Summa Teologica - II-II

Indice

La fortezza

( II-II, qq. 123-140 )

1 - Fra tutte le virtù questa della fortezza è forse la più esaltata e la più raccomandata, dacché mondo è mondo.

La poesia e le arti figurative pare che siano state inventate dall'uomo per celebrare le imprese dei forti, ed è comunque indiscutibile che i poemi tramandati dalla più remota antichità trattano quasi esclusivamente di atti di fortezza.

La raccomandazione poi del coraggio si è fatta così abituale, che si finisce con usarla anche là dove si esige a tutto rigore l'esercizio di altre virtù.

« Fatti coraggio! », diciamo al bambino che piange per la lontananza della mamma.

E si sente ripetere la stessa formula il soldato ferito, come il vecchio che si trascina dietro il bagaglio dei suoi acciacchi: « Fatti coraggio! ».

Don Abbondio replicherebbe: « Il coraggio, uno non se lo può dare »; ma pochi sono capaci della sua sincerità, anche se sono legione quelli che ne ripetono le gesta.

Per lo più si tenta di nascondere a se stessi e agli altri una deficienza così grave; perché il coraggio costituisce per l'uomo, più di ogni altro, quel titolo d'onore, che gli permette di vivere all'altezza della propria dignità.

- Ma che cosa è esattamente il coraggio?

É indispensabile restare insensibili per questo alla paura del terremoto?

E quali sono le forme di paura che in realtà disonorano un uomo?

2 - Il problema è forse antico quanto l'umanità.

In modo esplicito se lo pose la filosofia greca; se lo posero con nuove prospettive le prime generazioni cristiane e se lo pongono i filosofi occidentali moderni, ribelli all'ispirazione cristiana: in che consiste la vera virtù della fortezza?

Prima di riprendere in esame il problema dietro la guida di S. Tommaso d'Aquino, è indispensabile che il lettore getti uno sguardo, se già non l'ha fatto in precedenza, sulle vicende storiche cui è andata soggetta questa virtù nella nostra cultura occidentale.

- Da tutte le parti si eleva contro il cristianesimo una medesima accusa: l'accusa di svirilizzare l'uomo e di paralizzare le sue energie.

É l'accusa di Nietzsche - "Il cristianesimo è il risentimento dei deboli contro i forti" -, è l'accusa di Marx - "La religione è l'oppio del popolo" -; e al seguito di questi due capi, nella Germania di ieri e nella Russia di oggi, milioni di voci hanno ripetuto questa accusa, la quale di là ha veleggiato a gonfie vele su tutti i paesi del mondo.

Alcuni hanno denunciato nell'umiltà cristiana "una degradazione di sè e un atteggiamento senza coraggio"; altri hanno creduto di vedere nella speranza cristiana il principio di una rassegnazione, la quale, insegnando a "sopportare senza mormorare l'inferno terrestre con la prospettiva di un cosiddetto paradiso celeste", fiacca nel cristiano ogni volontà di lotta, e lo rende incapace di ogni sforzo.

« Dinanzi a simili rimproveri, il cristiano d'oggi, inquieto, si domanda talvolta se, di fatto, il cristianesimo contemporaneo non sia diventato insipido.

Tale insipidezza, presso troppi cristiani, non è forse contestabile.

Ma essa non spiega tutto.

Si risalga, infatti, il corso della storia e si vedrà, di secolo in secolo, rinnovarsi la stessa accusa.

Eccola, lanciata da un Renan o da un Gambetta, nel 1871, contro l'educazione cristiana, che non può formare che "una specie umana rammollita, debilitata, rassegnata a subire tutte le disgrazie come decreti della provvidenza"; eccola, nel secolo XVIII, sotto la penna dei filosofi, negli ultimi anni del secolo XVII, sotto quella di Bayle, nel secolo XVI sotto quella di Machiavelli » ( GAUTHIER R. A., « La Fortezza », in Iniziazione Teologica, Brescia, I95, t. III, p. 787 ).

Ma c'è forse in tutto questo qualche cosa di originale?

Non aveva formulato queste accuse il pagano Gelso già nel secolo II?

I Fortezza, virtù contesa.

3 - Alla radice di tutte le polemiche ci sono due concezioni dell'uomo che sono tra loro assolutamente irriducibili.

Da parte del paganesimo antico e moderno l'uomo viene concepito come del tutto autonomo, senza un rapporto diretto con un Dio personale: e naturalmente da quest'essere autonomo si esige una accettazione impassibile del cieco destino che l'avvolge, e la determinazione intrepida nell'affrontare i mali che è possibile respingere.

Da parte invece delle religioni monoteistiche, fortemente ancorate alla rivelazione di un Dio personale, l'uomo si presenta inserito in un piano provvidenziale, in cui il destino dei singoli e della collettività dipende radicalmente dal volere divino.

E allora da questa creatura si esige la fortezza, sia sotto forma di accettazione filiale - non necessariamente impassibile, anzi accompagnata dalla preghiera - delle disposizioni anche più atroci, nella certezza che Dio compie in esse un disegno d'inscrutabile benevolenza; sia sotto forma di fedeltà incrollabile al volere divino espresso dalla legge naturale o rivelata, per il conseguimento di una felicità ultraterrena.

Data l'incompatibilità assoluta delle due concezioni, era fatale che venisse lanciata da una parte e dall'altra l'accusa di appropriazione indebita a proposito della fortezza.

Ma andiamo con ordine, cercando di chiarire bene i fatti.

4 - I primi filosofi greci, nella logica della loro concezione pagana, diedero alla fortezza il nome di andreìa, che noi diremmo virilità.

É la virtù con la quale l'uomo dimostra di essere davvero un uomo: anèr.

E la concepirono soprattutto come fermezza d'animo di fronte a una bella morte, alla morte in battaglia.

Accanto a questa virtù c'è l'atteggiamento fermo dell'uomo di carattere nelle circostanze dolorose della vita, che possono compromettere altri beni, pur salvando l'esistenza.

