Salvifici doloris

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V. Partecipi alle sofferenze di Cristo

19 Il medesimo carme del Servo sofferente nel libro di Isaia ci conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di questo interrogativo e di questa risposta:

"Quando offrirà se stesso in espiazione, / vedrà una discendenza, vivrà a lungo, / si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

/ Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce / e si sazierà della sua conoscenza, / il giusto mio servo giustificherà molti, / egli si addosserà la loro iniquità.

/ Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha consegnato se stesso alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi / mentre egli portava il peccato di molti / e intercedeva per i peccatori" ( Is 53,10-12 ).

Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova situazione.

Ed è come se Giobbe l'avesse presentita, quando diceva: "Io so infatti che il mio Redentore vive…" ( Gb 19,25 ), e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del suo significato.

Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta.

Cristo - senza nessuna colpa propria - si è addossato "il male totale del peccato".

L'esperienza di questo male determinò l'incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò il prezzo della redenzione.

Di questo parla il carme del Servo sofferente di Isaia.

A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della nuova alleanza, stipulata nel sangue di Cristo.

Ecco le parole dell'apostolo Pietro dalla sua prima lettera: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" ( 1 Pt 1,18-19 ).

E l'apostolo Paolo nella lettera ai Galati dirà: "Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso" ( Gal 1,4 ), e nella prima lettera ai Corinzi: "Infatti siete stati comprati a caro prezzo.

Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" ( 1 Cor 6,20 ).

Con queste e altre simili parole i testimoni della nuova alleanza parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la sofferenza di Cristo.

Il Redentore ha sofferto al posto dell'uomo e per l'uomo.

Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione.

Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione.

È chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta.

Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione.

Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.

20 I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto.

Nella seconda lettera ai Corinzi l'Apostolo scrive: "Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo.

Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale… convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù" ( 2 Cor 4,8-11.14 ).

San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani "a causa di Gesù".

Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella lettera di partecipare all'opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Redentore.

L'eloquenza della croce e della morte viene tuttavia completata con l'eloquenza della risurrezione.

L'uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione.

Perciò, l'Apostolo scriverà anche nella seconda lettera ai Corinzi: "Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione" ( 2 Cor 1,5 ).

Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole d'incoraggiamento: "Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e nella pazienza di Cristo" ( 2 Ts 3,5 ).

E nella lettera ai Romani scrive: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale" ( Rm 12,1 ).

La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione.

Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all'uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane.

L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato.

Questa scoperta dettò a san Paolo parole particolarmente forti nella lettera ai Galati: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

Questa vita, che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" ( Gal 2,19-20 ).

La fede permette all'autore di queste parole di conoscere quell'amore, che condusse Cristo sulla croce.

E se amò così, soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive in colui che amò così, egli vive nell'uomo: in Paolo.

E vivendo in lui - man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde con l'amore al suo amore - Cristo diventa anche in modo particolare unito all'uomo, a Paolo, mediante la croce.

Quest'unione ha dettato a Paolo, nella stessa lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno forti: "Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo" ( Gal 6,14 ).

21 La croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell'uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale.

I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione.

Scrive Paolo: "Perché io possa conoscere lui , la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti" ( Fil 3,10-11 ).

Veramente, l'Apostolo prima sperimentò "la potenza della risurrezione" di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella "partecipazione alle sue sofferenze", della quale parla, ad esempio, nella lettera ai Galati.

La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla croce di Cristo avviene attraverso l'esperienza del Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione.

Perciò, anche nelle espressioni dell'Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la croce di Cristo dà inizio.

I testimoni della croce e della risurrezione erano convinti che "è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio" ( At 14,22 ).

E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: "Possiamo gloriarci di voi… per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate.

Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale ora soffrite" ( 2 Ts 1,4-5 ).

Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il regno di Dio.

Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo regno.

Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l'infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell'uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena.

Cristo ci ha introdotti in questo regno mediante la sua sofferenza.

E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.

