Summa Teologica - II-II

Indice

La temperanza

( II-II, qq. 141-170 )

1 - « La questione della temperanza, scrive il P. Laféteur, « è uno dei punti dai quali si riconosce la "sanità" di una teologia.

Infatti l'uomo non è soltanto spirito né soltanto carne, ma spirito e carne.

Una teologia "disincarnata", che volesse ignorare la carne e il "sesso", sarebbe una falsa teologia.

Una teologia di tendenza dualista e manichea, che tendesse ad attribuire tutto il male alla carne e alle cose del sesso - come quella di alcuni Cappadoci, per i quali la divisione dei sessi sarebbe frutto del peccato originale e non sarebbe esistita in uno stato di giustizia originale - sarebbe molto pericolosa, e in parte certamente falsa.

Una teologia che non desse la sua importanza allo sviluppo naturale del sesso e della sessualità buona nell'adolescente e nell'adulto, sarebbe nell'errore.

D'altra parte, una teologia che fissasse materialmente, in certi comportamenti esteriori e al di fuori di ogni riferimento allo spirito, la misura della castità, sarebbe ugualmente falsa.

Oppure una teologia che mettesse troppo fortemente l'accento sulla salute del corpo, sulla glorificazione del cosmo, a detrimento dello spirito e dell'unione vivente con Dio, sarebbe pericolosa.

Una sana teologia prende atto di tutte le esigenze dello spirito e di tutte le esigenze della carne che Dio ha creato » ( Iniziazione Teologica, Brescia, 1955, p. 883 ).

Anche da questo punto di vista possiamo dire con sicurezza che la teologia dell'Aquinate è sanissima, pur avendo conservato come sfondo l'immagine di una società non troppo evoluta, soggetta a forme rigide di separazione e di contrapposizione dei due sessi.

Ma codesto sfondo rimane molto lontano e quasi impercettibile, perché nella Somma Teologica i problemi sono affrontati nei loro elementi essenziali, senza scendere alla casistica.

Del resto più che alle variazioni circoscritte della vita contemporanea S. Tommaso ricorre abitualmente ai suoi autori, che presentavano costumi e leggi ben diverse da quelle del medioevo.

I Le fonti e i luoghi paralleli.

2 - É facile riscontrare che il testo più citato nelle questioni relative alla temperanza è l'Etica Niconachea di Aristotele.

Dal libro settimo specialmente è stata ricavata l'orditura stessa del trattato per quanto riguarda il nucleo principale: sobrietà, castità e continenza.

Ma anche nella considerazione delle varie virtù annesse, il ricorso all'Etica è frequentissimo.

Ed è evidente un perfetto parallelismo tra il testo della Somma Teol. e quello del commento di S. Tommaso stesso a quest'opera aristotelica.

Certe frasi sono quasi letteralmente identiche.

Le citazioni di altre opere di Aristotele sono invece rarissime in questo gruppo di questioni.

Accanto ad Aristotele va subito ricordato S. Agostino, di cui vengono citate quasi tutte le opere, con una erudizione sorprendente.

- E qui non si può dire che l'Aquinate si sia giovato dei testi raccolti da Pietro Lombardo; perché a proposito delle virtù cardinali quest'ultimo si è contentato di una « distinzione » brevissima ( 3 Sent., d. 33 ).

Ma proprio per colmare questa lacuna, fin da giovanissimo, l'Autore della Somma si era impegnato a fondo nella ricerca, dandoci tra l'altro un primo abbozzo del trattato sulla temperanza nel suo commento alle Sentenze ( cfr. 3 Sent., d. 33, qq. 1-3 ).

Altro abbozzo molto generico, lo troviamo nella questione disputata De viirtutibus cardinalibus.

All'infuori di S. Agostino i Padri sono estranei al complesso del trattato; ma alcuni di essi fanno sentire in maniera preponderante la loro autorità in questioni singole.

S. Girolamo, p. es., e S. Ambrogio dominano, affiancandosi a S. Agostino, la q. 152, dedicata alla verginità.

S. Gregorio s'impone nelle questioni dedicate ai vizi capitali: gola, lussuria, ira ( q. 148, q. 153, q. 158 ).

S. Benedetto invece lega il suo nome all'umiltà ( q. 161 ), per la preferenza che S. Tommaso ha accordato ai dodici gradi da lui descritti nella Regola.

Tra gli autori che sono particolarmente interessati a questioni singole, esposte nel trattato sulla temperanza, va ricordato L. Anneo Seneca, i cui opuscoli De Ira e De Clementia erano stati trascurati nella Prima Secundae, proprio nel trattato sulle passioni.

Le altre citazioni possiamo considerarle del tutto sporadiche, senza nessun influsso sulle dottrine qui esposte dall'Aquinate.

Un discorso a parte merita invece la Sacra Scrittura.

Essa è citata a getto continuo, fornendo la nomenclatura e la tematica di quasi tutti gli articoli.

La preferenza viene accordata ai libri sapienzali e ai brani parenetici delle epistole di S. Paolo.

