Il potere della croce

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« Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore! »

Nel giorno più santo dell'anno, per il popolo ebraico - lo Yom Kippur, il giorno della "Grande espiazione" -, il sommo sacerdote, recando il sangue delle vittime, oltrepassava il velo del tempio, entrava nel "Santo dei santi" e qui, solo al cospetto dell'Altissimo, pronunciava il Nome divino.

Si trattava del Nome rivelato a Mosè dal roveto ardente, composto di quattro lettere, che non era lecito ad alcuno di proferire in tutto il resto dell'anno, ma che veniva sostituito, nella pronuncia, con Adonai, che vuoi dire Signore.

Quel Nome - che neppure io voglio pronunciare per rispettare un desiderio del popolo ebraico, per il quale la Chiesa prega nel giorno del Venerdì Santo -, proclamato in quelle circostanze, stabiliva una comunicazione tra cielo e terra, rendeva presente la persona stessa di Dio; espiava, anche se soltanto in figura, i peccati della nazione.

Anche il popolo cristiano ha il suo Yom Kippur, il suo giorno della Grande espiazione, ed è questo che stiamo celebrando.

Tale compimento è stato proclamato, nella seconda lettura di questa liturgia, con le parole dell'epistola agli Ebrei: « Noi abbiamo un Sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio… » ( Eb 4,14 ).

Cristo - leggiamo nella stessa lettera - « entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue » ( Eb 9,12 ).

Anche in questo giorno, in cui celebriamo, non più in figura, ma in realtà, la Grande espiazione, non più dei peccati di una sola nazione ma di « quelli di tutto il mondo », ( 1 Gv 2,3; Rm 3,25 ) anche in questo giorno viene pronunciato un Nome.

Nell'Acclamazione al vangelo, sono state cantate, poco fa, queste parole dell'apostolo Paolo: « Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, alla morte di croce.

Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome ».

L'Apostolo si astiene anche lui dal pronunciare questo Nome ineffabile e lo sostituisce con Adonai, che in greco suona Kyrios, in latino Dominus e in italiano Signore: « Ogni ginocchio - continua il testo - si pieghi e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » ( Fil 2,8-11 ).

Ma ciò che egli intende con la parola "Signore" è precisamente quel Nome che proclama l'Essere divino.

Il Padre ha dato a Cristo - anche come uomo - il suo stesso Nome e il suo stesso potere ( Mt 28,18 ): questa è la verità inaudita racchiusa nella proclamazione: « Gesù Cristo è il Signore! ».

Gesù Cristo è « Colui che è », il Vivente.

San Paolo non è il solo a proclamare questa verità: « Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo - dice Gesù nel vangelo di Giovanni - allora saprete che Io Sono » ( Gv 8,28 ).

E ancora: « Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati » ( Gv 8,24 ).

La remissione dei peccati avviene ormai in questo Nome, in questa Persona.

Abbiamo udito poco fa, nel racconto della passione, cosa avvenne quando i soldati si accostarono a Gesù per catturarlo: « "Chi cercate?", disse. Gli risposero: "Gesù, il Nazareno!".

"Sono Io!", disse Gesù ed essi indietreggiarono e caddero a terra » ( Gv 18,4-6 ).

Perché indietreggiarono e caddero a terra? Perché egli aveva pronunciato il suo Nome divino, « Ego eimi - Io sono », ed esso, per un istante, era stato lasciato libero di sprigionare la sua potenza.

Anche per l'evangelista Giovanni, il Nome divino è strettamente legato all'obbedienza di Gesù fino alla morte: « Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo allora saprete che Io Sono, e non faccio nulla da me stesso ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo » ( Gv 8,28 ).

Gesù non è Signore contro il Padre, o al posto del Padre, ma « a gloria di Dio Padre ».

Questa la fede che la Chiesa ha ereditato dagli apostoli, che ha santificato le sue origini, che ha plasmato il suo culto e perfino la sua arte.

Sull'aureola del Cristo Pantocrator dei mosaici e delle icone antiche sono inscritte, in oro, trE lettere greche: « O Ω N - Colui che è ».

Noi siamo qui per ridestare, se necessario, anche dalle pietre questa fede.

Nei primi secoli della Chiesa, nella settimana successiva al battesimo, che era la settimana di Pasqua, avveniva lo svelamento e la consegna ai neofiti delle realtà cristiane più sacre che erano state tenute loro nascoste fino a quel momento, o indicate solo per allusione, in accordo con la "disciplina dell'arcano" allora in vigore.

