Summa Teologica - II-II

Indice

Articolo 3 - Se si sia tenuti a ringraziare tutti i benefattori

Pare che non si sia tenuti a ringraziare tutti i benefattori.

Infatti:

1. Uno può fare del bene a se stesso come può fare anche del male, secondo le parole della Scrittura [ Sir 14,5 ]: « Chi è cattivo con se stesso, con chi si mostrerà buono? ».

Ma nessuno può ringraziare se stesso: poiché il ringraziamento deve passare da una persona all'altra.

Quindi non si è tenuti a ringraziare tutti i benefattori.

2. Il ringraziamento è un rendimento di grazie.

Ora, certi benefici non sono elargiti con grazia, ma sono accompagnati e fatti con ritardi o con tristezza.

Perciò non siamo sempre tenuti a ringraziare i benefattori.

3. Nessuno merita dei ringraziamenti per il fatto che provvede alla propria utilità.

Ma qualche volta certuni fanno del bene cercando la propria utilità.

Quindi essi non meritano ringraziamenti.

4. Verso lo schiavo non c'è obbligo di ringraziamento: poiché per tutto ciò che egli è, è del padrone [ cf. Polit. 1,4 ].

Ma talvolta capita che uno schiavo sia il benefattore del suo padrone.

Quindi non tutti i benefattori vanno ringraziati.

5. Nessuno è tenuto a compiere ciò che non può fare onestamente e utilmente.

Ora, spesso capita che il benefattore si trovi in uno stato di grande felicità, per cui è inutile ricompensarlo del beneficio che abbiamo da lui ricevuto.

E può anche capitare che il benefattore diventi un vizioso; e allora non pare che sia onesto ricompensarlo.

Altre volte invece il beneficato è così povero da non poter dare alcun compenso.

Perciò è evidente che non sempre si è tenuti a ricompensare un beneficio ricevuto.

6. Nessuno deve fare a un altro ciò che non gli giova, o che gli è nocivo.

Ma può capitare che la ricompensa di un beneficio sia nociva o inutile alla persona interessata.

Quindi non sempre i benefici vanno ricompensati col ringraziamento.

In contrario:

S. Paolo ammonisce [ 1 Ts 5,18 ]: « In ogni cosa rendete grazie ».

Dimostrazione:

Qualsiasi effetto ha un moto naturale di ritorno alla propria causa.

Per cui Dionigi [ De div. nom. 1 ] afferma che Dio fa convergere verso di sé tutte le cose, in quanto loro causa: è infatti necessario che l'effetto sia sempre ordinato al fine inteso dalla causa agente.

Ora, è chiaro che il benefattore come tale è causa rispetto al beneficato.

Perciò l'ordine naturale esige che il beneficato si volga con la sua riconoscenza verso il benefattore, secondo le condizioni rispettive.

E come sopra [ q. 101, a. 2 ] si è visto per i genitori, al benefattore come tale si deve onore e rispetto, avendo egli natura di principio; tuttavia accidentalmente, cioè in caso di necessità, gli si deve pure aiuto e sostentamento.

Analisi delle obiezioni:

1. Al dire di Seneca [ De benef. 5,9 ], « come non è liberale chi dona a se stesso, non è clemente chi perdona se stesso, e neppure è misericordioso chi compatisce se stesso, ma chi ha compassione degli altri, così nessuno offre veramente a se medesimo un beneficio, ma piuttosto accondiscende alla propria natura, la quale spinge a fuggire le cose nocive e a desiderare quelle vantaggiose ».

Perciò rispetto alle azioni compiute per se stessi non ci può essere gratitudine o ingratitudine: infatti uno non può negare a se stesso una cosa se non trattenendola per sé.

- Metafisicamente tuttavia, nel parlare di ciò che facciamo per noi stessi, usiamo delle espressioni che propriamente si riferiscono a quanto compiamo per altri, come nota il Filosofo [ Ethic. 5,11 ] a proposito della giustizia: poiché consideriamo le varie parti dell'uomo come persone diverse.

