Summa Teologica - I

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Articolo 9 - Se gli angeli beati possano accrescere la loro beatitudine

In 2 Sent., d. 11, q. 2, a. 1

Pare che gli angeli beati possano accrescere la loro beatitudine.

Infatti:

1. La carità è il principio del merito.

Ma negli angeli c'è una carità perfetta.

Quindi gli angeli beati possono meritare.

Ora, se cresce il merito cresce pure il premio della beatitudine.

Quindi gli angeli beati possono accrescere la loro beatitudine.

2. S. Agostino [ De doctr. christ. 1,32.35 ] insegna che Dio « si serve di noi per la sua bontà, e per il nostro vantaggio ».

E lo stesso vale per gli angeli, di cui egli si serve nel ministero spirituale: poiché, come dice S. Paolo [ Eb 1,14 ], essi sono « spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza ».

Ora, ciò non tornerebbe a loro vantaggio se col loro ministero non meritassero né potessero progredire nella beatitudine.

Rimane perciò stabilito che gli angeli beati possono meritare e accrescere la loro beatitudine.

3. Se colui che non è al culmine della perfezione non può progredire, ciò va ascritto a una sua imperfezione.

Ma gli angeli non sono al culmine della perfezione: se quindi non possono progredire, è chiaro che in essi ci deve essere imperfezione e difetto.

Il che non è ammissibile.

In contrario:

Il meritare e il progredire sono propri dello stato di viatori.

Ma gli angeli non sono viatori, bensì contemplanti.

Quindi gli angeli beati non possono meritare, né possono accrescere la loro beatitudine.

Dimostrazione:

In ogni moto l'intenzione del movente mira a un termine determinato, verso il quale intende condurre il soggetto che viene mosso: l'intenzione infatti riguarda sempre un fine, e [ tra i fini ] non si può andare all'infinito.

Ora, si è già visto [ a. 1; q. 12, a. 4 ] che la creatura razionale, non potendo con la propria virtù conseguire la sua beatitudine, che consiste nella visione di Dio, deve essere mossa da Dio al conseguimento di questa beatitudine.

Bisogna quindi che sia ben prefissato il termine a cui la creatura razionale deve essere diretta come al suo ultimo fine.

E questa delimitazione, nella visione di Dio, non può riguardare l'oggetto stesso della visione: poiché esso è la somma verità, che è vista da ciascun beato in grado diverso.

- Invece quanto al modo della visione l'intenzione di colui che conduce al fine prestabilisce termini diversi.

Non è possibile infatti che la creatura razionale, come è elevata alla visione della suprema essenza, così pure sia elevata a quella visione perfettissima che è la comprensione [ di Dio ]: tale modo di conoscere infatti, come è chiaro da quanto si disse [ q. 12, a. 7; q. 14, a. 3 ], non può competere che a Dio.

Ora, poiché per comprendere Dio ci vuole una capacità infinita, mentre le capacità conoscitive delle creature non possono essere che finite, e poiché tra qualsiasi realtà finita e l'infinito ci sono infiniti termini intermedi, ne segue che per le creature razionali ci sono infiniti modi di conoscere Dio, con maggiore o minore chiarezza.

E come la beatitudine consiste nella visione stessa di Dio, così il grado della beatitudine consiste in una certa misura della visione.

Perciò Dio non solo conduce la creatura razionale al fine della beatitudine, ma le fa anche raggiungere il grado di beatitudine stabilito dalla divina predestinazione.

Per cui, una volta raggiunto quel grado, la creatura non può conseguire un grado più elevato.

Analisi delle obiezioni:

1. Il merito è proprio di chi viene mosso verso il fine.

Ora, la creatura razionale viene mossa verso il fine non in maniera puramente passiva, bensì mediante le sue operazioni.

E se il fine è proporzionato alle proprie forze, la creatura razionale raggiunge il fine con la sua operazione: come l'uomo studiando acquista la scienza.

Se invece il raggiungimento del fine non è in suo potere, ma essa lo aspetta da altri, con la sua operazione merita il fine.

Nel caso però che uno abbia già raggiunto l'ultimo termine, si dirà che è già stato mosso al fine, non che si muove ancora.

Quindi meritare è proprio della carità imperfetta dello stato dei viatori; la carità perfetta invece non merita più, bensì fruisce del premio.

Come anche negli abiti acquisiti le azioni che precedono l'abito servono ad acquistare l'abito stesso, mentre quelle derivanti dall'abito acquisito sono azioni perfette che si compiono con diletto.

E così l'atto della carità perfetta non ha ragione di merito, ma è piuttosto un complemento del premio.

2. Una cosa può dirsi vantaggiosa in due modi.

Primo, come mezzo per raggiungere il fine: e così si dice utile il merito [ che porta ] alla beatitudine.

Secondo, come può dirsi vantaggiosa la parte rispetto al tutto: la parete, p. es., rispetto alla casa.

E il ministero angelico è utile agli angeli beati in questa maniera, in quanto cioè fa parte della loro beatitudine: infatti il diffondere negli altri la perfezione posseduta è proprio dell'essere perfetto in quanto perfetto.

3. Sebbene l'angelo non abbia raggiunto il sommo grado di beatitudine in senso assoluto, pure si trova al culmine della beatitudine relativamente a quel grado che a lui è stato fissato dalla divina predestinazione.

Tuttavia la gioia degli angeli può crescere per la salvezza di quelli che si salvano con l'aiuto del loro ministero, secondo il detto evangelico [ Lc 15,10 ]: « C'è gioia davanti agli angeli di Dio per un peccatore che si converte ».

Ma questa gioia fa parte del premio accidentale, il quale può certamente crescere fino al giorno del giudizio.

Quindi alcuni dicono che quanto al premio accidentale essi possono addirittura meritare.

- Ma è più giusto dire che nessun beato può meritare in qualsiasi modo, eccetto il caso in cui sia al tempo stesso viatore e comprensore, come Cristo, il quale fu il solo a essere insieme viatore e comprensore.

Infatti più che meritare quella gioia, gli angeli la acquistano in virtù della beatitudine.

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