La città di Dio

Indice

Confronto fra politeismo, cristianesimo e filosofia

Metafisica e teismo nella sapienza dei platonici

1 - Indispensabile confronto con i platonici

Si richiede ora uno spirito molto più critico di quello richiesto nella soluzione dei precedenti problemi e nella stesura dei libri già compilati.

Tratto appunto della teologia che definiscono naturale e non con uomini di qualsiasi estrazione.

Non è infatti quella drammatica o civile, cioè dei teatri e delle città, di cui una vanta i peccati degli dèi e l'altra pone in vista i desideri più immorali degli dèi e quindi piuttosto demoni malvagi che dèi.

Ora, al contrario, si deve stabilire un confronto con i filosofi il cui nome stesso tradotto in latino significa l'amore alla sapienza.

Quindi se Dio è sapienza, mediante la quale è stato creato l'universo, come ha rivelato la verità della divina tradizione, il vero filosofo è colui che ama Dio.

Ma il significato in sé, indicato da questo nome, non si trova in tutti coloro che menano vanto del nome, perché non necessariamente coloro che si dicono filosofi amano la vera sapienza.

Pertanto fra tutti coloro, di cui è stato possibile conoscere le teorie nella tradizione letteraria, si devono scegliere quelli con cui si possa trattare convenientemente il problema in parola.

Non ho infatti intenzione di ribattere in questa opera tutte le errate teorie di tutti i filosofi ma quelle soltanto che sono attinenti alla teologia, parola greca con cui s'intende indicare il pensiero ossia il discorso sulla divinità.

Inoltre non tratto le dottrine di tutti ma di quelli soltanto che, pur ammettendo l'esistenza e la provvidenza della divinità, ritengono che non è sufficiente l'adorazione di un unico non diveniente Dio per conseguire la felicità anche dopo la morte, ma che se ne devono adorare molti sebbene da lui creati alle rispettive incombenze.

Costoro superano per un avvicinamento alla verità anche la teoria di Varrone.

Egli in definitiva è riuscito ad estendere le competenze della teologia naturale fino al mondo visibile o all'anima del mondo.

Costoro, al contrario, ammettono la trascendenza di Dio sull'essere dell'anima in generale perché, secondo loro, egli non solo ha creato il mondo visibile, che talora si definisce con i termini di cielo e terra, ma ha anche prodotto dal nulla ogni anima e perché rende felice l'anima umana con la partecipazione della sua luce indiveniente e immateriale.

Tutti sanno, anche se ne abbiano sentito lontanamente parlare, che questi filosofi si chiamano platonici per denominazione dal loro maestro Platone.

Toccherò brevemente alcuni concetti su Platone perché li ritengo indispensabili al problema; ma prima tratterò di coloro che cronologicamente lo hanno preceduto in questa forma di speculazione.

2 - La scuola ionica e italica

Per quanto riguarda la letteratura greca che è considerata la più illustre fra quelle di tutti i popoli1 si ha la tradizione di due scuole di filosofi: una italica denominata da quella parte dell'Italia che una volta si chiamava Magna Grecia, l'altra ionica vigente in quelle regioni per le quali anche oggi si usa il nome di Grecia.

La scuola italica ha come fondatore Pitagora di Samo da cui secondo la tradizione ebbe origine anche la parola filosofia.

Prima di lui si chiamavano sapienti coloro che erano ritenuti superiori agli altri per un determinato tenore di condotta morale.2

Egli richiesto che cosa dichiarava di se stesso rispose di essere filosofo cioè studioso ossia amatore di sapienza, perché dichiarare di essere sapiente gli sembrava estremamente presuntuoso.3

Capo della scuola ionica fu Talete di Mileto, uno dei sette che furono chiamati sapienti.

Gli altri sei si distinguevano per il genere di vita e per alcune norme concernenti la morale.

Talete invece, anche per avere dei continuatori, si distinse perché osservò la natura, scrisse le proprie teorie e soprattutto perché si rese celebre per il fatto che mediante calcoli astronomici riuscì a prevedere le eclissi di sole e di luna.

Ritenne tuttavia che l'acqua è il principio delle cose e che da essa hanno origine gli elementi, il mondo stesso e i suoi fenomeni.

Al contrario, non pensò a un qualcosa di preesistente da parte di una mente divina all'opera d'arte dell'universo sensibile che, considerando il mondo, scopriamo tanto meravigliosa.

Gli successe Anassimandro, suo uditore, il quale modificò la dottrina sulla natura.

Pensò infatti, a differenza di Talete il quale la derivava dall'elemento umido, che le cose non hanno origine da un unico elemento ma ciascuna da particolari principi.

Ritenne che i principi delle singole cose siano indeterminati e diano origine a innumerevoli mondi e a tutti i loro fenomeni; immaginò che i mondi si avvicendino scomparendo e rigenerandosi secondo le durate competenti a ciascuno.

Anche egli non attribuì alcun potere a una mente divina nel prodursi delle cose.

Lasciò come successore il discepolo Anassimene che assegnò all'aria indeterminata tutti i principi delle cose.

Non negò anzi parlò degli dèi ma ritenne che non da loro era stata prodotta l'aria ma che essi erano stati originati dall'aria.

Anassagora suo uditore pensò e sostenne che una mente divina è effettrice di tutte le cose visibili da una materia indeterminata che risulta dalle particelle di tutte le cose fra di sé simili e che ciascuna cosa è formata dalle proprie e particolari particelle per azione di una mente divina.

