Summa Teologica - II-II

Indice

La fede

( II-II, qq. 1-16 )

1 - Il trattato in cui S. Tommaso sviluppa la dottrina sulla fede è uno dei più perfetti della parte morale.

Mazzella lo definiva « absolutissimus »531 e prima di lui Giovanni da S. Tommaso scrisse: « In tradenda autem et explicanda hac virtute, summo ac scientifico ordine processit D. Thomas ».532

Ed in realtà ci si trova di fronte a una costruzione dottrinale in cui l'armonioso sviluppo di tutto l'insieme è perfettamente integrato con la profondità e la ricchezza degli argomenti trattati.

La struttura portante di tutto il trattato è molto semplice e lineare: segue lo schema che farà da trama alla trattazione delle singole virtù teologali e cardinali.

La considerazione della virtù in se stessa ( oggetto, atto, abito ) è seguita da quella dei doni e dei frutti che le corrispondono.533

Successivamente è sviluppata la trattazione dei vizi opposti alla fede ed infine quella dei precetti positivi dati dal Signore in materia di fede e dei doni dello Spirito Santo ad essa corrispondenti.

Una delle differenze più notevoli della sistemazione della Somma nei confronti di quelle adottate precedentemente da S. Tommaso534 è costituita dalla prospettiva oggettivista in cui è considerata la dottrina sulla fede.

Il tema dell'oggetto della fede e problematica ad esso connessa sono affrontati nella prima questione.

Questa posizione corrisponde certamente a una precisa concezione dottrinale secondo cui gli atti e gli abiti si specificano in base al loro oggetto formale, e pertanto la considerazione dell'oggetto è e resta quella fondamentale.

Non è possibile approfondire i concetti di credere e di fede, se non si determina esattamente quale ne sia l'oggetto.

Si tratta, però, di una scelta estremamente significativa.

Essa rende evidente in maniera incisiva l'idea secondo cui alla base della fede c'è un'azione di Dio che si dona all'uomo; entra nella sua vita non per distruggerla bensì per elevarla, nobilitarla salvarla.

Nella fede il maestro dell'uomo è Dio: Dio, che per un gratuito atto di amore si manifesta all'uomo, sceglie il modo di questa sua rivelazione, la attua nella storia, la compie nel Cristo, l'adegua alle possibilità e risorse dell'intelligenza umana.

Un'altra nota caratteristica di questa sintesi dottrinale è costituita dall'unificazione di tutti i problemi che riguardano la fede nell'ambito di una sola trattazione, nel corso della quale si sviluppano gli aspetti dogmatici, psicologici, etici, apologetici.

Si affronta lo studio dell'oggetto della fede, del suo atto, dei preambula fidei, cioè dei motivi di credibilità, dei diversi problemi concernenti il rapporto fede-Chiesa, ecc.

Questa concezione unitaria, a differenza di quella dissociativa seguita dai teologi posteriori e divenuta prevalente nella teologia moderna. permette non solo di fondare esattamente l'aspetto apologetico dell'atto di fede, ma anche di valorizzare le ricchezze teologali di questa virtù, e di porla così a base di un'autentica e integrale pedagogia, capace di dirigere efficacemente il ministero verso i non credenti.

Per avere una visione integrale della concezione tomista della fede, è necessario considerarla nella prospettiva del perfezionamento che le reca la carità e dell'influsso che riceve dai doni dello Spirito Santo.

In questo contesto l'assenso integrale del credente al mistero non è più visto in chiave di nuda e astratta adesione nozionale ad alcune verità: ma, come esso è in realtà per coloro che vivono la grazia, quale adesione vitale a Dio che comunica all'intelligenza umana la conoscenza del suo mistero, e che in questa comunione fonda la possibilità di una risposta di conoscenza e di amore da parte della creatura.

Il caso della fede, però, è singolare.

Dalla rivelazione sappiamo che alcuni uomini non accettano il dono integrale di Dio che si comunica all'uomo: nella decisione della loro libertà lo frantumano e si limitano ad accettare Dio esclusivamente come maestro, non come padre.

È il caso della fede « informe », ed è nettamente distinto da quello della fede « formata ».

Mentre questa ultima è adesione dell'intelligenza a Dio amato con amore di carità, la prima è pura adesione intellettiva al mistero di Dio ( cfr. q. 6, a. 2, nota ).

Se per sviluppare una teologia integrale della fede è necessario tener presente il contesto vitale

dell' « interazione» psicologica delle varie virtù teologali, la trattazione della fede informe è pur essa necessaria perché mostra ciò in cui formalmente consiste l'assenso a Dio-Verità.

I Fonti del trattato.

2 - « Il trattato sulla fede non presenta nella Somma la stessa originalità di altri trattati creati quasi integralmente, o in gran parte, da S. Tommaso in questa opera teologica della maturità …

Questa minore originalità non desta meraviglia.

Il tema della fede fu, naturalmente, uno dei primi sottoposti alla speculazione e discussione teologica delle scuole sin dall'inizio della Scolastica, a causa dell'abbondanza di materiale che su di esso si trova nella S. Scrittura e nei Padri.

Abbozzato da Ugo di S. Vittore e soprattutto da Pietro Lombardo nelle sue Sentenze ( 3 Sent., dd. 23-25 ), esso riceve una prima sistemazione scientifica in Guglielmo di Auxerre, che sarà completata da Filippo il Cancelliere e dai grandi scolastici anteriori a S. Tommaso: Alessandro di Hales, S. Alberto Magno e S. Bonaventura ».535

II Luoghi paralleli.

3 - S. Tommaso aveva già studiato la dottrina sulla fede, specie quella esposta nelle qq. 1-7 della II-II, anche precedentemente nelle altre sue opere e particolarmente, in 3 Sent., dd. 23- 25, e De Veritate, q. 14, aa. 1-12, sulla falsariga della tematica e dell'ordine seguito da Pietro Lombardo, da cui si scosterà nella Somma per seguire una prospettiva decisamente oggettivistica.

Altri aspetti della dottrina erano stati sviluppati nei commenti scritturistici: in Ioan., cc. 4, 6, 7, 11; Ad Hebr., c. li; nei Quodlibeti 2, a. 6 e 6, a. 2; e nella Contra Gentiles 1, c. 6; 3, cc. 152, 154; in Boët. De Trinitate, q. 3, a. 1. Le qq. 8-16 della II.II presentano invece un carattere di novità nei confronti delle opere precedenti di S. Tommaso.

Alcuni accenni al loro contenuto si riscontrano in 3 Sent., dd. 34-35 per i doni; 2 Sent., dd. 39-43; 4 Sent., d. 13, q. 2 per i peccati contro la fede.

III La Rivelazione di Dio.

4 - Se si considera attentamente la struttura della prima questione del De fide vi si riscontra un'autentica teologia della rivelazione, intesa non tanto come l'atto misterioso di Dio che si comunica all'uomo, quanto come effetto di questo intervento sovrano.

Già nel primo articolo ci si trova di fronte al dato di fatto fondamentale: Dio si manifesta all'uomo e chiede di essere accolto e riconosciuto solo perché Dio, la Verità.

La Verità semplice e sempre esistente ( a. 1, S. c. ) si rivela all'uomo, si adatta alla condizione psicologica, epistemologica, storica della sua natura ( aa. 2-7 ), garantisce la trasmissione e l'approfondimento ecclesiale di se stessa ( aa. 8-10 ), per mettere questa creatura assetata di felicità in condizione di realizzare il misterioso dialogo della salvezza.

L'importanza dell'argomento richiede che lo si consideri in tutti i particolari.

Per un mistero di amore di cui non potremo mai penetrare l'altezza e la profondità, Dio ha elevato l'uomo all'ordine della grazia e gli ha partecipato la conoscenza della sua vita intima; affinché questi, accogliendo la rivelazione « del sacramento della sua volontà » ( Ef 1,9 ), « credendo sperasse e sperando amasse » ( S. AGOSTINO, De cathechizandis rudibus, cc. 4, 8 ).

Dio poiché « ci ama come qualcosa di sè » ( II-II, q. 30, a. 2, ad 1 ), con successivi interventi nella storia dell'uomo, con parole e con fatti, ci ha manifestato non solo ciò che concerne se stesso, ma anche ciò che ha messo a disposizione dell'uomo perché si salvi ( q. 1, a. 7 ).

S. Tommaso ha descritto chiaramente i momenti di questa progressiva manifestazione della gloria di Dio.

La sua dottrina su questo punto deve essere ricavata da quanto egli dice nel De Lege ( I-II, qq. 98-106 ), nel De Fide ( II-II, q. 1, a. 7 ), nel De Prophetia ( II-II, q. 174, a. 5 ) e nel De Verbo Incarnato ( III, q. 1, aa. 5-6 ).

In questi contesti egli traccia a grandi linee la storia della salvezza, la quale può essere così compendiata.

L'economia della manifestazione divina è orientata tutta a preparare gli uomini ad accogliere il Cristo, ad aderire a lui, che è l'unico mediatore di salvezza.

