La teologia mistica di San Bernardo

Appendice II - Abelardo

Quando si cercano le origini della concezione cortese dell'amore, non bisogna dimenticare di riservare un posto importante a Pietro Abelardo.

L'epoca nella quale è vissuto ( 1079-1142 ) ci riporta a un tempo sufficientemente lontano perché ci si possa considerare come alle origini della poesia cortese.

Sappiamo, da Abelardo stesso, che egli aveva composto e cantato un gran numero di canzoni in onore di Eloisa.

È difficile capire dal suo testo se quelle opere erano in latino o in lingua volgare, ma è evidente che quelle canzoni d'amore dovevano essere molto simili a quelle dei trovatori o dei trovieri che ci sono state tramandate ( Abelardo, Historia calamitatum, P.L., 178, 128 B-C ).

Abelardo aggiunge che la maggior parte delle sue poesie erano ancora famose e cantate all'epoca in cui scriveva quelle righe.

La testimonianza di Abelardo è pienamente confermata da quella di Eloisa: Epìstola II, P.L., 178, 185 D-186 A; cfr. 188 A.

È un vero peccato che tutti quei canti siano andati perduti.

Se li possedessimo ancora, avremmo a disposizione la più antica testimonianza della poesia cortese della Francia settentrionale.

Fintanto che non saranno ritrovati, se mai lo saranno, non sapremo se Abelardo vi esprimesse qualcosa di più oltre ai sentimenti: una certa concezione dell'amore.

La cosa non avrebbe in sé nulla di sorprendente dal momento che si tratta di un filosofo, ma sappiamo, dal testo al quale ho appena rinviato, che a quel tempo egli non era particolarmente incline alla speculazione.

In assenza di documenti è inutile discutere su questo punto.

Sappiamo invece da fonte certa, in quanto possediamo le sue opere teologiche, che aveva una concezione dell'amore e quale essa fosse.

Non si sa esattamente in quale epoca si sia costituita.

Ciò è tanto più spiacevole in quanto la dottrina abelardiana dell'amore è un'esaltazione dell'amore disinteressato, senza riserve e, per la mia conoscenza, senza analoghi in quell'epoca.

I due maestri a cui si ispira, su questo punto, sono Cicerone ed Eloisa.

Egli stesso ci rimanda a Cicerone.

Cita, all'inizio della sua Introducilo ad theologiam, I, P.L., 178, 982, la definizione dell'amicizia che si trova nel De inventione rhetorica, il, 55.

Ma è tornato sul problema in un altro testo, il più importante di tutti, dove non è possibile non pensare che appaia un influsso più che ciceroniano.

Il testo si trova nella sua Expositio in Epistolam Pauli ad Romanos, III P.L., 178, 891 A-893 C.

Riassumiamo anzitutto il testo, vedremo poi perché non è assurdo pensare che su questo punto possa essersi esercitato l'influsso di Eloisa.1

Il punto di partenza della sua riflessione è un testo di san Paolo che deve aver esercitato un'attrazione molto forte sui sostenitori dell'amore puro: « Non quaerit quae sua sunt, omnia suffert, omnia credit, omnia sperai, omnia sustinet » ( 1 Cor 13,5-7 ).

Forse il testo non è perfetto: vi si parla anche della speranza, ma l'inizio offre un eccellente punto di partenza.

Abelardo se ne appropria e ne fa scaturire le conseguenze più ardite.

Supponiamo con lui che il modello della dilectio sia l'amore di Cristo per l'umanità, dovremmo allora dire:

1. L'amore vero si rivolge unicamente e direttamente alla persona amata ed esclude ogni considerazione di ricompensa per colui che ama ( 891 A.B );

2. Senza dubbio colui che ama così è certo di una ricompensa, ma non è in vista di questa ricompensa che deve amare, altrimenti sarebbe un amore mercenario, anche se nell'ordine spirituale ( 891 B );

3. Da ciò risulta che dobbiamo amare Dio per se stesso e assolutamente non per la beatitudine che possiamo sperare da lui.