22 Alla prospettiva del regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella croce di Cristo.

La risurrezione ha rivelato questa gloria - la gloria escatologica - che nella croce di Cristo era completamente offuscata dall'immensità della sofferenza.

Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla gloria.

Paolo esprime questo in diversi punti.

Scrive ai Romani: "Siamo… coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi". ( Rm 8,17-18 )

Nella seconda lettera ai Corinzi leggiamo: "Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili" ( 2 Cor 4,17-18 ).

L'apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole della sua prima lettera: "Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare" ( 1 Pt 4,13 ).

Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla croce e alla risurrezione.

La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all'elevazione di Cristo per mezzo della croce.

Se, infatti, la croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione.

Sulla croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso.

Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell'umiliazione tutta la sua grandezza messianica.

Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l'agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"? ( Lc 23,34 )

A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio.

La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell'uomo, la sua maturità spirituale.

Di ciò hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri e i confessori di Cristo, fedeli alle parole: "E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima" ( Mt 10,28 ).

La risurrezione di Cristo ha rivelato "la gloria del secolo futuro" e, contemporaneamente, ha confermato "il vanto della croce": quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza dell'uomo, come espressione della sua spirituale grandezza.

Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa.

Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell'uomo.

23 La sofferenza, infatti, è sempre una prova - a volte una prova alquanto dura -, alla quale viene sottoposta l'umanità.

Dalle pagine delle lettere di san Paolo più volte parla a noi quel paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare dall'Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo.

Egli scrive nella seconda lettera ai Corinzi: "Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo" ( 2 Cor 12,9 ).

Nella seconda lettera a Timoteo leggiamo: "È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto" ( 2 Tm 1,12 ).

E nella lettera ai Filippesi dirà addirittura: "Tutto posso in colui che mi dà la forza" ( Fil 4,13 ).

Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell'impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla croce.

Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella croce di Cristo.

In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo.

In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza.

Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima lettera di Pietro: "Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome" ( 1 Pt 4,16 ).

Nella lettera ai Romani l'apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo "nascere della forza nella debolezza", di questo ritemprarsi spirituale dell'uomo in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.

La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" ( Rm 5,3-5 ).

Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l'uomo deve esercitare da parte sua.

E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male.

L'uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell'uomo unita alla consapevolezza del senso della vita.

Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con l'opera dell'amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito Santo.

Man mano che partecipa a questo amore, l'uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova "l'anima", che gli sembrava di aver "perduto" a causa della sofferenza.

24 Tuttavia le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre.

Nella lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario spirituale in relazione alla sofferenza.

San Paolo scrive: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa" ( Col 1,24 ).

Ed egli in un'altra lettera interroga i suoi destinatari: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?" ( 1 Cor 6,15 ).

Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all'unione con l'uomo nella comunità della Chiesa.

Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all'atto del battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo sacrificio - sacramentalmente mediante l'eucaristia - la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo.

In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, e in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono.

Le citate parole della lettera ai Colossesi attestano l'eccezionale carattere di questa unione.

Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo - come in unione con Cristo sopporta le sue "tribolazioni" l'apostolo Paolo - non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche "completa" con la sua sofferenza "quello che manca ai patimenti di Cristo".

In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza.

La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo.

Questo bene in se stesso è inesauribile e infinito.

Nessun uomo può aggiungervi qualcosa.

Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell'uomo.

In quanto l'uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo - in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia -, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo.

Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No.

Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza.

In questa dimensione - nella dimensione dell'amore - la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente.

Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza.

Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.

In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo.

Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell'uomo.

Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, e in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo.

La completa così come la Chiesa completa l'opera redentrice di Cristo.

Il mistero della Chiesa - di quel corpo che completa in sé anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo - indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo.

Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di "ciò che manca" ai patimenti di Cristo.

L'Apostolo, del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di "quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo, che è la Chiesa".

Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell'umanità, è la dimensione nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell'uomo.

In ciò viene messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa.

La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura.

E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa.

Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione.

Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l'inesprimibile mistero del corpo di Cristo.

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