Ed è proprio nei commenti tomistici a codeste opere che bisogna cercare gli unici luoghi paralleli di molti articoli.

3 - Nonostante quest'abbondanza di riferimenti al pensiero tradizionale, il trattato De Temperantia organicamente elaborato nella Somma Teologica è da considerarsi un'opera originale.

Infatti gli spunti aristotelici ed agostiniani non erano sufficienti per una così complessa costruzione sistematica.

E neppure sono riscontrabili formalmente nelle fonti le ragioni profonde che guidano l'Autore nella soluzione dei problemi basilari, anche quando egli benevolmente le attribuisce ai Padri o ai filosofi dell'antichità.

Si consideri, p. es., la ragione principale che viene invocata nella Somma per condannare la fornicazione semplice.

Si ricorre con perfetto rigore scientifico a un accostamento tra il sesto e il quinto comandamento, che con la sua logica impeccabile toglie ogni scampo ai sofismi dell'incontinenza ( q. 154, a. 2 ).

- A questo proposito va notato che S. Tommaso aveva affrontato il problema sul piano apologetico nel 3 Cont. Gent., c. 122.

Ed è questo l'unico luogo parallelo che troviamo nell'opera suddetta, il quale possa integrare, o per lo meno illustrare il suo pensiero su di un problema riguardante il trattato della temperanza.

4 - Per completare questo nostro paragrafo sulle fonti dovremmo considerare anche quelle nascoste, cioè quelle non dichiarate dall'Autore.

Il quale, come è risaputo, non cita mai i suoi contemporanei, pur giovandosi delle loro pubblicazioni, perché non costituivano « autorità ».

Sull'argomento non abbiamo avuto né modo né tempo di approfondire l'indagine; ci sembra però di poter individuare con sicurezza la principale di codeste opere innominate, per quanto riguarda la temperanza, nel De Bono, dovuto alla penna del suo maestro.

S. Alberto Magno [ 1200-1280 ] deve aver composto le questioni De Bono, come del resto tutta la Summa de Creaturis in cui sono inserite, prima del 1250, prima cioè che il suo grande discepolo lasciasse Colonia per iniziare l'insegnamento a Parigi ( cfr. GLoiuEux P., Rpertoire des MaUres en Thol. de Pari8 au XIII sièele, Parigi, 1933, I, p. 63 ).

Ebbene, nel De bono o De virtutibus, come comunemente l'opera fu denominata, si riscontra un ampio trattato sulla temperanza, che con ogni probabilità formò il brogliaccio che servì all'Aquinate per elaborare la propria sintesi su questo tema.

Il confronto dell'indice analitico dei due trattati è molto convincente in tal senso.549

Ma se confrontiamo la dottrina delle due Somme ci accorgiamo che le divergenze tra maestro e discepolo sono davvero profonde, non tanto per le conclusioni, quanto per i motivi che le giustificano.

Si direbbe che S. Alberto avesse ricevuto da Dio il compito di raccogliere il materiale, che S. Tommaso doveva organizzare e strutturare in forme sostanzialmente definitive.

5 - Altra fonte innominata, e certo più dubbia della precedente, potrebbe essere la Summa Tlieologica di Alessandro d'Hales [ 1245 ].

Quest'ultimo infatti nella seconda parte del secondo libro aveva dedicato un trattato amplissimo ai sette vizi capitali, una folta selva in cui S. Tommaso avrebbe potuto tagliare legna per il suo edificio.

- Va tenuto conto che nel gruppo di questioni, qui presentato come trattato De Temperantia, sono inseriti quattro vizi capitali: superbia, ira, gola e lussuria con tutto il codazzo delle loro « figlie ».

È quindi probabile che l'Aquinate abbia tenuto d'occhio l'opera dell'Halense ( cfr. Summa Theol. TI-TP, in q. 3, tr. 4, seet. 2, q. 1, tratt. 1, 3, 6, 7 ; q. 2 ), in cui trovava raccolto molti di quei materiali che egli stesso doveva utilizzare.

Nel caso egli dovrebbe aver elaborato due volte il materiale suddetto; perché anche nella questione disputata De Malo, composta intorno al 1270, troviamo otto amplissime questioni dedicate ai vizi capitali.

Se però dopo aver consultato codeste opere di contemporanei, riprendiamo lo studio della Somma dell'Aquinate abbiamo la netta impressione di una semplificazione sostanziale virtù e peccati corrispondenti sono affiancati in un'esposizione logica e comparata, che facilita la comprensione e illumina da lati opposti i medesimi problemi.

L'Autore tiene fede al programma fissato all'inizio della Becunda Secundae: « Se noi volessimo trattare separatamente delle virtù, dei vizi e dei precetti, dovremmo ripeter più volte le stesse cose.

Chi infatti vuol trattare in modo adeguato del sesto comandamento "Non commettere adulterio", è costretto a indagare sull'adulterio che è un peccato la cui conoscenza dipende dalla cognizione della virtù opposta.

Perciò avremo un metodo più conciso e pratico, se studieremo insieme nel medesimo trattato la virtù e i vizi che le si oppongono ( II-II, Prol. ).