Dio ha guidato l'uomo al Cristo che non solo è mediatore di grazia, ma anche la pienezza di tutta la rivelazione di Dio.536

Nessun uomo infatti si è salvato, in nessun periodo della storia, se non per la fede implicita o esplicita nel Cristo ( cfr. I-II, q. 106, a.1, ad 3; q. 107, a. 1, ad 2,3 ).

5 - Per attuare il disegno salvifico di preparazione al Cristo, Dio ha scelto un popolo che è stato costituito custode della rivelazione, depositario delle successive manifestazioni di Dio: il popolo eletto( I-II, q. 108, aa. 4,5,6 ).

Agli altri uomini non era preclusa, però, la via della salvezza, giacché anche essi erano in qualche modo oggetto di cura da parte di Dio, non essendo stati trascurati dalla primitiva rivelazione divina.

Il popolo eletto è stato invece guidato direttamente da Dio: ad esso i misteri divini sono stati rivelati, ed è stata data una legge, una norma di condotta, denominata poi legge antica, perché sostituita da quella del Cristo che è nuova per antonomasia.

La rivelazione divina è avvenuta attraverso successivi interventi di Dio, mediante i quali è divenuta più esplicita, sia la dottrina sulla divinità in se stessa, sia quella sul mistero dell'Incarnazione.

La rivelazione perfetta è quella della patria.537

La più perfetta dimensione della rivelazione è quindi escatologica.

La rivelazione del tempo è ordinata a quella dell'eternità, la prepara e da essa sarà perfezionata.

Dio ha manifestato all'uomo il suo piano salvifico in tappe successive, che possono essere così individuate:

- prima del peccato538

- dopo il peccato:

a) prima della legge

b) al tempo della legge

c) al tempo della grazia.

Si tratta delle ère, delle età o epoche in cui si suddivide la storia della salvezza:

1) giustizia originale.

a) età della legge di natura;

2) peccato originale:

b) età della legge mosaica;

c) età della redenzione.

Tutte tendono alla restaurazione della gloria.

Elemento molto importante: nelle singole epoche la più perfetta manifestazione divina è stata quella che si è verificata in colui che l'ha inaugurata: « Nelle singole ère la prima rivelazione fu la più eccellente » ( q. 174, a. 6 ).

La rivelazione si è svolta secondo un'economia discendente e gerarchica: essa fu manifestata dapprima agli angeli secondo l'ordine delle gerarchie celesti; per mezzo degli angeli è stata comunicata ai più grandi fra gli uomini, profeti e apostoli e, per mezzo di essi, a tutti gli altri uomini.539

6 - Analogamente alla manifestazione della rivelazione si svolge la diffusione della conoscenza delle verità di fede: gli uomini sono eruditi su di esse attraverso altri uomini.

Coloro che hanno la missione di insegnare tali verità debbono averne una conoscenza più approfondita.

Il progresso della rivelazione, pertanto, non è avvenuto omogeneamente al succedersi dei tempi.

L' inizio di ogni nuova èra è segnato da una più intensa manifestazione di Dio che poi viene esplicitata e approfondita nei successivi interventi divini di quell'èra medesima.

In ogni epoca, nel prototipo o capostipite di essa, Dio ha proposto « quanto conveniva insegnare al popolo, secondo i tempi, in maniera chiara o simbolica » ( II-II, q. 1, a. 7, ad 3 ).

Il progresso nella manifestazione della rivelazione non risulta da un'evoluzione delle varie ère: arriva d'un tratto, scaturisce da un brusco passaggio: da successivi diretti interventi di Dio, grazie ai quali una luce nuova si diffonde sul mondo.

É vero che Dio si rivelò anche ai maiores che si susseguivano nel corso delle singole ère.

Queste rivelazioni accrescevano il dato rivelato in se stesso; però, singolarmente considerate, ognuna di esse manifestava un aspetto di verità non così fondamentale come quello che era stato rivelato a colui col quale la nuova èra aveva avuto inizio.

Si trattava di rivelazioni completive del dato originario.

Mosè « parlava … per proporre inizialmente la legge; gli altri profeti invece parlavano…, per indurre il popolo all'osservanza della legge di Mosè » ( q. 174, a. 4 ).

Nell'azione di Dio bisogna ancora distinguere gli interventi diretti a guidare il popolo nella via del bene, e che non vennero mai meno,540 da quelli intesi ad esplicitare il dato rivelato attraverso successive illuminazioni divine.

Nell'ambito di questi ultimi, poi, differisce l'economia di rivelazione per il mistero della divinità e quella per il mistero dell' Incarnazione.

Il mistero di Dio, infatti, fu rivelato con ordine progressivo, però sempre più pienamente in colui nel quale Dio inaugurava una nuova èra di salvezza: Abramo, Mosè, Gesù Cristo.541

Il mistero dell'Incarnazione, invece, fu conosciuto tanto più pienamente quanto più l'umanità si avvicinava a tale avvenimento: « Circa il mistero dell' Incarnazione …, alcuni che vissero dopo Mosè ricevettero rivelazioni più chiare di lui ».542

É un'applicazione dell'economia generale secondo cui Dio perfeziona l'uomo seguendo « l'ordine del progresso nel bene » ( III, q. 1, a. 6 ).

Esso può essere considerato secondo i due momenti del processo di perfezionamento ( III, q. 1, a. 6 ).

Se si considera il progresso da parte del perfettibile, questi passa dall' imperfetto al perfetto attraverso un progressivo sviluppo.

Se invece si considera la causa del perfezionamento, appare evidente che il perfetto precede l'imperfetto sul quale agisce.

La rivelazione di Dio ha perfezionato l'uomo con un ordine progressivo, con una gradualità che raggiunge il massimo della perfezione qui in terra nella santa umanità del Cristo, che costituisce la causa strumentale per condurre la massa intera degli eletti alla perfezione totale nella rivelazione della gloria.

Costituiscono applicazione di questo secondo aspetto della legge del perfezionamento, sia il fatto che nella trasmissione della rivelazione i capi delle singole ère della storia salvifica ne conoscono il contenuto più perfettamente di coloro che da essi sono ammaestrati; sia anche il fatto che è proprio dei maiores istruire i minores nelle verità di fede ( II-II, q. 1, a. 7, ad 3 ).

La rivelazione pertanto si attua secondo un'economia di progressività temporale e gerarchica.

Temporale, perché cresce col tempo; gerarchica poiché agli angeli inferiori arriva per mezzo dei superiori; agli uomini per mezzo degli angeli; agli uomini inferiori per mezzo dei superiori ( cfr. q. 2, a. 6 ).

7 - La più perfetta e rigorosa applicazione di questo principio si avrà nell'èra della grazia.

Esso è qui confermato dalla dottrina secondo cui la rivelazione pubblica è chiusa con gli apostoli, i quali « furono pienamente istruiti sui misteri » ( q. 1, a. 7, arg. 4 ); « più perfettamente conobbero i misteri della fede » ( ibid., ad 4; cfr. I-II, q. 106, a. 4 ).

Essendo l'èra della grazia escatologica ( I-II, loco cit.; cfr. II-II, q. 1, a. 7, ad 4; q. 174, a. 6 ), la rivelazione di Cristo è l'ultima, la perfetta nel senso pieno della parola.

Non vi saranno nell'ordine della rivelazione ulteriori esplicitazioni per mezzo di altri interventi divini ( q. 174, a. 6, ad 3 ); vi sarà solo approfondimento ed esplicitazione da parte della Chiesa ( q. 1, a. 10 ).

S. Tommaso mette in rilievo molto frequentemente il fatto che la pienezza della rivelazione di Dio si è avuta nel Cristo.543

Egli è la verità in persona ( In Ioan., c. 14, lect. 2; c. 1, lect. 8; e. 18, lect. 6 ); ci ha manifestato la via della verità ( III, Prol. ); ha reso testimonianza alla verità, con la sua umanità, con le sue parole ( cfr. III, q. 40, a. 1; in Ioan. e. 3, lect. 5 ), con le azioni della sua vita che manifestano i vari aspetti del mistero della salvezza ( cfr. III, q. 36, a. 3, ad 1; q. 39, a. 8, ad 2, 3; q. 44, a. 3, ad 1; q. 45, a. 4, ad 2; q. 53, aa. 1, 3. ).

Sapienza eterna di Dio, egli è il principio della nostra sapienza ( in Ioan., e. 1, lect. 1 ); la radice e la sorgente di ogni conoscenza di Dio ( ibid., c. 17, lect. 6 ).

Egli è il primo, il principale dottore della fede,544 il Dottore dei dottori;545 a differenza degli altri maestri umani, egli insegna sia dal di fuori sia all'interno dello spirito ( ibid., c. 13, lect. 3; e. 3, lect. 1 ).