Venivano introdotti, un giorno dopo l'altro, alla conoscenza dei "misteri" - cioè del battesimo, dell'Eucaristia, del Padre nostro - e del loro simbolismo e per questo era chiamata catechesi "mistagogica".

Era un'esperienza unica che lasciava un'impressione indelebile per tutta la vita, non tanto a causa del modo con cui avveniva, quanto a causa della grandezza delle realtà spirituali che si dischiudevano ai loro occhi.

Tertulliano dice che i convErtiti « trasalivano di stupore alla luce della verità ».1

Oggi, tutto questo non c'è più; le cose, con l'andare del tempo, sono cambiate.

Ma noi possiamo ricreare momenti come quelli.

La liturgia ce ne offre ancora delle occasioni.

Questa solenne liturgia del Venerdì Santo è una di esse.

Questa sera, se ci trova attenti, la Chiesa ha qualcosa da "svelarci" e da "consegnarci", come a dei neofiti.

Ha da consegnarci la signoria di Cristo; ha da svelarci questo segreto nascosto al mondo: che « Gesù è il Signore » e che davanti a lui si deve piegare ogni ginocchio.

Che, un giorno, davanti a lui, ogni ginocchio, infallibilmente, « si piegherà »! ( Is 45,23 ).

Della parola, o dabar, di Dio si dice, nell'Antico Testamento, che essa « cadeva su Israele » ( Is 9,7 ), che « veniva su qualcuno ».

Ora questa parola « Gesù è il Signore », culmine di tutte le parole, "cade" su di noi, viene su questa assemblea, diventa realtà vivente qui al centro stesso della Chiesa cattolica.

Passa come la fiaccola ardente che passò tra le due metà delle vittime preparate da Abramo per il sacrifIcio di alleanza ( Gen 15,17 ).

"Signore" è il nome divino che ci riguarda più direttamente.

Dio era "Dio" e "Padre" prima che esistessero il mondo, gli angeli e gli uomini, ma non era ancora "Signore".

Diventa Signore, Dominus, a partire dal momento in cui esistono delle creature sulle quali egli esercita il suo "dominio" e che accettano liberamente questo dominio.

Nella Trinità non ci sono "signori" perché non ci sono servitori, ma tutti sono uguali.

Siamo noi, in certo senso, che facciamo di Dio il "Signore"!

Tale dominazione di Dio, rifiutata dal peccato, è stata ristabilita dall'obbedienza di Cristo, nuovo Adamo.

Dio è diventato, in Cristo, nuovamente Signore a un titolo più forte: per creazione e per redenzione.

Dio ha ripreso a regnare dalla croce! - Regnami a ligno Deus.

« Per questo Cristo è morto ed è tornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi » ( Rm 14,9 ).

La forza oggettiva della frase « Gesù è il Signore » sta nel fatto che essa rende presente la storia.

Essa è la conclusione di due eventi fondamentali: Gesù è morto per i nostri peccati; è risorto per la nostra giustificazione: perciò Gesù è il Signore!

Gli eventi che l'hanno preparata si sono, poi, racchiusi, per così dire, in questa conclusione e in essa si rendono ormai presenti e operanti, quando viene proclamata con fede: « Se confesserai con la tua bocca che Gesù Cristo è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » ( Rm 10,9 ).

Vi sono due modi fondamentali di entrare in comunione con gli eventi della salvezza: uno è il sacramento, l'altro è la parola.

Questo di cui stiamo parlando è il modo della parola e della parola per eccellenza che è il kerygma.

Il cristianesimo è ricco di esempi e di modelli di esperienze del divino.

La spiritualità ortodossa insiste sull'esperienza di Dio nei "misteri", nella preghiera del cuore…

La spiritualità occidentale insiste sull'esperienza di Dio nella contemplazione, quando ci si raccoglie in sé e ci si eleva, con la mente, al di sopra delle cose e di se stessi…

Vi sono insomma tanti « itinerari della mente a Dio ».

Ma la parola di Dio ce ne svela uno che è servito a dischiudere l'orizzonte di Dio alle prime generazioni cristiane, un itinerario non straordinario e riservato a pochi privilegiati, ma aperto a tutti gli uomini dal cuore retto - a quelli che credono e a quelli che sono alla ricerca della fede -; un itinerario che non sale attraverso i gradi della contemplazione, ma attraverso gli eventi divini della salvezza; che non nasce dal silenzio, ma dall'ascolto, e questo è l'itinerario del kerygma: « Gesù Cristo è morto! Gesù Cristo è risorto! Gesù Cristo è il Signore! ».

