Supplemento alla III parte

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Articolo 1 - Se dalla divina giustizia sia inflitta ai peccatori una pena eterna

Pare che dalla divina giustizia non sia inflitta ai peccatori una pena eterna.

Infatti:

1. La pena non deve superare la colpa, poiché sta scritto [ Dt 25,2 ]: « Secondo la gravità del delitto sarà la misura del castigo ».

Ma la colpa è temporanea.

Quindi la pena non deve essere eterna.

2. Di due peccati mortali uno è più grave dell'altro.

Quindi l'uno deve essere punito con una pena maggiore dell'altro.

Ma nessuna pena può essere maggiore della pena eterna, essendo questa infinita.

Quindi la pena eterna non è dovuta a tutti i peccati mortali.

Ma se non è dovuta a uno di essi, non è dovuta a nessuno: poiché la loro distanza non può essere infinita.

3. Un giudice giusto non infligge delle pene che per correggere: poiché, come nota Aristotele [ Ethic. 2,3 ], « i castighi sono delle medicine ».

Ma punire i reprobi per l'eternità non serve alla loro correzione; e neppure serve alla correzione di altri, poiché allora non ci saranno più dei soggetti che possano essere corretti in questo modo.

Perciò la divina giustizia non può infliggere per i peccati una pena eterna.

4. Ciò che non è desiderato per se stesso nessuno lo vuole se non per una qualche utilità.

Ora, le punizioni non sono volute da Dio per se stesse: poiché egli non gode dei castighi.

Siccome quindi non può ricavarsi alcuna utilità dalla perpetuità delle pene, sembra che per il peccato non venga inflitta una pena perpetua.

5. Come dice il Filosofo [ De caelo 1,2; 2,3 ], nulla di ciò che è per accidens può essere perpetuo.

Ma il castigo è tra le cose per accidens, essendo contro natura.

Quindi non può essere perpetuo.

6. La giustizia di Dio sembra esigere che i peccatori vengano annichilati.

Infatti per l'ingratitudine uno merita di perdere i benefici ricevuti.

Ora, tra gli altri benefici di Dio c'è anche l'esistenza.

Perciò sembra giusto che il peccatore, per l'ingratitudine verso Dio, perda la stessa esistenza.

Ma se egli viene annichilato la pena non può essere perpetua.

Quindi non sembra consono alla divina giustizia che i peccatori vengano puniti per l'eternità.

In contrario:

1. Nel Vangelo [ Mt 25,46 ] si legge: « E se ne andranno questi », cioè i peccatori, « al supplizio eterno ».

2. Il castigo sta alla colpa come il premio al merito.

Ora, secondo la divina giustizia a un merito temporale è dovuto un premio eterno [ Gv 6,40 ]: « Chiunque vede il Figlio e crede in lui, ha la vita eterna ».

Quindi secondo la divina giustizia per una colpa temporale è dovuta una pena eterna.

3. Come nota il Filosofo [ Ethic. 5,5 ], la pena va determinata in base alla dignità della persona contro la quale si pecca: per cui chi dà uno schiaffo al sovrano viene punito con una pena più grave di chi schiaffeggia un privato qualsiasi.

Ma chi pecca mortalmente pecca contro Dio, di cui trasgredisce i comandamenti, e dà ad altri l'onore a lui dovuto, mettendo il proprio fine in altre cose.

Ora, la maestà di Dio è infinita.

Perciò chi pecca mortalmente è degno di una pena infinita.

Quindi è giusto che per il peccato mortale uno venga punito in perpetuo.

Dimostrazione:

Avendo la pena due dimensioni, cioè l'intensità del dolore e la durata, la gravità della pena corrisponde alla gravità della colpa sotto l'aspetto dell'intensità del dolore, per cui in base alla maggiore gravità del peccato uno riceve un castigo più doloroso, secondo le parole dell'Apocalisse [ Ap 18,7 ]: « Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in tanto tormento e afflizione ».

Ma la durata della pena non corrisponde alla durata della colpa, come nota S. Agostino [ De civ. Dei 21,11 ]: infatti l'adulterio, che viene perpetrato in un momento, nemmeno secondo le leggi umane viene punito con una pena momentanea.