Nel corso della sua vita, prima di affidare agli apostoli la missione di evangelizzare il mondo, li ha istruiti ( III, q. 42, a. 1, ad 1 ); ad essi ha dato il suo spirito ( In Ioan., c. 17, lect. 6 ), il quale manifestò ad essi il senso della sua dottrina ( ibid., c. 14, lect. 4 ) in modo che potessero a loro volta illuminare gli altri uomini ( ibid., c. 12, lect. 8 ).

S. Tommaso giustifica questi progressivi interventi divini nella storia del popolo eletto in base alla legge della progressiva decadenza umana.

Con l'avanzare dei tempi, gli uomini tendono ad allontanarsi sempre più dalla purezza di fede e di costumi che avevano caratterizzato l'epoca in cui era vissuto il capo della loro èra.

Dio interveniva per riformare la vita umana e spronare gli uomini alla purezza della fede e a una sempre più degna preparazione al Messia venturo.

In questo egli si rifaceva al pensiero espresso nel De Quaest. Novi et Veteris Testamenti che egli credeva di S. Agostino.546

IV Caratteri del rivelato

8 - La rivelazione è il mistero di Dio comunicato all'uomo.

I caratteri del rivelato derivano da questa sua duplice relazione.

Si attua nella storia, ma ha la sua origine nell'eternità; proviene da Dio assoluto, eterno, realtà semplicissima, ma è rivolta all'uomo, essere intelligente, che conosce la realtà mediante un processo astrattivo, analogico e discorsivo; è inserita in una situazione esistenziale-storica.

In quanto parola di Dio ha un valore eterno; contiene verità eterne, manifesta l'inesauribile ed ineffabile semplicità del mistero di Dio; non può essere soggetta alle fluttuazioni dei gusti e delle variazioni del tempo; non può essere contraddetta; è definitiva, è vera per sempre: esclude il vago, l'incerto ed insieme la mutazione.

E immutabile nel suo contenuto di verità: non soggiace al flusso semantico del linguaggio umano, ha valore per tutti i tempi e per tutti i luoghi.

In quanto tale la parola di Dio non può essere affidata all' interpretazione arbitraria e deformante degli uomini.

Ciò però non esclude che essa venga resa attuale anche all'uomo che vive in un momento storico lontano dal ciclo in cui la rivelazione si svolse e si compì.

A questa duplice esigenza di interpretazione autentica e di esplicitazione coerente della rivelazione provvede il Magistero infallibile della Chiesa che propone, in definizione attuale, la parola di Dio.

Poiché la parola di Dio è inesauribilmente penetrabile, la parola rivelata « connota » il mistero di Dio.

In quanto tale, essa è ricca della stessa ricchezza di Dio che è verità sempre nuova in quanto è la pienezza della verità; stimola indefinitamente la forza d'indagine e di penetrazione dell'intelligenza umana.

In quanto destinata all'uomo, la rivelazione di Dio ha assunto dimensione umana.

É stata attuata nella storia e ancor oggi continua ad avere una storia: « non più storia di rivelazione, di apporti oggettivi nuovi da parte di Dio, bensì storia di presa di coscienza progressiva, da parte dello spirito umano, di una verità già presente » ( M. LABOURDETTE, « La vie théologale selon St. Thomas », in Revue Thomiste, 1958, p. 617 ).

9 - Per adattarsi all'uomo, la parola di Dio si esprime in parole desunte dal linguaggio comune degli uomini, in una molteplicità di concetti consoni alle condizioni della psicologia umana e armonizzati in una meravigliosa struttura unitaria ( gli articoli della fede: q. 1, a. 6 ).

Essi, però, quando sono assunti dalla rivelazione, acquistano nuovi, sublimi significati, i quali sono analoghi al senso originario della parola, non equivoci.

La parola rivelata esprime la realtà divina; e quando l'uomo l'accoglie attraverso la fede, Dio è veramente il termine della conoscenza.

Ciò è possibile perché la parola umana, in virtù dell'analogia dell'essere, è dotata della capacità radicale di esprimere la realtà di Dio e i suoi pensieri.

Tra il mondo naturale e quello soprannaturale è connessione e rassomiglianza analogica.

Per questa analogia fondata sull'azione creatrice, e perciò esistente sempre e dovunque, la parola che esprime i concetti della vita divina è vera ed intelligibile.

La verità, l'intelligibilità delle parole con le quali Dio si è rivelato, si fonda su questa analogia; la suppone, non la crea.

Soltanto Dio può scegliere i concetti e le espressioni umane nelle quali rivelare i misteri della parola ( cfr. M. ABOURDETTE, op. cit., pp. 603s. ); la quale, umile nella forma, sublime nel contenuto, presenta una profonda analogia con l'umanità del Verbo incarnato.

Poiché la rivelazione di Dio si proporziona in qualche modo alla struttura conoscitiva dell'intelligenza umana, essa è manifestata con una molteplicità di concetti, nonostante che esprima realtà semplicissime ( q. 1, a. 2 ).

L'uomo, poi, non solo può dimostrare che questi concetti non hanno un contenuto di assurdità, ma può acquistarne una conoscenza analogica, anche se, durante la vita, non riuscirà mai a penetrarli nella loro intima natura.

E infatti nonostante che l'intelligenza umana sia fatta per la verità, poiché la verità divina eccede l'ambito connaturale dell'intelletto umano, può essere accettata dall' intelletto, non per dimostrazione, ma per fede, attraverso la mediazione dell'attestante, la quale, per sè, rimane estrinseca al procedimento razionale dell'intelletto.

Il rivelato può essere soltanto creduto, non dimostrato ( q. 1, aa. 4,5 ).

Esso è trasmesso al singolo uomo nella Chiesa e attraverso la Chiesa.

L'uomo lo conosce nella mediazione della Chiesa e, attraverso la Chiesa, egli acquista la certezza della sua origine divina ( q. 1, aa. 8- 10 ).

V La terminologia della rivelazione.

10 - Nel definire l'oggetto della fede, i teologi moderni ricorrono ai concetti di mistero e di verità soprannaturale.

La terminologia di S. Tommaso, per quanto sostanzialmente identica, è un po' differente.

Egli denomina credibilia il complesso delle verità da credere ( q. 1, aa. 6,7 ): non le denomina ordinariamente mysteria, benché talvolta venga usata anche questa espressione.

Dice, p. es., che gli apostoli « furono pienamente istruiti sui misteri » e « conobbero i misteri perfettamente » ( q. 1, a. 7, ad 3 ).

Con mysterium di solito indica l'Incarnazione del Verbo: parla del « mysterium incarnationis » nella q. 1, a. 6, ad 1; e, nello stesso contesto, lo distingue dall'occultum della divinità », dalla « maestà della divinità » ( q. 1, a. 8 ), con cui denomina il mistero di Dio.

Nella q. 2, a. 7 mysterium torna ben sette volte in riferimento a Cristo: mistero dell'Incarnazione e della passione di Cristo.

Vi si cita anche un passo di S. Agostino in cui si parla del «mistero del regno di Dio ».

- Nell'a. 8 si trova tre volte menzionato il « mistero di Cristo ».

Ivi però si parla per due volte di « mistero della Trinità », come pure si parla di « misteri divini ».

Nella q. 3, a. 1, arg. 2, riportando un passo della lettera agli Efesini, parla anche del mistero del Vangelo.

Egli poi esprime la trascendenza del mistero di Dio facendo leva, non sul concetto di soprannaturale, bensì sul rapporto di identità tra oggetto creduto e realtà veduta in patria.

Nell' a. 7 della q. 1, esplicitando il contenuto della fede nella provvidenza, accenna a tutte le cose « che vengono elargite da Dio agli uomini nel tempo per la loro salvezza ».

Di grande interesse sono i passi in cui S. Tommaso sintetizza il contenuto della fede, ciò a cui il credente aderisce.

Da essi risulta che la rivelazione può essere concepita come l'atto Con cui Dio manifesta all'uomo il suo fine ultimo e la via per raggiungerlo.

Dio istruisce l'uomo sui misteri della vita futura e gli indica nel Cristo la via della salvezza.

Inoltre risulta che la fede è in strettissimo rapporto con la visione beatifica, da cui differisce solo nel modo: la fede è anticipazione della visione di Dio, alla quale tende come a suo compimento e premio.

L'oggetto della fede pertanto è la realtà integrale della salvezza.

Ciò che ne costituisce il contenuto essenziale è la realtà, la cui visione costituirà la beatitudine eterna.

Ad essa è subordinato il mezzo storico di realizzazione, cioè le realtà che ci introdurranno alla vita eterna.

Si ritrova qui l'essenza della distinzione tra teologia ( Trinità: Dio stesso nel suo mistero necessario ), ed economia: « tutte le cose elargite da Dio agli uomini nel tempo e che sono il mezzo per arrivare alla beatitudine » ( q. 1, a. 7 ) ( Dio nel suo mistero libero: Cristo, Chiesa, sacramenti, escatologia ).

Si ritrova qui anche lo schema trinitario-salvifico del simbolo: Dio-creazione redenzione-restaurazione.