Abbiamo allora la karterìa, che le versioni medioevali delle opere aristoteliche tradurranno col termine perseverantia, e che sarebbe più giusto tradurre durezza.

L'uomo però, per affermare positivamente il suo dominio sul mondo ha bisogno di espandersi in grandi propositi, perseguendoli poi con energia e decisione, per far risplendere la propria superiorità.

La virtù, preposta a tale orientamento degli uomini meglio dotati, è la megalopsichìa o magnanimità.

Lo stoicismo, per la sua visione pessimistica del mondo, scorge in queste tre virtù il rifugio del filosofo, che si chiude in se stesso e trova la sua felicità nel dominio di sè, cioè nel dominio sulle passioni.

Coraggio, durezza e magnanimità diventano così le virtù richieste nelle continue avversità della vita, e tendono a confondersi l'una con l'altra.

5 - La sacra Bibbia ebraica ci presenta tutto un altro linguaggio, fino al punto che i Settanta non sentirono mai il bisogno di usare il termine andreìa per esprimere la fortezza.

I termini "ajl e khôah" per lo più vengono tradotti rispettivamente dìnamis e iskìs, che designano vigore e forza fisica.

Così altre voci ebraiche abbastanza frequenti presentano dei significati che non coincidono con i concetti sopraricordati del coraggio, della durezza e della magnanimità.

Gli agiografi quasi dimenticano le virtù dell'uomo, ma insistono a presentarci la potenza di Dio.

« La Bibbia, che si rifiutava di fare della fortezza una virtù umana, ne fa un attributo divino.

A Jahweh il vigore ( khòah ), che consolida le montagne ( Sal 65,7 ), solleva il mare ( Gb 26,12 ); a Jahweh la possanza maestosa ( oz ) , che si manifesta nelle sue opere ( Sal 66,3 ), e al quale vanno gli omaggi delle creature ( Sal 29,1; Sal 96,7; Sal 69,17 ); a Jahweh la forza ( gebhuroh ) che fa tremare i suoi nemici ( Is 33,13; Ger 10,6; Ger 16,21; Sal 89,11 ), egli infatti è il gibbor, il forte, per eccellenza, l'eroe ( Is 42,13 ) » ( GAUTHIER R. A., op. cit., p. 796 ).

Nella sua bontà Dio comunica però all'uomo fragile la propria forza: Jahweh diviene il rifugio del suo popolo, sul quale si può sempre contare.

E così che l'uomo acquista sicurezza ( taheleth o parresìa ), ed è costantemente esortato all'attesa fiduciosa condita di speranza.

Abbiamo così la speranza-pazienza ( upomoné ), che sarà pienamente valorizzata nel nuovo Testamento.

Il martire stesso viene concepito come colui che testimonia, con l'accettazione della morte, di essere portatore di una suprema speranza ( Cfr. SPICQ O., « Ipomoné, Patientia » , in R. Se. Ph. Th., 1930, pp. 101 Ss. ).

Ma la lunga attesa è anche una caratteristica della condotta di Dio verso di noi.

Si presenta quindi il concetto di longanimità ( macrotimìa ) come sinonimo di pazienza.

E la longanimità è un attributo divino, partecipato anch'esso alle creature.

- Ricapitolando: i testi biblici nel greco dei Settanta offrono sostanzialmente quattro concetti riducibili alla fortezza e alle virtù connesse: dinamis ( potenza ), parresìa ( sicurezza ), ipomoné ( pazienza ), e macrotimìa( longanimità ).

6 - Con tutta la buona volontà di questo mondo non è possibile far quadrare la concezione biblica con la concezione greca in questo campo.

« Da una parte, un'affermazione della fortezza e della grandezza dell'uomo; dall'altra, una confessione della sua debolezza, e lode della sola fortezza e della sola grandezza di Dio.

Da un lato, un'impassibilità senza speranza, con cui si salvaguarda la propria dignità di uomo; dall'altro, una sopportazione piena di speranza, con cui si testimonia la propria fede in Dio e il proprio amore per lui.

Da una parte, un disprezzo del mondo che è un'esaltazione di sè; dall'altra, un disprezzo del mondo che è pure un disprezzo di sè e un'esaltazione di Dio soltanto.

Da un lato, una superba rivendicazione dell'autonomia dell'uomo; dall'altro, un'umile preghiera a Dio in attesa di tutto da lui.

Celso aveva ben visto, certo: l'eroe stoico, rinchiuso nella sua sofferenza, è lontano dal Cristo che piange e prega, dal martire che chiede soccorso » ( GAUTHIER R. A., op. cit., pp. 809 s. ).

Ma queste differenze non spaventarono affatto i SS. Padri, cominciando da Clemente Alessandrino, abituati dalla loro cultura classica a usare la terminologia dei filosofi; e persuasi dalla loro fede cristiana di poter trovare nella sacra Scrittura l'insegnamento di tutte le virtù.

Sotto la loro penna l'ypomonè della Bibbia viene a identificarsi con la karterìa degli stoici, la macrothymìa si confonde con la megalopsychìa.

- La confusione poi raggiunge il colmo presso i Padri latini per colpa delle traduzioni.

In greco era ancora possibile distinguere il gruppo delle virtù descritte dai filosofi, da quello delle virtù bibliche: in latino le due serie si confondono totalmente, a cominciare dai testi tradotti della Scrittura.

Fortitudo traduce sia l'andrèia dei greci che la dynamis della Bibbia.

Il termine patientia sostituisce indifferentemente sia la macrothymìa che la megalopsychìa; e magnanimitas traduce anch'essa l'uno e l'altro termine greco.

7 - S. Tommaso d'Aquino si è trovato dinanzi a questa situazione, senza avere la possibilità di chiarire le vicende storiche subite dai testi ai quali sarebbe ricorso per la sua sintesi dottrinale.