Anche Diogene altro uditore di Anassimene sostenne che la materia è sì materia di tutte le cose, ma che essa è partecipe di una divina ragione senza di cui con l'aria nulla si formerebbe.

Ad Anassagora successe il suo uditore Archelao.

Anche egli ha insegnato che l'universo è composto di particelle simili fra di loro, da cui si formano le singole cose, con la clausola che in esse è immanente la mente che governa l'universo unendo e separando i corpi eterni cioè le particelle.

Si dice che suo discepolo fu Socrate maestro di Platone.

Proprio per lui ho brevemente esposto queste notizie.

3 - Sommo bene e felicità in Socrate

Secondo la storia, Socrate fu il primo che ha orientato tutta la filosofia alla ricerca della norma e del fine della morale.

Prima di lui, tutti si sono adoperati prevalentemente nell'indagine sui fenomeni fisici cioè naturali.

Non mi pare che si possa concludere con evidenza se Socrate, per raggiungere lo scopo, a causa dell'insofferenza per i concetti oscuri e confusi, rivolgesse l'attenzione alla scoperta di una nozione chiara e distinta, fondamentale alla felicità, per la quale, soltanto, come sembra, si è attentamente impegnata l'opera di tutti i filosofi; oppure se, come alcuni più favorevolmente pensano, non volesse che coscienze macchiate dalle passioni terrene tentassero di raggiungere le cose divine.

Egli vedeva che dai predecessori erano ricercate le ragioni delle cose e riteneva che le prime e somme sono esclusivamente nel volere dell'unico sommo Dio.

Pensava quindi che se ne potesse avere la conoscenza con l'intelligenza purificata.

Pertanto giudicava che era necessario insistere sulla catarsi morale in modo che lo spirito scaricato delle passioni che fanno tendere al basso, si levasse con slancio naturale verso le cose eterne, e intravedesse con la intelligenza pura l'essere della luce immateriale e non diveniente, in cui sussistono fuori del movimento le ragioni di tutti gli esseri creati.4

È noto tuttavia che egli con mirabile garbo dialettico e con fine ironia, ammettendo la propria ignoranza ossia dissimulando la propria scienza, attaccò incessantemente, anche negli stessi problemi morali ai quali sembrava avere rivolto tutta la sua attenzione, l'insipienza di individui ignoranti che presumevano di sapere.5

Avendo suscitato per questo motivo delle inimicizie, condannato in seguito a infondata incriminazione, fu giustiziato.6

Ma la città di Atene, che lo aveva condannato pubblicamente, poi lo pianse, tanto è vero che l'indignazione del popolo si volse contro i suoi due accusatori al punto che uno fu linciato a furor di folla e l'altro sfuggì a una fine simile con volontario perpetuo esilio.7

A causa di una reputazione tanto illustre della vita e della morte Socrate lasciò molti seguaci della propria filosofia che gareggiarono nell'attendere diligentemente alla discussione dei problemi morali.

L'argomento è il sommo bene con cui l'uomo può divenire felice.

Nella teoria di Socrate non appare chiaramente quale sia, perché egli mette tutto in discussione, tutto afferma e tutto nega.

Quindi ciascuno prese dalla sua dottrina secondo il proprio modo di pensare e stabilì il sommo bene secondo la propria opinione.

Si considera sommo bene quello nel cui conseguimento si diviene felice.

Pertanto i socratici difesero opinioni disparate sul sommo bene.

E quantunque sia appena credibile che l'abbiano potuto fare i seguaci di un medesimo maestro, alcuni, come Aristippo, hanno sostenuto che il sommo bene è il piacere, altri, come Antistene, la virtù.8

Così alcuni hanno accolto opinioni molto diverse dagli altri. Ma sarebbe troppo lungo parlarne.

4 - Esperienze ed insegnamento di Platone

Fra i discepoli di Socrate si distinse per grandissima fama con cui oscurò completamente gli altri Platone, e certo non immeritatamente.

Egli era ateniese di nobile famiglia e superava di gran lunga i propri condiscepoli per l'ingegno straordinario.

Tuttavia ritenendo che non bastavano alla perfezione della filosofia lui stesso e l'insegnamento di Socrate, viaggiò quanto gli fu possibile in quelle parti in cui lo attirava la fama di una cultura illustre e degna di essere appresa.

Quindi perfino in Egitto apprese le dottrine che in quel Paese erano considerate e insegnate come elevate.9

Da lì passando in quelle regioni d'Italia, in cui era alta la fama dei pitagorici, apprese con molta facilità la dottrina allora in voga della scuola italica udendone i più illustri insegnanti.10

E poiché in modo particolare amava il suo maestro Socrate, introducendolo in tutti i suoi dialoghi, mediante la dialettica e le teorie morali di lui diede un ordine sistematico anche alle dottrine che aveva appreso dagli altri o che egli stesso aveva intuito con la più alta capacità speculativa possibile.

Ma l'applicazione alla sapienza riguarda la prassi e la teoresi e quindi una sua parte si può definire pratica e l'altra teoretica; la pratica tende a stabilire la regola della vita cioè la norma morale, la teoretica a intuire i principi generali della natura e la verità ideale.

Si tramanda che Socrate si distinse nella pratica, Pitagora si applicò prevalentemente alla teoretica con tutto il vigore speculativo possibile.11

Perciò viene lodato Platone per avere condotto a perfezione la filosofia congiungendo l'una e l'altra.

Ha infatti distribuito la filosofia in tre parti: la prima morale che prevalentemente si occupa della prassi, la seconda naturale che è destinata alla teoresi, la terza razionale con cui si stabilisce il confine fra vero e falso.12

E sebbene quest'ultima sia indispensabile alle prime due, cioè alla prassi e alla teoresi, tuttavia la teoresi rivendica a sé la intuizione della verità.

