Gli stati di vita del cristiano

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La fondazione dello stato di elezione

L'opera della divisione, così come la abbiamo descritta, non è affatto la spaccatura di una massa omogenea in due parti quantitativamente disuguali.

La chiamata a far parte della comunità di Cristo appare piuttosto sin dall'inizio come qualcosa che in sé non è univoco, bensì analogo.

La chiamata allo stato d'elezione è una chiamata qualificata, speciale, differenziata, di fronte alla quale non sta in simile maniera nessuna altrettanto differenziata chiamata allo stato di vita nel mondo; questa è contrassegnata piuttosto, nei confronti dello stato d'elezione, dal fatto che non si è chiamati in questo senso eminentemente qualificato.

La chiamata qualificata è, come la generale chiamata a far parte della Chiesa, chiaramente non solo una chiamata dal « mondo » che è esterno alla Chiesa, ma anche dal mondo che è all'interno della Chiesa.

La conseguenza di questa chiamata è immutabilmente sempre la stessa: « Essi tirarono le barche a riva, lasciarono tutto e lo seguirono » ( Lc 5,11 ).

« Lasciarono sul posto le loro reti e lo seguirono » ( Mt 4,20 ).

« Subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono » ( Mt 4,22 ).

« Lasciarono il loro padre nella barca insieme al ricavato giornaliero e lo seguirono » ( Mc 1,20 ).

« Egli disse a lui: seguimi! Ed egli si alzò e lo seguì » ( Mt 9,9 ).

« Egli si alzò, lasciò tutto e lo seguì » ( Lc 5,28 ).

Il « lasciare tutto » è la chiara condizione per la sequela: questo « lasciare tutto » viene richiesto dalla chiamata stessa, la quale è così esigente e così chiara che chi la ode la può udire soltanto in questa maniera.

Ciò viene ancora appositamente chiarito per coloro che volessero apportarvi delle riduzioni: « Se uno di voi vuole costruire una torre, non si siede forse prima a calcolare i costi, se egli abbia anche i mezzi sufficienti per la costruzione? ( … )

Così nessuno di voi può essere mio discepolo, se non rinuncia a tutte le sue proprietà » ( Lc 14,28-33 ).

Il tutto è indivisibile.

È il lasciare non solo i viventi, ma anche i morti ( Mt 8,21-22 ).

È un lasciare così radicale che addirittura conduce fuori dalla tana e dal nido verso ciò che è completamente al di fuori di ogni « luogo in cui posare il capo » ( Mt 8,20 ), dunque in un punto che è al di fuori di ogni umana sicurezza nel mondo, in un luogo che in base al mondo non è fissabile, poiché non è un luogo interno al mondo degli ordinamenti naturali e delle possibilità calcolabili, non è un luogo previsto nella creazione, ma a partire dal mondo può solo venir designato come non-luogo ( ouk èkei pou ).

Esso è l'al di fuori per eccellenza ( èxo, Eb 13,12-13 ).

E quelli che hanno compiuto il passo sono consci della sua indivisibilità.

Essi non stanno a enumerare ciò che hanno lasciato; sanno che il loro lasciare comprende tutto: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito » ( Mt 19,27 ).

Essi hanno posto questo atto e lo hanno sentito come un atto che è unico, anche se lo devono ripetere ogni giorno e ogni giorno rinnovare ciò che è unico ( Einmalige ) in piccole rinunce.

Nondimeno esso è tutto.

Se ne stanno così: col tutto che è il mondo dietro di sé, e davanti a sé nient'altro che la sequela di Colui che ha designato se stesso come la Via.

Verso dove egli conduca non lo si può, partendo dal mondo, prevedere.

Perciò è lecito porre la domanda: « Che cosa ci spetterà per questo? » ( Mt 19,27 ).

Se infatti si deve prendere realmente sul serio questo « tutto », allora non è più immaginabile una pura e semplice continuazione dell'esistenza interna al mondo portata avanti sinora.

L'uomo ha bisogno nel mondo di beni e di mezzi per prorogare la sua vita.

E poiché questi beni sono, dopo il peccato originale, scarsi e contesi, egli è costretto a preoccuparsi di come impadronirsi di essi.