« Nec jam est caritas dicenda si propter nos eum, id est prò nostra utilitate, et prò regni ejus felicitate, quam ab eo speramus, diligeremus potius quam propter ipsum, in nobis videlicet nostrae intentionis finem non in Christo sta-tuentes. Tales profecto homines, fortunae potius dicendi sunt amici quam hominis, et per avaritiam magis quam per gratiam subjecti » ( 891 C );

4. Andiamo oltre: non bisogna neppure amare Dio perché egli ci ama ( siamo lontani dal De diligendo Deo e dall'Ipse dilexit nos ).

Anche se Dio non ci amasse, dovremmo amarlo lo stesso; comunque, se Dio ci ama, non è per questo che dobbiamo amarlo: « Denique si Deum quia me diligit diligam, et non potius quia quidquid mihi faciat, talis ipse est qui super omnia diligendus est, dicitur in me illa Veritatis sententia: Si enim eos diligitis qui vos diligunt, quam mercedem babebitis ( Mt 5,46 ) » ( 892 A ).

Dobbiamo amare Dio sia che ci punisca sia che ci ricompensi, poiché la sua punizione non può che essere giusta ( 892 B );

5. Qui Abelardo si accorge di una obiezione che, d'altra parte, si impone da sola alla mente.

Tutto il suo ragionamento è consistito, sino a qui, nel dire che poiché un uomo non ama sinceramente un altro uomo se ne attende una ricompensa, allo stesso modo non ama sinceramente Dio se attende una ricompensa da Dio.

I due casi non sono paragonabili, poiché Dio è il bene supremo e la stessa beatitudine.

Non può quindi amare Dio senza amare la beatitudine.

L'obiezione viene formulata da Abelardo con una forza estrema: « At fortasse dicis, quoniam Deus seipso nos, non alia rè est remuneraturus, et seipsum, quo nihil majus est, ut beatus quoque meminit Augustinus, nobis est daturus » ( 892 C ).

In effetti, in un testo importante di cui Abelardo cita un lungo passo, sant'Agostino insegna che non bisogna amare Dio se non per lui stesso, ma con ciò non pensa evidentemente a un amore di Dio che si disinteressi della beatitudine divina.

Al contrario, sant'Agostino intende chiaramente con amore « gratuito », un amore di Dio che non vuole nient'altro che Dio, ma che vuole Dio: « Quid est gratuitum? Ipse propter se, non propter aliud. Si enim laudas Deum ut det tibi aliquid aliud, jam non gratis amas Deum » ( S. Agostino, Enarrafio in Psalmum LUI, 10, P.L., 36, 626 ).

Ma Abelardo non ammette che ciò sia amare Dio con amore sincero, bensì amarlo per la beatitudine che ha promesso.

Bisogna amare Dio poiché è buono, cioè perfetto, e poiché, qualunque cosa faccia nei nostri confronti o nei confronti degli altri, egli è degno di amore perché ciò che fa è buono: « Ac tunc profecto Deum pure ac sincere propter se diligeremus, si prò se id tantummodo, non prò nostra utilitate, faceremus; nec qualia nobis donat, sed in se qualis ipse sit attenderemus. Si autem eum tan-tum in causa dilectionis poneremus, profecto quidquid ageret vel in nos vel in alios, quoniam non nisi id optime faceret, eum, ut dictum est, aeque diligeremus, quia semper in eo nostrae dilectionis integrae causam inveniremus, qui integre semper et eodem modo bonus in se et amore dignus perseverai » ( P.L., 178, 892-893 ). Cfr. op. cit., P..L., 178, 893 B.

Questa è la posizione di Pietro Abelardo; la si può riassumere dicendo che definisce l'amore puro di Dio come l'amore di Dio per la sua perfezione propria sino all'eventuale rinuncia alla beatitudine che ci ha promesso.