La durata della pena si riferisce invece alla disposizione di chi pecca.

Chi pecca infatti in una data città, o stato, per ciò stesso diviene talora degno di essere eliminato del tutto da quella comunità, o con l'esilio perpetuo, oppure anche con la morte.

Talora invece non diventa degno di essere escluso del tutto dal consorzio civile: e così per renderlo un membro degno della collettività gli viene inflitta una pena più lunga o più breve secondo che lo richiede la sua guarigione, in modo che possa vivere nel consorzio civile in maniera conveniente e pacifica.

Ora, anche secondo la divina giustizia uno per il peccato può rendersi degno di essere del tutto separato dalla città di Dio: e ciò avviene per ogni peccato con cui uno pecca contro la carità, che è il vincolo che tiene unita la città suddetta.

Così per il peccato mortale, che è contrario alla carità, uno viene escluso in eterno dalla società dei santi, e condannato alla pena eterna: poiché, come nota ancora S. Agostino [ De civ. Dei 21,11 ], « quello che per gli uomini nella città dei mortali è il supplizio della prima morte, nella città immortale è il supplizio della seconda morte ».

Il fatto poi che la pena inflitta dalla città terrestre non viene considerata perpetua è solo per accidens, sia perché l'uomo qui non dura in perpetuo, sia perché la città stessa ha un termine.

Ma se un uomo vivesse in perpetuo, allora la pena dell'esilio o della schiavitù inflitte dalla legge umana resterebbero in lui in perpetuo.

- Per coloro invece che non peccano in modo così grave da essere degni della totale separazione dalla città dei santi, che cioè peccano venialmente, la pena sarà più breve o più lunga secondo che lo richiede la loro purificazione, ossia in base al loro attaccamento al peccato.

E questo criterio è seguito dalla divina giustizia per le pene di questo mondo e per quelle del purgatorio.

I Santi poi portano anche altre ragioni per mostrare che per una colpa temporale si può essere giustamente puniti con una pena eterna.

La prima sta nel fatto che i dannati hanno peccato contro un bene eterno, disprezzando la vita eterna.

E accenna a questa ragione anche lo stesso S. Agostino quando scrive [ De civ. Dei 21,12 ]: « Si è reso degno di un male eterno colui che ha distrutto in se stesso un bene che sarebbe dovuto essere eterno ».

La seconda ragione sta nel fatto che l'uomo ha peccato con un atto che in lui è eterno.

Da cui le parole di S. Gregorio [ Dial. 4,44 ]: « Spetta alla grande giustizia del giudice che non cessi mai il supplizio per coloro che non hanno mai voluto cessare dal peccato ».

- E se poi uno replicasse che alcuni nel peccare mortalmente hanno il proposito di convertirsi, per cui non sembrano degni di un castigo eterno, si deve rispondere, secondo alcuni, che S. Gregorio parla del volere che si manifesta nelle azioni.

Chi infatti cade nel peccato di propria volontà si pone in uno stato dal quale non può essere risollevato che dall'intervento di Dio.

Perciò per il fatto che vuole peccare, vuole rimanere perpetuamente nel peccato: l'uomo infatti è « uno spirito che va » verso il peccato « e non ritorna » da se stesso [ Glossa P. Lomb. sul Sal 78,39 ].

Come se uno si gettasse in una fossa dalla quale non può uscire senza essere aiutato, si potrebbe dire che vuole rimanere là in eterno, per quanto egli pensi diversamente.

Oppure si può rispondere che per il fatto stesso di peccare mortalmente, uno mette il proprio fine in una creatura.

E poiché tutta la vita è ordinata al fine, così facendo ordina tutta la propria vita a quel peccato; e vorrebbe restare in perpetuo in tale colpa, se potesse farlo impunemente.

Per questo S. Gregorio [ Mor. 34,19 ], a commento di quel passo del libro di Giobbe [ Gb 41,24 ]: « L'abisso appare canuto », scrive: « Gli iniqui hanno peccato fino a un dato termine perché la loro vita ha avuto termine.