Perciò questa tripartizione non è contraria alla distinzione con cui si stabilisce che l'applicazione alla sapienza in generale consiste nella prassi e nella teoresi.

Ritengo poi che richieda tempo e non ritengo che si possa ridurre a un'affermazione infondata lo spiegare con un discorso quale fu il pensiero di Platone nelle o sulle singole parti, cioè in che cosa stabilisca categoricamente o opinativamente il fine di tutte le azioni, il principio di tutti gli esseri, la luce di tutti i pensieri.

Egli infatti mostra di seguire la ben nota tecnica del suo maestro, introdotto a dialogare in tutti i suoi libri, di dissimulare la propria scienza o opinione.

E poiché anche a lui andava a genio questa tecnica, è avvenuto che non sia possibile penetrare agevolmente la dottrina di Platone su argomenti elevati.

È tuttavia opportuno che siano citate e riportate in questa opera alcune delle dottrine che si leggono nei suoi libri, sia che le abbia personalmente insegnate, sia che egli le presenti nell'opera come insegnate da altri, purché appaia che siano da lui condivise.

Saranno scelte quelle in cui egli è favorevole alla vera religione, che la nostra fede si è impegnata a difendere, oppure quelle in cui egli sembra a lei contrario in rapporto al problema del monoteismo e del politeismo e in considerazione della vita veramente felice che si avrà dopo la morte.

Forse gli studiosi, i quali sono tenuti in grande considerazione per avere compreso con genuina perspicacia che Platone è di gran lunga superiore a tutti i filosofi pagani e per averlo seguito, sostengono nei confronti di Dio la tesi che in lui si abbiano la causa del sussistere, la ragione del pensare e la norma del vivere.

Dei tre principi il primo appartiene idealmente alla parte naturale, il secondo alla razionale, il terzo alla morale.

Se dunque l'uomo è stato creato affinché mediante la facoltà che in lui trascende raggiunga l'essere che tutto trascende, cioè Dio uno, vero, sommamente buono, senza di cui nessun essere viene all'esistenza, nessuna cultura educa, nessuna prassi giova, egli si cerchi perché in lui tutto per noi è stabile, egli si guardi perché in lui tutto è per noi intelligibile, egli si ami perché in lui tutto per noi è onesto.

5 - Platonismo più idoneo e un confronto col cristianesimo

Se dunque Platone ha affermato che il sapiente è imitatore, conoscitore e amatore di Dio per esser beato nella partecipazione di lui, non c'è bisogno di esaminare gli altri platonici.

Nessun filosofo si è avvicinato come essi a noi cristiani.

Ceda dunque loro la teologia fabulosa che diverte l'animo degli infedeli con le colpe degli dèi e ceda anche quella civile.

Demoni immondi, ingannando mediante esse, sotto il nome di dèi, popoli dediti alle gioie terrene hanno voluto avere come propri onori divini, gli errori umani stimolando con incentivi immorali i propri adoratori a intervenire agli spettacoli dei propri delitti, come se fosse il culto loro dovuto, e offrendo a sé negli spettatori stessi uno spettacolo più gradito.

E se nei templi si compiono dei riti che pretendono di essere onesti, divengono turpi dalla comunanza con l'oscenità dei teatri e tutte le rappresentazioni oscene nei teatri divengono oneste nel confronto con la sconcezza dei templi.

Cedano anche le teorie che, partendo da questi misteri, Varrone ha voluto interpretare in relazione al cielo e alla terra, ai semi e al prodursi delle cose transeunti.13

Infatti le teorie che egli tenta di giustificare non sono significate dai riti pagani e, nonostante i suoi sforzi, la verità non lo sostiene.

E anche se fossero giustificate, tuttavia l'anima ragionevole non deve adorare come suo dio le cose che per natura le sono inferiori né deve considerare superiori a sé come dèi le cose perché il vero Dio l'ha creata ad esse superiore.

Cedano anche le dottrine che Numa Pompilio, sebbene sostanzialmente pertinenti a simili misteri, si preoccupò di nascondere sotterrandole col proprio corpo e che, dissotterrate da un aratro, il senato fece dare alle fiamme.14

E tanto per giudicare in senso più favorevole Numa, a questa categoria appartengono anche le dottrine che Alessandro il Macedone notificò per lettera alla propria madre e che gli erano state svelate da un certo Leone sacerdote dei misteri egiziani.15

Con essi si rende evidente che furono uomini non solo Pico, Fauno, Enea e Romolo o anche Ercole, Esculapio, Libero figlio di Semele e i gemelli figli di Tindaro ed altri che, sebbene mortali, i pagani considerano dèi, ma anche gli dèi dei popoli maggiori, che Cicerone nelle Tusculane sembra indicare senza nominarli,16 e cioè Giove, Giunone, Saturno, Vulcano, Vesta e moltissimi altri che Varrone tenta di rapportare alle parti o elementi del mondo.

Anche il sacerdote egiziano temendo che fossero svelati degli arcani si recò da Alessandro per avvertirlo che, una volta notificate per lettera le dottrine alla madre, le facesse bruciare.

Dunque non solo le teologie fabulosa e civile devono cedere ai filosofi platonici, i quali hanno insegnato che il vero Dio è autore delle cose, illuminatore della verità e datore della felicità, ma a questi grandi uomini che hanno conosciuto un Dio tanto grande devono cedere anche gli altri filosofi che con mentalità materialistica hanno assegnato alla natura soltanto principi materiali.