Se la storia del pensiero si riducesse alla filologia, bisognerebbe dire che la concezione tomistica poggia sul falso, ed è insostenibile.

E prima ancora bisognerebbe concedere che il paganesimo ha ragione quando accusa la religione cristiana di essersi appropriata in maniera fraudolenta, o comunque poco chiara, della virtù della fortezza.

Ma per fortuna il pensiero non si riduce al linguaggio: a giudizio dell'umanità raziocinante, la filologia è solo uno strumento della filosofia e della teologia.

Col materiale che la cultura della sua epoca poteva mettergli fra le mani, l'Aquinate riprese in esame gli elementi della morale umana e cristiana, che facevano capo alla virtù della fortezza, prestando attenzione più ai problemi che ai testi nella loro materialità.

Con questo non intendiamo negare affatto una sua dipendenza dalla tradizione e dalla cultura precedente.

Anzi proprio perché S. Tommaso credeva al valore di codesta tradizione, è sommamente utile conoscere le fonti dirette alle quali ha potuto attingere.

I Le fonti del trattato tomistico e i suoi luoghi paralleli.

8 ._ Tra le fonti pagane occupa il posto d'onore Aristotele, soprattutto per l'Etica Nicomachea.

Tutti i passi che si riferiscono alla fortezza e alle virtù annesse di perseveranza ( durezza ), di magnanimità e di magnificenza, sono citati con onore, con la premura di intenderli nel loro significato genuino, quale poteva emergere dal contesto.

- Va qui ricordato che l'Etica Nicomachea era stata per S. Tommaso oggetto di studio accuratissimo fin dalla giovinezza.

A Colonia ne aveva compilato un commento seguendo le lezioni di S. Alberto Magno; e nel suo soggiorno in Italia, dal 1260 al 1269, aveva steso un secondo commento letterale, seguendo la nuova traduzione del suo confratello fr. Guglielmo di Moerbeke.

Quest'ultimo commento costituisce perciò il luogo parallelo più importante, per chiarire il testo medesimo della Somma Teologica per quanto riguarda il trattato sulla fortezza.

- Si deve notare che in Aristotele S. Tommaso non trovava l'impostazione pessimistica dello stoicismo, in materia di passioni, ma le idee correnti della cultura greca primigenia.

9 - Come abbiamo accennato al paragrafo precedente, con lo Stoicismo la virtù della fortezza corse il pericolo di identificarsi con la perseveranza, con la magnanimità e con altre virtù affini.

A salvare dalle confusioni erano intervenuti i filosofi ellenisti, soprattutto Crisippo [ 280-204 circa ], che con il gusto delle sottili distinzioni e classificazioni avevano raggruppato tutte le virtù morali intorno alle quattro virtù della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza.

S. Tommaso conobbe queste classificazioni soprattutto attraverso le opere filosofiche di Cicerone [ 106-43 a. C. ], che le aveva divulgate nel mondo latino; ma conobbe pure il De Affectibus, che nel commento giovanile alle Sentenze aveva attribuito a un innominato filosofo greco; mentre nella Somma erroneamente l'attribuisce ad Andronico di Rodi.

Altra fonte profana di una certa importanza è Seneca, celebre divulgatore dello Stoicismo in occidente; mentre di Sallustio, Tito Livio, Macrobio e Vegezio è ricordata una sola sentenza.

Anche questi nomi però servono a darci un'idea del metodo di ricerca che guidava l'Autore della Somma.

Egli mostra di non nutrire nessun preconcetto verso la filosofia pagana.

10 - Del resto S. Ambrogio non aveva avuto scrupolo di ispirarsi a Cicerone nel comporre i suoi tre libri De Officiis Ministrorum.

É inutile dire che S. Tommaso ricorre ripetutamente al primo di codesti libri, e precisamente ai cc. 35-42, che il Santo Vescovo di Milano aveva dedicato alla fortezza.

Maggiore interesse però egli sembra mostrare per le opere di S. Agostino, tra le quali il De Patientia domina incontrastato la questione 136, dedicata a codesta virtù.

Tutti gli altri autori cristiani vengono invece ricordati quasi solo incidentalmente.

Non è però incidentale il ricorso alla sacra Scrittura, anche se molti testi affiorano nelle obbiezioni e negli argomenti in contrario.

Il libro sacro rimane anche nel De Fortitudine la fonte principale per S. Tommaso, perché egli vi cerca di continuo ispirazione e conferma; e non per il solo fatto che le citazioni della Scrittura superano numericamente quelle di tutti gli altri autori : ma perché il suo è un trattato teologico, non già filosofico sulla fortezza, pur non sdegnando l'apporto della speculazione greca.

Del resto è ormai risaputo che in questa sua impresa di teologo cristiano l'Autore della Somma aveva seguito le orme di predecessori immediati, che affiorano solo raramente e come maestri anonimi sotto la sua penna.

A proposito della definizione e partizione delle virtù cardinali, O. Lottin, che si è dedicato con indiscussa competenza a questo genere di ricerche, ricorda l'ignoto autore del Moralium Dogma Philosophorum, Abelardo, Filippo il Cancelliere, Guglielmo d'Auxerre, Guglielmo d'Auvergne, il francescano Giovanni de la Rochelle, e finalmente S. Alberto Magno ( cfr. O. LOTTIN, Psychologie et Morale aux XII et XIII siècles, t. III, pp. 186-193 ).

11 - Come riconosce Dom Lottin, S. Tommaso ha trovato certamente molto materiale raccolto nelle opere dei predecessori immediati, ma si deve personalmente a lui la chiara divisione ì delle virtù morali, in parti integranti, soggettive e potenziali, ( ibid., p. 194 ).

E alla chiarezza di tale divisione egli poté giungere solo perché aveva di ciascuna di esse un concetto distinto e adeguato.