L'Introductio ad theologian fu condannata nel 1121 al Concilio di Soissons; essa contiene in nuce, con riferimento a Cicerone, la dottrina dell'amore puro; siamo quindi sicuri che questa dottrina è anteriore in Abelardo a quella di san Bernardo, la cui più antica espressione risale al 1125 circa.

Si giungerebbe quindi alla strana conclusione che il dialettico ha fornito al mistico la propria concezione dell'amore.

Ci affrettiamo a dire che questa sarebbe un'illusione assolutamente ingiustificata, perché, in primo luogo, il pensiero di Abelardo su questo punto ha trovato la sua espressione completa solo verso il 1136, nel suo Commento alla Lettera ai Romani e, soprattutto, la sua posizione è più la negazione di quella di san Bernardo che non la sua origine.

Abelardo fornisce una definizione dialettica dell'amore; san Bernardo parla dell'amore puro come di uno stato eccezionale che non è mai completamente accessibile in questa vita.

Inoltre Abelardo, proprio perché si mantiene sul piano della conoscenza razionale, definisce l'amore puro come un amore motivato dalla sola perfezione divina e che rimarrebbe intatto anche se non dovesse essere ricompensato.

Abbiamo visto che san Bernardo non accetterebbe mai una simile ipotesi, la quale assomiglia di più a quella di Madame Guyon che alla sua.

Nella mistica cistercense, a partire da quando l'amore è puro, la fiducia si stabilisce nell'anima e non si può più neppure parlare di non essere ricompensati.

Gli esercizi dialettici di Abelardo, che accetta nell'amore puro l'eventuale severità di un Dio giusto, sarebbero, agli occhi di san Bernardo, la prova irrefutabile del fatto che egli non ha ancora raggiunto l'amore puro.

Quindi proprio qui siamo in presenza di una dottrina specificamente diversa da quella di san Bernardo.

Abelardo considera come sincero solo un amore che rinuncia a se stesso, che si sacrifica, in breve, un amore che accetta di non essere una beatitudine.

Chi può aver suggerito ad Abelardo un simile ideale?

Anzitutto dobbiamo pensare a lui stesso, se non al suo cuore, almeno alla sua intelligenza di dialettico.

Infatti parla evidentemente di questo con un puro linguaggio teorico.

Abelardo ha certamente svolto un brillante esercizio dialettico sulla nozione di amore puro, senza preoccuparsi delle realtà dell'esperienza mistica, che gli erano estranee, né delle condizioni teologiche del problema, che affrontava come un apprendista teologo.

Per questo giunge a una dottrina nella quale sembra trionfare il più assoluto degli amori divini, ma che qualunque teologo può sgonfiare con la punta di uno spillo: « Quid autem est absurdius uniri Deo amore et non beatitudine? » ( Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, VIII, 16, P.L., 184, 375 D ).

Sembra tuttavia difficile pensare che qui sia in causa solo la dialettica, poiché non è sufficiente a spiegare come Abelardo sia arrivato a concepire questo ideale di un amore che accetta di sacrificarsi al proprio oggetto.

La dialettica rende conto del modo d'esecuzione dell'operazione, ma non spiega perché il nostro dialettico abbia pensato di tentarla.

Evidentemente il suo errore dipende dal fatto che egli ragiona come se l'amore puro dell'uomo per Dio potesse descriversi come l'amore puro di un essere umano per un altro essere umano.

È quando si tratta dell'uomo che l'amore sincero deve considerare il caso in cui potrebbe essere privato della gioia che può donargli il suo oggetto.

Si potrebbe mostrare, se questo fosse il luogo opportuno, che i ragionamenti teologici di Abelardo sono falsati dalla costante dimenticanza del principio, che l'amore di Dio è un caso unico, perché Dio è un caso unico.

