Summa Teologica - II-II

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Articolo 1 - Se la verità, o veracità, sia una virtù

In 4 Ethic., lect. 15

Pare che la verità, o veracità, non sia una virtù.

Infatti:

1. La prima di tutte le virtù è la fede, il cui oggetto è la verità.

Ora, siccome l'oggetto è anteriore all'abito e all'atto correlativi, è chiaro che la verità non è una virtù, ma qualcosa di anteriore alla virtù.

2. Come dice il Filosofo [ Ethic. 4,7 ], è compito della verità o veracità far sì che uno « dica di se stesso ciò che egli è, né di più né di meno ».

Ma ciò non è sempre lodevole: infatti non è lodevole nel bene, poiché sta scritto [ Pr 27,2 ]: « Ti lodi un altro e non la tua bocca »; e non è lodevole nel male, poiché Isaia [ Is 3,9 ] rivolge ad alcuni questo rimprovero: « Ostentano il peccato come Sodoma: non lo nascondono neppure; disgraziati! ».

Quindi la veracità non è una virtù.

3. Una virtù può essere teologale, intellettuale o morale.

Ma la verità o veracità non è una virtù teologale, non avendo per oggetto Dio, bensì le realtà temporali: infatti Cicerone [ De invent. 2,53 ] scrive che « la verità ha il compito di dire le cose come sono, sono state o saranno ».

Parimenti non è una delle virtù intellettuali, ma è il loro fine.

E neppure è una virtù morale, poiché non consiste nel giusto mezzo tra un eccesso e un difetto: infatti più uno dice il vero meglio è.

Quindi la verità, o veracità, non è una virtù.

In contrario:

Il Filosofo [ Ethic. 2,7; 4,7 ] enumera la verità, o veracità, fra le altre virtù.

Dimostrazione:

Il termine verità può avere due accezioni.

Primo, è verità quella cosa per cui un oggetto è detto vero.

E in questo senso la verità non è una virtù, bensì l'oggetto o il fine della virtù.

E neppure è un abito, che è il genere prossimo della virtù, ma è una certa uguaglianza o adeguazione fra l'intellezione o il segno intellettuale e la cosa intesa e significata, oppure anche tra la cosa e l'esemplare da cui essa dipende, come si è detto nella Prima Parte [ q. 16, aa. 1, 2; q. 21, a. 2 ].

- Secondo, è verità quella disposizione per cui uno dice il vero, così da meritare il titolo di verace.

E tale verità o veracità non può essere che una virtù: poiché dire il vero è un atto buono, e la virtù ha precisamente il compito di « rendere buono chi la possiede e buona l'opera che egli compie » [ Ethic. 2,5 ].

Analisi delle obiezioni:

1. L'argomento vale per la verità presa nella prima accezione.

2. Dichiarare le cose proprie in quanto ciò costituisce una manifestazione della verità è per sua natura un bene.

Ma ciò non basta a farne un atto di virtù: poiché a ciò si richiede che l'atto sia rivestito delle debite circostanze, senza delle quali è vizioso.

E in base a ciò è riprovevole lodare se stessi senza i debiti motivi.

Come pure è riprovevole che uno parli apertamente dei propri peccati come per vantarsene, oppure che ne parli senza alcuna utilità.

3. Chi dice il vero proferisce dei segni conformi alla realtà: cioè parole, gesti, oppure qualsiasi altra manifestazione esterna.

Ma di tali cose esterne si occupano solo le virtù morali, che hanno il compito di regolare l'uso delle membra esterne, il quale dipende dalla volontà.

Perciò la verità o veracità non è una virtù teologale, bensì morale.

Essa poi consiste nel giusto mezzo tra l'eccesso e il difetto in due maniere: in rapporto all'oggetto e in rapporto all'atto.

In rapporto all'oggetto, poiché il vero implica nella sua nozione una certa adeguazione, o uguaglianza, e d'altra parte ciò che è uguale sta in mezzo fra il più e il meno.

Quindi per il fatto che uno dice il vero di se stesso, sta nel giusto mezzo tra chi esagera e chi dice di meno.

- La veracità inoltre sta nel giusto mezzo in rapporto all'atto poiché dice il vero quando e nella misura in cui è opportuno.

Si ha invece l'eccesso in chi dice le sue cose quando non occorre, e il difetto in chi le nasconde quando bisognerebbe manifestarle.

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