Nè si pensi che egli abbia raggiunto questa superiorità sui suoi stessi maestri nella piena maturità degli anni: chè la sua sintesi superiore è ormai disegnata nelle grandi linee fin dal suo primo insegnamento parigino.

Basta aprire il suo commento In 3 Sent., d. 33, q. 3.

Alla fortezza egli dedica l'articolo 3: « Utrum magnificentia, fidentia, patientia, perseverantia bene assignentur a Tullio esse partes fortitudinis »; il quale articolo costituisce un abbozzo, che a rigore potrebbe essere anche una ricapitolazione del trattato che siamo per esaminare.

Nelle altre sue opere minori S. Tommaso non ebbe occasione di approfondire i problemi riguardanti la virtù della fortezza; perché i suoi contemporanei erano pressati da altre preoccupazioni dottrinali, alle quali egli caritatevolmente sentiva il dovere di rispondere.

Solo il disegno di una grande opera sistematica come la Somma Teologica lo spinse a riprendere la trattazione dei temi fondamentali estranei alla polemica quotidiana.

III La sintesi tomistica.

12 - Il Santo aveva piena coscienza dei limiti terrestri in cui si muoveva la morale pagana.

- Nel 3 Contra Gentiles, dopo aver riferito le opinioni di Alessandro d'Afrodisia, di Averroè e d'Aristotele sulla felicità, aveva scritto: « Da ciò risulta a sufficienza in quali angustie si trovavano i loro altissimi ingegni.

Da tutte codeste angustie noi siamo liberati, se ammettiamo, in base a quanto abbiamo esposto, che gli uomini dopo la vita presente possono giungere alla vera felicità, mediante l'anima immortale » ( c. 48, fine ).

Aristotele in particolare aveva ridotto le prospettive dell'uomo entro l'ambito della vita civile, e quindi delle virtù civiche ( cfr. I-II, q. 61, a. 5, ad 1 ).

Ora, in tali prospettive concrete e immediate la virtù della fortezza cristiana, orientata col martirio verso la felicità eterna, doveva apparire una vera follia.

Di qui i banali insulti del volgo e dei filosofi.

Nè c'è da meravigliarsi che i cristiani reagissero vivacemente, lanciando il loro disprezzo per quei valori troppo umani, che il mondo pagano aveva elevato artificiosamente a valori assoluti.

Del resto già S. Paolo aveva dato l'esempio, rigettando sdegnosamente gli stessi titoli di nobiltà che un tempo l'avevano reso accetto presso il suo popolo: « Quelli che erano per me guadagni, io per Cristo li stimai perdite e disgrazie.

Certamente, credo che tutte le cose siano una perdita di fronte alla preminenza della cognizione di Cristo Gesù mio Signore; per amore del quale mi son privato di tutto, e tutto tengo in conto di spazzatura, allo scopo di guadagnarmi Cristo » ( Fil 3,7-8 ).

E d'altra parte non era difficile riscontrare elementi di vera meschinità nelle decantate virtù dei pagani.

Nella fortezza e nella magnanimità, p. es., descritte da Aristotele e dagli Stoici, non mancavano spunti autentici di vanagloria e di superbia, che si prestavano a mettere in caricatura le virtù dei grandi uomini del paganesimo.

Non parliamo poi della vita privata e pubblica di codesta gente, in cui era anche più facile raccogliere elementi negativi.

Anche all'epoca di S. Agostino il clima dei rapporti tra pagani e cristiani era tuttora arroventato.

E la comparsa dell'errore pelagiano non contribuì certamente in lui a un giudizio sereno sul valore reale delle virtù antiche e sull'ideale greco, e a porre le basi di un vero umanesimo cristiano.

L'intransigenza agostiniana prevalse durante tutto l'alto medioevo, scartando l'ideale greco della fortezza e della magnanimità.

Persino il secolo XII si chiude con il De contemptu mundi del futuro Innocenzo III.

Pietro Lombardo aveva divulgato intanto la nota definizione agostiniana della fortezza: « fortitudo [ consistit ] in perferendis molestiis » ( 3 Sent., d. 33, c. i ).

A lui avevano fatto eco i maestri stessi della prima metà del secolo XIII, riducendo la fortezza alla virtù cristiana della pazienza.

13 - S. Tommaso interviene al momento giusto per integrare la concezione cristiana con gli elementi scartati nella polemica antipagana e antipelagiana.

Egli avverte il pericolo di una morale cristiana scostante e fanatica, prevenuta contro autentici valori umani, anche se minimi a confronto dell'Assoluto.

Incombeva proprio ai suoi tempi in maniera virulenta la teoria della doppia verità.

C'era davvero il pericolo di avallare codesto errore, condannando in nome della religione quello che la filosofia esaltava in nome della ragione.

Del resto egli vide con tutta chiarezza la sostanziale conciliabilità dell'ideale greco di grandezza con l'ideale cristiano di santità e di umiltà.

Forse fu una fortuna che egli non conoscesse le incompatibilità formali delle due impostazioni, strettamente legate alla terminologia.

Tale ignoranza gli permise di riesaminare a fondo il problema, senza eccessive preoccupazioni di forzati concordismi.

Dalla lettura del suo trattato solo un lettore superficiale può ricavare l'impressione di un raffazzonamento di testi eterogenei, interpretati in maniera approssimativa.

Basta un minimo di riflessione seria, al di là della scorza filologica, per vedere che il testo si regge su una psicologia precisa dell'atto umano, e su una rigorosa specificazione scientifica degli abiti morali.

Sotto la sua penna agile e sicura la fortezza appare nei suoi due atti complementari dell'aggredi e del sustinere ( cfr. q. 123, aa. 3, 6 ); e pur essendo pienamente giustificato il concetto cristiano che la sopportazione del martire costituisce il supremo eroismo, perché sopportare costa più che aggredire, non viene negato il valore di virtù al coraggio del guerriero che in una giusta guerra espone combattendo la propria vita ( cfr. q. 124 ).