Chi può avergli ispirato questo ideale di un amore umano che si consegna al proprio oggetto senza preoccuparsi di sapere se ne riceverà un castigo o una ricompensa, che accetta ogni trattamento che gli verrà dal proprio oggetto perché così vuole l'essenza di un amore disinteressato?

Quando la domanda viene posta in questo modo, la risposta non può essere dubbia.

È Eloisa. La descrizione dell'amore disinteressato che ci propone Abelardo, divenuto teologo, è la stessa che Eloisa gli aveva amaramente rimproverato di non aver mai compreso quando pretendeva di amarla.

La dottrina abelardiana dell'amore divino si riduce a questo: non bisogna amare Dio come Abelardo amava Eloisa, ma come Eloisa amava Abelardo.

Abelardo ci dice, infatti, che non bisogna amare Dio per un'altra cosa che non sia Dio, neppure per la felicità di possederlo.

Traduciamo: io non ho mai amato Eloisa, ciò che amavo in lei era la mia voluttà personale.

Se Abelardo avesse conservato il minimo dubbio a questo proposito, Eloisa non gli avrebbe permesso di confidare in una simile illusione: « Concupiscentia tè mihi potius quam amicitia sociavit, libidinis ardor potius quam amor. Ubi igitur quod desiderabas cessavit, quidquid prop-ter hoc exhibebas pariter evanuit » ( Epistola il, P.L., 178, 186 B ).

È proprio il contrario dell'amore vero, quello di cui Eloisa stessa, se vi crediamo, sarebbe l'immagine perfetta: « Dum tecum carnali fruerer voluptate, utrum id amore, vel libidine agerem, incertum pluribus habebatur. Nunc autem finis indicat quo id inchoaverim principio » ( Epistola II, P.L.,178,187 A ).

Come ogni essere umano, soprattutto in simili circostanze, Eloisa si illude un po,2 ma non si può negare che le sue parole contengano una gran parte di verità.

È in gioco l'intera storia del suo amore per Abelardo e l'Historia calamitatum, scritta da Abelardo, depone implacabilmente contro di lei.

Egli stesso ci ha riferito alcuni motivi ( plerisque tacitis, osserverà Eloisa, 185 A ) per i quali ella aveva un tempo rifiutato di sposarlo.

Non è questo il luogo per tentare un'analisi che ne mostrerebbe, del resto con molta facilità, il carattere composito, ma è evidente che il principale motivo di Eloisa era, a quel tempo, di non rovinare il carattere e il genio di un uomo come lui, compromettendolo per sempre in ciò che per lui non era stata che un'avventura.

Un uomo come lui non appartiene a una donna, appartiene al mondo intero ( 130 B ); se avesse sposato Eloisa, il suo genio filosofico si sarebbe perso, insabbiato nella monotonia quotidiana della vita domestica ( 131 A ); trasponendo con straordinaria audacia le osservazioni di Cicerone sull'amicizia, ella fa dei suoi principi un'applicazione che lo avrebbe certamente stupito.

Cicerone insegnava, nel De amicitia, che il legame dell'amicizia supera in dignità i legami di parentela ( op. cit., V ); Eloisa dichiara che l'amicizia, intesa in un senso sul quale non ci si può sbagliare, supera il legame coniugale in quanto è libera da ogni legame che non sia se stessa: « mihique hone-stius amicam dici quam uxorem, ut me ei sola gratia conservaret, non vis aliqua vinculi nuptialis constringeret » ( op. cit., 132 C ).

A questi motivi, che Abelardo riferisce e che Eloisa non ha mai smentito, ne aggiungiamo alcuni di quelli che ella stessa ha tenuto a farci conoscere; due, almeno, meritano di essere riferiti: anzitutto, il rifiuto del matrimonio che Abelardo le offriva era la prova che ciò che ella aveva cercato sino ad allora non era la propria voluttà, ma quella di Abelardo.