L'al di fuori e « Non di questo mondo » ( Gv 18,36 ) in cui i chiamati vengono condotti non può d'altra parte essere un fare a meno del mondo: essi devono « essere nel mondo » ( Gv 17,11 ) e in esso vivere, anche se interiormente essi « non sono di questo mondo » ( Gv 17,14 ).

Così il loro stato diventa per il mondo qualcosa di incomprensibile e inafferrabile, qualcosa che sta al di là delle leggi e degli ordinamenti terreni, ai quali tuttavia essi non vengono sottratti ed esentati.

Questo luogo impossibile per il mondo è da percepire e da abitare solamente nella fede che segue ciecamente.

Esso è il luogo della fede e della sequela stessa: « Chi mi vuol servire mi segua; e dove sarò io, là sarà anche il mio servo » ( Gv 12,26 ); il « dove » di Gesù è però, tanto più nella croce, precisamente questo « al di fuori » ( Eb 13,12 ), « senza dimora », « non di questo mondo ».

Ma così esso è il luogo che viene creato dalla sua missione.

Il « dove » del Redentore è la missione del Padre, e così il « dove » del chiamato è la missione del Figlio: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi » ( Gv 20,21 ).

Poter stare nel luogo della missione ha dunque come prima condizIone il radicalismo del lasciare tutto.

Ogni sicurezza che ci riannoda al mondo costituisce una minaccia non solo per una parte, ma per l'interezza di questo « stare ».

Per il tesoro nascosto devono venir venduti « tutti quanti i propri beni », e così pure per la perla preziosa del regno dei cieli ( Mt 13,44-46 ).

Ogni voltarsi a guardare indietro, anche solo per prendere congedo, è un tradimento nei confronti del « tutto »: « Ti seguirò, Signore. Ma lascia prima che prenda congedo dai miei a casa mia.

Gesù gli spiegò: Chiunque pone mano all'aratro e si volta a guardare indietro non è adatto per il Regno di Dio » ( Lc 9,61-62 ).

Il tentativo di trattenere qualcosa di quello che si diede ad intendere di voler lasciare è apportatore di morte ( At 5,1-11 ).

Se uno possiede poco, come i discepoli, o molto, come il giovane ricco che aspirava alla perfezione, è indifferente, una volta che la chiamata sia risuonata; infatti anche al giovane ricco viene rivolta la richiesta: « Vendi tutto ciò che hai, danne il ricavato ai poveri …, poi vieni e seguimi » ( Lc 18,22 ).

Si tratta di un lasciare i beni materiali esteriori, in modo così reale che una interpretazione simbolica sarebbe qui ridicola, ma si tratta pure di un lasciare interiore, un rinunciare ad ogni dipendenza mondana: « Se uno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e perfino se stesso, non può essere mio discepolo » ( Lc 14,26 ).

L'odio verso se stesso si estende in un odio verso tutta la vita terrena ( Gv 12,25 ), e precisamente non col pensiero segreto di trattenere, ma con la certezza di perdere questa vita terrena ( Lc 17,33 ).

Proprio in mezzo a questo esodo radicale, che per l'uomo si presenta come un'esigenza irreale e inadempibile, giacché egli la pone nel puro vuoto, risuona il secondo comando: lasciando perdere tutto possedere una fiducia cieca, un'ingenua mancanza di paura.

« Non preoccupatevi, non abbiate paura » sono le ammonizioni del Signore che ritornano incessantemente.

Tutto dipende da un giusto ordine di successione degli atti: non cercare dapprima una sicurezza terrena, per poi solo allora lasciar perdere e offrirsi, ma nel rinunciare ad ogni preoccupazione e sicurezza terrena, ad ogni considerazione circa il possibile e l'impossibile, nel puro dipendere dall'obbedienza del « Seguimi! », nel perdere ogni terreno sotto i piedi, accettare di venir collocati in quel luogo in cui si potrà vivere unicamente in base alla fede.