Riserve ingiustificate.

6 - All'inizio della q. 154, nella ormai celebre traduzione francese della Revue des Jeunes, s'incontra una breve nota in calce che così spiega l'assenza dalla traduzione francese del testo latino fedelmente riprodotto: « On comprendra qu'en raison des délicates matières traitées en cette question 154, nous n'en donnions pas la traduction francaise » ( FOLGHERA I. D., La Tempérance, in Somme Fran. Parigi, 1928, t. I, p. 253 ).

E il P. Walter Farrell nella sua ottima Guida alla Somma Teologica, giunto al tema cruciale della castità, ci presenta questo avvertimento: « Per il resto di questo capitolo faremo ciò che non abbiamo mai fatto prima e che non faremo più in seguito.

Ci staccheremo cioè dall'ordine, dai temi anzi, di S. Tommaso.

Abbiamo dei motivi per credere che sia più saggio fare così.

S. Tommaso era l'Angelo della scuola, miracolosamente liberato dalle tentazioni contro la purezza fin dai giorni della sua gioventù; e ciò nonostante poteva avere, come difatti ebbe, una profonda conoscenza della impurità.

Nel corso della sua Somma egli scrisse un trattato scientificamente esauriente sulla purezza e sull'impurità, in vista specialmente dei medici delle anime.

Egli tenne conto, ben inteso, dell'ammonimento di S. Paolo contro il troppo parlare di queste cose; lo capì nel suo giusto senso, e cioè: che non si deve parlare di queste cose tra i cristiani più di quello che sia necessario, e parlarne nel modo che corrisponde a quella necessità.

- Tuttavia, nonostante che Tommaso abbia detto quanto bisognava e come bisognava, noi a questo punto lo lasciamo.

Con tutto questo non abbiamo nessun timore di peccare di esagerato pudore ….

Io non dirò quindi ciò che la Chiesa insegna riguardo al sesso, ma presenterò soltanto delle verità generali ( vol. II, 298 s. ).

Fuori del loro contesto storico queste affermazioni ci sembrano davvero molto curiose.

Si direbbe che S. Tommaso nel suo trattato sulla temperanza abbia passato i limiti della decenza, per lo meno come certi spettacoli cinematografici i quali vengono qualificati dalla censura: vietati ai minori di 18 anni.

7 - Abbiamo accennato al contesto culturale e storico, perché entrambi i confratelli citati appartennero a un'epoca ( fine del secolo XIX e primi decenni del XX ), che fu come ossessionata dai problemi del sesso.

In essa i letterati specializzati in pornografia non si contano; le arti figurative e il teatro hanno sfidato in codesta epoca tutti i limiti del pudore.

La psicologia sperimentale poi prese un indirizzo che pareva ridurre tutte le espressioni della vita umana alla libidine.

Ecco perché molti cattolici reagirono con un atteggiamento di assoluto riserbo: proprio per non cedere a una moda, a una mania collettiva di pansessualismo che minacciava di travolgere ogni cosa con lo spurgo di tutte le cloache dell'impudicizia.

Ma di certi problemi si deve pur parlare anche nella formazione dei giovani: la strategia dello struzzo non può giovare a scansare il pericolo.

L'iniziazione sessuale è un problema, di cui si è sentito e si sente tuttora l'urgenza.

Perciò la lettura della Somma Teologica, anche là dove i parla della lussuria e della castità, può dare qualche utile suggerimento.

Non nel senso che un educatore debba leggere ai bambini ignari, e spiegare punto per punto gli articoli di S. Tommaso; ma nel senso che codesti articoli dicono praticamente come si devono affrontare i problemi anche in questo campo delicato, e come si devono risolvere; specialmente quando si tratta di convincere gli adolescenti circa l'intrinseca malizia dei peccati di lussuria, e circa il valore morale della virtù contraria.

Certi manualetti di pedagogia, e soprattutto molte delle così dette opere di formazione dedicate ai giovani, sono in proposito di una superficialità davvero inconcludente e quindi deleteria per l'educazione.

La Somma, al pari del resto con le sue introduzioni, non è indirizzata ai bambini e agli adolescenti: rimane un libro di teologia per uomini e giovani maturi, che tendono a perfezionarsi nella dottrina cristiana; e nella sua Seconda Parte essa è un ampio trattato di morale.

Ebbene proprio i moralisti hanno tanto da imparare, considerando con attenzione il trattato sulla temperanza.

Possiamo incominciare l'elenco, magari, dalla semplicità, che consiste nel chiamare le cose col loro nome, senza tante circonlocuzioni, le quali invece di salvare il pudore sono più adatte a eccitare la fantasia e la concupiscenza.

8 - Dopo S. Tommaso molti moralisti hanno insistito non poco nel descrivere e nel definire la casistica degli « atti imperfetti di lussuria », preoccupati di misurare la gravità del peccato.

Ma forse poteva bastare la scarna diagnosi che ne fa l'Autore nella Somma; perché in tale materia le intenzioni e le disposizioni interiori sono molto più indicative dei fatti esterni nella loro brutalità.