Ad esempio Talete li ha riposti nell'acqua, Anassimene nell'aria, gli stoici nel fuoco, Epicuro negli atomi, cioè in corpuscoli piccolissimi che non si possono né dividere né percepire, e tutti gli altri, sulla cui enumerazione non è necessario soffermarsi, i quali hanno sostenuto che ragione principiale delle cose sono i corpi, sia semplici che composti, sia non viventi che viventi, ma comunque corpi.

Alcuni di loro infatti hanno supposto che da esseri non vivi si possano formare esseri vivi, come gli epicurei; altri invece da vivente gli esseri viventi e non viventi, ma comunque corpi da corpo.17

Gli stoici appunto hanno sostenuto che il fuoco, cioè un corpo e uno dei quattro elementi, dai quali è formato il mondo visibile, è vivente, sapiente, costruttore del mondo e di tutte le cose che in esso esistono, è in definitiva un dio.

Essi ed altri simili a loro hanno potuto rappresentarsi soltanto ciò che il loro sentimento legato al senso ha immaginato in loro.

Infatti avevano in sé la coscienza che non percepivano con la vista e nella propria immaginazione quel che avevano visto al di fuori, anche quando non lo vedevano ma se lo rappresentavano soltanto.18

L'oggetto però nell'intenzionalità di una simile rappresentazione non è più corpo ma un fantasma del corpo e la facoltà con cui si avverte nella coscienza il fantasma non è né corpo né fantasma del corpo, infine la facoltà con cui si avverte e si giudica bello o deforme è più perfetta del fantasma che si giudica.

Ed è la mente che è il costitutivo essenziale dell'uomo e dell'anima ragionevole, e la mente non è certamente corpo se non lo è neanche il fantasma del corpo nell'atto che è avvertito e giudicato nella coscienza del soggetto.

Dunque la mente non è né terra né acqua né aria né fuoco, i quattro corpi che sono considerati i quattro elementi da cui vediamo strutturato l'universo corporeo.

Dunque se il nostro spirito non è corpo, in senso assoluto Dio creatore dello spirito non è corpo.

Dunque anche i naturalisti, come è stato detto, devono cedere ai platonici, ma cedano anche coloro che ebbero vergogna di dire che Dio è corpo ma ritennero che egli sia della medesima natura del nostro spirito perché non li ha turbati la grande soggezione dell'anima al divenire che non si può attribuire all'essere di Dio.

Ma obiettano: "Col corpo si pone nel divenire l'essere dell'anima, sebbene per se stessa sia fuori del divenire".

Costoro potevano dire: "Col corpo si rende soggetto a corruzione l'essere fisico, sebbene di per se stesso non lo sia".

Insomma ciò che non può essere nel divenire non lo può essere neanche per influsso di qualche cosa; pertanto ciò che col corpo può essere nel divenire lo può essere con qualche cosa e quindi non può essere considerato immune dal divenire.

6 - Teismo nella filosofia naturale del platonismo

Dunque i platonici, che per illustre fama sono considerati superiori agli altri filosofi, ebbero l'intuizione che Dio non è corpo e quindi nella ricerca di Dio trascesero tutti i corpi.

Ebbero l'intuizione che il Dio sommo non è nulla di ciò che diviene e quindi nella ricerca di Dio trascesero ogni anima e tutti gli spiriti posti nel divenire.19

Infine ebbero l'intuizione che ogni forma esistente nell'essere diveniente, per la quale esso è ciò che è, in qualsiasi limite e qualunque essenza sia, può esistere soltanto dall'essere che esiste per la sua verità perché è fuori del divenire.

Pertanto la materia, le figure, le qualità, il movimento ordinato e il finalismo degli elementi dell'universo dal cielo alla terra e tutti i corpi che esistono in essi, come pure la vita, sia quella che fa vegetare ed esistere nel tempo come negli alberi, sia quella che ha queste funzioni e la sensazione come nelle bestie, sia quella che ha queste funzioni e il pensiero come negli uomini, sia quella che non ha bisogno della funzione vegetativa ma esiste nel tempo, ha sensazione e pensiero come negli angeli, possono esistere soltanto da colui che semplicemente è.

In lui infatti non sono diversi l'esistere e il vivere perché non può esistere senza vivere, non sono diversi il vivere e il pensare perché non può vivere senza pensare, non sono diversi il pensare e l'essere felice perché non può pensare senza esser felice ma ciò che per lui è il vivere, il pensare e l'esser felice è per lui il suo esistere.

I platonici compresero che per questa sua non soggezione al divenire e alla molteplicità egli ha creato tutte le cose e che è impossibile la sua dipendenza nell'essere da un altro.

Considerarono infatti che ogni essere o è corpo o è vita, che la vita è più perfetta del corpo e che la forma del corpo è sensibile e quella della vita intelligibile.

Ritennero quindi che la forma intelligibile è più perfetta di quella sensibile.

Sono considerate sensibili le cose che possono essere percepite con gli organi della vista e del tatto, intelligibili quelle che sono pensate nella intuizione della mente.

Non v'è infatti bellezza corporea, tanto se è nella immobilità come una figura o nel movimento come un canto, di cui lo spirito non giudichi.

E non lo potrebbe se in lui non fosse più perfetta la forma intelligibile senza il rilievo del volume, senza il suono della voce, senza lunghezza di spazio o di tempo.