Dopo che è risuonata la richiesta di non voler servire a due padroni, a Dio e a Mammona, vengono proferite quelle pressanti ammonizioni e promesse che vogliono toccare intimamente il cuore dell'uomo e capovolgerlo: « Così io vi dico: Non preoccupatevi angustiosamente per la vostra vita, di cosa mangiare e bere, e nemmeno del vostro corpo, di cosa vestirete.

Di tutto ciò si preoccupano i pagani.

Il vostro Padre celeste sa di che cosa avete bisogno.

Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù.

Non preoccupatevi per il domani, poiché il domani si darà già pena per se stesso » ( Mt 6,25-31-34 ).

« Non accumulate tesori sulla terra » ( Mt 6,19 ), « anche se uno vive in abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni » ( Lc 12,15 ).

Senza paura i credenti devono ricevere il Regno, offrendo tutte le loro cose terrene, dalle mani del Padre; « Non temere, piccolo gregge, poiché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il Regno.

Vendete i vostri averi e date il ricavato in elemosina » ( Lc 12,32s ).

L'esortazione a non preoccuparsi e a non temere non basterebbe a indurre l'uomo ad un così folle passo.

La fede deve essere ciecamente fiduciosa; ma nei confronti di questa generosità della dedizione umana il Signore è debitore di una risposta che sorpassa cento volte ogni generosità umana.

Egli deve costruire un fondamento, nel bei mezzo del puro « al di fuori » tipico della sequela nella fede, sul quale colui che segue possa stare anche come uomo.

Egli deve, fintantoché prega il Padre: « Non che tu li tolga dal mondo, ma che tu li protegga dal male » ( Gv 17,15 ), conferire ai suoi uno stato d'esistenza all'interno del mondo creato.

Egli deve per primo letteralmente creare questo luogo in cui stare ( Stand-Out ), fondarlo come una possibilità sociologica garantita, come una possibilità certa all'interno di una sociologia soprannaturale, la quale verrà sempre di nuovo posta in questione da ogni sociologia naturale, ma come una possibilità perfino semplice per i credenti, anzi cento volte provata e sperimentata: quella di poter stare realmente nel posto che è stato loro ordinato.

Così il Signore elargisce la grande promessa che ha da valere come documento di fondazione del nuovo stato: « Ognuno che lascia case o fratelli o sorelle o padre o madre o figli o campi per il mio nome li riotterrà assai più abbondantemente, e guadagnerà in eredità la vita eterna » ( Mt 19,29 ).

« In verità vi dico: Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per me e per il Vangelo, che non riceva cento volte tanto già qui in questo tempo, in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e in futuro la vita eterna » ( Mc 10,29-30 ).

« In verità vi dico: Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o sorelle o figli per il Regno di Dio, che non riceva il centuple di questo nel tempo presente e in quello futuro la vita eterna » ( Lc 18,29-30 ).

La semplice legge enunciata da Matteo viene in diversa maniera determinata più da vicino da Marco e Luca.

Da una parte Marco descrive il centuplice guadagno già in questo mondo nei suoi singoli aspetti: al posto della casa: case, al posto della madre: madri; dall'altra egli pone questo centuplice guadagno terreno, in maniera corrispondente alle ulteriori predizioni del Signore, nella cornice delle persecuzioni.

Quindi in mezzo all'insicurezza dell'aver abbandonato tutto, che ha come ripercussione l'odio del mondo e giunge fino a subire persecuzioni da parte di esso, c'è spazio sufficiente per un centuplice guadagno già in questo mondo.

Luca aggiunge come elemento nuovo e significativo l'abbandono non solo di fratelli, genitori e figli, ma espressamente anche della moglie.

Questa rinuncia era certo già inclusa nel lasciare case, campi e figli, ma con questa esplicita formulazione completa il quadro che altrimenti avrebbe dato adito ad incertezza e domande su un punto importante.

La rigorosità di questi testi mette a tacere ogni dubbio.

Così alla lettera come nel Vangelo viene presentato e richiesto l'abbandonare, è da prendere anche la promessa.

Non solo sarà a malapena possibile esistere nel nuovo spazio di vita, ma questo stato che agli occhi del mondo è impossibile, avrà, quanto ad ampiezza del poter stare, il centuple rispetto allo stato mondano.