Chi fosse in vena di cercare qualche cosa di piccante dovrebbe rivolgersi quindi non al trattato dell'Aquinate, ma a quello di manualisti molto più recenti; perché è proprio nella variazione indefinita di tale casistica « de luxuria imperfecta » che si trovano codesti pascoli pericolosi.

Vorremmo soprattutto richiamare l'attenzione sul fatto che s. Tommaso ha dato a ragion veduta un tono positivo più che negativo a tutta questa materia della castità e della continenza.

« Alcune opere di morale trattano della purezza e dell'educazione dell'amore sotto il titolo generale De Sexto ( che significa: Sugli atti che il sesto comandamento proibisce ).

Questa maniera di considerare la castità è infelice.

Essere casto non consiste essenzialmente nell'evitare certi peccati, ma nel possedere, nella forza dello Spirito Santo, la tranquilla padronanza delle passioni.

Fare l'educazione della purezza secondo questi principi legalisti è ordinariamente disastroso e dipende da una morale della Legge più che da una morale della grazia.

Si diffidi di queste opere, le quali, inoltre, riducono la morale a semplice casuistica » ( P. LAFTEUR, op. cit., p. 888 ).

9 - E per tornare al problema pedagogico dell'iniziazione sessuale sarà opportuno insistere, stando allo spirito del trattato tomistico, sulla condanna del falso pudore di tinta puritana da parte degli educatori nati, che sono i genitori.

Si parli con chiarezza e sobrietà, presentando i rapporti sessuali come un impegno di grave responsabilità, sottolineando il fatto che si tratta di decidere con essi dell'esistenza di esseri sacri, chiamati ad affrontare un destino eterno.

Ma perché l'iniziazione abbia un tono veramente cristiano, bisogna ricordare, come fa S. Tommaso nella q. 153, a. 2, ad 1 ( dove tratta lo scabroso argomento, se possono esserci degli atti venerei non peccaminosi ), che è buona cosa il matrimonio, però lo stato di continenza è migliore e quello di perfetta verginità, secondo il giudizio di Dio e dei Santi, è da preferirsi a ogni altro.

Seguendo fedelmente il pensiero dei SS. Padri, i teologi medioevali sviluppano in proposito la teoria dei frutti secondo la graduatoria evangelica del trenta, del sessanta e del cento per uno, cui S. Tommaso fa appena un accenno ( cfr. q. 152, a. 5, ad 2 ; I-II, q. 70, a 3 ); mentre il suo maestro le dedica sei articoli ( vedi op. cit., tr. 3, q. 3, aa. 8, 10, 11, 14-16 ).

III Le virtù tipiche del cristiano nel trattato della temperanza.

10 - Nonostante la sua prolissità il trattato di S. Alberto Magno sulla temperanza dovette apparire all'Aquinate come del tutto inadeguato e incompleto: sia perché non prendeva in esame i vizi opposti, sia perché mancano in esso virtù morali fondamentalissime come l'umiltà e la mansuetudine.

Negli scritti dei filosofi greci e latini queste due virtù non erano state nominate e classificate; ma in compenso ne aveva tanto parlato il Vangelo, da esigere assolutamente un'illustrazione da parte dei teologi cristiani.

- S. Tommaso già nelle Sentenze aveva incluso la mansuetudine tra le parti della temperanza, affiancandola alla clemenza ( cfr. 3 Sent. d. 33, q. 3, a. 2, q. 1, ad 2 ).

Notiamo però inizialmente una certa esitazione.

Infatti in 2 Rent., d. 44, q. 2, a. 1, ad 3, si era pronunziato a favore di una sua riduzione alla fortezza: « La mansuetudine si riduce alla fortezza [ come virtù annessa ]; poiché l'oggetto della fortezza riguarda i travagli supremi connessi con la morte, come sono i pericoli della guerra; mentre la mansuetudine ha per oggetto gli altri travagli che eccitano l'ira, tra i quali la mansuetudine serve a tenere il giusto mezzo ».

Nella questione disputata De Virtutibus in communi l'umiltà viene abbinata con la magnanimità, considerandone la materia comune « che riguarda in qualche modo la speranza ovvero la fiducia in qualche cosa di grande ( q. Unica, a. 12, ad 26 ).

In tale prospettiva sembrava che anche codesta virtù dovesse finire tra le parti potenziali della fortezza.

Ma nella Somma Teologica il problema viene affrontato in maniera esplicita, e l'umiltà e la mansuetudine vengono attribuite con la massima sicurezza alla sfera della temperanza.

Per codesta attribuzione non era necessario forzare i criteri generali che regolano la classificazione e il raggruppamento delle virtù morali intorno alle quattro cardinali: bastava applicarli con perfetto rigore.

L'Autore aveva definito codesti criteri fin dal commento giovanile alle Sentenze.

Per attribuire una virtù secondaria a una delle quattro principali si deve badare soprattutto non alla materia, e neppure al soggetto psicologico in cui risiedono, ma al modo caratteristico della virtù ( cfr. 3 Sent., q. 3, a. 2, qc. 1 ).

