il concetto originario dello status perfectionis del vescovo, non poteva infiltrarsi di notte.

Prima doveva esser stato predisposto tutto per salvare l'antico concetto di perfezione episcopale, anche di fronte alla precisazione del concetto di perfezione personale ad opera dei nuovi ordini religiosi.

Si tentò di farlo concependo il « votum episcopale » in maniera quasi sacramentale come il perfetto, indissolubile e sacro vincolo matrimoniale tra il sommo sacerdote e la sua comunità ( venisse questa intesa più come la singola diocesi o come l'intera Chiesa ), un vincolo matrimoniale che era pensato perlomeno altrettanto esigente, altrettanto impegnativo quanto il vincolo di un naturale matrimonio.

Come i coniugi non vivono più per se stessi, ma nella forma di vita dello stato matrimoniale hanno il mezzo di darsi perfettamente l'uno all'altro, secondo la parola del Signore « dare la propria anima per guadagnarla », così il vescovo in questo, « matrimonium spirituale » da la sua anima per la sua chiesa, la sua diocesi, le sue pecore.

Una tale dedizione totale era veramente, nell'esclusività in cui il Vangelo la richiede, nella definitività del legame, un atto fondante uno stato, che poteva venir affiancato al voto dei monaci.

Innocenzo III ha sostenuto nei suoi Decretali questa concezione del voto episcopale, e tracciato ad essa, che già prima provvisoriamente era presente nella Chiesa, la via per una più ampia espansione.

Persino quegli autori che non usano l'immagine del matrimonio spirituale assumono però da ciò l'idea che il vescovo si leghi per sempre con un voto solenne, e che soltanto un simile voto possa essere fondante uno stato, « quia existimant, non posse statum perfectionis sine voto solemni consistere » ( Suarez, op. cit., lib 1 e 16 n 24 ).

Ma questa idea, che Tommaso ha condiviso con molti altri, nella sua artificiosità e quasi violenza non poteva costituire alcun definitivo baluardo contro la disgregazione.

C'era da una parte la realtà storica, che tutto sommato nulla sapeva di una tale definitività di legame del vescovo alla sua diocesi o anche solo al suo ufficio, ma conosceva invece una assai più grande facilità di dispense che quella usuale nel caso del matrimonio.

D'altra parte era tutto sommato dubitabile l'esistenza di un votum in occasione dell'assunzione della dignità episcopale, e Suarez aveva ultimamente gioco facile nel dimostrare che un tale votum non c'era affatto, o non c'era più.

Una volta che nel Medioevo si furono chiariti i voti riferentisi alla vita evangelica precisandoli nei voti di povertà, castità e obbedienza, e non si poté più far valere come tale un implicito, generale voto di totale dedizione, anzi non poteva nemmeno più esser riconosciuto come tale, non era difficile mostrare che il vescovo non emetteva alcun voto, ma semplicemente contraeva con la sua diocesi un « certo patto » ( pactum quoddam ), che in ogni tempo rimaneva solubile ( Suarez, ibid., e 16 ).

Caetano, che di per sé sosteneva l'opinione di S. Tommaso, la ha da parte sua talmente ammorbidila che i passi in cui Tommaso parla di « votum » li interpreta nel senso di un « votum lato modo vocatum », cioè nel senso del « pactum » di Suarez.

Non a caso, del resto, i preti secolari fra gli scolastici, un Enrico di Gand ( Quodi 12 q 29 ad 1 ), un Gerson, avevano attaccato alla base l'idea tomista di stato di vita, volendo eliminare nel concetto di stato « immutabilitas ».

Come un uomo può essere in stato di grazia e di nuovo perderla, come un membro del basso clero può essere nello stato dei chierici e con un matrimonio di nuovo perderlo, così anche il concetto di stato potrebbe fare a meno di questa particolare determinazione.

Con questo era però ultimamente posto in questione il concetto di stato nel senso neotestamentario, in quanto esso, nelle diverse forme e gradi di dedizione cristiana di sé, mira rispettivamente alla definitività.

Quando il concetto di voto nella dedizione sacerdotale ideale, che si voleva scorgere nel vescovo, diventò al termine della Scolastica così secolarizzato, fu tempo di guardarsi attorno alla ricerca di un nuovo parametro per la perfezione personale del sacerdote.

Lo stato della « perfectio exercenda » a prima vista non l'offriva più, poiché era diventato uno « status perfectionis alienae ».

Marcatamente non si voleva però trovarlo nel sacerdozio come tale: infatti ancora Suarez ripete l'antica sentenza che l'ordinazione sacerdotale non fonda per questo nessuno stato di perfezione, « quia non obligat ad aliqua opera perfectionis, sed tantum prae-bet quandam capacitatem et potestatem ( … ), nec per se habet annexum votum castitatis ( … ) sed ad summum propter quandam personae dignitatem tenebitur talis persona maius exemplum virtutis et honestatis praebere intra latitudinem praeceptorum, quae obligatio communis est omnibus personis in aliqua dignitatis constitutis, servata proportione » ( lib 1 e 15 n 3 ).