Sarà uno stare « in mezzo a persecuzioni », dunque uno stare che ricorderà ogni giorno il radicalismo dell'uscita dal mondo, e agli occhi del mondo apparirà sempre come un puro e semplice essere appesi al nulla, uno stare che non potrà mai mutarsi in un'esistenza sicura camuffandosi ( rispettivamente cento volte tanto ).

Nello stesso modo dopo l'esodo dall'Egitto il popolo nel deserto dipendeva unicamente dalla guida di Dio, dal nutrimento che riceveva dal cielo e dall'acqua da bere che riceveva dalla roccia.

O con un'immagine tratta dal Nuovo Testamento: nel momento in cui il discepolo non cammini più nella pura fede sulle onde di questo mondo, ma cominci invece, riflettendo solo su se stesso, a perdere di vista il Signore, inizierebbe a sprofondare.

La povertà evangelica è possibile solo sul fondamento della fede evangelica.

Se essa si trasforma impercettibilmente o anche in maniera percettibile in una pura e semplice « virtù morale », in qualcosa che può venir reso conforme con astuzia ai rapporti tipici del mondo, essa ha perso il suo splendore cristiano e la garanzia della grazia.

Tutto dipende dalla verità del lasciare totale.

Solo se questo accade « per il mio nome », « per il Vangelo », « per il Regno di Dio », ha diritto al guadagno della promessa.

E questo « per » è indivisibile, non solo nel momento del primo lasciare ma anche per tutto il tempo della sequela di Cristo.

L'uscita dal mondo è definitiva; anche se al credente essa appare come un tratto di deserto, non c'è per lui nessun ritorno alle « cipolle d'Egitto ».

Il ricevere questo centuplice guadagno non è un ritorno indietro dall'elezione verso lo stato di partenza, ma è assicurato nella misura in cui la sequela continua in povertà, castità e obbedienza.

Poiché in effetti è dell'unità di queste tre che si tratta.

La povertà viene sempre con una certa ampiezza e insistenza posta all'inizio.

Il vendere tutti i propri averi e distribuire il ricavato in elemosina è una richiesta così evidente e inattaccabile da alcuna sottigliezza intellettuale, che viene posta come la concretizzazione percettibile del « lasciare tutto ».

Non avrebbe alcun senso voler crearsi un accesso all'obbedienza evangelica senza passare attraverso questa porta d'entrata.

Per questo anche la promessa viene così manifestamente collegata a questo atto, come se l'intera struttura del nuovo stato di vita da fondare fosse determinato dalla povertà, e la verginità e l'obbedienza fossero solo conseguenze o forme di più profonda comprensione di questa prima rinuncia.

La verginità appare da una parte ( in Luca ) inclusa nella legge della povertà, giacché il lasciare la moglie viene posto nel bel mezzo del lasciare gli altri parenti e i beni terreni.

Essa appare d'altra parte ( in Matteo ) precisamente parallela alla povertà, nella misura in cui l'apertura della possibilità della povertà e della verginità da parte del Signore avviene entrambe le volte come risposta ad un perplesso stupore dei discepoli.

Nel caso della povertà è la sgomenta domanda dopo che il giovane ricco se ne è andato: « Chi dunque si può salvare? » ( Lc 18,26 ) che serve come introduzione alla grande promessa.

Nel caso della verginità è la non meno sgomenta osservazione dei discepoli: « Se le cose stanno così tra uomo e donna, allora è meglio non sposarsi » ( Mt 19,10 ).

Entrambe le volte l'uomo viene condotto dall'inesorabilità dell'esigenza cristiana come davanti a un muro di roccia, dove nessuna via sembra condurre oltre, finché non avviene il miracolo della fondazione del nuovo stato, miracolo che apre uno spazio là dove non sembrava possibile.

Il fatto che la povertà viene messa così chiaramente al primo posto, mentre la verginità dapprima arretra maggiormente nella promessa, ha il suo motivo in questo, che il Signore chiama i suoi discepoli dall'Israele dell'Antico Testamento, nel quale il matrimonio era uno stato della promessa.

Egli, che veniva per adempiere la Legge, non per abolirla ( Mt 5,17 ), non voleva costruire la sua Chiesa su uomini che non avevano vissuto nell'autentica tradizione messianica.