Un'esperienza del genere facevano forse i primi cristiani, quando, nel culto, esclamavano: Maranatha!, che voleva dire due cose, a seconda del modo con cui veniva pronunciato, e cioè: « Vieni, Signore! », o « Il Signore è qui ».

Poteva esprimere un anelito al ritorno di Cristo, oppure la risposta entusiastica alla "epifania cultuale" del Cristo, cioè alla sua manifestazione in seno all'assemblea in preghiera.

Questo sentimento della presenza del Signore risorto è una specie di illuminazione interiore che cambia, a volte, l'intero stato d'animo della persona che lo riceve.

Ricorda quello che avveniva nelle apparizioni del Risorto ai discepoli.

Un giorno, dopo la Pasqua, gli apostoli erano intenti a pescare sul lago di Tiberiade, quando sulla riva comparve un uomo che si mise a parlare con loro a distanza.

Tutto era, fino a un certo punto, normale: si lagnavano di non aver pescato nulla, come fanno spesso i pescatori.

Ma ecco che nel cuore di uno di essi - il discepolo che Gesù amava - si accese improvvisamente una luce; lo riconobbe ed esclamò: « È il Signore! » ( Gv 21,7 ).

E allora tutto cambiò di colpo sulla barca.

Si capisce, da qui, perché san Paolo afferma che « nessuno può dire: "Gesù è il Signore!", se non nello Spirito Santo » ( 1 Cor 12,3 ).

Come il pane sull'altare diventa corpo vivo di Cristo per la potenza dello Spirito Santo che scende su di esso, così, in modo simile, questa parola diventa « viva ed efficace » ( Eb 4,12 ) per la potenza dello Spirito Santo che opera in essa.

Si tratta di un avvenimento di grazia che possiamo predisporre, favorire e desiderare, ma che non possiamo, da soli, provocare.

Di solito non ci si accorge di esso mentre avviene, ma solo dopo che è avvenuto, talvolta a distanza di anni.

In questo momento potrebbe avvenire, per qualcuno qui presente, quello che avvenne nel cuore del discepolo amato sul lago di Tiberiade: il "riconoscimento" del Signore.

Nella frase « Gesù è il Signore! » c'è anche un aspetto soggettivo, che dipende da chi la pronuncia.

Mi sono chiesto, a volte, perché i demoni, nei Vangeli, non pronunciano mai questo titolo di Gesù.

Essi si spingono fino a dire a Gesù: « Tu sei il Figlio di Dio! », oppure « Tu sei il Santo di Dio! »; ( Mt 4,3; Mc 3,11; Mc 5,7; Lc 4,41 ) ma mai li sentiamo esclamare: « Tu sei il Signore! ».

La risposta più plausibile mi pare questa.

Dire: « Tu sei il Figlio di Dio », è riconoscere un dato di fatto che non dipende da essi e che essi non possono cambiare.

Ma dire: « Tu sei il Signore! » è ben diverso. Implica una decisione personale.

Significa riconoscerlo tale, sottomettersi alla sua signoria.

Se lo facessero, cesserebbero all'istante di essere quello che sono e tornerebbero angeli di luce.

Questa parola divide veramente due mondi.

Dire: « Gesù è il Signore! », significa entrare liberamente nella sfera del suo dominio.

È come dire: Gesù Cristo è il "mio" Signore; egli è la ragione stessa della mia vita; io vivo "per" lui, non più "per me stesso": « Nessuno di noi - scriveva Paolo ai Romani - vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore.

Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore » ( Rm 14,7-8 ).

La contraddizione massima che l'uomo da sempre sperimenta - quella tra la vita e la morte - è stata superata.

Ora la contraddizione più radicale non è tra il vivere e il morire, ma è tra il vivere "per il Signore" e il vivere "per se stessi".

Vivere per se stessi è il nuovo nome della morte.

La proclamazione: « Gesù è il Signore! » prese, dopo la Pasqua, il posto che aveva avuto, nella predicazione di Gesù, l'annuncio: « È venuto a voi il regno di Dio! ».

Prima che esistessero i Vangeli e prima che esistesse il progetto di scriverli, c'era questa notizia: « Gesù è risorto. È lui il Messia. È lui il Signore! ».

Tutto è cominciato da qui. In questa notizia nata con la Pasqua, era racchiusa, come in un seme, tutta la forza della predicazione evangelica.