Ora, il modo caratteristico dell'umiltà sta nel tenere a freno una brama ( la brama della propria eccellenza ) in spirito di sottomissione a Dio; dunque l'umiltà appartiene come virtù annessa alla temperanza ( vedi q. 161, a. 4 ).

« Ma con questo non siamo autorizzati a dire che "deriva" da altre virtù morali, e tanto meno dalla temperanza ».

Questa è l'affermazione sconcertante di qualche manualista, p. es., del P. A. ROYO MARIN ( Teologia della perfezione cristiana, Roma, 1959, n. 350 ).

S. Tommaso non ha inteso dir questo, affermando che l'umiltà è virtù annessa alla temperanza e sottospecie della modestia: un'affinità di ordine concettuale non è una dipendenza nell'ordine reale e causale.

Tra le virtù moderatrici la temperanza è il primo analogato, per dirla in termini scolastici; perché le passioni della sensualità che essa modera sono le più difficili a regolare.

Ma nessuno diventa più pronto a moderare l'orgoglio col moderare, p. es., la passione erotica.

Sono due campi diversi, due cose del tutto impertinenti.

E caso mai è vero proprio il rovescio ( vedi Riv. di Asc. e Mistica, 1963, p. 16 ).

11 - Nonostante tutte le giustificazioni date da S. Tommaso e dai suoi commentatori, certi moralisti moderni trovano scomoda la posizione dell'umiltà nel trattato De Temperantia. Mons. G. Mausbach, p. es., l'inserisce nella virtù di religione ( cfr. Teologia Morale, Alba, 1957, pp. 792 ss. ); mentre il P. Haring ne fa addirittura una quinta virtù cardinale ( cfr. La legge di Cristo, Brescia, 1957, I, pp. 555 ss. ).

Però mentre la dislocazione proposta da S. Tommaso è da lui scientificamente giustificata, quella voluta da questi manualisti moderni ci sembra piuttosto frutto d'improvvisazione.

Il P. Haring infatti pensa di cavarsela con le seguenti dichiarazioni: « L'umiltà abitualmente non viene annoverata fra le virtù cardinali.

Ma nel Cristianesimo essa è stata sempre considerata come virtù fondamentale, come il fondamento di tutto l'edificio delle virtù.

Essa non si limita a regolare, come le quattro virtù cardinali, un singolo settore della vita morale, ma regola il rapporto umano più caratteristico, la presa di posizione più essenziale per l'uomo: la giusta subordinazione a Dio Creatore e Santificatore.

L'umiltà del figlio di Dio è la risposta all'amore del Creatore e del Redentore che lo chiama per nome » ( op. cit., p. 556 ).

Tutte cose belle, come si vede; ma che in nessun modo possono spiegare l'inserimento dell'umiltà tra le virtù cardinali; specialmente se, in contrasto con la tradizione agostiniano-tomistica, si vogliono « considerare come comportamenti fondamentali che devono compenetrare ogni azione morale » ( op. cit., p. 500, n. 19 ).

- Ci sembra che l'Haring sia piuttosto preoccupato di mettere in evidenza l'universalità d'influsso e la posizione gerarchica dell'umiltà rispetto alle altre virtù.

A questo riguarda la nobiltà della virtù in rapporto all'oggetto, e non la sua formalità propria, o modo della virtù, considerata in se stessa.

S. Tommaso stesso ha esaminato in maniera esauriente tale aspetto ( vedi q. 161, a. 5 ), mettendo in evidenza la preminenza dell'umiltà sulle stesse virtù cardinali.

Ma con tutto ciò egli non ha esitato a porla tra le virtù annesse della temperanza.

Meno che mai convince il Mausbach il quale inserisce l'umiltà nella virtù di religione, per la connessione incontestabile esistente tra le due virtù.

Si sa che è S. Tommaso stesso il primo ad ammettere tali rapporti ( vedi infra q. 161, a. 1, ad 2, 3, 5 ).

Ma se bastasse la connessione tra due virtù per subordinarle sistematicamente tra loro, noi non avremmo più nessun criterio per organizzare scientificamente un trattato; perché tutte le virtù, tutte senza eccezioni, sono in concreto connesse tra loro.

- In fondo è il solito errore di prospettiva si confonde la nobiltà della virtù con la sua formalità.

Ma bisogna insistere con S. Tommaso a rettificare codeste prospettive, se vogliamo salvare l'ordine logico della morale cristiana, dandole un ordine sistematico veramente ragionevole.

IV Integrazioni moderne.

12 - Nel leggere questa nostra difesa dell'impostazione tomistica del trattato in tutte le sue parti, qualcuno potrebbe pensare che noi escludiamo la possibilità di nuovi apporti, nonostante le scoperte fatte in questi due ultimi due secoli in campi direttamente interessati ai temi specifici della temperanza, cioè nella fisiologia, nella dietetica e nella genetica.

Rettifichiamo subito dichiarando che a nostro modo di vedere il trattato tomistico oggi ha bisogno di essere quasi raddoppiato, per includere la tematica imposta dagli sviluppi scientifici in codesti campi.