Così il celibato poté dapprima essere soltanto l'eccezione, certo un'eccezione posta così fortemente in luce sin dall'inizio - nel Battista, e poi in Giovanni e in Paolo - da poter diventare una regola per le successive generazioni sorte all'interno del Nuovo Testamento.

Infatti dalla legge vitale della completa disponibilità, che il Signore formula per i discepoli eletti e che Paolo vive in purezza ancor prima dei dodici, risulta sufficientemente che la rinuncia alla moglie viene richiesta non meno che quella a casa, campi e legami familiari.

Tuttavia nei testi neotestamentari la verginità viene contrassegnata nella maniera più chiara come un « consiglio » ( Mt 19,10-12: « Chi può comprendere, comprenda! » 1 Cor 7,8-25: « É meglio per essi se rimangono come io ( … ) Per quanto concerne le vergini, non ho dal Signore nessun comando, ma voglio dare un consiglio, come uomo che per la grazia del Signore merita fiducia » ).

Se povertà e verginità sono l'accesso chiaramente delineato al nuovo stato, il suo punto centrale è l'obbedienza.

Il disfarsi di tutti i beni e le dipendenze terrene, come il Signore lo delinea, è sempre soltanto un mezzo nei confronti del fine della perfetta sequela, di quella mobilità esterna e tanto più interiore che permette al discepolo di seguire il maestro ovunque egli va, addirittura via da tutto verso il totale « al di fuori » ( Eb 13,11-13 ).

Le due fasi vengono chiaramente separate: « Se vuoi essere perfetto va', vendi ciò che hai, danne il ricavato ai poveri, ( … ) poi vieni e seguimi » ( Mt 19,21 ).

Questo seguire è per il futuro il contenuto e la legge della vita del discepolo.

L'obbedienza del Figlio, che non è venuto per farsi servire, ma per servire, anzi per sacrificare la sua vita in riscatto per tutti ( Mc 10,45 ), viene eretta a modello per la vita del discepolo, la cui condizione sarà d'ora in poi determinata in base alla perfezione di questo servizio ( Mt 20,26-28 ).

Il servizio al Signore diventa l'esclusivo contenuto della vita dei discepoli.

Essi devono far propri i suoi pensieri, lasciarsi inviare da lui per eseguire i suoi incarichi, accettare minuziose istruzioni, che possono sembrare quasi una piccolezza, circa il nutrimento, il vestito, l'equipaggiamento, il viatico, il loro comportamento per strada e nelle case straniere, circa lo stipendio e il lavoro manuale, essi devono uscire a due a due e sbrigare l'incarico per cui sono stati mandati ( Mc 6,7-13; Mt 10,5-14; Lc 9,1-6 ), e al loro ritorno render conto esattamente del loro agire e fare ( Mc 6,30 ).

Essi hanno anche ordini singoli da eseguire: prendere il largo e gettare le reti ( Lc 5,3-4 ), o tener pronta una barca per lui ( Mc 3,9 ), o slegare un'asina senza preoccuparsi di tutte le difficoltà che forse insorgeranno e portarla a lui ( Mt 21,3-6 ), o preparare la cena in base a precise istruzioni ( Lc 22,8-13 ).

In questo rapporto del Signore coi suoi discepoli viene prefigurato non solo pressappoco il futuro rapporto della Chiesa docente con la Chiesa discente, o il rapporto fra capo e corpo, ma al di là di questo viene molto chiaramente prefigurata l'intima forma di vita di quelli che per il suo nome hanno lasciato tutto per seguirlo: la forma di vita nell'obbedienza, che non obbedisce solamente nel caso di occasionali decisioni "ex cathedra", quando la Chiesa fissa in maniera solenne la verità divina, ma anche nelle piccolezze del quotidiano.

Per apprezzare giustamente la portata di questa obbedienza bisogna considerare soprattutto che i discepoli durante gli anni della vita pubblica di Gesù non hanno ancora riconosciuto la sua figliolanza divina, la sua divinità, in alcuna maniera; il massimo a cui essi giungono è la confessione della sua messianità, anche nel qual caso rimane però incerto se essi comprendono le sue vere implicazioni.