VI La funzione della Chiesa riguardo alla rivelazione.

11 - L'autorità infallibile della Chiesa non entra nel motivo essenziale della fede teologica.

Crediamo ciò che la Chiesa insegna, ma perché è stato rivelato da Dio.

La Chiesa è regola della fede, non motivo.

Essa non è la fonte della rivelazione, ma la norma sicura, su cui va verificata e rettificata la fede nei suoi valori oggettivi, ossia nelle verità credute; garantisce la consonanza delle nostre credenze con la dottrina di Cristo e degli apostoli.

La proposizione infallibile della verità da parte della Chiesa, anche se normalmente richiesta, non è condizione essenziale dell'atto di fede.

Prima della definizione dogmatica o fuori della Chiesa, la personale certezza che una verità è rivelata da Dio o connessa col dato rivelato, obbliga a credere.

In tale caso la verità sarà creduta con un atto di fede divina, che, però non ancora può dirsi di fede divino-cattolica.

Solo la certezza pubblica ( quella garantita da una definizione della Chiesa docente ) rappresenta per tutti i credenti la norma obbligatoria ed infallibile della fede ( cfr. Enciclop. Cattol., V. col. 108 ).

Il Concilio Vaticano I ha sintetizzato in modo chiaro la duplice funzione che la Chiesa esercita nei riguardi della rivelazione.

Essa deve custodirla fedelmente, proteggendola dalle adulterazioni ( e fideliter custodiendum ), e promulgarla in maniera infallibile ( e infallibiliter promulgandum ).

12 - La Chiesa custodisce la sua rivelazione, non come una cassaforte custodisce un lingotto d'oro, o come il museo conserva un quadro, ma come l'intelligenza contiene le idee e il cuore l'amore, cioè come una realtà vivente che non si conserva se non sviluppandosi e che nella crescita non perde la sua identità.

Nella rivelazione infatti è Dio che confida i misteri della sua vita agli uomini suoi amici.

« Non vi chiamerò più servi ma amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre ve l' ho manifestato » ( Gv 15,15 ).

Anche se essa storicamente sembra situarsi nel passato, è invece una realtà sempre attuale, contemporanea ad ogni uomo che ne cerca il significato assoluto.

Questa contemporaneità non deriva alla rivelazione da successivi arricchimenti che ne modifichino il contenuto oggettivo, ma dal fatto che essa è presente nella coscienza viva della Chiesa che la mette a contatto di ogni uomo.

Cristo confidò alla coscienza della sua Chiesa il contenuto della sua rivelazione e le diede la facoltà di riconoscerlo e giudicarlo infallibilmente.

Custode vivente della parola di Dio, la Chiesa è dotata della capacità di prenderne coscienza, di formularla, di esprimerla, sentirla con una freschezza sempre nuova, esplicitando con una progressiva penetrazione ciò che non era ancora distintamente percepito ( cfr. LIÉGÉ, in Iniziazione teologica, vol. I, Brescia, 193, p. 22 ).

Le verità rivelate che la Chiesa approfondisce sono contenute nella S. Scrittura e nella Tradizione ( DENZ.-S., 1501 ).

13 - Poiché tutta la rivelazione è stata confidata alla Chiesa, ad essa compete il dovere di interpretarla alla luce della sua comunione vivente col Cristo.

Il mistero di Dio è inesauribilmente Conoscibile e l'intelligenza dell'uomo, pur elevata all'ordine della grazia, resta profondamente insoddisfatta fin quando non è perfezionata dalla comprensione intima delle realtà conosciute

La stessa rivelazione è stata confidata all'uomo in quanto essere intelligente.

Egli deve perciò accoglierla, farne oggetto di studio e di meditazione, sforzandosi di comprenderla.

Perciò la fede è assenso e ricerca insieme ( cum assensu cogitare », q. 2, a. 1 ).

Dalla vitalità stessa della fede scaturisce la necessità di penetrare, capire, precisare il contenuto della parola di Dio.

Questa ricerca durerà fino alla pienezza della rivelazione celeste e si effettua nella Chiesa e con la Chiesa, sorretta dall'assistenza infallibile dello Spirito Santo.

Questo approfondimento si effettua attraverso una presa di coscienza sempre più esplicita, da parte della Chiesa e dei suoi fedeli, delle inesauribili virtualità della rivelazione ed è garantito e diretto da una divina assistenza.

E ciò che vien detto sviluppo dogmatico, ma sarebbe meglio denominarlo progresso nella conoscenza del dogma, giacché nulla aggiunge alla fede, ma solo interiorizza sempre più nella coscienza della Chiesa la parola di Dio.

Indubbiamente per annunziare la parola, la Chiesa deve definirne, in termini precisi ed inequivocabili il contenuto, svilupparne la virtualità, spiegarne il significato, armonizzare le singole verità, applicare alla vita le norme capaci di dirigere la condotta sulla via di Dio.

Ciò non significa che essa fa aumentare il contenuto della rivelazione.

In questo lavoro la Chiesa utilizza tutti gli apporti dell'intelligenza umana ( non trascura lo studio degli storici, dei filologi, dei teologi, ecc. ); anzi, spesso questa più esplicita conoscenza è occasionata dalla lotta degli avversari e dal bisogno di difendere la verità dagli errori.

La via attraverso la quale si perviene a questo approfondimento è duplice: quella logico-discorsivo del ragionamento teologico, che è la via classica attraverso la quale si effettua l'eplicitazione del dogma; quella del sensus fidei, frutto di un potere conoscitivo superiore, che si svolge attraverso una penetrazione più vitale del rivelato.

Questa seconda via, nella sua fase conclusiva, sfocia nella prima.

In considerazione della sua grande importanza nella vita dei fedeli, è opportuno fissarne alcuni elementi.

Il sensus fidei è diffuso nella comunità cristiana, in quanto in essa vive il Cristo che la fa partecipe della sua conoscenza.

Esso è « un generale orientamento esistente nella Chiesa e in ogni suo membro - a misura della fedeltà allo Spirito Santo -, verso la verità percepita distinta dall'errore, condivisa prima ancora di ogni dimostrazione apologetica ed elaborazione dottrinale.

Nella sua espressione collettiva è il sensus Ecclesiae, il sentimento e il pensiero della Chiesa universale, come comunità, che nel suo insieme conosce e capisce la verità che conserva e vive.

Esso è anche nei fedeli, in armonia esplicita o implicita, consapevole o inconsapevole, col magistero ecclesiastico, e si chiama allora sensus fidelium.

In ogni caso, quando è autentico, nasce dalla fede sotto l'azione dello Spirito Santo.

Non è - e non può essere - autonomo, incerto, fluttuante, ma si conforma al magistero vivo della Chiesa, da cui tutti dipendono: i fedeli nella loro adesione alla verità, i teologi nel loro studio, i singoli pastori e maestri nel loro insegnamento » ( SPIAZZI R., Itinerario al Credo, Brescia, 1959, p. 87; cfr. BALIC C., « Il senso cristiano e il progresso del dogma », in Gregorianum, 1952, pp. 106-134 ).

L'approfondimento della rivelazione nella Chiesa si svolge secondo una triplice linea convergente: dogmatica, quando sfocia in una definizione solenne; teologica, fatta di penetrazione e di indagine scientifica del rivelato; spirituale e mistica, di esperienza vissuta, che fa giudicare le meraviglie di Dio per via di una sublime connaturalità connessa con l'azione del dono della sapienza ( q. 45, a. 2 ).

14 - Il momento culminante di questa penetrazione si ha nella definizione dogmatica, quando il magistero della Chiesa garantisce, con autorità infallibile, la rivelazione di un mistero, o delle verità religiose naturali che Dio ha rivelato.

Le proprietà fondamentali dei dogmi sono l'oggettività e l'immutabilità.

Essi hanno un valore reale; conducono alla conoscenza vera, anche se solo parziale della verità rivelata; sono enunciati intellettuali proposti all'assenso dell'intelligenza dei fedeli ed esprimono, su un piano di analogia, la realtà divina.

E vero che a causa dell' infermità del linguaggio umano, i dogmi trasmettono in forma infinitamente limitata la ineffabile verità divina, tuttavia « connotano » veramente tale realtà, ad essa conducono, conformano, assimilano lo spirito umano ( LABOURDETTE M., « La théologie, intelligence de la foi », in Revue Thomiste, 1946, pp. 15-16 ).

La realtà divina è resa presente allo spirito umano dalle formule rivelate e definite, senza di cui quella realtà resterebbe del tutto sconosciuta; solo attraverso di esse noi abbiamo la possibilità di conoscere Dio in se stesso e Dio presente vitalmente all'anima nostra.

Altra proprietà dei dogmi è l'analogicità o, come altri preferisce, la relatività.

Nonostante che le formule dogmatiche abbiano questo valore assoluto di verità, esse restano inadeguate e relative, perché non esprimono in modo adeguato la realtà divina.