L'Aquinate arriva anzi a giustificare la confusione dei predecessori tra la fortezza e le sue parti potenziali ( pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza ), ricordando che codeste virtù sotto un altro aspetto sono parti integranti della fortezza e quindi non si distinguono da essa come altrettante virtù.

14 - All'atteggiamento di « aggressività » S. Tommaso ricollega le virtù della magnanimità e della magnificenza; mentre riduce all'atteggiamento di « sopportazione », proprio della fortezza, la pazienza e la perseveranza.

Viene così accettato in blocco lo slancio fattivo della morale greca; e la morale cristiana si presenta come esaltazione ordinata di tutti i valori umani.

Non ha più senso l'accusa lanciata così spesso contro di essa di essere una morale rinunciataria.

Del resto anche quando accetta la rinunzia, il cristiano lo fa sempre per la conquista di un bene superiore.

Solo i vizi vengono condannati, anche quelli che hanno l'apparenza di virtù: la viltà e la spavalderia, l'audacia, la presunzione, l'ambizione, la vanagloria, la pusillanimità e la taccagneria, mollezza e cocciutaggine.

Le stesse virtù che sembrano contrastanti, come la magnanimità e l'umiltà, sono chiamate ad armonizzarsi e ad integrarsi.

Rimandiamo il lettore alla q. 129, a. 3, ad 4.

Da codesta pericope e da molte altre della medesima questione si vede con chiarezza che le stesse virtù esaltate dal mondo pagano sono accolte nella sintesi cristiana dell'Aquinate nella loro formalità, ma sono ridimensionate secondo i più alti ideali religiosi del cristianesimo.

La descrizione aristotelica del magnanimo è ricalcata punto per punto con un accento nuovo in cui affiora con delicatezza l'ispirazione evangelica.

- Fin dagli anni giovanili S. Tommaso aveva notato che l'oggetto di questa virtù non si limita alle passioni della speranza relative al bene arduo di ordine naturale, ma si apre verso la virtù teologale della speranza ( cfr. 3 Sent., d. 26, q. 2, a. 2, ad 4 ).

Qui nella Somma egli precisa che l'aspirazione umana agli onori oltre ad essere regolata dalla ragione, deve essere guidata e sorretta dalla fede nell'aiuto di Dio ( cfr. q. 129, a. 7 ).

É però evidente la sua preoccupazione di non calcare troppo la mano, per il pericolo di cancellare le caratteristiche di questa virtù così cara al Filosofo.

15 - Qui è proprio il caso di sottolineare che S. Tommaso con il suo umanesimo ha prevenuto i tempi, poiché dopo secoli di lotte e di polemiche nella Chiesa è prevalso l'atteggiamento comprensivo e conciliante verso i valori umani anche meno rilevanti, ma pur sempre validi.

Il Concilio Vaticano II [ 1962- 1965 ] ha consacrato ormai definitivamente questo atteggiamento, specialmente nello Schema 13.

Per quanto riguarda la cultura non cristiana abbiamo tra l'altro le seguenti dichiarazioni: « La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano.

L'esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana attraverso cui si svela appieno la natura stessa dell'uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa.

Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrano con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare il Vangelo, quando conveniva, sia alle capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti.

E tale adattamento della Parola Rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione » (Cono. Vat. II, Costit. La Chiesa nel mondo moderno, I, c. 4, n. 44 ).

IV La fortezza a servizio della giustizia.

16 - Nel trattare della fortezza S. Tommaso prospetta tra gli altri un problema che a noi moderni può sembrare a dir poco curioso: « Se il forte agisca per la bontà del proprio abito virtuoso » ( q. 123 a. 7 ).

Per comprendere il quesito bisogna risalire alle fonti, come fa il De Vitoria, il quale nel suo commento, invece di spiegare il testo di S. Tommaso, si riferisce direttamente ad Aristotele: « Aristotele intende dire che l'uomo forte non deve avere altro fine che quello proprio della sua virtù, il quale non è la gloria, nè la fama, bensì la difesa della patria, e quindi la difesa del bene onesto e della virtù; poiché altri fini ( come le ricchezze o gli onori ) non appartengono alla fortezza.

Anzi, se uno agisse per tali scopi la sua non sarebbe vera fortezza.

Perciò S. Tommaso vuol concludere che il forte deve avere lo scopo di compiere un atto onesto » ( Comentarios a la Secunda Secundae, t. 5, Salamanca, 1936, p. 302 ).

Nella soluzione del quesito S. Tommaso mette bene in chiaro che il coraggio il quale si manifesta in atti del genere non è puramente occasionale, ma è inteso dalla persona dotata di fortezza, come è inteso il bene divino o la felicità per la cui difesa esso si compie.

Perciò l'atto di coraggio ha una sua intrinseca bellezza.

E ciò è tanto vero, che gli uomini sono portati istintivamente ad ammirarlo anche quando viene adoperato a sproposito, cioè indipendentemente dal bene assoluto da conseguire.548

17 - In questi casi però non è lecito parlare di fortezza in senso proprio, e di autentico coraggio.

Il soldato che combatte animosamente in una guerra, da lui stesso riconosciuta ingiusta, non può essere ammirato senza riserve.

Perché il coraggio possa essere considerato come esercizio di una virtù morale, è indispensabile che venga adoperato a favore di una causa buona e giusta.

S. Ambrogio l'aveva già detto espressamente con frase lapidaria: « Fortitudo sine iustitia iniquitatis est materia »; « la fortezza senza giustizia non è che materia d'iniquità » ( 1 De Officiis, c. 35 ).

Ecco perché l'Aquinate sente il bisogno di concludere la questione relativa alla fortezza richiamandosi alla gerarchia delle virtù ( cfr. q. 123, a. 12 ).

Nonostante le lodi enfatiche tributate al coraggio, bisogna riconoscere che esso è inferiore non solo alle virtù teologali, ma anche alla prudenza e alla giustizia.