Una simile affermazione ci porta oltre; su ordine di Abelardo, senza un moto di ribellione, ella ha cambiato l'ordine dei propri pensieri e della propria vita, entrando in religione per mostrare a tutti chi era il maestro assoluto del suo cuore e del suo corpo: « Cum ad tuam statim jussionem tam habitum ipsa quam animum immutarem, ut tè tam corporis mei quam animi unicum possessorem ostenderem. Nihil unquam ( Deus scit ) in tè nisi tè requisivi; tè pure, non tua concupiscens.

Non matrimonii federa, non dotes aliquas expectavi, non denique meas voluptates aut volunta-tes, sed tuas (sicut nosti) adimplere studui » ( 184 D ).

Un amore, quindi, che è un amore puro, perché rinuncia anche alle gioie che normalmente comporta il possesso del proprio oggetto.

La seconda osservazione di Eloisa conferma la precedente ed elimina ogni esitazione sul senso che le si deve attribuire.

L'amore, così come ella lo concepisce, non rinuncia solamente alle gioie che potrebbero accompagnarlo, ma aspira alla umiliazione, al disprezzo, a condizione che questo sia per il più grande onore dell'oggetto amato: « Et si uxoris nomen sanctius ac validius videtur, dulcius mihi semper exstitit amicae vocabu-lum; aut, si non indigneris, concubinae vel scorti.

Ut quo me videlicet prò tè amplius humilia'rem, ampliorem apud tè consequerer gratiam, et sic etiam excellentiae tuae gloriam minus laederem » ( 184 D-185 A ).

Confrontiamo ora questo atteggiamento, così raro nel medio evo al di fuori dei romanzi, con la dottrina veramente unica di Abelardo; sembra difficile non vedere che la seconda non è che una trasposizione in termini astratti del primo.

Nei due casi - e questi due casi, pressoché unici, sono uniti dai legami che conosciamo - siamo in presenza di una concezione dell'amore che considera come puro unicamente quello che, non solo rinuncia alla gioia data dal possesso del proprio oggetto, ma accetta odi umiliarsi e di dissolversi per assicurare la gioia e l'onore di colui che ama.

Concezione dell'amore umano tale che non ve ne sarebbero di più grandi se Eloisa, che conosceva così bene Cicerone, non avesse dimenticato quest'altro precetto del moralista pagano: « in iis perniciosus est error, qui existimant, libidinum peccatorumque omnium patere in amicitia licentiam; virtutum amicitia adjutrix a natura data est, non vitiorum comes » ( De amicitia, XXII ).

Ma concezione dell'amore umano che, anche così rettificata dalla sapienza antica in mancanza della Sapienza cristiana, perde tutto il proprio significato se la si vuol trasformare in una dottrina dell'amore divino.

Nella prima infatti, la purezza dell'amore è la condizione necessaria, e sufficiente, della beatificante glorificazione dell'amante.

Trasposizione ardita, ma fatale all'uno e all'altro amore.

Eloisa riporta qui su Abelardo il trionfo più completo, ma il più increscioso di tutti quelli che avrebbe mai potuto desiderare.

Alla fine riesce a fargli capire qualcosa.

Volete amare Dio? Egli ci dice: non amatelo come io amavo Eloisa, ma come Eloisa ha amato me.

Riassumiamo le conclusioni che emergono da questi fatti.

Abelardo è l'autore di canti d'amore, oggi perduti, in cui celebrava il proprio amore per Eloisa.

Il loro successo fu considerevole e, verso il 1130, venivano cantati ancora un po' ovunque.

Alcune di quelle composizioni sembrano essere state dei poemi, in distici latini alla maniera di Ovidio, destinati a essere recitati ( amatorio metro … tam dictaminis … ); altri erano canti propriamente detti, sia in ritmo latino, sia in rima francese, ma più probabilmente in latino ( vel rythmo composita … quam cantus saepius frequentata; cfr. Epistola II, P.L., 178, 185 D ).