Possono essere perciò migliorate e perfezionate ( cfr. PIO XII, Humani Generis; BONIFAZI D., L' immutabilità e relatività del dogma secondo la teologia contemporanea, Roma, 1959 ).

VII La credibilità del rivelato.

15 - Le verità contenute nella rivelazione e viventi nella Chiesa trascendono in maniera assoluta la capacità naturale di ogni intelligenza.

La loro accettazione è però presentata come unica condizione di salvezza: « Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato » ( Mc 12,30 ).

E d'altro lato l'uomo non deve rinnegare la sua razionalità in questa accettazione.

Non potendo verificare la veridicità intrinseca del rivelato, dovendo accettano senza alcun tentennamento, è necessario che lo spirito umano comprenda la ragionevolezza e l'obbligatorietà della fede, e non emetta in modo arbitrario, temerario, consuetudinario, questo atto sublime.

La credibilità è l'insieme delle prove attraverso le quali è garantita l'origine divina del rivelato.

La credibilità è una proprietà della rivelazione.

Non va confusa con la credentità in generale, che è il riconoscimento teorico dell'obbligo universale di credere la verità rivelata; a cui segue il giudizio pratico di credentità in particolare, cioè l'affermazione del dovere che ho di ascoltare, in questo momento, quanto Dio mi dice, perché ne dipende la mia salvezza.

Questo ultimo giudizio trascende la sfera della razionalità: appartiene esclusivamente a quella dell'atto di fede soprannaturale.

Neppure va confusa con i preamboli della fede, che sono i presupposti di ogni dialogo dell'uomo con Dio: l'esistenza di un Dio personale; creazione, con cui Dio pone l'uomo ed entra in contatto con lui; la possibilità di un incontro con Dio e di una rivelazione di Dio all'uomo; l'immortalità dell'anima; la vita ultraterrena, ecc.

Per accogliere Dio nella fede è necessario sapere che egli esiste, e conoscere le ragioni che ci permettono di affermare che Dio ci parla.

La credibilità non dimostra il cristianesimo e le verità di fede.

Garantisce soltanto che il rivelato, poiché ha origine divina, merita la fiducia che esige da noi, può e deve essere creduto.

Prepara l'atto di fede, non lo costituisce; giacché si basa sui fatti connessi con la dottrina, ma distinti da essa, che pertanto resta in se stessa inevidente.

« Tra coloro che vedono lo stesso miracolo e ascoltano la stessa predicazione, alcuni credono, altri no » ( q. 6, a. 1 ), altro è infatti ciò che si vede, altro ciò che si crede ( cfr. q. 178 De Pot., q. 6, aa. 3,9 ).

La credibilità è una conditio sine qua non della ragionevolezza dell'atto di fede; che, se non fosse preceduto da una certezza almeno morale dell'origine divina delle verità cui il credente è chiamato ad aderire, non sarebbe un atto morale e ripugnerebbe alla natura ragionevole dell'uomo.

La conoscenza dubbia o solo probabile dell'origine divina dei cristianesimo obbliga ad un'ulteriore ricerca, non ancora alla fede.

L'assenso di fede diventa soggettivamente obbligatorio solo se è preceduto dalla certezza razionale dell'origine soprannaturale della religione rivelata ( cfr. DENZ.-S., 2120, 2754 s., 2778 ).

La Chiesa ha perciò difeso costantemente la insostituibilità del giudizio di credibilità e la natura dei motivi che lo determinano.

Ha proclamato l'insufficienza delle prove arazionali o irrazionali che non possono determinare una conoscenza razionalmente certa.

Si è opposta a coloro che, nella determinazione di questo giudizio, assegnano un compito esclusivo alla grazia di Dio.

Non ha però escluso che, nel maturare del giudizio di credibilità, possa intervenire direttamente Dio ad illuminare le anime con la sua grazia, e possano influire alcuni fattori affettivi, che accrescano la forza degli argomenti di ragione e dispongano più efficacemente il soggetto all'atto di fede.

VIII La fede è una forma di conoscenza.

16 - Il magistero della Chiesa ha affermato e difeso il carattere conoscitivo della fede.

Per esso la fede non è un vago senso religioso ( DENZ.- S., 3477 ss. ); è principio soprannaturale di conoscenza ( DENZ.-S., 3008, 3015, 3035 ) distinto dalla conoscenza naturale ( DENZ.-S., 2829, 3032 ); non è assenso cieco nè contrario alla ragione, ma trascendente il piano razionale; non è causato da argomenti razionali ( DENZ.-S., 2754, 2845, 3033, 3225, 3035 ).

É un assenso certo, infallibile, immutabile, in forza del suo motivo: l'autorità di Dio rivelante ( DENZ.-S., 3020, 3031, 3036, 3341, 3425, 3484, 3542 ).

Anche la S. Scrittura insinua la stessa verità.

Per quanto sia necessario esser cauti nel citarla, non mancano in essa dei contesti dai quali risulta chiaro il carattere essenzialmente intellettuale dell'atto di fede.

Per fermarci al nuovo Testamento, si rifletta su Gv 6,21; Gv 8,46; Gv 5,46; Gv 10,37s; Lc 1,20.46.

Ivi il sostantivo fede o il verbo credere non possono avere altro senso che quello di convinzione intellettuale.

Una fede fiduciale, senza un minimo di contenuto intellettivo, sarebbe un controsenso.

Come è possibile abbandonarsi completamente a Dio e al Figlio suo, Gesù, senza conoscere chi essi sono, che cosa attendono da noi e ciò che promettono?

É soprattutto però il pensiero teologico tomista che ha sottolineato fortemente il carattere conoscitivo della fede.

Con la fede partecipiamo alla conoscenza che Dio ha di se stesso, all'attività con cui Dio dice il Verbo e nel Verbo conosce tutte le cose.

Essa è cc come un sigillo impresso nella mente umana dalla Prima Verità ( In Boét. De Trinitate, q. 1, a. 1, ad 4 ); « la fede è una cognizione, perché l'intelletto è determinato dalla fede ad aderire ad un oggetto conoscibile.

Ma questa adesione a una [ verità ] determinata non è causata dalla visione di colui che crede, bensì dalla visione di colui al quale si crede ( I, q. 12, a. 13, ad 3 ).

Questa partecipazione eleva e nobilita l'intelligenza umana, e non le ripugna.

L'intelligenza, in forza della sua potenzialità obedienziale, può sottostare all'azione di Dio e intendere, su un piano di analogia, la parola con cui Dio ammaestra l'uomo.

Sebbene la conoscenza della fede sia sublime per l'oggetto che la specifica, è imperfettissima in quanto operazione intellettiva, giacché l'intelletto non comprende le verità che credendo tiene per vere ( nella conoscenza che si ha per fede l'operazione intellettuale è imperfettissima da parte dell' intelletto » - 3 Cont. Gent., c. 40 ).

Non si tratta però di conoscenza erronea o dubbiosa, bensì di conoscenza certissima che è sulla linea della visione del paradiso ( cfr. I, q. 12, a. 13, ad 1 ).

La fede tende alla vita eterna, alla visione di Dio, non solo perché la merita, ma anche perché l'inizia. In cielo conosceremo perfettamente le identiche realtà che ora conosciamo per fede.

La fede è infine una conoscenza che rende omaggio a Dio, in quanto l'uomo crede unicamente perché accetta Dio per maestro di verità e sulla sua parola aderisce a ciò che non vede, e da lui si lascia guidare verso mete che non comprende ( cfr. Eb 11,8-10 ).

E un omaggio-sacrificio, perché l'uomo rinunzia all'autonomia della sua ragione e ne supera le esigenze di evidenza razionale per entrare decisamente nel mondo misterioso di Dio invisibile.

17 - L'atto di fede è un giudizio ( q. 2, a. 1 ).

Comporta una presa di possesso della verità e la conoscenza con l'affermazione dell'identità tra il soggetto e il predicato di una proposizione: Dio è Uno e Trino; Gesù è il Figlio di Dio.

Il credente dice: « Amen, è così: conosco come vero e dichiaro tale il contenuto del Credo ».

E un giudizio immediato, diretto, che non dipende nè dalla ricerca intellettuale che ha preceduto la conoscenza certa del dovere di credere, nè dallo studio delle singole verità o degli elementi di cui esso si compone.

L'approfondimento del rivelato, a cui il credente perviene sotto l'azione della grazia, implica proprio una più luminosa affermazione di questa identità.

Nonostante alcune affinità, esso differisce radicalmente da tutte le altre forme di giudizio.

Ha affinità con la conoscenza dei primi principi e con il giudizio scientifico, perché, come questi, implica affermazione di una verità; da essi però si differenzia, perché implica una « tendenza » all'evidenza, mentre essi « si basano » sull'evidenza ( cfr. I, q. 12, a. 13, ad 3 ).

Ha una certa affinità anche con il dubbio e l'opinione, perché anche in essi c'è un giudizio non basato sull'evidenza intrinseca delle verità; da essi però differisce profondamente, perché comporta una affermazione di verità che essi escludono.