Ma se non soggiacesse al divenire anche nella specie intelligibile, un soggetto non giudicherebbe meglio di un altro la specie sensibile, e cioè uno più intelligente di uno più tardo, uno più esperto di uno meno esperto, uno più esercitato di uno meno esercitato, e il medesimo soggetto, quando fa progressi, meglio dopo che prima.

Infatti ciò che riceve il più e il meno, senza dubbio è nel divenire.

Per questo i platonici, intelligenti, colti ed esercitati nella filosofia, conclusero logicamente che la forma non è prima in quegli esseri in cui si dimostra innegabilmente che è diveniente.20

Nella loro teoresi il corpo e lo spirito sono più o meno belli e se fossero privi di ogni forma non esisterebbero affatto.

Ebbero l'intuizione dunque che esiste un essere in cui la forma prima è fuori del divenire e quindi assoluta e ritennero con molta coerenza che in lui è la ragione ideale non creata delle cose e nella quale tutto è stato creato.

Così ciò che si conosce di Dio, egli lo manifestò loro, quando da essi sono stati intuiti col pensiero i suoi attributi invisibili attraverso le cose create ed anche il suo eterno potere e la divinità, ( Rm 1,19-20 ) perché da lui sono state create tutte le cose visibili e temporali.

Bastano questi concetti relativi alla parte che chiamano fisica, cioè naturale.

7 - Possibilità della metafisica nella filosofia logica

Per quanto riguarda la dottrina che è oggetto della seconda parte, detta dai platonici logica cioè razionale, non si può certo pretendere di poterli confrontare con quelli che attribuirono il criterio della verità ai sensi e sostennero che tutti gli oggetti della conoscenza si devono rapportare alla loro misura malsicura e ingannevole.

Sono gli epicurei ed altri come loro.21

Anche gli stoici i quali amarono l'abilità del ragionare, che chiamano dialettica, ritennero che essa doveva esser derivata dai sensi.

Sostenevano appunto che da essi il pensiero concepisce le nozioni, che chiamano έννοιαι, di quelle cose che si chiariscono mediante la definizione, dalla quale si svolge per logica connessione la dimostrazione scientifica.22

E a proposito spesso mi chiedo assai meravigliato, giacché, secondo loro, soltanto i sapienti hanno bellezza, con quali sensi abbiano percepito questa bellezza, con quali occhi carnali abbiano intuito la distinta bellezza della sapienza.

I platonici invece, e per questo li riteniamo superiori agli altri, hanno distinto l'oggetto della intelligenza da quello della sensazione senza sottrarre ai sensi la loro capacità e senza assegnarne loro al di là delle loro possibilità.

Hanno affermato poi che luce del pensiero per conoscere tutte le cose è lo stesso Dio da cui tutte le cose sono state prodotte.23

8 - Dio bene sommo nell'etica

Rimane la parte morale che con termine greco chiamano etica.

Con essa si ricerca sul sommo bene affinché riferendo ad esso tutte le nostre azioni, desiderando e raggiungendo il bene che non si vuole in vista di un altro ma per se stesso, non ne cerchiamo un altro per esser felici.

Perciò è stato detto anche fine appunto perché per esso desideriamo tutti gli altri beni ed esso soltanto per se stesso.

Alcuni hanno detto che questo bene beatificante per l'uomo è dal corpo, altri dallo spirito e altri dall'uno e dall'altro.24

Consideravano infatti che l'uomo è composto di anima e di corpo e quindi ritenevano che il loro bene derivasse o da uno dei due o da entrambi in un finale sommo bene con cui esser felici, a cui rapportare tutte le loro azioni e per non cercare ancora un altro fine a cui rapportarlo.

Pertanto coloro che stando alla storia hanno aggiunto una terza categoria di beni, che è denominata estrinseca, come ad esempio l'onore, la gloria, la ricchezza e simili, non l'hanno aggiunta come finale, cioè come oggetto di desiderio per se stessa ma in vista di un'altra; ritenevano perciò che questa categoria è un bene per i buoni e un male per i malvagi.25

Quindi quelli che hanno affidato il bene dell'uomo o allo spirito o al corpo o a entrambi, hanno affermato che si deve ricercarlo esclusivamente nell'uomo, con la differenza che coloro i quali l'hanno affidato al corpo l'hanno riposto nella parte meno perfetta dell'uomo; coloro che nello spirito, nella parte più perfetta e coloro che in entrambi, in tutto l'uomo.

Comunque sia che in una delle due parti, sia che nell'intero, sempre nel l'uomo.

Le differenze sono tre ma non per questo hanno dato origine a tre ma a molti dissensi e sètte filosofiche.

I vari filosofi appunto hanno sostenuto differenti opinioni sul bene del corpo, sul bene dello spirito e sul bene di entrambi.

Tutti dunque devono piegarsi a quei filosofi che non hanno considerato felice l'uomo perché si placa nel corpo o nello spirito ma perché si placa in Dio, non come lo spirito nel corpo o in se stesso o un amico nell'amico ma come l'occhio nella luce.

E ciò posto che si possa addurre un'analogia dalle cose visibili alle intelligibili.

Nei limiti consentitimi sarà spiegata a suo luogo, se Dio mi aiuterà, la condizione di quello stato.

Per adesso è sufficiente ricordare che, secondo l'indicazione di Platone, fine del bene è vivere secondo virtù e che esso si ottiene soltanto da chi conosce e imita il dio e che soltanto per questa ragione è felice.

Perciò Platone non esita ad affermare che filosofare è amare il dio il cui essere sia immateriale.

Se ne deduce che chi si applica alla sapienza, perché questo è il filosofo, diviene felice quando comincerà a placarsi nel dio.

