27 Novembre 1974

La professione cristiana con la completa testimonianza di vita

Per giungere sul piano - un altipiano -, che deve servire di base per la celebrazione dell'Anno Santo, ormai vicino alla sua stazione romana, noi dobbiamo salire ancora un gradino preventivo, dopo quelli dell'identità della nostra personalità cristiana e della nostra autenticità nell'ortodossia cattolica, già idealmente sormontati in precedenti incontri; ed ora è il gradino della credibilità.

Veramente questo termine di credibilità ha un significato diverso nella terminologia teologica abituale da quello ora invalso nel linguaggio corrente.

La credibilità, in teologia, è « l'attitudine d'un'asserzione rivelata da Dio ad essere creduta di fede divina, cioè perché Dio l'ha rivelata » ( A. Gardeil, D. Th. C, III, II, 2202; Denz-Schön. 3008.3033 ).

Si tratta d'una proprietà relativa ad una verità di per sé non evidente, ma degna d'essere creduta, perché suffragata dall'autorità rivelante di Dio, e resa palese da motivi estrinseci che ne rendono ragionevole l'accettazione.

Il credente « non crederebbe, se non vedesse che sono da credere » le cose proposte al suo atto di fede.

« La fede infatti esige un assenso della mente confortata da ragioni sufficienti » ( Cfr. S. TH. II-IIæ, 1, 4 ).

Dice bene S. Agostino: « la fede infatti ha i suoi occhi, con i quali in certo modo vede essere vero ciò che ancora non vede, e con i quali vede con tutta certezza di non vedere ancora ciò che crede » ( Eph. 120, 8: PL 33, 456; cfr. anche Sermo 88, 4; e de Praed. sanct. 2, 5: nullus quippe credit aliquid, nisi prius cogitaverit esse credendum ).

È questo uno dei capitoli maggiori e più delicati circa i preamboli alla dottrina sulla fede: possibilità ragionevole di credere, cioè credibilità; e dovere ragionevole di credere, cioè credendità ( Cfr. P. Rousselot, Les yeux de la foi, Rech. sc, rel., 1910 ).

Ma noi ora consideriamo il significato morale e sociale della credibilità, cioè il titolo che una persona, o un'istituzione, o la chiesa stessa possiede, perché si presti fede a ciò che essa è, o a ciò che essa dice, desumendo questo titolo dal suo comportamento pratico, dalla sua condotta.

Il ricorso a questo titolo per trarne argomento di fede, o di fiducia introduce nella logica religiosa un criterio reduttivo discutibile, perché limita il campo delle prove che possono suffragare l'adesione della fede e della fiducia ad un criterio per sé estrinseco alla logica della verità, e ad una misura soggettiva, facilmente arbitraria e restrittiva; ma tuttavia non è in pratica illegittima.

L'autorità persuasiva d'un maestro non è forse spesso desunta dalla stima per le sue qualità morali?

La forza apologetica d'una testimonianza non è spesso derivata dalla virtù di chi la proferisce?

non facciamo noi forse giustamente grande conto di quella estrema testimonianza, che si chiama martirio?

Ed al contrario, non perde forse di valore una propaganda, una predicazione, una professione ideologica, che non sia suffragata da una concomitante onestà morale?

Un'idea dev'essere vissuta, se pretende di convincere chi ne ascolta l'annuncio.

Ricordiamo la ricorrente polemica del Signore, nel Vangelo, per riguardo ai Farisei da Lui accusati, nell'invettiva finale della sua pubblica predicazione: « dicono e non fanno » ( Mt 23,3ss ).

Il distacco della dottrina dalla condotta è un disordine che Cristo ha più ripetutamente e fortemente biasimato; l'ha qualificato d'ipocrisia, di offesa alla verità, d'intollerabile peccato.

La sequela di Cristo è governata da una logica altrettanto severa, che popolare.

Un Vescovo Indiano, durante il recente Sinodo Episcopale citava una sentenza del Mahatma Gandhi: I like Christ; I dislike christians for they are unlike Christ, « a me piace Cristo, non mi piacciono i cristiani perché essi non sono simili a Cristo ».

Tutto questo ci ammonisce che pensiero e azione devono camminare insieme, che fede e morale devono essere consonanti, che la professione d'un'idea implica una condotta pratica.

E ciò vale innanzitutto per l'unità interiore, per l'armonia esteriore della coscienza personale.

Chiamiamo comunemente serietà questa coerenza di comportamento, questa corrispondenza fra la verità professata, e la vita vissuta ( Cfr. Ef 4,15 ): la santità, a ben guardare, è appunto questa sintesi di fede convinta ed operante e di carità attiva e generosa.

E se vogliamo che il rinnovamento prospettato dall'Anno Santo per la nostra vita cristiana sia effettivo e duraturo dobbiamo innanzitutto renderlo credibile a noi stessi, cioè risultante da una nuova coerenza interiore ed esteriore, che chiamiamo conversione, metanoia ( e che dovremo poi riconsiderare ).

Ma la credibilità si riferisce di solito all'opinione pubblica, che ci giudica, non sempre saggiamente, ma sempre severamente.

Questo giudizio altrui non deve certo paralizzare la nostra libertà, ma può giovare alla nostra autocritica:

esso ci vuole coerenti tanto nella parola che nella condotta: lo siamo?

ci vuole onesti e disinteressati: lo siamo?

ci vuole semplici e sinceri: lo siamo?

« Sia il vostro linguaggio », dice il Signore: « sì, si; no, no » ( Mt 5,37 ), e basta; e se noi, forse proprio in occasione dell'Anno Santo, lodevolmente ci profondiamo in espressioni religiose pubbliche e prolungate, ascoltiamo ancora una volta il divino Maestro: « Non chiunque mi dice: Signore! Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi farà la volontà del Padre mio, ch'è nei cieli » ( Mt 7,21 ); la religiosità stessa, isolata dall'osservanza della legge morale, non basta; per essere accetta a Dio, e credibile al nostro prossimo, essa deve documentarsi da concomitanti virtù morali e sociali ( Cfr. Mt 5,24 ).

L'amore a Dio, cioè la carità religiosa, primissimo comandamento, non può disgiungersi dall'amore al prossimo, cioè dalla carità sociale, specialmente verso i familiari, verso chi riveste legittima autorità, verso le necessità dei poveri, degli umili, dei sofferenti, e di ogni fratello, cioè, in una parola, verso l'uomo bisognoso di pane, di affetto, di onore.

« Che giova, scrive l'Apostolo Giacomo, che giova, fratelli miei, se uno dice di aver fede, ma non ha le opere?

… Se un fratello, o una sorella sono spogli e bisognosi del vitto quotidiano, e uno di voi dica: andate in pace, riscaldatevi, e satollatevi, senza dare loro le cose necessarie al corpo, che gioverà? » ( Gc 2,14-16 ).

Cosi dunque la credibilità della nostra professione cristiana deve autenticarsi con un'esemplarità personale, perfetta, per quanto è possibile, sotto ogni riguardo, e con speciale riferimento allo spirito di amore e di sacrificio in favore dei nostri fratelli; e, ricordiamolo, tutti, almeno potenzialmente, ci sono fratelli! ( Cfr. Mt 23,8 )

Che il Signore ci aiuti a vedere l'Anno Santo in questa prospettiva di credibilità.

Con la nostra Apostolica Benedizione.