Inoltre Abelardo ha elaborato, cominciando prima del 1121, una dottrina dell'amore puro in cui si riconoscevano gli influssi di Cicerone e di Eloisa.

Questa dottrina non deve nulla alla mistica cistercense, poiché le è anteriore; ma la mistica cistercense non le deve niente di più, poiché ne contraddirà le conclusioni.

Tuttavia le due dottrine, malgrado le loro differenze e persino la loro fondamentale opposizione, hanno in comune lo sfondo umanistico sul quale entrambe si delineano: dietro all'una e all'altra si avverte la presenza del De amicitia di Cicerone.

Infine, anche considerando il dodicesimo secolo solo dal punto di vista dell'anno 1125, si può dire che ci offre, fin dal suo inizio, una fioritura di dottrine dell'amore assai originali le quali sembrano germogliare quasi simultaneamente in ambienti diversi.

Il loro ordine di apparizione sarebbe all'incirca il seguente:

1. Abelardo neWInfroductio ad theologiam, poco prima del 1121, e più tardi nel Commento alla Lettera ai Romani, tra il 1136 e il 1140;

2. Guglielmo di Saint-Thierry, ancora benedettino, che sembra aver composto il De contemplando Deo e il De natura et dignitate amorìs tra il 1118 e il 1135.

Arriviamo quindi, verso questa data, agli inizi della mistica benedettina del XII secolo che, nel caso di Guglielmo, si fonde presto con la mistica cistercense propriamente detta;

3. San Bernardo si unirebbe a questo gruppo all'incirca nello stesso periodo, forse con uno o due anni di ritardo, ma con un'originalità così straordinaria che è impossibile non considerarlo come punto di partenza indipendente dai precedenti.

Collocando il De gradibus humilitatis attorno al 1125 al più tardi, e il De diligendo Deo nel 1127 o un po' più tardi, date generalmente accettate, arriviamo alla conclusione che tre grandi dottrine dell'amore sono apparse quasi simultaneamente all'inizio del XII secolo e che sono praticamente indipendenti le une dalle altre, almeno nella loro ispirazione fondamentale.

In ogni caso, se ci dovesse essere un legame di dipendenza tra Abelardo e san Bernardo, poiché la dottrina di Abelardo non appare completamente formata se non dopo il 1136, bisognerebbe ammettere che è Abelardo che ha voluto accusare di egoismo la dottrina dell'amore esposta da san Bernardo a partire dal 1125-1127.

È abbastanza curioso che san Bernardo non gli abbia mai risposto; forse ha pensato che l'esposizione della propria dottrina fosse sufficiente a contrastare quella di Abelardo.

Indice

1 L'importanza di questi testi è stata segnalata da C. De Rémusat, Abélard, li, Didier, Paris 1855, pp. 424 ss.; E. Vacandard, Abélard, Roger et Chernovitz, Paris 1881, pp. 297-303 e da P. Rousselot, Pour l'histoire du problème de l'amour au moyen age, pp. 72-74. Non si può che sottoscrivere l'analisi fornita da questo storico e la conclusione che ne ha tratto: " Abélard donc retranche et coupé, autant qu'il le peut, toutes les raisons d'aimer Dieu qui ont leur racine dans notte nature et dans notte Sire. Il me semble voir dans sa docttine la conttadiction rigoureuse de celle que nous avons entendu proclamer par saint Thomas: "Si Dieu n'était aucunement le bien de l'homme, l'homme n'aurait aucune raison d'aimer Dieu" " op. cit., p. 74
2 Faccio qui allusione al ricordo di Abelardo che ancora la tormenta molto tempo dopo la loro separazione e che un moralista considererebbe come una " cupidigia " che non può realizzarsi. Ma Eloisa ha abilmente prevenuto l'obiezione, facendo di questo ardore un castigo di Dio. Non è quindi inutile.