Il parametro per il clero secolare viene qui dunque cercato in una certa universale « virtuosità e onorabilità », che supera sì gli altri, corrispondentemente alla dignità, ma non ha in sé più niente dell'assoluto parametro della vita evangelica secondo i consigli.

E poiché d'altra parte Caetano e Suarez, negandogli il votum, non avevano lasciato più niente alla perfezione da distribuire dello stato episcopale, all'infuori di un titolo esteriore senza fondamento interno, tutto l'insieme del clero, quello che non rientrava nel clero degli ordini religiosi, venne a spostarsi dalla parte della generale perfezione cristiana, e l'originaria missione sacerdotale ed esigenza di sequela totale, come Cristo l'aveva creata nello stato d'elezione, apparve come una perfezione che non riguardava ulteriormente il clero secolare, una unione personale di perfezione oggettiva e soggettiva da comprendere in maniera puramente storica.

Dev'essere ancora menzionato un ultimo sintomo della disgregazione dei concetto cristiano di stato di vita.

Stato di vita equivaleva prima, in base ad una determinata elezione, ad una forma di vita che distinguendosi dallo stato cristiano generale e dai suoi comuni voti battesimali ( Suarez, op. cit; lib 1 c2 n8 ), inserisce l'uomo in un definitivo ordine di obblighi in cui egli può esercitare in maniera speciale la sua dedizione a Dio e al prossimo.

Così Agostino di Ancona distingueva ( nella sua Stimma de Potestate Ecclesiae, q 76 a 1 ) quattro stati: quello degli sposati, dei chierici, dei religiosi e dei vescovi, e a ciascuno assegnava il suo compito speciale, che impegnava e riempiva la vita.

Mentre il primo di questi quattro stati contiene il legame speciale per la gente che vive nel mondo all'interno dell'universale stato cristiano di vita, le altre tre forme di vita formano insieme in qualche modo lo stato di coloro che sono consacrati a Dio in maniera speciale, cosicché nella Chiesa risultano due grandi stati, duo genera Christianorum.

Allorché però il concetto di stato perde la sua ratio formalis e diviene solamente un mezzo di classificazione materiale, deve emergere il pensiero che questa divisione non è adeguata, che piuttosto anche i laici non sposati dovrebbero venir compresi in un quinto stato ( secondo Agostino di Ancona ) o terzo stato, nello « status solutorum », di quelli cioè il cui speciale stato consiste nel fatto che essi non possiedono alcuna speciale forma di vita che leghi, e nel Corpo di Cristo rappresentano per così dire niente di più che la « libertà dei cristiani ».

Su questo si esprime Suarez: « Cum enim non solum detur status obligationis seu servitutis, sed etiam libertatis, ( … ) non solum ii, qui alieni obligationi vel numeri addicti sunt, sed etiam qui ab ea sunt liberi, quos solutos vocamus, in suo proprio statu constitui debent » ( op. cit., lib 1 e 2 n 11 ).

Con questa richiesta di uno « stato dei senza stato » ( nel senso dell'antico concetto di stato ) la Scolastica barocca si avvicina in maniera pericolosa - anche se del tutto inconsapevole - alla Chiesa priva di stati di vita del Protestantesimo.

Non poteva perciò non accadere che preti che guardavano più a fondo, che scorgevano nel loro stato sacerdotale molto più che una semplice capacità di compiere certe azioni di culto e una certa cura pastorale loro conferita o più propriamente prestata dal vescovo, ma vedevano brillare piuttosto dall'antica immagine di sacerdote della Chiesa delle origini e dei Padri un ideale che non solo merita la più alta e completa dedizione, ma persino la esige - non poteva non accadere che simili preti scoprissero nuovamente l'unità della vita evangelica determinata dalla missione ( Sendungsieben ).

Non solo lo sviluppo storico della parrocchia, che imponeva sempre più chiaramente al parroco la responsabilità autonoma, che prima sembrava riservata al vescovo, doveva spingere in questa direzione,2 ma parimenti il crollo dell'antica teologia dello stato episcopale.

Chi se non il prete doveva dare l'esempio della perfezione evangelica, che non può venir costruita secondo il canone di una morale puramente naturale, ma può unicamente venir letta dal comportamento di Gesù?

Egli, che celebra il sacrificio oggettivo, non può confermare la sua vita al suo ministero altrimenti che col sacrificio soggettivo di se stesso.

« Era prescritto » dice Gregorio di Nazianzo nel suo 2° discorso « che solo i perfetti potevano sacrificare ( … )

Poiché ciò mi era noto ed io sapevo che nessuno è degno del grande Dio e Sacrificatore e Sommo Sacerdote se prima non ha offerto se stesso a Dio, come sacrificio vivo e santo ( l'unico sacrificio che Dio, che ha dato a noi tutto, esige da noi ), come avrei potuto trovare il coraggio di presentargli il sacrificio oggettivo ( éxothen thusìa ) ( … ), di accettare dignità e nome di sacerdote, senza prima ( … ) aver fatto di quel membro uno strumento di giustizia? » ( n 94-95 ).