La catechesi e la teologia della Chiesa sono come un albero maestoso cresciuto da quel seme.

Esso, però - come avviene del seme naturale -, con l'andare del tempo, è rimasto come sepolto sotto la pianta che ha prodotto.

Il kerigma, nella nostra attuale coscienza, è una delle verità di fede, un punto, per quanto importante, della catechesi e della predicazione.

Non sta più a parte, all'origine della fede.

La mia prima reazione davanti a un testo della Scrittura è sempre quella di andare a cercare le risonanze che esso ha avuto nella Tradizione, cioè nei Padri e nei Dottori della Chiesa, nella liturgia, nei santi.

Di solito le testimonianze si affollano alla mente.

Ma quando ho provato a fare questo con la parola « Gesù è il Signore! », ho dovuto costatare con sorpresa che la Tradizione rimaneva pressoché muta.

Già nel III secolo d. C. il titolo di Signore non è più compreso nel suo significato originario ed è considerato inferiore al titolo di Maestro.

È considerato il titolo proprio di coloro che sono tuttora "servi" e non sono diventati ancora "amici" e corrisponde perciò allo stadio del "timore".2

Mentre sappiamo che esso è ben altra cosa.

Per una nuova evangelizzazione del mondo, ci occorre riportare alla luce quel seme, in cui è racchiusa, ancora intatta, tutta la forza del messaggio evangelico.

Occorre dissotterrare « la spada dello Spirito », che è l'annuncio fiammeggiante di Gesù Signore.

In un celebre ciclo epico del medio evo cristiano, si parla di un mondo in cui tutto langue ed è confuso, perché nessuno pone la questione essenziale, nessuno pronuncia la parola decisiva che è quella del Santo Gral, ma che rifiorisce quando tale parola viene di nuovo pronunciata e l'attenzione è richiamata alla cosa che deve stare in cima ai pensieri di tutti.

Qualcosa del genere avviene, io credo, a proposito della parola del kerygma: « Gesù è il Signore! ».

Tutto langue e manca di vigore là dove tale parola non è posta più, o non è posta più al centro, o non è posta più « nello Spirito ».

Tutto si rianima e si riaccende là dove essa è posta in tutta la sua purezza, nella fede.

Apparentemente, nulla è più familiare per noi della parola "Signore".

Essa è un elemento del nome stesso con cui invochiamo Cristo al termine di ogni preghiera liturgica.

Ma un conto è dire: « Nostro Signore Gesù Cristo » e un altro dire: « Gesù Cristo è il nostro Signore! »

Per secoli, fino, si può dire, ai giorni nostri, la proclamazione stessa « Gesù è il Signore » che chiude l'inno dell'epistola ai Filippesi, è rimasta occultata sotto un'errata traduzione.

La Volgata, infatti, traduceva: « Ogni lingua proclami che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre - Omnis lingua confiteatur quia Dominus lesus Christus in gloria est Dei Patris » mentre - come ora sappiamo -, il senso non è che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre, ma che Gesù è il Signore, e questo a gloria di Dio Padre!

Ma non basta che la lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore; bisogna anche che « ogni ginocchio si pieghi ».

Non sono due cose staccate, ma un'unica cosa.

Bisogna che chi proclama Gesù Signore, lo faccia piegando il ginocchio, cioè sottomettendosi con amore a questa realtà, piegando la propria intelligenza nell'obbedienza alla fede.

Si tratta di rinunciare a quel tipo di forza e di sicurezza che viene dalla "sapienza", cioè dalla capacità di fronteggiare il mondo incredulo e superbo con le sue stesse armi che sono la dialettica, la discussione, le infinite argomentazioni, tutte cose che consentono di « cercare sempre senza trovare mai » ( 2 Tm 3,7 ) e, quindi, senza essere mai costretti a dover obbedire alla verità, una volta che è stata trovata.

Il kerygma non da spiegazioni, ma richiede obbedienza, perché in esso opera l'autorità stessa di Dio.

"Dopo" e "accanto" a esso, c'è posto per tutte le ragioni e le dimostrazioni, non "dentro" di esso.

La luce del sole brilla per se stessa, e non può essere rischiarata con altre luci, ma è essa che rischiara tutto.

Chi dice di non vederla, non fa che proclamarsi da se stesso cieco.