Con questo non s'intende dire che è necessariamente felice chi si placa nell'oggetto amato.

Molti infatti amando oggetti che non si devono amare sono infelici e più infelici ancora quando in essi si soddisfano.

Tuttavia non si è felici se non ci si placa nell'oggetto amato.

Anche coloro infatti che amano cose che amar non si debbono non credono di esser felici con l'amare ma col placarsi.

Dunque soltanto il più infelice degli uomini può negare che è felice colui che si placa nell'oggetto amato amando il vero e sommo bene.

Ora Platone considera il dio il vero e sommo bene e da ciò deduce che il filosofo è amatore del dio.

Quindi, giacché la filosofia tende alla felicità, chi amerà Dio è felice perché in lui si placa.

9 - Universalismo di certi principi filosofici

Per quanto riguarda dunque il sommo e vero Dio vi sono filosofi i quali hanno ritenuto che egli è l'autore del creato, la luce della conoscenza, il bene dell'azione e che da lui abbiamo ricevuto il principio dell'essere, la verità del sapere e la felicità del vivere.

Più propriamente sono detti platonici, o anche altri, qualunque denominazione diano alla propria setta.

Possono essere soltanto i più eminenti fra quelli della scuola ionica che abbiano sostenuto questa dottrina, come lo stesso Platone e quelli che lo hanno ben capito o anche i filosofi della scuola italica che la sostennero sull'autorità di Pitagora e dei pitagorici ed altri oriundi di là che furono della medesima opinione.

Possono trovarsene alcuni anche di altre nazioni che furono considerati saggi o filosofi e che ebbero questa concezione e dottrina, siano essi Mauritani o Libici, Egiziani, Indiani, Persiani, Caldei, Sciti, Galli, Spagnuoli.

Noi li consideriamo migliori degli altri e confessiamo che sono più vicini a noi cristiani.

10.1 - Paolo e la sapienza umana

Sebbene infatti il cristiano, istruito soltanto nelle Scritture ecclesiastiche ignori forse il nome dei platonici e non sappia che nella letteratura greca vi sono state due scuole di filosofi, gli ionici e gli italici, non è tuttavia così insensibile ai fatti del mondo da non sapere che i filosofi professano l'applicazione alla sapienza o la sapienza stessa.

Comunque si guarda bene da coloro che fanno filosofia secondo i principi di questo mondo e non secondo Dio da cui è stato creato il mondo.

È messo in guardia infatti dall'avvertimento dell'Apostolo e dà retta a ciò che è stato detto: State attenti che qualcuno non v'inganni mediante la filosofia e il vano convincimento secondo i principi di questo mondo. ( Col 2,8 )

Poi per non supporre che siano tutti eguali, ascolta quello che di alcuni filosofi dal medesimo Apostolo vien detto: In loro è manifesto ciò che di Dio si può conoscere perché Dio lo ha loro manifestato.

Infatti fin dall'origine del mondo i suoi invisibili attributi si scorgono col pensiero attraverso il creato, ed anche l'eterna sua potenza e divinità. ( Rm 1,19-20 )

Nel parlare agli Ateniesi, avendo espresso un grande concetto su Dio, che ben pochi potevano capire, e cioè che in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, soggiunse: Come hanno affermato anche alcuni dei vostri. ( At 17,28 )

Il cristiano sa guardarsi da loro anche nei punti in cui hanno errato.

Infatti nel passo in cui è stato detto che Dio ha fatto loro scorgere mediante l'intelletto i propri invisibili attributi attraverso il creato, è stato anche detto che essi non hanno adorato rettamente Dio perché hanno offerto sconvenientemente ad altri oggetti gli onori divini soltanto a lui dovuti: Sebbene conoscessero Dio non gli hanno dato lode e rendimento di grazie come a Dio ma si smarrirono nei propri pensieri e il loro stolto sentimento si offuscò.

Sebbene affermassero di essere sapienti, divennero insipienti e scambiarono la gloria di Dio indefettibile nella figurazione dell'idolo defettibile di uomo, di uccelli, di quadrupedi e di serpenti. ( Rm 1,21ss )

Con queste parole indicò i Romani, i Greci e gli Egiziani che si sono vantati del titolo della sapienza.

Ma con essi tratteremo in seguito sull'argomento.

Comunque noi cristiani li consideriamo superiori agli altri in quanto sono d'accordo con noi sulla dottrina di un solo Dio, autore dell'universo, non solo immateriale perché trascende tutti gli esseri materiali ma anche indefettibile perché trascende tutte le anime, nostro principio, nostra luce, nostro bene.

10.2 - Le due sapienze umana e cristiana

Ma diamo l'ipotesi che un cristiano, per il fatto che ignora i loro scritti, non usi in una discussione la loro terminologia perché non la conosce, e cioè non chiami in latino naturale o in greco fisica la parte in cui si discute la ricerca sulla natura, razionale o logica la parte in cui si pone il problema del modo con cui si può affermare con certezza la verità, morale o etica la parte in cui si tratta della norma morale prescrittiva del bene e proibitiva del male.

Ma non per questo ignora che da Dio uno, vero, ottimo ci è stato dato l'essere naturale col quale siamo stati creati a sua immagine, il sapere col quale possiamo conoscere lui e noi stessi, la grazia con la quale unendoci a lui diveniamo felici.

Questo quindi è il motivo per cui riteniamo i platonici superiori agli altri, e cioè perché, mentre gli altri filosofi hanno sprecato ingegno e fatica nella ricerca dei principi delle cose e della norma del conoscere e del vivere, costoro con la conoscenza di Dio trovarono l'essere in cui è la causa dell'origine dell'universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui dissetarsi con la felicità.