2. Un'anima virtuosa fa attenzione più al bene che al male.

Se quindi uno ha fatto un beneficio in una maniera indelicata, chi l'ha ricevuto non deve dispensarsi del tutto dall'obbligo di ringraziare.

Però l'obbligo è minore, poiché anche il beneficio è minore: infatti, secondo Seneca [ De benef. 2,6 ], « la prontezza molto aggiunge, mentre gli indugi molto tolgono ».

3. « È molto importante sapere », dice Seneca [ De benef. 6,12s ], « se uno ci fa del bene a suo vantaggio, o a vantaggio nostro e suo.

Chi pensa solo a se stesso, e giova anche a noi perché non può fare altrimenti, io lo considero come chi offre il pascolo al suo bestiame.

Se invece mi associa a sé, se pensa a tutti e due sarei ingrato e ingiusto a non godere perché a lui giova quanto giova anche a me.

È somma cattiveria infatti non considerare un beneficio se non quanto riesce di incomodo a chi lo offre ».

4. Come insegna Seneca [ De benef. 3,21 ], « finché uno schiavo dà quanto si è soliti esigere da uno schiavo, è un suo ufficio; ma quando dà più di quanto si richiede da uno schiavo, allora il suo è un beneficio.

Quando infatti egli raggiunge l'affetto di un amico, allora si comincia a parlare di beneficio ».

Perciò si deve gratitudine anche agli schiavi quando fanno più del dovuto.

5. Il povero non è ingrato se fa quello che può: come infatti il beneficio consiste più nell'affetto che nel fatto medesimo, così anche il compenso consiste specialmente nell'affetto.

Da cui le parole di Seneca [ De benef. 2,22 ]: « Chi riceve un beneficio con animo grato, ne ha già pagato il primo compenso.

E questa gratitudine manifestiamola con l'effusione degli affetti: non soltanto dinanzi all'interessato, ma dovunque ».

Dal che è evidente che per quanto un benefattore possa essere felice, si può sempre offrire un compenso per i benefici ricevuti mediante il rispetto e l'onore.

Da cui anche le parole del Filosofo [ Ethic. 8,14 ], il quale afferma che « alla persona superiore si deve il compenso dell'onore, e a quella indigente la rimunerazione ».

E Seneca [ De benef. 6,29 ] scrive: « Molte sono le cose con cui possiamo compensare le persone facoltose: consigli sinceri, visite frequenti e conversazioni affabili e gioconde, senza adulazione ».

Non è quindi necessario che uno si auguri la necessità o la miseria del suo benefattore per poterlo ricompensare del beneficio.

Poiché, secondo Seneca [ De benef. 6,26 ], « se è già disumano desiderare una cosa simile per chi non ti ha fatto nessun beneficio, quanto più disumano sarebbe desiderarla per un tuo benefattore! ».

Nel caso poi che il benefattore sia diventato cattivo, si deve tuttavia usargli riconoscenza secondo lo stato in cui si trova: si deve cioè cercare di ricondurlo alla virtù.

Se però « è insanabile nella sua malizia », allora è diventato un altro rispetto a quello che era prima: per cui non merita più riconoscenza per il beneficio.

Tuttavia, per quanto è possibile e le circostanze lo permettono, si deve sempre ricordare il beneficio ricevuto, come nota il Filosofo [ Ethic. 9,3 ].

6. Il compenso, come si è già visto sopra [ ad 5 ], dipende specialmente dal sentimento di chi intende ringraziare.

Perciò esso va fatto nel modo che possa risultare più vantaggioso: se tuttavia in seguito, per colpa dell'interessato, esso si risolve in un suo danno, ciò non può essere imputato a chi intendeva elargire la ricompensa.

Da cui l'affermazione di Seneca [ De benef. 7,19 ]: « Io sono tenuto a rendere un compenso, non già a conservarlo e a difenderlo ».

Indice