Bisogna accettare la "debolezza" e la "stoltezza" del kerygma - il che significa anche la propria debolezza, umiliazione e sconfitta -, per permettere alla forza e alla sapienza di Dio di venire vittoriosamente alla luce e di operare ancora.

« Le armi della nostra battaglia - dice Paolo - non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo » ( 2 Cor 10,4-5 ).

È necessario, in altre parole, stare sulla croce, perché la forza della signoria di Cristo si sprigiona tutta dalla croce.

Bisogna stare attenti a non vergognarsi del kerygma.

La tentazione di vergognarsi di esso è forte.

Lo fu anche per l'apostolo Paolo, se egli sentì il bisogno di gridare a se stesso: « Io non mi vergogno del Vangelo! » ( Rm 1,16 ).

Lo è ancora di più oggi.

Che senso ha - ci suggerisce una parte di noi stessi - parlare di Gesù Cristo che è risorto ed è il Signore, mentre ci sono intorno a noi tanti problemi concreti che assillano l'uomo: la fame, l'ingiustizia, la guerra …?

L'uomo ama che si parli di sé - fosse pure in male - assai più che sentir parlare di Dio.

Al tempo di Paolo una parte del mondo chiedeva miracoli e un'altra parte chiedeva sapienza.

Oggi una parte del mondo ( quella sotto i regimi capitalistici ) chiede giustizia e un'altra parte ( quella sotto i regimi totalitari comunisti ) chiede libertà.

Ma noi predichiamo Cristo crocifisso e risorto ( 1 Cor 1,23 ), perché siamo convinti che su lui si fonda la vera giustizia e la vera libertà.

La rivelazione dei misteri, nella catechesi mistagogica, avveniva in due modi: attraverso le parole e attraverso i riti.

I neofiti udivano le spiegazioni e vedevano i riti, soprattutto il rito eucaristico, mai prima contemplato con i propri occhi.

Così avviene anche in questa liturgia, in cui ci viene consegnato il mistero della signoria di Cristo.

Dopo la liturgia della parola, ora seguono dei riti.

Verrà solennemente scoperta l'immagine del Crocifisso e per tre volte tutti ci inginocchieremo.

Mostreremo, anche visibilmente, che, nella Chiesa, ogni ginocchio si piega.

Il velo violaceo che ha ricoperto fino a ora l'immagine del Crocifisso è simbolo di un altro velo che ricopre il nudo Crocifisso agli occhi del mondo.

« Fino a oggi - diceva san Paolo degli ebrei del suo tempo - un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto » ( 2 Cor 3,15-16 ).

Quel velo è steso, purtroppo, anche sugli occhi di tanti cristiani e non sarà rimosso se non « quando ci sarà la conversione al Signore », quando si scoprirà la signoria di Cristo. Non prima.

Quando verrà « innalzato » davanti ai nostri sguardi, questa sera, il nudo Crocifisso, guardiamolo bene.

È quello il Gesù che proclamiamo « Signore », non uno diverso, un Gesù facile, all'acqua di rose.

È importante quello che stiamo per compiere.

Perché noi potessimo avere il privilegio di salutarlo Rè e Signore vero, come ora faremo, Gesù accettò di essere salutato re da burla; perché noi potessimo avere il privilegio di piegare umilmente il ginocchio davanti a lui, egli accettò che gli si inginocchiassero davanti per scherno e derisione.

« Allora i soldati - è scritto - lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo.

Cominciarono poi a salutarlo… E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui » ( Mc 15,16-19 ).

Dobbiamo essere ben compresi di quello che facciamo, mettere in esso tanta adorazione e tanta gratitudine, perché troppo grande è il prezzo che egli ha pagato.

Tutte le "proclamazioni"che egli udì, da vivo, furono proclamazioni di odio; tutte le "genuflessioni" che vide furono genuflessioni di ignominia.

Non dobbiamo aggiungerne altre con la nostra freddezza e superficialità.

Quando spirava sulla croce, aveva ancora negli orecchi l'eco assordante di quelle grida e la parola « Re » gli pendeva scritta sopra la testa come una condanna.

Ora che egli vive alla destra del Padre ed è presente, nello Spirito, in mezzo a noi, che i suoi occhi vedano ogni ginocchio piegarsi e con esso piegarsi la mente, il cuore, la volontà e tutto; che i suoi orecchi odano il grido di gioia che erompe dal cuore dei redenti: « Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre! ».

Indice

1 Tertulliano, Apologatico 39,9
2

Origene, Commento al vangelo di Giovanni, I, 29 (SCh 120, p. 158)