26 Giugno 1974

Valore della sofferenza nella vita della Chiesa

La Pentecoste ha offerto alcuni temi ai nostri discorsi settimanali per le Udienze del mercoledì; molti altri ne potrebbe offrire, ma basti a noi soffermarci ancora sopra un tema, che per ora consideriamo conclusivo, e che vorrebbe rispondere ad una difficoltà insorgente contro l'affermazione ottimistica circa le condizioni della vita umana, quando essa è pervasa dall'azione dello Spirito Santo, il Quale, come sappiamo, fu mandato in forma strepitosa ed in misura esuberante ad animare di Sé, cioè della sua grazia, dei suoi doni, dei suoi carismi, il primo nucleo dei fedeli seguaci di Cristo, dopo la sua Ascensione, e a dare a quel nucleo l'essere e il respiro di Corpo mistico di Cristo stesso, la sua Chiesa nascente.

Tutto vitale, tutto possente, tutto felice, tutto compatto, tutto santo ci appare quel gruppo privilegiato.

Si trattava di circa centoventi persone ( Cfr. At 1,15 ), di composizione omogenea, con la Madonna e le pie seguaci del Signore, in perseverante unione di preghiera, alternata da qualche discorso di Pietro e degli Apostoli; e subito, al compiersi dei giorni di Pentecoste, il gruppo si fa esultante ed acclamante per la veemente irruzione dello Spirito, con vento, fragore, scotimento della casa e aleggianti fiamme di fuoco sopra ognuno dei presenti.

Accorre una folla cosmopolita, di nazioni diverse; e tutti comprendono le varie lingue, che quei posseduti dalla vivace presenza misteriosa andavano improvvisando.

Non mai festa religiosa, non mai cerimonia spirituale fu, come quella del cenacolo, altrettanto inebriante ed esaltante.

Ecco: parla Pietro e con lui gli Apostoli; il discorso trascina; immediatamente circa tremila persone si convertono e si fanno battezzare.

Così la Chiesa inaugura trionfalmente la sua vita, la sua storia.

Ecco dunque la nuova espressione della religione, assurta a comunione di Dio con l'uomo, a inabitazione di Dio, Uno e Trino, nell'anima del seguace di Cristo ( Cfr. Gv 14,17-23 ); un'intimità senza pari, donde sgorgherà la vita mistica del cristiano, fatto tempio, santuario di Dio ( Cfr. 1 Cor 3,16-17; 1 Cor 6,19; 2 Cor 6,16; Fil 4,7; etc. ), con i « sette doni » famosi e con un'abbondanza di « frutti dello Spirito », di cui è lungo l'elenco ( Cfr. Gal 5,22; S. TH. I-IIæ, 68; cfr. S. Teresa, Il Castello interiore; ecc. ).

Questo per la vita personale del cristiano; ma poi v'è tutta l'epifania dei carismi, cioè delle forze che lo Spirito Santo suscita nelle membra del corpo ecclesiale per l'esercizio di particolari funzioni e ministeri, a vantaggio della collettività ( 1 Cor 12,4-11; S. TH. I-IIæ, III ).

La Chiesa appare viva, attiva, possente, sapiente, incomparabile ( Ap 12,1 ).

Ricordate Stefano, il primo diacono, irresistibile ( At 6,5.8.15 ).

Ricordate la promessa di Cristo a Pietro: i nemici della Chiesa « non prevarranno »; essa è, in un certo senso, invincibile ( Mt 16,18 ); e la promessa agli Apostoli: « sarò con voi fino alla fine del mondo » ( Mt 28,20 ); essa, la Chiesa, è immortale.

Ma dobbiamo subito integrare questa visione con un'altra, non meno attestata dalle parole del Signore, dal suo esempio, dall'economia della salvezza; ed è la visione del dolore, della persecuzione e della morte, che rende drammatica la biografia d'ogni seguace di Cristo, e la storia intera della salvezza, che si svolge nel tempo.

La croce domina questa altra visione.

La venuta dello Spirito Santo non toglie la croce dalla realtà umana.

Essa non è un talismano, che immunizza la vita umana dalle sofferenze e dalle disgrazie; non un rimedio preventivo, assicurativo, fisicamente terapeutico contro i malanni della nostra presente esistenza ( Cfr. Mt 10,14: non pacem, sed gladium ).

