21 Luglio 1971

Lezioni di fede e carità dal Concilio

Diamo a questo breve colloquio uno stile di estrema semplicità.

Ma seguendo una linea, che di solito segna la logica di questi incontri settimanali, e che vuol essere quella del Concilio.

Perciò oggi vi stimoliamo a rispondere ad alcune domande a catena.

Il Concilio ci ha lasciato un tesoro d'insegnamenti che da un lato confermano ed integrano il patrimonio dottrinale della Chiesa cattolica; ma solo questo?

Il Concilio ci ha lasciato un altro tesoro, quello degli ammonimenti; la sua parola ci istruisce non soltanto circa ciò che dobbiamo credere e pensare, ma anche circa ciò che dobbiamo fare.

E anche per ciò che dobbiamo fare il Concilio ci educa ad un perfezionamento interiore e ad un'attività esteriore ( « agere » e « facere », dicono i cultori dei termini esatti! )?

Sì, il Concilio costituisce non soltanto una grande lezione sulle verità della fede, ma altresì una grande lezione sui doveri della carità; ci propone un modo caratteristico di vita, ci fa l'apologia di alcune virtù, ci vuole infondere certe forme di giudizio e di comportamento, le quali dovrebbero distinguere nella vita pratica di ogni fedele e dell'intera società ecclesiale il così detto « Post-concilio », ossia i frutti di questo grande avvenimento, testé celebrato, che deve marcare qualche progresso nel cammino storico, teologico e morale della Chiesa.

Siamo noi in grado di identificare alcune idee fondamentali, alcune virtù cristiane, che emanano dal Concilio e che devono riflettersi praticamente, cioè moralmente sulla nostra vita?

La domanda è più semplice, che facile.

Ma cerchiamo ora, senza pretesa scientifica, di fermare l'attenzione sopra una di queste idee-forze, che possiamo tutti derivare dal concetto che ci siamo fatti del Concilio.

Qual è, possiamo chiederci, il punto focale del Vaticano secondo?

O meglio l'idea informatrice dei suoi grandi documenti?

Sembra chiaro: è la Chiesa.

Nel Concilio la Chiesa ha ripensato se stessa.

Molti lo hanno notato sapientemente.

E quale definizione riassuntiva è risultata da questa riflessione?

Quale coscienza ha maturato la Chiesa su se stessa, dopo venti secoli di storia e dopo innumerevoli esperienze e studi e trattati?

Qui la risposta è ricchissima, ed esigerebbe una lista di definizioni, quanti sono gli aspetti che si possono scorgere nella complessa e misteriosa realtà della Chiesa: si direbbe che il Concilio stesso ha durato fatica a condensare in una sola espressione il significato di questo termine per noi comunissimo, « Chiesa »: segno e strumento dell'unione della umanità con Dio e con Cristo, Popolo di Dio, Corpo mistico di Cristo, Regno incipiente di Cristo e di Dio, ovile di Cristo, campo di Dio, edificio di Dio, famiglia di Dio, tempio di Dio, città di Dio … ( Cfr. Lumen gentium, 1-7; Unitatis redintegratio, 2; ecc. ).

Ma per la nostra mentalità spirituale e sociologica sembra che la definizione più accessibile, essenziale e morale ( ontologica e deontologica ), anche se di per sé incompleta, sia questa: la Chiesa è una comunione ( Cfr. Lumen gentium, 4; Gaudium et Spes, 32; cfr. J. Hamer, L'Eglise est une communion, Cerf, 1962 ).

Sì, la Chiesa è una comunione, cioè una società compaginata da vincoli suoi propri, risultante, come un essere vivo, da un elemento esteriore e visibile ed organico, che sono i fedeli, i quali compongono la Chiesa, e da un elemento interiore e invisibile e vivificante, ch'è l'azione dello Spirito Santo, quasi l'anima del corpo, di cui Cristo, nel caso nostro, è il Capo: il Capo del Corpo mistico, ch'è appunto la Chiesa ( Cfr. Ef 4,15-16; Col 1,18 ).

È una assemblea, una compagine umana, fisica e mistica insieme.

È la « comunione dei Santi ».

Sapete in quali solenni documenti la Chiesa si è espressa sopra questa dottrina?

Son due recenti: l'Enciclica Mystici Corporis ( 29 giugno 1943 ) e, più autorevole d'ogni altro, la Costituzione dogmatica Lumen Gentium ( 21 novembre 1964 ).

Sono le basi dell'Ecclesiologia moderna, interprete di quella apostolica e di quella tradizionale.

Lasciamo agli studiosi parlarci di questo tema sconfinato; esiste in proposito tutta una letteratura, tutta una teologia ( Cfr. S. TH., III, 8 ) che la cultura cattolica non può ignorare.

A noi ora si pone la questione: comunione suppone un rapporto: rapporto con chi?