In Gesù diventa loro trasparente in maniera singolare Dio; nei suoi comandi l'autorità di Dio.

Ma Gesù rimane per essi l'uomo che trasmette la volontà di Dio.

Proprio questo viene fondato nella Chiesa: « Chi ascolta voi, ascolta me » ( Lc 10,16 ); la Parola giunge - nei riguardi del ministero - direttamente ad ogni credente.

Ma quanti sono quelli che prendono per sé questo atteggiamento d'obbedienza come forma di vita, anziché soltanto come caso limite?

A partire di qui diventa comprensibile che questa meta dei consigli evangelici poteva e doveva venir concretizzata attraverso l'approvazione della Chiesa stessa come un « consiglio », anzi come il consiglio che racchiude in sé gli altri, come la forma di sequela che contraddistingue la vita secondo i consigli.

In questo rapporto dei discepoli verso Gesù viene finalmente compiuto davvero il « lasciar tutto », e la sequela esteriore diventa finalmente davvero una sequela interiore, che fa sì che l'atteggiamento di Cristo, un atteggiamento di perfetta obbedienza nei confronti del Padre ( Fil 2,5-8 ), si incarni realmente nella sociologia soprannaturale dello stato della vocazione nel rapporto tra superiore e subalterno.

Lungi dall'essere un tardo accessorio della Chiesa o addirittura un'infiltrazione di elementi estranei al cristianesimo, la forma di vita dell'obbedienza che per amore del Signore rinuncia all'impostazione della vita in proprio è la più stretta pensabile sequela di Cristo, il quale « non è venuto per fare la sua volontà, ma la volontà di colui che lo ha mandato » ( Gv 6,38 ).

Ancor più che il voto di povertà e di verginità quello dell'obbedienza è legato esclusivamente all'esistenza e al modello di Cristo.

L'obbedienza cristiana come definitiva rinuncia al proprio volere e all'autodeterminazione è possibile soltanto all'interno dell'obbedienza di Cristo e grazie al suo permesso che ci rende possibile di trovarci sulla sua strada ( Gv 12,26 ).

Se il Signore non avesse percorso questa strada, se non fosse stato egli stesso questa via, essa sarebbe non solo priva di senso e incomprensibile, ma addirittura inaccessibile.

Non ci sarebbe affatto la possibilità di rinunciare al proprio io e abbandonarlo, poiché non ci sarebbe quel concetto di servizio che scaturisce unicamente dall'amore perfetto che il Figlio ha per il Padre e che è venuto a portare agli uomini.

Così si va sempre più profilando che lo stato d'elezione per eccellenza è lo stato di Cristo, del quale più avanti tratteremo più dettagliatamente.

Egli ha creato questo stato togliendolo dallo stato mondano con la sua chiamata e la sua separazione, ha fondato la possibilità di uno « « stare » là dove prima non ce n'era alcuna, e questa possibilità l'ha fondata addirittura in se stesso.

Essa è la possibilità di stare in lui, di avere il proprio posto nel suo amore al Padre e agli uomini, un amore di completa abnegazione.

È la possibilità, fondata nella chiamata, di andare a lui ( pros auton, Mt 10,1 ), di essere presso di lui ( met'autou, Mc 3,14 ), attorno a lui ( peri auton. Mc 4,10 ), insieme a lui ( syn auto. Lc 8,38 ), di condividere la sua sorte, di partecipare alla sua passione, alla sua riprovazione, al suo smacco, di bere al suo calice, di divenire i confidenti dei suoi pensieri più intimi, onde alla fine non solo risorgere insieme con lui, ma insieme con lui espressamente giudicare ( Mt 19,28; 1 Cor 6,2 ) e in forza di questo giudizio loro affidato insieme con lui regnare ( Ap 20,4-6 ).

Si vede ora anche come questa nuova possibilità fondata nel Redentore si rapporta allo stato originario dell'esser uomo.

Lo stato originario era uno « stato di perfezione », in cui tra stato mondano e stato d'elezione non era necessaria né possibile alcuna distinzione.