Fu un giudizio tendente all'evidenza.

Se riflettiamo sulle varie forme di conoscenza umana, vediamo come la fede si differenzi decisamente da ognuna di esse.

C'è prima di tutto la conoscenza di intuizione dei primi principi: è sufficiente apprendere i termini del giudizio con il quale sono enunciati per determinare un assenso certissimo.

Nel giudizio scientifico c'è un assenso motivato dall'evidenza, a cui si perviene attraverso la ricerca, che perciò termina quando la verità è stata conosciuta in modo evidente.

Nel dubbio e nell'opinione si ha una ricerca che, non pervenendo all'evidenza, non termina in un assenso, ma permane nell' incertezza.

Nella fede invece c'è un assenso saldissimo.

Esso però non è causato dalla ricerca, bensì dalla testimonianza di Dio e dalla volontà mossa dalla grazia.

Non è motivato dall'evidenza, e perciò non può essere separato dalla ricerca, che terminerà soltanto quando, in cielo, le verità da credute diventeranno evidenti.547

Questa ricerca differisce diametralmente da quella del dubbioso, il quale indaga non sull'evidenza della verità, ma sulla verità stessa.

S. Tommaso pone in rilievo quest'aspetto fondamentale della psicologia della fede: « Nella conoscenza della fede il desiderio dell'uomo resta inappagato.

La fede è infatti una conoscenza imperfetta: si credono verità non evidenti, perciò rimane nell'animo del credente la tendenza a vedere perfettamente la verità che crede e a conseguire ciò per cui si può essere introdotti a questa verità » ( Compendium Theologiae, II, c. 1 ).

«La conoscenza della fede non appaga il desiderio, bensì lo acuisce, giacché ognuno desidera vedere le cose che crede » ( 3 Cont. Gent., c. 40 ).

Il credente ha una profonda nostalgia del cielo, è un assetato di luce, poiché « la fede causa il desiderio della verità creduta » ( In Ioan., c. 4, lect. 5 ).

La fede perciò non paralizza l'attività della intelligenza umana ma la potenzia; dischiude alla mente orizzonti sconfinati e sprona a fissare sempre più lo sguardo nei misteri di Dio.

L'atteggiamento più coerente del fedele, però, non è nè quello del l'agnostico, nè quello di chi si ritiene già in possesso di tutta la verità; bensì quello del ricercatore perenne, non della verità che già possiede, mai della sua piena luce.

18 - La mediazione concettuale nella conoscenza di fede.

Come nelle altre conoscenze, anche nella fede affermiamo la realtà attraverso la mediazione concettuale, la quale, durante la vita, costituisce l'unico mezzo per conoscere Dio.

Si badi però che « l'atto del credente non termina all'enunciato, ma alla realtà; formiamo infatti degli enunciati soltanto per raggiungere la conoscenza delle cose, sia nel campo della scienza che in quello della fede » ( q. 1, a. 2, ad 2 ).

Nel caso attuale la res affermata è Dio, conosciuto come egli conosce se stesso.

La fede infusa fa sì che Dio sia veramente il termine della conoscenza.

L'enunziabile, cioè gli articoli del Simbolo sono però, ex parte nostra, l'oggetto nel quale la realtà divina si esprime.

I concetti della fede sono formati dall'uomo con elementi che provengono da Dio, da lui espressi in linguaggio umano, e compendiati in formule ( dogmi ) dal magistero infallibile della Chiesa, che ne cura l'interpretazione.

« È una illusione voler eludere la conoscenza concettuale di Dio per mezzo della fede che ricorre alle formule rivelate, per pretendere di attingere la realtà divina direttamente in se stessa per mezzo della conoscenza mistica. In realtà la conoscenza mistica suppone la conoscenza concettuale della fede teologica come una condizione necessaria del suo esercizio » ( LABOURDETTE M., Le péché originel et les origines de l'homme, Parigi, 1953, p. 12 ).

Attraverso i concetti, il fedele, illuminato e diretto dallo Spirito Santo, tende con tutto il suo slancio alla realtà divina, al suo possesso sperimentale e vitale; però la fede, nella sua natura più profonda, resta sempre un assenso intellettuale, non un incontro intuitivo con Dio in Cristo.

Oggetto dell'atto di fede non è direttamente la realtà del mistero, ma questa realtà in quanto presente nell' intelligenza per mezzo delle affermazioni dottrinali.

19 - La certezza è una proprietà della fede ( In Ioan., c. 4, lect. 5 ).

Tutto ciò che la fede considera è assolutamente vero, perché in tanto la fede può considerare una verità in quanto questa è rivelata da Dio, garantita dalla veracità di Dio.

Non è possibile che un autentico atto di fede teologale abbia per oggetto un enunciato falso ( q. 1, a. 3 ).

Ciò non esclude che nello spirito del credente si mescolino alle verità credute concezioni umane ed erronee.

Non è però la fede che gli fa affermare queste inesattezze, bensì qualcosa che si riduce a una semplice credulità umana.

La certezza di fede è fermissima, perché viene da Dio, « la fede ha la certezza per il lume divinamente infuso » ( In Ioan., c. 4, lect. 5 ).

Nello stesso tempo però è precaria, perché si radica imperfettamente nell' intelligenza umana.

È autonoma, perché non dipende dai ragionamenti che precedono l'atto di fede e dalla certezza della credibilità.

É superiore a tutte le certezze umane, perché ha per fondamento la veridicità divina: « innititur rationi divinae … » ( ibid. ).

Il fondamento di tale certezza non consiste nella possibilità di verifica da parte dell'uomo, bensì nella testimonianza di Dio rivelante.

Affermazione di verità inevidenti, la fede suppone essenzialmente un testimone che affermi l'esistenza e garantisca la veridicità di quanto è affermato.

La testimonianza su cui la fede si fonda non è solo quella esterna proveniente da colui che annunzia il messaggio, bensì, e prevalentemente, quella che Dio attua nello spirito del credente.

Senza di essa la testimonianza esteriore sarebbe inefficace e vana ed essa è simultanea all'affermazione della verità da parte del credente.

« La fede, in quanto lume interiore che induce all'assenso, proviene da Dio » ( In Boët. De Trinitate, q. 3, a. 1, ad 4 ).

Per credere occorre una comunicazione attuale, personale della luce di Dio.

Dio Uno-Trino è non solo oggetto della fede del credente, ma anche il suo motivo.

In questo senso si afferma che il motivo della fede è creduto insieme ai misteri, concreditur mysteriis.

Con un solo e medesimo atto il credente crede a Dio che rivela e Dio rivelato, così come con un solo atto visivo scorgiamo la luce e le realtà da essa manifestate.

IX L'assenso di fede è imperato dalla volontà.

20 - La fede è un atto conoscitivo e libero insieme: dipende nel suo esistere e nel suo sviluppo dalla volontà.

E questa la dottrina costantemente affermata dal magistero della Chiesa.

Tra gli elementi essenziali dell'atto di fede il Concilio di Orange enumera il pius credulitatis affectus e cioè la mozione della volontà, che, sotto l'impulso dello Spirito Santo, si volge dall' incredulità alla fede, dall'empietà alla pietà ( DENZ.- S., 375, 377 ).

A sua volta il Concilio Vaticano I descrive l'atto di fede: « Un ossequio pieno dell'intelligenza e della volontà a Dio che rivela » ( DENZ.-S., 3008 ); « nella fede l'uomo obbedisce liberamente a Dio, mediante il consenso e la cooperazione dati alla grazia, a cui potrebbe resistere » ( DENZ.-S., 3010 ); « Sia scomunicato chi dice che l'assenso della fede cristiana non è libero, ma prodotto necessariamente dalle prove della ragione umana » ( DENZ.-S., 3035 ).

Col suo linguaggio più vitale e meno formalizzato, la S. Scrittura afferma l'influsso della volontà nella fede, là dove sottolinea la responsabilità degli uomini verso il messaggio divino.

Così, p. es., il Signore redarguisce i farisei: « Se non volete credere a me, credete alle mie opere » ( Gv 10,38 ); « Se io dico la verità, perché non mi volete credere? » ( Gv 8,46 ).

La libera cooperazione dell'uomo è un requisito essenziale per l'infusione della fede.

Secondo S. Giovanni l'attrattiva che il Padre esercita ( Gv 6,44 ) si compie quando l'uomo con animo aperto, accetta che Dio gli parli ( Gv 6,45 ): ogni uomo può lasciarsi attrarre dal Padre ( « ognuno che ascolta …. » Gv 5,24 ).

I Giudei increduli sono pienamente responsabili della loro incredulità: hanno preferito le tenebre alla luce, la stima degli uomini a quella di Dio ( Gv 3,19; Gv 14,4 ); non hanno voluto venire a Gesù ( Gv 5,40; cfr. Gv 8,44 ); nessuna attenuante hanno per la loro incredulità ( Gv 15,22.24 ) che è peccato ( Gv 16,9 ).