Siano dunque i platonici oppure altri filosofi di qualsiasi nazione che affermino questa dottrina, l'affermano assieme a noi.

Ma abbiamo preferito trattare l'argomento con i platonici perché i loro scritti sono più conosciuti.

Infatti i Greci, la cui lingua è la più diffusa fra i vari popoli, hanno esaltato i loro scritti con grandi lodi e i Latini, spinti dal loro pregio e fama, li hanno letti con entusiasmo e traducendoli nella nostra lingua, li hanno resi più noti e illustri.

11 - Incontro fra le due sapienze nella storia

Alcuni individui, uniti a noi nella grazia di Cristo, si meravigliano, quando apprendono o leggono Platone, che egli abbia sostenuto una tale dottrina su Dio, perché riconoscono che è molto simile alla verità della nostra religione.

Pertanto qualcuno ha supposto che quando si recò in Egitto sia stato discepolo del profeta Geremia o che durante quel soggiorno abbia letto le profetiche Scritture.26

Ho esposto la loro opinione in alcuni miei libri.27

Ma il computo esatto del tempo che è contenuto nella cronologia indica che Platone nacque circa cento anni dopo il periodo in cui Geremia scrisse la propria profezia.

Ora Platone visse ottantuno anni.

E dall'anno della sua morte fino al tempo in cui Tolomeo re di Egitto fece venire dalla Giudea le Scritture profetiche del popolo ebraico e le fece tradurre, per tenerle con sé, dai Settanta ebrei che conoscevano anche la lingua greca, passano circa sessanta anni.

Perciò durante quel suo viaggio Platone non poté conoscere Geremia perché morto da tanto tempo e non poté leggere le Scritture perché non erano ancora state tradotte nella lingua greca che egli conosceva.

Si eccettua il caso, giacché era molto assiduo al lavoro, che mediante un interprete venne a conoscenza delle Scritture ebraiche come era venuto a conoscenza di quelle egiziane.

Comunque non ebbe l'intento di tradurle in iscritto, perché si narra28 che Tolomeo, il quale poteva anche esser temuto a causa del potere regale, ottenne di farle tradurre per segnalato favore; ma Platone voleva venire a conoscenza, per quanto poteva comprenderle, del loro contenuto mediante un colloquio.

Sembra che a convalidare l'ipotesi induca l'indicazione che il libro della Genesi comincia con queste parole: Nel principio Dio creò il cielo e la terra.

Ma la terra era invisibile e informe e le tenebre erano sull'abisso e lo spirito di Dio si librava sull'acqua. ( Gen 1,1-2 )

Ora Platone nel Timeo, il libro che ha scritto sull'origine del mondo, afferma che Dio nel creare unì la terra e il fuoco.

Ed è chiaro che egli assegna al fuoco la sfera del cielo.29

Dunque questo pensiero ha una certa somiglianza con quello delle parole: Nel principio Dio creò il cielo e la terra.

Poi chiama aria e acqua i due elementi mediani, con la cui interposizione fossero uniti i due estremi;30 perciò si ritiene31 che interpretò in questo senso le parole Lo spirito di Dio si librava sull'acqua.

Non sapendo infatti in qual senso la Scrittura abitualmente parli dello Spirito di Dio, giacché anche l'aria si chiama spirito, può aver ritenuto, come sembra, che in quel passo fossero indicati i quattro elementi.

Inoltre Platone afferma che il filosofo è amatore di Dio32 ed è il motivo che emerge con più vigore dalle Scritture sacre.

E soprattutto ve n'è un altro ed è quello che fra tutti quasi convince anche me ad ammettere che Platone non fu ignaro di quei libri.

A Mosè vengono riferite mediante un angelo le parole di Dio; e poiché egli chiede qual sia il nome di colui che gli comanda di recarsi dal popolo ebraico che doveva essere liberato dall'Egitto, gli viene risposto: Io sono Chi sono e dirai ai figli d'Israele: Chi è mi ha mandato da voi. ( Es 3,14 )

Appare che, nel confronto con l'essere che esiste nella sua ideale verità, perché non diviene, le cose poste nel divenire non esistano.

E Platone ha sostenuto con vivace dialettica questa dottrina e l'ha insegnata con costanza.33

Non so però se essa si trova in qualche parte dei libri di coloro che furono prima di Platone se si esclude il passo: Io sono Chi sono; dirai loro: Chi è mi ha mandato da voi.

12 - Platone e la tradizione filosofica

Ma non ha importanza dove l'abbia appresa, o nei libri scritti prima di lui dagli antichi, o piuttosto, come dice l'Apostolo perché ciò che di Dio si può conoscere era in loro manifesto; Dio infatti lo manifestò loro, perché fin dall'origine del mondo i suoi attributi invisibili si scorgono mediante il pensiero attraverso il creato, ed anche la sua eterna potenza e divinità. ( Rm 1,19-20 )

Finora ho chiarito sufficientemente, come ritengo, che giustamente ho scelto i platonici con cui trattare l'argomento di teologia naturale, relativo al problema, che abbiamo iniziato a discutere, se cioè in vista della felicità che si avrà dopo la morte è opportuno compiere riti a uno ovvero a più dèi.

Ho preferito loro perché sono considerati tanto più gloriosi e illustri degli altri quanto più degnamente hanno pensato dell'unico Dio che ha creato il cielo e la terra.