Lo abbiamo già accennato: un duplice rapporto: dapprima con Cristo, e Lui mediante con Dio, e quindi con i cristiani resi da questa comunione fratelli.

La Chiesa è una grande comunità di fede, di speranza, di amore.

Chi nello Spirito Santo, e nell'ossequio al mistero e al magistero stabiliti da Cristo, condivide la stessa fede, la stessa speranza, la stessa carità partecipa alla comunione, appartiene alla Chiesa.

Vedete subito una conseguenza assai importante: i rapporti che ci riferiscono a Cristo e a Dio sono causa e condizione per appartenere alla Chiesa.

Prescindere dalle relazioni religiose, chiamiamole pure verticali, compromette le relazioni orizzontali, cioè umane e sociali proprie della Chiesa, destinate alla sua unità e alla sua missione salvatrice.

E vedete anche quale sia l'esigenza intrinseca e generatrice dell'ecumenismo: l'unità della Chiesa è fondata sull'autentica e perfetta « comunione dei Santi » ( Cfr. Unitatis Redintegratio, 2, n. 3, ecc.).

Potremmo studiare anche la parentela fra la comunione propria di tutta la Chiesa e la collegialità episcopale, che è di quella comunione una qualificata e costitutiva manifestazione.

E allora ecco che la comunione, non puramente esteriore, disciplinare, statistica, sociale diventa per ogni fedele e per tutta la moltitudine dei seguaci di Cristo un dovere fondamentale.

Il Concilio ci ha richiamato alla vocazione originaria dell'unità.

« Dio, dice il Concilio, volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di essi un Popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse » ( Lumen gentium, 9 ).

Nulla è più contrario a questa concezione unitaria e universale della salvezza cristiana operante nelle singole anime, come nella pluralità degli uomini, che l'individualismo, l'egoismo, la separazione, la divisione, l'opposizione; e nulla è più conforme al supremo voto di Cristo quanto quello ripetuto nell'ultima Cena « siano tutti uno » ( Gv 17,22-23 ).

Possiamo noi dire che oggi questa premura d'unità caratterizza i movimenti spirituali e collettivi, che rivendicano dal Concilio la loro ragion d'essere?

Molti, per fortuna, sì; anche la riforma liturgica, che dando alla lingua di ogni popolo della Chiesa latina ( com'è già in quelle orientali ), la facoltà di esprimersi, non mira certo a dividere il Popolo fedele, ma a farlo più coscientemente partecipare alla medesima preghiera e alla celebrazione sintonizzata dei medesimi sacri misteri, mettendo al centro, al vertice d'ogni religiosità l'Eucaristia, sacramento e sacrificio, la cui realtà mistica è appunto « l'unità del corpo mistico » ( S. TH. III, 73, 3; cfr. II-II, 39, 1 ).

E così possiamo dire del movimento ecumenico, che urge sulla coscienza cristiana col rimorso dell'infranta unità e con l'ansia di ricuperarla nella verità e nella fraternità.

Lo stesso possiamo dire con compiacenza e con speranza per lo sviluppo internazionale ed unitario delle associazioni cattoliche, e dell'interesse crescente per i bisogni del Terzo Mondo e per la causa missionaria.

Ma possiamo dire che un vero spirito comunitario percorre oggi dappertutto il corpo della Chiesa?

Non si nota una accentuata tendenza a formare gruppi chiusi e refrattari all'amicizia comunitaria ed ecclesiale?

A che cosa mira spesso la gratuita sopravalutazione delle prerogative carismatiche, dimenticando che esse, se pur vere, devono essere rivolte all'utilità della comunità? ( Cfr. 1 Cor 12,7 ) e contrapponendole spesso alle forme autentiche, istituzionali della Chiesa?

Dove vuole arrivare certo indiscriminato pluralismo dottrinale, arbitrario e centrifugo?

E dov'è l'accento della fraternità in una abituale e aggressiva critica, demolitrice della stima e dell'adesione dovuta alla famiglia ecclesiale ed a chi vi presta il servizio pastorale della guida e della potestà responsabile?

Dov'è la carità cristiana in forme sociali che cercano la loro efficacia in correnti qualificate dall'egoismo di classe e dall'urto degli interessi economici?

Ripensiamo, Fratelli e Figli carissimi, alla grande spinta comunitaria impressa dal Concilio alla Chiesa fedele, e procuriamo di tradurla in carità locale e universale, nella virtù del volersi bene, del perdonare i torti sofferti, nel prodigarci per il bene altrui, nella dedizione paziente e generosa per la società, in cui la Provvidenza ci ha messi a vivere, nell'amore, finalmente, vero, forte, concorde alla Chiesa dalle mille voci, ma veramente unita e universale.

Chiediamo al Signore questa virtù comunitaria; e a voi la ottenga la Nostra Benedizione Apostolica.