La non accettazione della fede è inescusabile.

Ciò può avvenire solo se si suppone che la decisione della volontà è possibile; p. es., chi crede nel Figlio ha la vita eterna ( Gv 3,36; cfr. Gv 3,15; Gv 6,40-47 ); se tu credi, vedrai la gloria di Dio ( Gv 11,40 ); chi crede in me, non resterà nelle tenebre ( Gv 12,46 ); ecc. (cfr. Gv 6,35; Gv 11,25; Gv 14,12; Gv 3,18 ).

S. Tommaso ha espresso in formule inequivocabili la stessa dottrina.

« La fede non si stabilisce nell'intelletto che sotto l'impero della volontà: da ciò risulta che quest'atto della volontà, accidentale in rapporto all'intelletto, è tuttavia essenziale per la fede » ( De Verit., q. 15, a. 1. ).

Nella conoscenza della fede la volontà è predominante; l'intelletto infatti assente mediante la fede alle verità che sono proposte, perché vuole assentire, non perché è necessitato dall'evidenza della verità » ( 3 Cont. Gent., c. 40 ).

« La virtù della fede non ha la funzione di muovere direttamente l'intelletto ad assentire alle verità rivelate, ma di disporlo a seguire docilmente la mozione della volontà.

La fede, infatti, si radica nell'intelligenza, considerata però formalmente in quanto è soggetta all'impero della volontà » ( De Verit., q. 14, a. 4 ), « La fede non passa all'atto direttamente, ma solo sotto l'impulso della volontà attratta dalla Prima Verità che è anche Bene Supremo » ( cfr. q. 1, a. 6, ad 3; De Verit., q. 14, a. 2 ).

21 - La volontà prepara alla fede.

- La percezione dei valori etici e religiosi suppone un complesso di disposizioni spirituali ( « Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei»: ARIST., 3 Ethic., c. 7; cfr. I-II, q. 8, a. 2 ) e una rettificazione dello spirito, che sono frutto di un costante impegno di volontà.

Queste disposizioni non sono causa dell'affermazione o della percezione ( è sempre l'intelligenza che apprende ), ma la condizionano; non creano l'oggetto, ma permettono o impediscono di ben conoscerlo.

In più la fede è un dovere; e la percezione del dovere di credere, come di tutti i doveri, esige da parte dell'uomo un'attitudine volontaria di lealtà, fedeltà, purificazione.

Quest'azione rettificante della volontà non dura soltanto fino alla conversione e all'accettazione della fede, ma sempre.

E la volontà che conserva nell'anima il clima necessario alla fede: un clima di dirittura, purezza, umiltà, pietà, generosità, grazie al quale la fede si radica e si sviluppa.

In un piano di contrasto si constata che la stessa volontà fomenta il clima di menzogna, di impurità, di egoismo, di tiepidezza, di orgoglio, che affievolisce la fede fino a farla sparire del tutto ( cfr. q. 4, a. 7 ).

22 - La volontà interviene nell'essenza stessa dell'atto di fede.

L'influsso dell'affettività sulla conoscenza è molteplice.

La ricerca della verità è sempre sostenuta dalla volontà che concentra l'attenzione su un oggetto piuttosto che su un altro e spinge l'intelligenza a considerarlo.

L'amore per la verità costituisce un valido potenziamento dello slancio connaturale dell'intelligenza verso il vero.

L'amore ha il potere di creare un interesse particolare a favore dell'oggetto amato ( I-II, q. 28, a. 2 ), e perciò perfeziona la facoltà conoscitiva ( Si ricordi la dottrina dell' influsso della connaturalità affettiva nel processo conoscitivo ).

Nell'affermazione delle verità morali, la volontà deve intervenire non solo per applicare l'intelligenza, ma anche per disporre lo spirito ad affermare la verità proposta.

La pratica del bene e la conoscenza sperimentale della virtù aggiungono al giudizio speculativo, in materia morale, un potere di discernimento diretto e spontaneo: è la conoscenza per connaturalità ( II-II, q. 45, a. 3 ).

Nell'affermazione delle verità religiose di ordine naturale la volontà e le buone disposizioni morali hanno la funzione di permettere e facilitare l'esercizio normale dell'intelletto, per percepire l'intimo valore delle dimostrazioni razionali.

Nell'affermazione delle verità soprannaturali, la situazione è completamente differente.

La verità, oggetto di fede, è misteriosa, ha come caratteristica essenziale l'inevidenza; in quanto tale, l'intelligenza non può mai conoscerla, se non interviene una forza che la spinge dal di fuori e ne sostiene l'adesione per tutto il tempo che questa perdura.

La volontà, nel caso dell'atto di fede, interviene in modo diverso da tutti i casi precedenti; entra direttamente nella costituzione dell'atto, in quanto lo determina.

Infatti l' intelletto conosce e assente al rivelato; però la volontà lo determina causaliter ad assentire.

L'influsso della volontà è richiesto per il sussistere dell'atto di fede, non solo in quanto atto umano, ma anche in quanto atto intellettuale.

I teologi perciò dicono che la fede è « formaliter in intellectu », ma « causaliter in voluntate ».

La ragione ultima di quest' intervento essenziale della volontà è la non evidenza del rivelato: l' intelletto assente non perché vede, ma perché è costretto dalla volontà ad assentire.

Nel caso della fede viva, informata dalla carità, la volontà è indotta ad imperare l'assenso dall'attrazione che esercita su di essa il desiderio di raggiungere la perfezione e la felicità nel possesso di Dio.

Dio è insieme Suprema Verità e Sommo Bene.

Oggetto della fede non è da una parte una verità, dall'altra una beatitudine: ma una Persona che è insieme verità e beatitudine.

« Oggetto proprio della fede è ciò che rende l'uomo beato » ( q. 2, a. 5; q. 4, a. 2, ad 3 ).

Conclusione 23 - Le fasi fondamentali del sorgere della fede nello spirito umano possono essere così compendiate: una illuminazione soprannaturale dell'oggetto di fede proposto attraverso gli enunciati del messaggio: non c'è ancora adesione, ma semplice apprensione della verità proposta.

L'oggetto di fede è conosciuto dall' intelligenza elevata da una grazia attuale, ma esso è solo proposto all'accettazione.

Nella luce di questa presentazione della verità, una mozione di grazia scuote la volontà e le fa percepire la bontà e la convenienza di questa verità che postula l'affermazione dell'intelligenza, domanda una fede.

La grazia suscita, se la volontà non si ribella, l'attrazione soprannaturale del desiderio, il pius credulitatis affectus, la volontà di credere.

Sotto l'influsso di questo primo amore la volontà determina l'intelligenza all'assenso, all'atto di fede propriamente detto, il quale viene emesso quando Dio infonde nell'anima l'habitus della fede teologale.

L'affectus soprannaturale in questione non è necessariamente un atto della virtù della carità; sussiste infatti anche nella fede informe che, per definizione, è quella di chi vive in peccato mortale, ma è un « quidam appetitus boni repromissi » ( De Verit., q. 14, a. 2, ad 10 ).

La carità perfeziona la fede, ma non la costituisce ( cfr. il magistrale articolo di LABOURDETTE M., « La vie théologale sélon St. Thomas: l'affection dans la foi », Revue Thomiste, 1960, pp. 364-380 ).

Questa fede informe però, che sussiste senza la grazia e la carità, non è il dono di Dio nella sua pienezza, e non giova per meritare la vita eterna.

La vera fede in Dio è quella delle anime che godono della sua amicizia.

« Che cosa è dunque credere in Cristo? », si domanda S. Agostino.

« Credendo amare, credendo prediligere, credendo andare verso di Lui, ed essere incorporati tra le sue membra.

E questa dunque la fede che Dio vuole da noi …

Non una fede qualunque, ma la fede che opera nella carità » ( In Joann. Ev., tract. 29, 6 ).

24 - Quest'operare nella carità evidentemente non può escludere gli atti esterni.

Ciò vale in particolare per la fede, la quale non ha soltanto il compito di orientare l'anima a Dio, ma anche quello di testimoniare l'adesione dei credenti al soprannaturale di fronte al mondo.

Perciò dalla fede scaturisce necessariamente la professione esterna delle verità credute ( cfr. q. 3 ).

Credere e professare la fede sono atti di una stessa virtù: hanno lo stesso oggetto, lo stesso fine.

Una fede la quale non fosse affatto professata, sarebbe per ciò stesso non autentica: non abbraccerebbe l'uomo in tutta la dimensione del suo essere.

La professione della fede è ben più che l'enunciazione di formule: si attua infatti in un comportamento coerente, che non esclude la manifestazione esterna delle proprie convinzioni; ma soprattutto si concreta in un atteggiamento di coerenza, il quale si manifesta in tutti gli atti della vita ( cfr. q. 12, a. 1, ad 2; q. 14, a. 1, ad 1 ).