Basti dire che Aristotele, discepolo di Platone, uomo di grande ingegno, inferiore comunque al maestro per lo stile, ma superiore di gran lunga agli altri, fondò la scuola dei peripatetici, così detti perché era solito disputare passeggiando.

Essendo molto celebre attirò, mentre ancora viveva il maestro, moltissimi discepoli alla propria dottrina; così dopo la morte di Platone, Speusippo, figlio della sorella di lui, e Senocrate, suo discepolo prediletto, furono i continuatori della sua scuola che si chiamava Accademia e perciò essi e i loro successori furono chiamati accademici.

Eppure i più illustri filosofi recenti, che scelsero di seguire Platone, non vollero essere chiamati né peripatetici né accademici ma platonici.

Di essi sono giunti a grande fama fra i Greci Plotino, Giamblico e Porfirio e nell'una e nell'altra lingua, cioè greca e latina, si è avuto un celebre platonico l'africano Apuleio.

Ma tutti costoro e gli altri di questa scuola e perfino Platone ritennero che si dovessero tributare riti sacri a più dèi.

Indice

1 L. Crasso, in Cicerone, De orat. 3, 24, 93-95;
De nat. deor. 1, 4, 8
2 Platone, Protagora, 343a
3 Cicerone, Tuscul. 5, 3, 8-9
4 Platone, Fedone, 65a-e. 82d-84b;
Fedro, 246e-254b;
Convito, 210a-211c;
Politeia, ll. 4. 8. 9;
Agostino, De vera rel. 3, 3
5 I dialoghi: Eutifrone, Eutidemo, Ippia magg., Teeteto
6 Platone, Apologia, Critone, Fedone
7 Diogene Laerzio, 2, 43
8 Aristippo, in Diogene Laerzio, 2, 86-88;
Antistene, in ibid. 6, 10-13
9 Diogene Laerzio, 3, 6;
Platone, Leggi 656c-657b. 819b;
Epinomis 987a; Timeo 21e-25d
10 Diogene Laerzio, 3, 6. 9. 21
11 Cicerone, Tuscul. 5, 4, 10
12 Stoici, in Aezio, 1, pr. 2;
Diogene Laerzio, 7, 40;
Sesto Empirico, Adv. math. 7, 17, 40;
Anche Cicerone, Varro (Ac. post.) 1, 5, 19;
Apuleio, De dogm. Plat. 1, 3
13 Interpretazione contenuta in Varrone, Antiq. (rer. div.), 16; cf. anche libro precedente
14 Varrone, Logist. (Curio o De cultu deor.), frr. 42-43; cf. sopra 7, 34-35
15 Cipriano, De idolor. vanitate 4; cf. anche infra 27
16 Cicerone, Tuscul. 1, 13, 29
17 Talete, in Diels 11, fr. 3;
Anassimene, in Diels 13, fr. 3; stoici, in Cicerone, De nat. deor. 2, 9, 24-25;
Diogene Laerzio 7, 156;
Epicuro, Ep. ad Erod. 41-45;
Lucrezio, De rer. nat. 5, 419-431
18 Aezio, Plac. 4, 11-12;
Diogene Laerzio, 7, 42. 46. 54;
Sesto Empirico, Adv. math. 8, 10-11;
Cicerone, Varro (Ac. 11, 40-41 )
19 Platone, Timeo, 28b-29a;
Plutarco, De def. orac. 29, 426a.;
Plotino, Enn. 1, 6, 7
20 Platone, Timeo, 27e-28a;
Parmenide 130a-131e;
Plotino, Enn. 2, 4, 8; 3, 6, 11-12
21 Epicuro, Mass. cap. 23, in Diogene Laerzio, 10, 31-32;
i cinici, in Platone, Sofista 251b-c;
Aristotele, Met. 1043b
22 Diogene Laerzio, 7, 42. 51. 54;
Sesto Empirico, Adv. math. 7, 253-257;
Aezio, Plac. 4, 11
23 Platone, Politeia, 509d-511e. 532a-535a;
Plotino, Enn. 5, 8, 12
24 Dal corpo: Aristippo, in Diogene Laerzio, 2, 88;
Epicuro, Ep. ad Men. 127-32;
Mass. cap. 5-6; dallo spirito: Platone, ad es. Conv. 207a;
Gorgia 499e;
Politeia 532a-535a;
Aristotele, ad es. Et. Nic. 1097a15-1098a18;
Plotino, Enn. 1, 4, 2; 3, 6, 2; dall'uno e dall'altro: gli stoici, ad es. in Diogene Laerzio, 7, 85-89, in Cicerone, Tuscul. 4, 17, 37-38
25 Platone, Politeia, 580d-583b; stoici, in Diogene Laerzio 7, 105-106;
Epicuro, Mass. cap. 7. 10;
Cicerone, De off. 1, 8, 25-26; 2, 9, 31-32
26 Aristobulo, in Eusebio di Cesarea, Praep. evang. 7, 14; 11, 6;
Giustino, Apol. 59, 1-2; 60, 1-2;
Lattanzio, Div. inst. 4, 2;
Teodoreto, Graec. aff. cur. 2, 32
27 Agostino, De doctr. chr. 2, 28, 43;
Retract. 2,4,2
28 Ep. di Aristea a Filocrate 30-31
29 Platone, Timeo, 31b-c
30 Platone, Timeo, 32b-c
31 Giustino, Apol. 59, 3;
Filone, Incorr. mundi 4
32 Platone, Conv. 210e-211c;
Timeo 92c
33 Platone, Fedro, 25a-b;
Parmenide 132d; Timeo, 52a-d