Restiamo però persuasi che la struttura della temperanza e delle sue parti debba rimanere in piedi, perché modellata sugli elementi essenziali della psicologia e della natura stessa dell'uomo.

Accenneremo solo brevemente ai possibili sviluppi, cominciando dalla sobrietà in rapporto alla dietetica moderna.

È facile prevedere che la massa umana continuerà a comportarsi con i soliti criteri irragionevoli nell'uso dei cibi, provocando in vaste regioni del mondo il fenomeno della supernutrizione e in altre zone anche più vaste l'opposto fenomeno della denutrizione e della fame.

Però da chi aspira alla virtù, da chi cerca coscienziosamente il giusto mezzo anche nel mangiare e nel bere, sembra che ormai si debba esigere non solo il rispetto delle regole empiriche dettate dalla sensazione di appetito e di sazietà, oppure delle leggi imposte dalla Chiesa in materia di digiuno e d'astinenza; ma anche quello di certi principi basilari acquisiti dalla medicina.

Del resto la Chiesa stessa non sdegna di tener conto di codesti principi nella nuova disciplina del proprio regime penitenziale.

Più che a regolare l'uso dei cibi e delle bevande la scienza medica può e deve aiutare l'uomo a combattere gli abusi più gravi, che riguardano gli alcoolici, le droghe o stupefacenti, e i tranquillanti di ogni tipo.

Come schema di lavoro può sempre valere quanto dicono con S. Tommaso tutti i moralisti a proposito dell'ubriachezza; ma solo la scienza progredita dei nostri giorni è in grado di darci i dati sicuri per un giudizio qualificato sull'abuso dell'alcool e delle droghe.

Non è detto, con ciò, che il confessore debba sostituirsi al medico: però bisogna tener conto delle degenerazioni riscontrate nell'organismo, per capire la grave responsabilità di chi si abbandona volontariamente al vizio.

Si sa, p. es., che l'uso stesso del tabacco, quando passa certi limiti, produce nei fumatori inveterati dei disturbi neuropsichici: rallentamento intellettivo, instabilità ansiosa, insonnia, irritabilità.

Ciò è riscontrato, a dispetto dei fumatori incalliti, i quali lodano l'azione euforica e stimolante delle sigarette o della pipa sulla propria attività intellettuale.

Perciò è evidente che la persona virtuosa non può regolarsi in questa materia secondo i propri gusti, ma secondo i suggerimenti della medicina.

13 - Un capitolo a parte meriterebbero gli stupefacenti veri e propri, per le infinite e delicate applicazioni possibili presso i nostri contemporanei.

Si sa che le principali sostanze di questo genere sono l'oppio con i suoi derivati, la canapa indiana e la cocaina.

É fin troppo facile scorgere l'immoralità del loro uso a scopo edonistico, data la virulenza del loro influsso sul sistema nervoso.

Le difficoltà invece sorgono a proposito delle applicazioni cliniche e giudiziarie.

Per lenire il dolore lancinante si può certo ricorrere a rimedi di questo genere ma bisogna ricorrervi con estrema parsimonia.

« Quanto agli stupefacenti, ricordi il medico che il 25% dei tossicomani asseriscono che l'abitudine è cominciata con la cura di qualche malattia dolorosa » ( SCREMIN L., Appunti di morale professionale per i medici, Roma, 1947, p. 83 ).

Molto discusso è l'uso giudiziario del così detto « siero della verità ", cioè del pentotal.

Nella narcoanalisi questa sostanza viene adoperata per provocare manifestazioni verbali spontanee ( unite spesso a gesti ), che rivelano complessi e sentimenti abitualmente trattenuti nel subcosciente.

É usata principalmente in due modi: in sede clinica e in sede di medicina legale.

In sede clinica la tecnica narco-analitica trova la sua principale applicazione nel campo delle psico-nevrosi: isterismo, neurastenia, psicostenia, ecc. ; ma anche come diagnostico per investigare psicosi recenti, perché talvolta mette a nudo le crepe dell'edificio psichico.

In sede di medicina legale è usata dai giudici, per mezzo dei periti, per conoscere la verità.

I due casi sono molto diversi.

Perché mentre in campo clinico il narco-analista ha a che fare con malati, i quali vogliono direttamente o indirettamente ( mediante i parenti ) collaborare con lui nella speranza di ricuperare la salute, in campo giudiziario invece le ricerche hanno per oggetto individui simulatori o dissimulatori il cui interesse sta nel tener celata la loro psiche.

Di conseguenza i due casi vanno tenuti distinti per quanto riguarda la moralità.

- In sede clinica tali procedimenti sono spesso infruttuosi.

Tuttavia non vanno condannati in modo assoluto: purché sia rispettata la libertà e la personalità del soggetto gli esperimenti siano fatti senza offesa delle leggi morali; e i risultati non siano considerati come assoluti, ma ricevano una conferma dall'esame clinico consueto.

- Lo stesso dicasi della narco-analisi applicata nei manicomi giudiziari per il proscioglimento eventuale dei detenuti.