In esso la natura umana era a tal punto sorretta dalla grazia e predisposta all'amore, che povertà poteva significare solo l'espressione della ricchezza dell'amore, verginità solo l'espressione della sua fecondità, e obbedienza solo quella della sua libertà nel servizio.

Quanto la dedizione contenga di rinuncia al proprio possesso restava non accentuato e nascosto nella potenza dell'amore reciproco che tutto riempie.

L'esistenza dell'umanità decaduta aveva mutato questa pienezza in una scarsità all'interno del mondo; per questo la ricerca di ciò che è necessario per vivere e la proprietà singola erano divenuti inevitabili, l'istintivo determinante per la procreazione, e la scelta fra bene e male grazie ad una ragione che pensa alla maniera del mondo decisiva per il comportamento morale.

La destinazione dell'uomo espressa nel comandamento dell'amore non era posta fuori vigore, ma chi poteva pensare di renderla legge e quintessenza dell'intera esistenza, quando pure questa originaria totalità era frantumata e irrestaurabile per l'uomo?

Chi poteva pensare, in mezzo alla battaglia per l'esistenza, che l'amore non cerca ciò che è suo?

La nostalgia della totalità poteva continuare a vivere, ma nei suoi tentativi di ristabilire con forza propria il rapporto originario doveva - come dicemmo prima - sprofondare dallo stato dell'analogia davanti a Dio e in Dio verso forme titaniche di identità mistica o di puro umanesimo che mette l'uomo al posto di Dio.

La strada fra stato originario e stato finale era crollata.

Chi voleva ciononostante trovare la via doveva, là dove si era verificato uno smottamento, arrampicarsi su per i burroni.

Questo fece il Figlio di Dio.

Egli si calò giù nel profondo e divenne uomo.

Non un uomo edenico, ma uomo come noi.

« Egli assunse la forma di servo, comparve nella somiglianza degli uomini e fu trovato come un uomo quanto a caratteristiche, forma e figura » ( Fil 2,7 ), anzi egli venne addirittura nella « uguaglianza alla carne del peccato » ( Rm 8,3 ), più ancora: egli che era senza peccato fu in sostituzione ( Gv 8,46; Eb 4,15 ) « fatto peccato » ( 2 Cor 5,21 ) dal Padre al nostro posto, marchiato « come maledizione » ( Gal 3,13 ).

Egli rivestì la carne e lo spirito che dopo la cacciata dall'Eden non erano più capaci della « giustizia delle origini », vale a dire dell'amore perfetto, e assunse l'inconcepibile e per l'uomo incomprensibile incarico di corrispondere all'interno del mondo decaduto all'originaria richiesta di Dio di un amore perfetto.

Chi contempla la grandezza di questo miracolo, a costui apparirà meno sorprendente il fatto che la realizzazione divino-umana dell'amore perfetto nella natura indebolita basta per riconciliare la giustizia di Dio con il mondo e per attuare la redenzione dell'intera natura.

Costui comprenderà però anche che questo non poteva venir attuato altrimenti che attraverso l'apparire della rinuncia radicale nell'amore, attraverso un sacrificio che non coincide più ad adempimento e gioia, ma che doveva invece compiersi nella notte dell'abbandono della Croce.

Egli cammina « in profondità » ( unten durch ) nella piena verità della vita terrena così come viene vissuta dopo la cacciata dal paradiso terrestre, e tuttavia egli la vive come se camminasse al livello originario non abbassato, come se percorresse la strada che non esiste più tra paradiso terrestre e cielo.

E mentre egli così cammina, questa strada stessa sorge nuovamente con lui.

Egli pareggia in se stesso la differenza tra sotto e sopra; la sua via rasoterra e la sua via in alto sono entrambe verità integrali e senza riduzioni.

E queste due verità non stanno l'una accanto all'altra senza relazione, ma poiché egli è disceso in basso adempie l'alto.

Poiché egli si svuota e si umilia fino all'ultimo, diventa totalmente povero e obbediente sino alla morte in croce, « per questo il Padre lo ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome » ( Fil 2,9 ).

Poiché egli discese nel più profondo poté salire al di sopra di tutti i cieli, per essere tutto in tutti ( Ef 4,9-10 ).