Ma essi avrebbero voluto vivere senza fine per poter rimanere senza fine nelle loro iniquità: bramano infatti più di peccare che di vivere ».

Si può addurre anche una terza ragione per l'eternità della pena del peccato mortale: il fatto cioè che in tale colpa si pecca contro Dio, che è infinito.

Non potendo quindi la pena essere infinita in intensità, poiché la creatura non è capace di una grandezza infinita, non rimane se non che essa sia infinita per la durata.

C'è infine una quarta ragione nel fatto che la colpa rimane in eterno: non può infatti essere rimessa se non con la grazia, che l'uomo non può ricuperare dopo la morte.

E d'altra parte la pena non deve cessare fino a che rimane la colpa.

Analisi delle obiezioni:

1. La pena deve essere uguale alla colpa, ma non nella durata: come accade anche secondo le leggi umane.

Oppure si può rispondere con S. Gregorio che la colpa, pur essendo temporanea nell'atto, è però eterna nella volontà.

2. Alla gravità del peccato corrisponde la gravità della pena secondo l'intensità.

Perciò per dei peccati mortali di gravità differente ci saranno dei castighi di intensità differente, ma uguali per la durata.

3. I castighi inflitti a coloro che non vengono del tutto eliminati dalla collettività sono ordinati alla loro correzione, ma quelli che li eliminano totalmente dal consorzio civile non sono ordinati alla loro correzione.

Tuttavia possono servire alla correzione e alla tranquillità di coloro che rimangono.

Perciò anche la dannazione eterna dei reprobi serve alla correzione di coloro che attualmente fanno parte della Chiesa: poiché i castighi servono a correggere non solo quando sono inflitti, ma anche quando sono determinati.

4. Le pene dei reprobi che dureranno in eterno non saranno del tutto inutili.

Infatti esse servono a due cose.

Primo, a mantenere la divina giustizia: la quale piace a Dio per se stessa.

Da cui le parole di S. Gregorio [ Dial. 4,44 ]: « Dio onnipotente, essendo pio, non gode delle sofferenze dei miseri.

Ma essendo giusto non desisterà in eterno dalla vendetta sui perversi ».

Secondo, tali pene servono al godimento degli eletti, in quanto costoro contemplano in esse la giustizia di Dio, e insieme si rendono conto di averle evitate.

Da cui le parole del Salmo [ Sal 58,11 ]: « Il giusto godrà nel vedere la vendetta »; e quelle di Isaia [ Is 66,24 Vg ]: « Gli empi esisteranno fino a saziare la vista », cioè la vista « dei santi », come spiega la Glossa [ interlin. ].

E l'identico concetto è così espresso da S. Gregorio [ l. cit., c. 41 ]: « Tutti i perversi, condannati all'eterno supplizio, sono puniti per la loro iniquità; e tuttavia essi bruceranno per uno scopo: cioè perché i giusti, mentre vedono in Dio la felicità raggiunta, vedano in quelli i supplizi da cui essi sono scampati; per cui tanto più si sentiranno debitori verso la divina grazia quanto più vedranno punite eternamente quelle iniquità che essi hanno superato con l'aiuto di Dio ».

5. Sebbene il castigo abbia con l'anima una relazione per accidens, tuttavia con l'anima infetta dalla colpa ha una relazione per se.

E poiché la colpa rimane in essa in perpetuo, di conseguenza anche la pena dovrà essere perpetua.

6. Il castigo corrisponde alla colpa, propriamente parlando, secondo il disordine che si riscontra in quest'ultima, non già secondo la dignità della persona offesa: perché allora a qualsiasi peccato corrisponderebbe una pena intensivamente infinita.

Sebbene quindi per il fatto che pecca contro Dio, che è l'Autore dell'essere, uno meriti di perdere la stessa esistenza, tuttavia, considerato il disordine intrinseco dell'atto, non è giusto che perda l'esistenza: poiché l'esistenza è il presupposto sia del merito che del demerito, e d'altra parte essa non viene distrutta o compromessa dal disordine del peccato.

Perciò la privazione dell'esistenza non può essere la pena dovuta a una colpa.

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