La fortezza tra le virtù cardinali è superiore solo alla temperanza ( ibid. ).

S. Tommaso insiste soprattutto nel rilevare la subordinazione del coraggio alla giustizia, e al bene comune ( cfr. II-II, q. 47, a. 10, ad 3; q. 117, a. 6 ).

18 - Molti moralisti si dispensano da queste riflessioni, forse perché le considerano troppo ovvie.

Ma sta di fatto che la formazione dei giovani è gravemente compromessa dal sovvertimento clamoroso dei valori, propagandato con tutti i mezzi.

E così la società contemporanea assiste impotente a continue manifestazioni d'inutile e delittuoso coraggio.

Perciò riteniamo che non sia inutile ricordare quali siano, secondo la morale cristiana, i motivi che giustificano, o che impongono il rischio supremo cui si riferisce la virtù della fortezza.

Basterà forse ripetere la formula generica: si deve sfidare la morte quando si tratta di salvare il bene supremo dell'uomo, che è la virtù?

Pensiamo che qui sia meglio specificare.

Il primo motivo che può esigere il sacrificio della vita è la necessità di testimoniare la fede, la speranza e l'amore verso Dio.

Al secondo posto ricorderemo con S. Tommaso « l'esercizio di tutte le virtù, in quanto queste si riferiscono a Dio » ( q. 124, a. 5 ).

Ma nella catechesi è necessario specificare ancora e precisare, ricordando, p. es., che si esige sempre l'accettazione della morte quando altrimenti viene ad essere inevitabile la diretta uccisione dell'innocente.

- Di qui emerge la condanna di qualsiasi tipo di aborto direttamente procurato, e l'eroismo di quelle madri cristiane che per la vita del figlio hanno rinunziato alla propria esistenza.

Non è certo il caso di prendere in considerazione il giudizio della massa paganeggiante su fatti di questo genere.

Si sa che la morale « utilitaristica » dei nostri contemporanei è incapace di comprendere tali eroismi.

Si mostra invece più comprensiva per quei corridori che, a servizio magari di grosse imprese economiche, affrontano il rischio mortale su macchine ultraveloci, per il preteso progresso dell'industria.

Invece ben chiaro, per esseri dotati di ragione, che questi eroismi degli sports più emozionanti sono caricature del vero coraggio.

- Più severo ancora è il giudizio della morale nuova e cristiana sulle spericolate imprese degli automobilisti imprudenti, che ogni giorno mettono se stessi e il prossimo in pericolo di vita, per il solo gusto di soddisfare la propria sciocca vanità.

- Il suicidio intenzionale poi, nonostante le apparenze, è sempre da considerarsi un atto di vigliaccheria, quando non è un atto di alienazione ( cfr. II-II, q. 64, a. 5, ad 5 ).

Contro tutte queste deformazioni del coraggio, che lo degradano al livello della temerità e dell'audacia, dobbiamo riaffermare che la virtù è essenzialmente legata alla giustizia e alla prudenza ( cfr. II-II, q. 65, a. 4 ).

Queste ultime mai impediranno il vero progresso della scienza, che talora impone rischi considerevoli.

La virtù però non consiglierà mai di sacrificare per esso la vita di un uomo.

La scienza e il progresso esigono sacrifici che solo indirettamente o incidentalmente possono condurre alla morte.

Ed è bene ricordare che la vita umana in tutta la sua estensione esige quasi di continuo, per il suo normale svolgimento, pericoli di questo genere.

E per affrontarli l'uomo deve esercitare non pochi atti di fortezza.

« I forti sanno ben affrontare i pericoli di morte di qualsiasi altro genere [ che non siano quelli di guerra ] : specialmente se pensiamo che si può affrontare per la virtù qualsiasi genere di morte; come quando uno non rifiuta l'assistenza a un infermo per paura del contagio mortale; oppure quando non si astiene dal mettersi in viaggio per delle opere pie, per paura del naufragio o dei briganti » ( q. 123, a. 5 ).

Come risulta da quest'ultima citazione, S. Tommaso non riduce la fortezza alle circostanze solennissime della vita, come avevano fatto Aristotele e non pochi altri pensatori antichi.

Dopo tutto egli ha chiarito che questa virtù deve permeare di sè la vita intera come virtù generale ( cfr. I-II, q. 61, a. 4, ad 1; II-II, q. 123, a. 2, ad 2 ).

Volentieri egli ripete quelle parole di Cicerone: Non è probabile che si lasci vincere dalla cupidigia chi non si piega al timore; o che si lasci vincere dal piacere chi si è mostrato invincibile alla sofferenza » ( 1 De Officiis, c. 20 ).

19 - A questo punto, se qualcuno volesse scrivere una monografia sostanzialmente completa sulla virtù della fortezza secondo il pensiero dell'Aquinate, dovrebbe inserire quanto di questa virtù viene detto implicitamente nella Terza Parte dell'Opera.

Dovrebbe cioè considerare l'apporto della cristologia a questa virtù cardinale, e con ciò, indirettamente, a tutta la vita morale.

Vedremmo allora che S. Tommaso ha preso molto sul serio le parole misteriose dell'Epistola degli Ebrei ( Eb 2,14s ) « Ma poiché i figli avevano in comune sangue e carne, egli pure [ G. Cristo ] ne partecipò, affinché per mezzo della sua morte riducesse all'impotenza colui che ha la forza della morte, cioè il demonio, e liberasse tutti coloro che il timore della morte teneva per la vita intera soggetti alla schiavitù ».

S. Tommaso riteneva ( cfr. III, q. 46, a. 4 ) che il medesimo pensiero fosse stato espresso anche più chiaramente da S. Agostino in questi termini: « La sapienza di Dio si è umanata per darci l'esempio che ci spinga a vivere rettamente.

Ora, rientra nella rettitudine non temere le cose che non sono da temersi.

Ma ci sono degli uomini che, sebbene non temano la morte in se stessa, hanno orrore di certi generi di morte.