14 - In sede giudiziaria ( medicina legale ) le cose stanno altrimenti.

Qui bisogna considerare la moralità degli esperimenti suddetti sotto due punti di vista: quello dell'imputato, e quello del bene comune della società.

Dal punto di vista dell'imputato non sono sufficientemente giustificati, perché possono provocare una falsa confessione.

Infatti un simulatore franco, dotato di buona resistenza nervosa, riuscirà ad opporre una tenace difesa; e uscirà dalla narcosi col certificato d'innocenza.

Al contrario un innocente, debilitato da una lunga detenzione e fiaccato dal martellamento degl'interrogatori, può subire un collasso spirituale, e giungere a confessare delitti mai compiuti.

Ma anche in un soggetto normale non è escluso il pericolo della falsa confessione.

Infatti tutti i mostri che dormono nel subcosciente di un uomo onesto potrebbero esteriorizzarsi sotto la narcosi come se fossero fatti compiuti.

Neppure un santo potrebbe essere al sicuro.

Ma dato e non concesso che la narco-analisi sia scientificamente giustificata per la sua efficacia infallibile, non sarebbe lecita: perché lesiva dei diritti sacri e inviolabili della persona umana.

L'imputato infatti non può mai essere fisicamente costretto a farsi accusatore di se stesso; né si può mai esigere da un uomo l'eventuale confessione di segreti a lui confidati.

Inoltre il reo ha il diritto alla propria reputazione anche se priva di un fondamento reale, fino a che il suo reato è occulto.

- Finalmente, pur ammettendo che l'imputato innocente accetti o voglia la narcosi nel legittimo desiderio di provare la propria innocenza non sembra lecito.

Prima di tutto perché, come abbiamo detto, il risultato non è sicuro; in secondo luogo perché ciò costituirebbe un pregiudizio per altri imputati, che in analoghe circostanze rifiutassero la narco-analisi.

É contraddittorio infatti offrire agli imputati un diritto ( il rifiuto ) di cui non possono giovarsi senza pregiudicare la propria posizione.

Dal punto di vista della società si obbietta che il bene individuale va subordinato al bene comune; e quindi che a tal fine si può usare il pentotal per eliminare la delinquenza.

- Si risponde che la libertà di coscienza è di diritto naturale quanto il bene comune; anzi è parte integrante di esso.

Si deve inoltre notare che il bene pubblico è meno compromesso dal proscioglimento di un reo, che dalla condanna di un innocente.

15 - Se poi passiamo al campo della genetica la morale cattolica si trova a dover affrontare situazioni e tecniche nuove anche più complesse.

Gli sviluppi della scienza in questo campo sono così grandi da creare varie discipline specializzate nello studio dei problemi sessuali: anche ad esser profani in materia, nessun uomo del secolo XX potrà accettare ormai l'idea che lo sperma è « il superfluo dell'alimento », così come riteneva S. Tommaso al seguito di Aristotele e di tutti i fisiologi antichi.

Dovremo però continuare a parlare di superfluo in questo campo, perché si riscontra con assoluta evidenza che nell'ordine di natura la generazione dei viventi è perseguita mediante lo sperpero e la sovrabbondanza.

È certo il modo più efficace per assicurare, persino nelle condizioni più sfavorevoli, la sopravvivenza della specie.

L'uomo stesso è soggetto a quest'ordinamento provvidenziale: di qui quei fenomeni naturali di esuberanza che gli antichi consideravano piuttosto imbarazzanti, quali sono le continue mestruazioni e la polluzione notturna.

La moralità di certi atti prende indubbiamente la sua struttura irreformabile dalla finalità cui sono indirizzati da madre natura; ma la conoscenza del metabolismo fisiologico da cui dipendono permette un giudizio più esatto sulla responsabilità di chi li compie.

D'altra parte tale conoscenza permette d'intervenire clinicamente all'occorrenza, per potenziare o per deprimere le facoltà generative e l'impulso erotico.

Di qui una folla di quesiti per il moralista.

È lecito l'uso degli afrodisiaci?

È lecita la cura ormonale?

Quali criteri devono presiedere a codeste applicazioni?

Può considerarsi lecito l'artificiale potenziamento sessuale di chi non ha né la facoltà né il compito di procreare?

Dal lato opposto possiamo chiederci se sia lecito ricorrere all'uso di anafrodisiaci per smorzare, o addirittura per stroncare la « petulanza della carne », anche fuori dei casi patologici.

Per dare una risposta assennata ed onesta è necessario considerare tutti gli aspetti del problema, con perfetta conoscenza degli effetti immediati e postumi di simili applicazioni.

16 - La continenza matrimoniale meriterebbe un trattato a parte, che del resto è già previsto nella Somma Teologica nel Supplementum troveremo un lungo trattato sul matrimonio ( cfr. Suppl. qq. 41-68 ).

Ma fin da questo momento dovremmo forse interessarcene, se volessimo fare una vera e propria monografia sulla temperanza.

E per essere all'altezza dei tempi bisognerebbe parlare della vita sessuale in tutta la sua ampiezza, affrontando un'infinità di pregiudizi non solo antichi, ma anche moderni in questo campo.