Così pure richiede Ambrogio ( De Abel, c. 6 ) che il sacerdote, se vuole sacrificare in maniera degna, offra prima se stesso completamente a Dio in sacrificio.

Ma il sacrificio soggettivo, col quale siamo equiparati al sacrificio di Cristo, è stato delimitato da Cristo stesso in maniera sufficientemente chiara.

Esso significa: lasciare tutto, famiglia, possedimenti e ultimamente se stessi, per seguirlo prendendo su di sé la croce.

n quale maniera questo passo possa venir compiuto nella sua interezza e assolutezza, se con un voto, una promessa, un giuramento, se in questa o in quella forma riconosciuta dalla Chiesa, è secondario; la cosa fondamentale è che il passo sia veramente compiuto.

Chi formalmente lo compie, entra nello stato dei consigli; chi ha e conserva la disponibilità fondamentale a seguire ogni chiamata di Dio, ma non ottiene una chiamata speciale, appartiene allo stato cristiano di vita nel mondo.

« Obicies: status clericalis non est status perfectionis, nec status vitae communis, ergo adacquata non est praemissa divisio.

Respondeo ( … ) controverti revera apud doctores, utrum clericatus stricte sumptus, id est quatenus ab Episcopatu distinguitur, sit necne status perfectionis.

Sed quaecumque opinio hac de rè anteponatur, certum est, statum illum sub tradita divisione comprehendi.

Nam si dici nequeat status perfectionis, necesse est, eum inter status vitae communis censeri, quia idem est, aliquem statum vitae christianae non esse statum perfectionis et esse statum vitae communis » ( D. Bouix, Tractatus de lure Regularium 1/1867, p. 24 ).

Così si era espresso già Suarez: « De statu clericorum ( … ) controversia esse solet ( … ) In omni vero opinione certum est sub altero ex dictis contineri » ( op. cit., lib 1 e 2 n 13 ).

Non dirà molto al prete che Suarez alla fine lo inserisca « aliquo modo in statum perfectionis saltem inchoatum » ( ibid., e 17 n 4 ) ( in maniera simile a S. Antonino, Summa 3, prol. 4 f ).

Egli non si acquieterà finché non avrà ritrovato l'originaria corrispondenza evangelica tra missione oggettiva e dedizione soggettiva, per quanto essa è possibile all'uomo.

Indice

1 Billuart O.P. ( De statu religioso, diss. lai ) replica all'obiezione che tutti quelli che sono nello stato della perfezione e tuttavia non sono personalmente perfetti sarebbero « mendaces et simulatores », che questo è certamente vero se essi non tendono alla perfezione, « quia homines statura perfectionis assumunt non quasi profitentes se esse perfectos, sed profitentes, se tendere ad perfectionem ».
Tuttavia poche righe dopo parla di « status perfectionis acquisitae episcoporum » e dimentica di mostrare come questa frase si concilia con quella precedente.
Passerini O.P. ( De hominum statibus et officiis, in a 6, n 1 ) è del parere che una perfezione solo presupposta non può affatto bastare per un concetto di stato di vita. Uno « stato di perfezione acquisita », egli pensa, non può esserci affatto nella Chiesa ( in a 5 n. 22 ).
Alcuni autori recenti l'hanno in questo seguito
2 Così era comprensibile che tanto più i preti secolari si ponessero sin dall'inizio in difesa contro la divisione di vescovo e clero subordinato in due stati.
Tommaso stesso conosceva l'obiezione che « presbyteri ( … ) similiores sunt episcopi? quam religiosis quam religiosi » ( Quodl. 3, 17, 3' obiezione ), e Goffredo di Fontaines ( Quodl. 5, q 16, Lowen 1914 ) conclude da ciò che lo stato dei preti secolari sta al di sopra dello stato religioso, poiché esso « ratione suae eminentiae » richiede uomini che siano già perfetti e non solo che, come i religiosi, vogliano diventarlo ( Grabmann, Prìesterfum una Volikommenheitsideal n.d. Lehere des hi. Thomas, in ZAM, 1927, p. 202s. ).
Se in questa argomentazione si evidenziano anche i lati negativi di una concezione dei consigli troppo strumentale, bisogna tuttavia d'altra parte dar ragione alla tendenza che con Gerson ( De statibus eccl., Opp. li, 534, de consiliis evangelicis et statu perfectionis, n 678s. ) cerca di togliere il monopolio dello « stato di perfezione » ai religiosi e rinvia al fatto che il clero secolare può praticare altrettanta povertà e obbedienza quanto i religiosi.
Sarebbe allora certamente presupposto che nell'ordinazione sacramentale viene di nuovo fortemente sentito il carattere di voto immanente al suo impegno. Gerson esagera pera il concetto di perfezione nella direzione oggettivo-sacramentale, allorché vuoi far valere soltanto una « perfectio exercenda » ( De perf. cordis, Opp. m, 439, 441 )