Perciò affinché nessun genere di morte spaventasse l'uomo che vive rettamente, fu opportuno mostrano con la croce di Cristo: poiché tra tutti i generi di morte nessuno era più esecrabile e terribile » ( S. AUG., Lib. Octoginta trium Quaest., q. 25 ).

E nel suo commento al passo paolino da noi citato l'Aquinate precisa: « In tanto l'uomo è schiavo del peccato, in quanto viene indotto a peccare.

Ora, tra tutte le cose due sono quelle che con maggiore efficacia inducono a peccare: l'amore dei beni presenti che infiamma malamente, e il timore delle pene che malamente umilia.

Ma queste due cose [ praticamente ] coincidono, poiché quanto uno ama un dato bene, tanto teme il male contrario.

E queste sono le cose per cui l'uomo è legato e trattenuto dal peccato; tuttavia egli è mosso più dal timore che dall'amore.

Infatti vediamo che anche le bestie feroci sono trattenute dai più grandi piaceri col timore delle pene; e così il timore è quello che più lega l'uomo.

Ma tra tutti il più grave è il timore della morte, essendo l'estrema delle cose temibili.

Cosicché se l'uomo supera questo timore, supera tutti gli altri; e superato questo, si supera ogni amore disordinato del mondo.

Perciò Cristo con la sua morte spezzò questo legame, poiché tolse il timore della morte, e per conseguenza l'amore della vita presente.

Infatti quando uno considera che il Figlio di Dio, padrone della morte, volle morire, non teme più di morire » ( Ad Hebr., c. 2, lect. 4 ).

V La pazienza moneta spicciola della fortezza.

20 - Pur avendo cercato di ampliarne l'oggetto, la fortezza rimane, anche per S. Tommaso, una virtù più aristocratica della pazienza.

Nel trattato sulle virtù in genere egli fa notare, che « chi è forte è anche paziente, ma non viceversa: infatti la pazienza è solo una parte della fortezza » ( I-II, q. 66, a. 4, ad 2 ).

Per noi cristiani specialmente, la pazienza deve essere curata come una pianta domestica, date le raccomandazioni insistenti con le quali ci viene inculcata dal Vangelo e da tutti gli altri scritti del nuovo Testamento.

I Padri dei primi secoli fecero a gara nell'illustrare al popolo questo tema.

S. Clemente Alessandrino compose nel II secolo l'Esortazione alla pazienza; S. Cipriano scrisse il De Bono Patientiae; S. Agostino approfondì l'argomento nel suo De Patientia, e prima di loro Tertulliano aveva compilato un opuscolo omonimo.

Il medesimo tema affiora nelle opere di S. Dionigi d'Alessandria, di S. Giovanni Crisostomo, di Cassiano.

Celebre è l'esclamazione entusiasta di S. Zeno di Verona: « O pazienza, regina d'ogni cosa, come vorrei celebrarti maggiormente con i miei costumi, se Io potessi.

Tu sei la madre e la corona quotidiana dei martiri; tu sei il baluardo della fede, il frutto della speranza, l'anima della carità.

Tu sola unisci il popolo e tutte le virtù divine come si raccolgono in un sol nodo gli sparsi capelli per formare un unico ornamento.

Felice, eternamente felice è colui che sempre ti possiede » ( 1 Tract., tr. 6, VIII ).

Se dopo tutti questi elogi apriamo certi manuali moderni di teologia morale, restiamo piuttosto meravigliati, nel constatare che in essi la pazienza è ridotta a ben poca cosa.

Alcuni moralisti stentano a consacrarle un paragrafo a parte, e c'è persino chi la ignora del tutto.

Tra costoro troviamo persino autori recentissimi, che passano per restauratori della morale patristica ed evangelica ( leggi B. Haring e G. Mausbach ).

- Per trovare monografie moderne sulla pazienza dobbiamo ricorrere non ai teologi e ai moralisti, ma agli esegeti e agli studiosi della spiritualità cristiana vissuta dai santi ( vedi, p. es., ALCINA ROSELLÒ I_J., « Dinamica de la paciencia », in Revista de Espiritualidad, 1965, pp. 19-50 ).

Nè si creda di poter far risalire questa trascuratezza ai teologi medioevali, vittime della scolastica.

Ancora ai tempi di S. Tommaso si trovano ottimi trattati sulla pazienza.

Senza approfondire le indagini troviamo un capitolo interessantissimo in proposito nell'opuscolo bonaventuriano De sex aliis Seraphim: « c. 4, La terza ala dei prelati, che è la pazienza » ( S. BONAVENTURA, Opuscoli Mistici, Milano, 1961, pp. 213-226 ).

E non c'è dubbio che S. Tommaso dovette ascoltare, forse più volte, la pubblica lettura di una famosa epistola del B. Umberto de Romanis, Maestro Generale del suo Ordine dal 1254 al 1263, in cui tra l'altro è inserito un vero trattatello sulla pazienza ( cfr. De Vita Regulari Opera, Roma, 1888, I, pp. 23 ss. ).

21 - Nella Somma Teologica il tema è svolto in una questione di cinque articoli ( q. 136 ) in cui predomina incontrastata l'autorità di S. Agostino.

Ma non si tratta di una semplice trascrizione o ricapitolazione della monografia agostiniana.

Secondo il metodo abituale, S. Tommaso mette a fuoco i problemi e precisa meglio i concetti, cercando di distinguere questa virtù da quelle affini della fortezza, della longanimità e della perseveranza: preoccupazione questa quasi del tutto estranea agli autori precedenti ( cfr. q. 136, aa. 4, 5 ).

- In seguito apparirà ben chiaro che egli intende distinguerla anche dalla mansuetudine ( cfr. q. 147 ).

Non tutto però si riduce alla questione suddetta.

L'Aquinate accenna spesso nel corso dell'Opera alla virtù della pazienza.