Anzi la grazia sembra essere in segreta simpatia con la sofferenza umana: perché?

Ce lo ha insegnato il Signore con tante sue parole gravi, che non ammettono dubbio.

A suo riguardo, innanzi tutto: « Non doveva forse il Cristo patire, Egli ammonisce gli afflitti viandanti verso Emmaus, e così entrare nella sua gloria? » ( Lc 24,26 ).

Che cosa resterebbe del Vangelo senza la Passione e la Morte di Gesù?

E si può concepire la Chiesa, che è la continuazione vivente di Lui, senza la partecipazione al dramma della sua sofferenza?

« In verità vi dico, Egli dichiarò all'ultima Cena, che voi piangerete e gemerete, e il mondo godrà » ( Gv 16,20 ).

Lo aveva già detto più volte con tante altre espressioni: « Chi non prende la sua croce, e non mi segue non è degno di me! » ( Mt 10,38; Mt 16,24 ).

E gli Apostoli non sono forse della stessa scuola?

Celebri sono le parole di S. Paolo: « Io mi rallegro nelle sofferenze che sopporto per voi, e compio così nella mia carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo, a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa » ( Col 1,24 ).

Non finiremmo più se volessimo fare un'antologia degli insegnamenti scritturali sopra la necessità ( At 9,16 ), la dignità ( At 5,41 ), la normalità, potremmo dire, della sofferenza nel seguace di Cristo ( Cfr. 1 Cor 4,12; 2 Cor 4,8; 2 Tm 3,12; 1 Pt 2,21; 1 Pt 5,9; etc. ).

E questa facile documentazione trova nella storia della Chiesa la sua ripetizione, la sua dolorosa verifica.

Anche sotto i nostri occhi.

Chi non conosce in quali condizioni si trova la Chiesa, le persone che ancora vi aderiscono, in non pochi Paesi del mondo?

Non ne parliamo di più per non aggravare l'opprimente situazione di tanti nostri fratelli e figli cattolici, a cui solo la loro fede si può imputare a colpa.

E che diremo del triste fenomeno di cattolici, oggi intenti ad affliggere la Chiesa di Dio, quasi facendo propria la profetica ed amara parola del Signore: « i nemici dell'uomo saranno i suoi familiari »? ( Mt 10,36 )

Il nostro problema si fa più difficile: perché?

Noi ci poniamo la questione sempre in ordine al fatto della Pentecoste, che domina, come dicevamo, tutta la vita della Chiesa.

Come mai queste contrarietà, queste opposizioni, queste sofferenze?

Rispondere ad una domanda simile vorrebbe dire che possiamo penetrare nei segreti della Provvidenza, cioè dell'economia della redenzione.

A noi ora basti proporre a consolazione di chi sperimenta l'ineffabile fortuna della grazia e quella, spesso non meno misteriosa, della sofferenza che le due esperienze sono non solo compossibili, ma compatibili, cioè coordinabili in un disegno di bontà e di salvezza, di cui un giorno, speriamo, il Signore ci svelerà la sapienza e l'armonia, in virtù d'un duplice principio: quello della simultaneità e quello della successione.

Della simultaneità: cioè il cristiano può avere, al tempo stesso, due esperienze diverse, opposte, che diventano complementari: il dolore e la gioia.

Due cuori: uno naturale, l'altro soprannaturale.

Ricordate, ad esempio, la meravigliosa espressione di San Paolo: « Io sono sovrabbondante di gioia pur in mezzo a tutte le nostre tribolazioni » ( 2 Cor 2,4; cfr. 2 Ts 1,4; At 5,41 ).

Vi sarebbe molto da dire su questo complesso fenomeno psicologico e spirituale ( Cfr. Simone Weil La pesanteur et la grâce; Edith Stein, Scientia Crucis, etc. ).

L'altro principio, si diceva, è quello della successione; cioè quello che ammette la sofferenza, anche nei Santi e specialmente nei Santi, durante questa vita, alla quale succede poi l'altra vita, nella felicità.

Come diceva S. Francesco: « Tanta è la gioia che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto ».

A conclusione invochiamo lo Spirito Santo come il Consolator optime!