Qui non è il caso di trattare la spinosa questione della limitazione delle nascite; perché essa interessa più la virtù della giustizia che quella della temperanza.

Tutt'al più si potrebbe trattare il problema della liceità della continenza periodica, seguendo le indicazioni relative ai periodi agenetici.

È infatti risaputo che per tutti i moralisti antichi l'atto coniugale voluto soltanto o principalmente per un fine voluttuario è per lo meno peccato veniale.

Si tratta di sapere se questo criterio sia valido, e se debba essere applicato rigorosamente nel valutare il comportamento dei coniugi, i quali di proposito compiono l'atto coniugale nei giorni agenetici.

Per parte nostra siamo convinti che un comportamento di questo genere non sia limpido ed encomiabile come quello di quegli sposi i quali praticano invece con rigore la continenza, quando sono pressati da gravi motivi a evitare la prole.

Ma oggi non mancano moralisti, i quali partono dall'esaltazione indiscriminata dell'atto coniugale, respingendo come residuo di encratismo o di manicheismo tutte le riserve dei Padri sulle manifestazioni erotiche.

In proposito c'è solo da chiedersi se questi autori non siano piuttosto essi le vittime di un nuovo tipo di contaminazione col pensiero non cristiano.

A quei molti i quali attendono un nuovo indirizzo della Chiesa in questa materia ricorderemo concludendo un pensiero peregrino per essi, ma arcinoto a tutta la tradizione teologica.

Pensiero che deriva da un testo celebre di S. Agostino, passato integralmente nel Decreto di Graziano e nelle Sentenze di Pietro Lombardo; il quale ultimo lo ridusse nella formula più drastica e concisa: « Qui vero venena sterilitatis procurant non coniuges, sed fornicarii sunt »; « I coniugi che ricorrono ai veleni della sterilità, non sono sposi ma fornicatori » ( 4 Sent., d. 31, C. 3 ).

Le parole sono così chiare da non aver bisogno di commento.

Ma se qualcuno ne sentisse il bisogno, non avrebbe da fare altro che rivolgersi agl'innumerevoli commentari teologici imbastiti sulle Sentenze nei secoli XIII, XIV e XV.

E in tal modo potrà constatare che su codesto principio i teologi sono stati forse più unanimi che sui dogmi fondamentali della fede.

Indice

549 Riferiamo qui per comodità dei lettori quello dell'opera albertina curata da O. Fecas nella splendida edizione di Münster, pubblicata nel 1951 ( pp. XXIXs. ).
TRACTATUS TERTIUS: DE TEMPERANTIA.
QUAESTIO I. - De Temperania in se
Art. 1. Quid sit temperantia secundum diffinitionee eius.
Art. 2. De materia temperantiae.
Art. 3. Utrum tomperantia sit una virtus vel duae.
Art. 4. De actu temperantiae.
Art. 5. De vitiis circumstantjbus temperantiam.
Art. 6. Qualiter distinguatur temperantia ab bis quae non sunt temperantiae et videntur et qualiter etiam a fortitudine.
DE PARTIBUS TEMPERAN‟rIAE.
QUAESTIO II. - De Coni'jnenlja
Art. 1. Quid sit continentia.
Art. 2. De abstiuentia, utrum sit virtus specialis.
Art. 3. Quid sit abstinentia.
Art. 4. A quo sit abstinendum.
Art. 5. De abstinentia ieiuniorum.
Art. 6. De observantja ieiuniorum, utrum abstinendum usque ad defectum naturae.
Art. 7. De institutione ieiunii.
Art. 8. De temporibus ieiuniorum.
Art. 9. De divisione ieiuniorum.
Art. 10. De sobrietate, quid sit et an sit virtus una vel plures.
QUAESTIO III. - De Cagtiksge
Art. 1. De castitate. quid sit.
Art. 2. Utrum castltas sjt vhtus specjalis.
Art. 3. De actu continentiae sive castitatis. De statius castitaiis.
Art. 4. De virginitate, quid sit.
Art. 5. An virginitas sit virtus.
Art. 6. De corruptione virginum.
Art. 7. De velatione virginum et consecratione.
Art. 8. De praenijnentja virginitatis ad allos status castitatis.
Art. 9. De virginitate gloriosae virginis Mariae.
Art. 10. De viduitate.
Art. 11. Quid faciat viduam, cui fructus sexagesimus promittitur.
Art. 12. De velatione viduarum.
Art. 13. De continentia, quae est in matrimonio.
Art. 14. De fructlbus castitatia.
Art. 15. Quare potius huic virtuti quam alii attribuatur fructus.
Art. 16. Qualiter tres fruetns tribus statibus continentiae attribuantur.
Ari. 17. De pudicitia.
QUAESTIO IV. - De Clementia et Modestia
Art. 1. De clementia.
Art. 2. De modestia, quid sit.
Art. 3. Utrum modestia sit una virtus vel plures.
Art. 4. De iis quae veniunt cum modestia secundum Macrobium.