In particolare troviamo un articolo intero nel trattato della giustizia che riguarda l'esercizio di questa virtù: « Utrum aliquis debeat contumelias sibi illatas sustinere » ( II-II, q. 72, a. 3 ).

Il gruppo stesso delle questioni che forma il trattato della fortezza osiamo dire che si chiude con un articolo, il quale riguarda quasi esclusivamente la pazienza; poiché tra i precetti che nella legge di Dio sono dati a proposito delle virtù annesse alla suddetta virtù cardinale i più importanti sono quelli relativi alla pazienza ( cfr. q. 140, a. 2 ).

- E prima ancora l'Autore aveva considerato quest'ultima come frutto dello Spirito Santo ( cfr. q. 139, a. 2, ad 3 ).

Pensiamo che le disavventure capitate in seguito a questa virtù nei manuali di teologia siano dovute principalmente al proposito di semplificazione da essi perseguito.

Ma essa è stata danneggiata anche dalla tendenza minimista di questi manuali, fatti più per guidare i confessori nella ricerca dei peccati, che per illuminarli sulla natura delle virtù.

Della impostazione suddetta si sono avvantaggiate le virtù morali che avevano dei vizi contrari rilevanti: l'umiltà, p. es., che si contrappone alla superbia e alla vanagloria; la misericordia e la stessa munificenza che si contrappongono all'avarizia; la castità che si contrappone alla lussuria.

Invece i vizi contrari alla pazienza sono rimasti sottintesi nella stessa Somma Teologica dell'Aquinate; e i suoi commentatori, con tutta la buona volontà, non hanno potuto indicare che l'impazienza, come vizio per difetto, e l'insensibilità, come vizio per eccesso.

- Vizio quest'ultimo che si riscontra solo forse sulle sudate carte; mentre a quello opposto rimane un piccolissimo margine di respiro.

Infatti bisogna stare attenti a non confondere l'impazienza con l'ira vera e propria; perché quest'ultima, che è vizio capitale, si contrappone alla mansuetudine ( cfr. II-II, q. 158 ).

22 - Può darsi che la precisazione di S. Tommaso nel distinguere le formalità proprie di ogni virtù abbia posto i moralisti successivi nella tentazione di trascurare quelle meno rilevanti, o più complesse. innegabile che egli, alla ricerca della formalità propria della pazienza, ha estratto dalla congerie in cui essa si trovava nei testi biblici e patristici molti elementi che la rendevano forse più preziosa.

La costanza del martire, p. es., è finita nella virtù specifica della fortezza; la continuità dello sforzo è finita nella perseveranza; la repressione dell' ira è stata sottratta formalmente alla pazienza e attribuita alla mansuetudine.

Ma anche ridotta alla sua formalità più rigorosa, la pazienza ha un valore immenso nella vita spirituale.

Lo nota da par suo S. Giovanni della Croce, scrivendo tra l'altro nella Fiamma viva d'amore: « Mediante i travagli in cui Dio pone lo spirito e il senso, l'anima va acquistando sode virtù, robustezza e perfezione con amaro pascolo, perché la virtù si perfeziona nella debolezza [ 2 Cor 12,9 ], e si raffina nell'esercizio del patire » ( Strofa II, n. 22 ).

23 - Il Dottore Mistico non si ferma come noi a lamentare la scarsa attenzione prestata dai teologi e dai moralisti a questa virtù; ma denunzia nella carenza di essa il motivo per cui tante anime non raggiungono la perfezione alla quale sono chiamate.

« Ma qui è bene notare la causa per cui tanto pochi sono quelli che giungono a sì alto stato di perfetta unione con Dio.

Ciò avviene, non perché Dio voglia che pochi siano gli spiriti elevati, ché anzi vorrebbe che tutti fossero perfetti; ma perché trova pochi vasi capaci di un'opera sì sublime.

La maggior parte li sperimenta nel poco, ma li trova fiacchi, tanto che subito rifuggono dalla fatica, e non vogliono assoggettarsi con virile pazienza al più lieve incomodo e mortificazione.

Quindi ne consegue che Iddio, non trovandoli forti e fedeli in quel poco di cui faceva loro grazia cominciando a dirozzarli, vede bene che molto meno lo saranno nel molto, e perciò cessa di purificarli e d' innalzarli dalla polvere mediante la fatica della mortificazione, per la quale farebbe bisogno di una costanza e fortezza maggiore di quella da essi mostrata.

Quelli, infatti, a cui Dio fa la grazia segnalata di sperimentarli con prove più interiori, vantaggiandoli così in doni e meriti, è necessario che gli abbiano prestato molti servigi, abbiano mostrato molta pazienza e costanza » ( op. cit., nn. 23, 24 ).

Concluderemo quindi con l'augurio che questo nostro lamento possa giovare ad indurre qualche anima di buona volontà a corrispondere più generosamente alle attrattive di Dio; anche se non riusciremo a persuadere nessun moralista a trattare con più impegno i temi della pazienza.

Indice

548 S. Tommaso nei suo quesito intende mettere in evidenza sia "ormai" propria della fortezza rispetto ai fini superiori ( beatitudine, Dio ) che possono imperarne gli atti.
Vuole ricordare cioè che la specificazione viene dall'oggetto, e non di fine.
Egli però aveva già chiarito nella morale generale che il fine è l'aspetto più formale dell'atto, sebbene sia meno specificante dell'oggetto ( cfr. I-II, q. 13, a. 1; q. 18, a. 7 c. e ad 3).
La carità e la fede sono dunque più generali e più f ormali, rispetto all'atto della fortezza.
La loro formalità non è evidentemente la forma intrisa dell'atto coraggioso, ma può esserne la forma estrinseca, cioè efficiente ( imperante ), esemplare e finale ( cir. II-II, q. 23. a. 8; q. 124, a. 2, ad 1, 2; 4 Sent., d. 27, c 1. 2, a. 4, qc. 3 ).