28 Aprile 1971

Il moto della vita cristiana verso il destino finale eterno

La Pasqua, testé celebrata, offre un tema fondamentale alla riflessione di chi ha compreso l'importanza determinante di questo mistero nella nostra vita: esso reclama una coerenza, uno stile cristiano nella condotta, Noi dicevamo; esso impone e genera un rinnovamento nella mentalità interiore e nel comportamento esteriore; e il tema è questo: perché, e quale è questo influsso del dramma di Cristo morto e risorto sopra la concezione della nostra esistenza e sopra la conseguente moralità della nostra vita?

Perché il dramma di Cristo investe la nostra sorte; inizialmente col battesimo e con quanto lo segue noi viviamo tale dramma: siamo stati misticamente sepolti e risuscitati con Lui ( Rm 6,4 ).

Siamo associati al « passaggio » di Cristo da questa vita naturale al nuovo stato misterioso e soprannaturale in cui Egli, anche corporalmente, è entrato.

Pasqua vuole appunto dire passaggio, transito ( Cfr. Es 12,11 ).

E siamo potenzialmente destinati, se fedeli e perseveranti, a raggiungerlo in tale sua nuova e ineffabile condizione d'esistenza; adesso, come scrive S. Paolo: « Noi abbiamo in noi stessi le primizie dello Spirito, gemiamo, aspettando l'adozione, cioè la redenzione del nostro corpo.

Nella speranza noi siamo stati salvati » ( Rm 8,23-24 ).

Un mistero di comunione già ci collega a Cristo ( Cfr. Ef 2,5 ); e perciò non solo la nostra spiritualità, ma anche la nostra mentalità, la nostra concezione della vita, il nostro calcolo circa la nostra sorte futura sono trasferiti al di là del tempo, al di là dell'orizzonte presente; siamo polarizzati verso Cristo risorto, nel suo stato di gloria.

Dobbiamo vivere « escatologicamente », cioè tesi verso il fine ultimo, ultraterreno.

« Non abbiamo qui una dimora permanente, ma cerchiamo quella avvenire » ( Eb 13,14 ).

È ancora S. Paolo che ci esorta: « Se dunque siete stati risuscitati con Cristo ( ecco la nostra celebrazione pasquale ), cercate le cose di lassù, dove Cristo si trova, sedente alla destra di Dio ( cioè associato, anche come Uomo, alla sua gloria e alla sua potenza ); abbiate il gusto delle cose di lassù, non di quelle della terra » ( Col 3,1-2 ).

Questa concezione della vita dà l'impronta spirituale, mentale, pratica al cristiano.

È la sua filosofia realistica.

È la sua sapienza.

Essa ha una grande importanza dottrinale.

Possiamo noi dire, come alcuni, che questo insegnamento apocalittico, escatologico, cioè su l'al di là, è un puro linguaggio simbolico per farci comprendere la novità della dottrina evangelica, già realizzata e consumata da Cristo durante il suo soggiorno temporale?

o possiamo credere, con altri, che solo in questo mondo escatologico si realizza obbiettivamente la nostra salute?

Due modi di pensare, uno della realtà futura, l'altro della realtà presente circa l'economia della salvezza, che non tengono conto della nostra dottrina della fede, e che possono produrre fatali squilibri nell'interpretazione e nell'applicazione del cristianesimo autentico.

Ed il primo e più comune squilibrio è quello di non pensare, e spesso di non credere più, alla nostra vita futura, a quella che segue dopo la nostra morte corporale.

La vita presente sarebbe la sola che ci è dato di godere, o di soffrire.

La riduzione radicale della nostra esistenza attuale entro i confini del tempo, come ci abitua a fare il secolarismo oggi di moda, viene in pratica a negare l'immortalità dell'anima, ad insinuare l'indifferenza sulla nostra sorte futura, ad affermare l'esclusiva importanza del tempo presente, dell'attimo fuggente.

Conclude nell'accettare, se pure accetta, dal Vangelo quello che serve immediatamente e temporalmente, per gli interessi terreni dell'umanità, e nel lasciare infine che il dubbio e lo sconforto spengano la vera speranza, la « vera luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo » ( Gv 1,9 ).

Il discorso sul paradiso e sull'inferno non si ascolta più.

Che cosa diventa, e che cosa può diventare la scena del mondo senza questa coscienza d'un riferimento obbligato ad una giustizia trascendente e inesorabile? ( Cfr. Mt 25 )

E che cosa può essere la sorte fatale, esistenziale, personale di ciascuno di noi, se invece il Cristo fratello, maestro e pastore dei nostri giorni mortali, davvero si erigerà a giudice implacabile sulla soglia del giorno immortale?

Ecco uno dei canoni fondamentali della vita cristiana: essa deve essere vissuta in funzione del suo destino escatologico, futuro ed eterno.

Sì, vi è di che tremare; è ancora la voce profetica dell'Apostolo che ci ammonisce: « Con timore e con tremore cercate di assicurarvi la vostra salvezza » ( Fil 2,12 ).

Da questa considerazione sulla gravità e sulla problematica della nostra sorte finale la moralità, anzi la santità della vita cristiana ha derivato amplissima meditazione, e energie senza pari.

Ma giova concludere con due considerazioni: quella della « potenza » della risurrezione di Cristo » ( Fil 3,10 ), che pervade il credente meditabondo del mistero pasquale e della sua attrattiva inebriante e salvifica.

E quella della supervalutazione, non della svalutazione, come molti suppongono, della vita presente per il fatto che essa è ordinata alla vita futura: se questa rappresenta la pienezza del nostro felice destino, quale importanza, quale valore acquista il nostro pellegrinaggio presente, che a quella conduce?

Ricordate la parabola dei talenti ( Mt 25,14-30 ).

Con la Nostra Benedizione Apostolica.