La fede è un dono di Dio; ma è un dono destinato a trasformare tutta la condotta del credente, a inserirsi, direttamente o indirettamente, in tutte le manifestazioni della sua esistenza.

É un dono che esige di essere comunicato e trasmesso, venendo così a costituire l'elemento primordiale dell'unità, cui è chiamato il popolo di Dio.

Su questa esigenza di diffusione e di trasmissione della fede si fonda radicalmente ogni dovere di evangelizzazione e di apostolato.

P. DALMZIO MONGILLO O. P.

Indice

531 MAZZELLA C., De virtutibus infusis, Roma, 1894, p. 423, n. 799.
532 JOHANNES A S. THOMA, Cursus theologicus: De fide, Prol. in tract.
533 Per la dottrina generale sulle virtù teologali, sui doni, le beatitudini, ecc. si confrontino le qq. 62, 66-68 .
534 Si pensi, p. es., a quella del 3 Sent., dd. 23-28, e del De Veritate, q. 14, aa. 1-12.
535 URDANOZ T., in SUMA Espan., t. VII, Tratados de la ecc., Madrid, 1959. pp. 15-16.
Per la storia della dottrina della fede nella prima Scolastica, cfr. O. ENGLHARDT, Die EntWichluflg der dognuitischen Giaubenspsycholoqle in cler Mittelalterlichen Scholastik von Abelardtszelt ( um 1140 ) bis zum Philipp Cern Kanzler ( m.1236 ).
Münster, 1933; M. D. CHENU, La psychologie de la foi dans la théologie du XIII s. ,. Etudes d' histoire litt. et doctr. du XIII s., Paris-Ottawa, 1933.
536 L'orientamento cristocentrico della rivelazione è messo in rilievo espressamente in tutti i contesti precedentemente citati, in cui è sviluppata la dottrina sul progresso della rivelazione medesima (cfr. II-II, q. 10, a. 10).
537 S. Tommaso parla espressamente della rivelazione finale, la rivelazione della gloria: si avrà in patria e sarà la rivelazione perfetta.
Prophetia est sicut Quiddam imperfectum in genere divinae revelationis, unde dicitur 1 Cor 13,8-9, quod prophetiae evacuabuntur, et quod ex parte prophetamus, i. e., imperfecte.
Perfectio divinae revelationis erit in patria, unde subditur [ v. 10 ]: "Cum venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est" ) 1 Cor 13,3 cfr.II-II, q. 171, a. 4, ad 2 ).
"Cognitio prophetica alia est a cognitione perfecta quae erit in patria. Unde et distinguitur ab ea sicut imperfectum a perfecto, et ea adveniente evacuatur, ut patet per Apost. 1 Cor 13,8ss, ( II-II, q. 173, a. 1 ).
Contemplatio quae tollit necessitatem fidei est contemplatio patriae, qua supernaturalis veritas per essentiam videtur ( II-II, q. 5, a. 1, ad 1; cfr. De Veritate, q. 14, a. 9, ad 2 ).
Egli nota anche che a ogni grado di rivelazione corrisponde nell'uomo un lume proporzionato.
Veniente perfecto, evacuatur imperfectum quod ei opponitur: sicut fides, quae est eorum quae non videntur, evacuatur visione veniente" ( I, q. 58, a. 7, ad 3 ).
Adveniente aperte visione excluditur fides, de cuius ratione est ut sit non apparentium ( II-II, q. 4, a. 4, ad 1 ).
Dilectio et cognitio naturalis est imperfecta respectu dilectionis et cognitionis beatae ( I, q. 62, a. 7, arg. 1 ).
"Pertectio adveniens tollit imperfectionem sibi oppositam. Imperfectio autem naturae non opponitur perfectioni beatitudinis, sed substernitur ei….
Et similiter imperfectio cognitionis naturalis non opponitur pertectioni cognitionis gloriae…." ( ibid., ad 1 ).
Nel 4 Cont. Gent., c. 1, enumera una triplice conoscenza umana di Dio: prima, quella della ragione; "secunda est prout divina veritas intellectum humanum excedens per modum revelationis in nos descendit, non tamen quasi demonstrata ad videndum, sed quasi sermone prolata ad credendum….
Ad tertiam cognitionem pertinet quia prima veritas cognoscetur, non sicut credita, sed sicut visa".
538 II-II , q. 2, a. 7.
Per il caso di Adamo, capostipite dell‟umanità cfr. I. q. 94, a. 3.
539 Questo concetto fu illustrato da S. Tommaso anche nel discorso pronunziato all‟Università di Parigi quando iniziò la sua attività di Maestro in teologia, commentando le parole del Salmo 104,13: Rigans montes de superioribus suis, de fructu operum tuorum satiabitur terra ). « Rex coelorum et Dominus hanc legem ab aeterno instituit. ut providentiae suae dona ad infima per media pervenirent. Unde Dionysius 5 cap.
EcclesiasticeHierarchiae dicit: Lex Deitatis sacratissima est, ut per prima media adducantur" ad sua divinissimam lucem" (Opuscula Theologica, Marietti, 1954, I, n. 1029 ).
540 II-II, q 174, a. 6, ad 3: Et singulis temporibus non defuerunt aliqui prophetiae spiritum habentes, non quidem ad novam doctrinam fidei depromendam, sed ad humanorum actuum directionem
541 Prima revelatio ante legem facta est Abrahae Isaac vero facta est inferior revelatio, quasi fundata super revelatione facta Abrahae….
Et similiter ad Iacob…. Similiter in statu legis, prima revelatio i acta Moysi mli ecellentior: super quam fundatur omnis alia Prophetarum revelatio. Ita in tempore gratiae, super revelatione facta Apostolis de flde unitatii et Trinitatis fundatur tota fides Ecclesiae ( II-II, q. 174, a. 6 ).
Quantum ad cognitionem divinitatis plenissime Moyses instructu fuit" ( De Veritate, q. 12, a. 14 ); egli, infatti, " plenius fuit instructus de simplicitate divinae essentiae" ( II-II, q. 174, a. 6 ).
542 De Verit., q. 12, a. 14, ad 1; II-II, q. 174. a. 6. "Ea quae ad mysteria Christi pertinent tanto distinctius cognoverunt quanto Christo propinquiores fuerun" ( II-II, q. 2, a. 7; cfr. ibid. q. 1, a. 7, ad 4 ).
"Visio Moysi fuit excellentior quantum ad cognitionem divinitatis: sed David plenius cognovit et exspressit mysterium incarnationis Christi» ( II-II, q. 174, a. 4, ad 1 ).
In questo contesto bisogna includere anche il passo di I, q. 57, a. 5, ad 3, il quale, così come giace, pare enunciare un principio più assoluto: "Inter ipsos etiam prophetas posteriores cognoverunt quod priores non cognoverunt, secundum illud Psalmi Sal 119,100; " Super senes intellexi ".
Et Gregorius dicit quod per successiones temporum crevit divinae cognitionis augmentum".
Infatti in II-II, q. 174, a. 6, ad 1, egli espressamente scrive: "Dictum Gregorii est intelligendum de tempore ante Christi incarnationem. quantum ad cognitionem huius mysterii". Il passo di Gregorio è citato anche in II-II, q. 1, a. 7, s. c., e il pensiero è ripreso alla fine dell'ad 1.
E in Ad Hebr. c. 1. lect. 1, si legge: o Tam magna erant quae de Christo dicebantur, quod non poterant credi, nisi cum incremento temporum prius didicisset. Unde beatus Gregorius: "Per successionem temporis crevit divinae cognitionis augmentum"
543 «Olim unigenitus Filius manifestavit nei cognitionem per Prophetas, qui eum in tantum annuntiaverunt in quantum aeterni verbi fuerunt participes….
Sed nunc ipse Unigenitus Filus, enarravit fidelibus… Et haec doctrina ideo omnibus alis doctrinis supereminet dignitate auctoritate et utilitate, quia ab Unigenito Filio, qui est prima sapientia immediate tradita est » ( In Ioan., c. 1 lect. 11 ), ».
Christus est ipsum Lumen comprehendens, immo ipsum lumen existens Et Ideo Christus perfecte testimonium perhibet et perfecte manifestat veritatem,, ( ibid., lect. 4 ).
544 Manifestum est quod. in Christo fuerunt excellentissime omnes gratiae gratis datae sicut in primo et principali doetori fidei» ( In, q. 7, a. 7 ).
545 Unde de ipso Doctore doctorum, scilicet Christo, dicitur (De Commendatione S. Scripturae, OPUSCOLA THEOLOGICA, Torino, 1954, I. 1212).
546 Per quanto concerne la situazione dell‟umanità nell'economia di grazia cfr. III. q. 1, a. 6, ad 1; q. 16. a. 5.
547 In fide est assensus et cogitatio quasi ex aequo» ( De Verit.., q. 14, a. 1 ); "proprium est credentis ut cum assensu cogitet» ( II-II, q. 2, a. 1 ).