Nella sua incarnazione la discesa assume le forme della povertà, della verginità e dell'obbedienza, e proprio queste forme gli rendono possibile di vivere quaggiù come se vivesse lassù.

Egli porta la prova che ciò che per l'uomo è impossibile non è impossibile per Dio; ma ciò che Dio rende possibile, diventa per questo possibile anche per l'uomo.

E percorrendo la via egli crea necessariamente anche per gli altri la possibilità di percorrerla.

Infatti non appena egli come colui che viene dall'alto ( Gv 3,15; Gv 8,23 ) non solo secondo l'apparenza, ma in piena realtà vive in forma divina ( goffformig ) una « interiore » vita d'uomo secondo il volere di Dio, c'è questa possibilità; ed essa può essere vissuta seguendo le sue tracce.

Si può vivere terrenamente come se valessero ancora le leggi dell'Eden.

« Noi non siamo dunque, fratelli, debitori della carne, per vivere secondo la carne » ( Rm 8,12 ).

Questa possibilità di superare la differenza tra il mondo di adesso e la « terra nuova » ( Ap 21,1 ) promessa con una vita che vista a partire dal mondo rimane utopia, ma che nella chiamata e nella sequela di Cristo si da sempre di nuovo, è per il mondo sostanzialmente un segno promettente, che addirittura « contiene » sacramentalmente ciò che significa.

Questa via si chiama essenzialmente rinuncia, poiché la differenza tra lo stato originario e lo stato attuale può venir pareggiata solo attraverso la sottrazione di ciò che l'ha causata: cupidigia e disobbedienza, che si staccò dall'ordine dell'amore.

Solo a causa del peccato povertà, verginità e obbedienza acquistarono un tratto negativo.

Ma è per la grazia del Signore che nella sua sequela questa rinuncia introduce non solo in una nuova promettente pienezza di beni tanto terreni quanto celesti ( « Vi ha forse mancato qualcosa? » Lc 22,35 ), non solo nella libertà della verità ( Gv 8,51-32 ), nella libertà di Cristo ( Gal 5,1 ), ma partecipa espressamente alla fecondità del sacrificio della redenzione e con ciò reca la prova della sua natura paradisiaca.

Solo per gli occhi del mondo le rinunce nel cristianesimo sono qualcosa di negativo.

Solo per i peccatori lo scettro di Cristo si fa sentire come un rastrello di ferro ( Ap 12,5 ).

Per chi vuole portare il Suo giogo esso diviene « dolce e leggero » ( Mt 11,30 ), « i suoi comandi non sono pesanti » ( Gv 5,3 ), e nella dolcezza e umiltà di Colui che « non griderà e non farà strepito e la cui voce non si ode sulle piazze » ( Mt 12,19 ) « troverà pace per la sua anima » ( Mt 11,29 ), « una pace che sorpassa ogni immaginazione » ( Fil 4,7 ), poiché è presentimento « della nostra patria dei cieli » ( Fil 3,20 ).

Il nuovo stato che il Signore ha creato, che solo sulla base della sua propria vita, anzi solo sulla base dell'unità di entrambe le due nature nella sua persona divina diventò possibile, è dunque da parte sua una sintesi tra la vita terrena e quella paradisiaca.

Esso è uno stare nella croce come nell'accesso al paradiso, o uno stare nel paradiso che viene di nuovo donato nella forma della croce.

Esso è pienezza in mezzo alla rinuncia e beatitudine in mezzo al dolore, fecondità divina nella rinuncia a quella terrena, libertà divina nel legame all'obbedienza terrena.

Esso è in questa sintesi non lo stato definitivo, che non conterrà più nessun dolore e croce, ma l'essenziale accesso ad esso, una misteriosa anticipazione del cielo in una « prima morte » e una « prima resurrezione »: « Felice e beato colui che ha parte alla prima resurrezione; su di lui la morte seconda non ha alcun potere.

Essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille anni » ( Ap 20,6 ).

Essi anticipano quella morte che gli altri senza volere devono soffrire nel passaggio da questa vita terrena al paradiso di Dio: « Gli altri morti ritornarono di nuovo in vita solo quando i mille anni furono compiuti » ( Ap 20,5 ).

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