La città di Dio

Indice

Immortalità del politeismo

1 - Una irritante categoria di avversari

Se la fiacca capacità dell'esperienza umana non ardisse opporsi al criterio della verità evidente ma sottoponesse la propria malattia alla dottrina salutare come a cura medica fino a guarire mediante l'aiuto di Dio e con l'intervento della fede religiosa, non ci sarebbe bisogno di un lungo discorso per dimostrare l'errore d'una falsa concezione a coloro che pensano rettamente ed esprimono i pensieri con parole appropriate.

Ma la più grave e disgustosa malattia di stolte intelligenze è proprio quella di difendere come criterio razionale della verità le proprie impressioni irrazionali, anche dopo che è stato offerto un criterio pienamente razionale, quale si può dare da un uomo a un altro.

E lo fanno o per grande accecamento, per cui non si vedono neanche le cose in piena luce, o per ostinata caparbietà, per cui non si vogliono osservare le cose che si vedono.

Ne sorge la necessità di ripetere più diffusamente concetti chiari quasi a mostrare non cose da vedersi a chi guarda, ma da toccarsi a chi palpa con gli occhi chiusi.

Ma ci sarà allora un termine della discussione e un limite del discorso se ritenessi di dover rispondere a chi non la smette di interloquire?

Infatti coloro che o non sono capaci d'intendere ciò che si dice o sono tanto ostinati per opinione contraria che, quantunque abbiano inteso, non si arrendono, costoro interloquiscono e, come è stato scritto, difendono idee ingiustificate e non si stancano di essere insolenti. ( Sal 94,4 )

E se volessi confutare le loro obiezioni tutte le volte che aggrottando la fronte ostinata abbiano deciso di non capire quel che dicono, pur di contraddire in qualche modo alle mie argomentazioni, capisci che è un'opera senza limiti, irritante e senza risultati.

E per questo vorrei che né tu stesso, o figlio mio Marcellino, né altri, ai quali questo mio lavoro a titolo di proficua cortesia è dedicato nella carità di Cristo, ne siano giudici così fatti da desiderare sempre una risposta ogni volta che si accorgono di una qualche obiezione agli argomenti esposti.

Non divengano simili a quelle donnette, di cui dice l'Apostolo che imparano sempre e non arrivano mai alla conoscenza della verità. ( 2 Tm 3,7 )

2 - Riassunto del primo libro

Nel precedente libro, quando ho cominciato a parlare della città di Dio, dal momento in cui tutta l'opera col suo aiuto ha avuto inizio, mi si presentò la necessità di ribattere per primi coloro i quali attribuiscono le guerre, con cui il mondo è devastato, e soprattutto il recente saccheggio di Roma da parte dei barbari, alla religione cristiana, perché a causa sua è stato loro proibito di servire con culto obbrobrioso i demoni.

Dovrebbero piuttosto attribuire a Cristo il fatto che per rispetto al suo nome, contro l'abituale usanza della guerra, i barbari abbiano offerto loro perché vi si rifugiassero spaziosi edifici di culto inviolabili e hanno così onorato il servizio, non solo vero, prestato a Cristo ma anche quello simulato per paura, al punto da giudicare che fosse per se stessi illecito di fare ciò che sarebbe stato lecito fare contro di loro agli altri per diritto di guerra.

Ne sorse il problema perché questi benefici divini siano giunti anche a miscredenti e ingrati ed egualmente perché le atrocità commesse da parte dei nemici abbiano colpito indistintamente credenti e miscredenti.

Il problema si allargò in molti quesiti.

Esso infatti, in considerazione dei quotidiani favori divini e sventure umane che, gli uni e le altre, capitano indiscriminatamente ai buoni e ai cattivi, di solito turba molti individui.

Per risolverlo secondo l'esigenza dell'opera intrapresa mi sono un po' dilungato principalmente per consolare donne consacrate col voto di castità, giacché contro di esse era stata commessa dal nemico un'azione che ha causato pena al pudore, anche se non ha tolto la fermezza della pudicizia.

L'ho fatto perché non abbiano a rincrescersi della vita dal momento che non hanno di che rincrescersi per malcostume.

Poi ho detto alcune cose contro coloro che con sfrontata arroganza dileggiano i cristiani afflitti dalle sciagure e soprattutto il pudore delle donne svillaneggiate ma santamente caste.

Piuttosto sono essi molto dissoluti e privi di pudore, assai degeneri da quei Romani di cui sono lodate e divulgate nella letteratura azioni nobili, anzi fortemente opposti alla loro dignità.

Proprio essi avevano reso Roma, creata e resa illustre dalle fatiche degli antichi, più abietta mentre era in piedi che dopo la caduta perché nel suo saccheggio sono caduti pietre e legnami, invece nella loro vita sono caduti i sostegni ornati non dei muri ma dei costumi.

Bruciava di più il loro cuore di passioni mortali che le case di Roma con le fiamme.

Con queste parole ho terminato il primo libro.

Poi ho stabilito di parlare delle sventure che la città ha subito dalla sua fondazione sia nel suo interno che nelle province soggette, anche perché le accollerebbero tutte alla religione cristiana se fin d'allora la dottrina evangelica avesse fatto sentire nella loro nobilissima tradizione letteraria una eco contro gli dèi falsi e bugiardi.

3 - Lega anticristiana di dotti e ignoranti

Ricorda che mentre richiamo questi fatti parlo ancora contro gli ignoranti.

Dalla loro ignoranza è nato appunto l'aforisma: "Non viene la pioggia, ne sono causa i cristiani".1

Coloro invece che iniziati agli studi liberali amano la storia, sanno benissimo queste cose, ma per renderci ostili le masse degli indotti fanno finta di non saperlo; e si affannano a ribadire nel volgo che le sciagure da cui ineluttabilmente l'umanità in determinate circostanze di spazio e di tempo è afflitta avvengono per colpa della religione cristiana, giacché a danno dei loro dèi si diffonde con grande fama e illustre rinomanza in tutti i paesi.

Richiamino dunque con noi le sciagure con cui lo Stato romano più volte e in vario modo è stato ridotto a nulla, prima che il Cristo venisse nel mondo, prima che il suo nome si rendesse noto ai popoli con la gloria che inutilmente gli contrastano.

Difendano poi, se ne sono capaci, anche per questi fatti, i loro dèi se sono adorati appunto perché i loro adoratori non subiscano queste sventure, dal momento che pretendono di addossare a noi quelle che ora hanno sofferto.

Perché dunque hanno permesso che accadessero ai loro adoratori i mali che sto per narrare, prima che la predicazione del nome di Cristo li irritasse e facesse proibire il loro culto?

4 - I misteri cartaginesi di Celeste

E prima di tutto per quale ragione i loro dèi non vollero preoccuparsi affinché gli uomini non avessero pessimi costumi?

Il vero Dio ha giustamente trascurato individui da cui non era adorato.

Ma per quale ragione questi dèi, dato che uomini molto ingrati lamentano che n'è stata loro proibita l'adorazione, non hanno aiutato con leggi i propri adoratori a vivere moralmente?

Era giusto che come gli uomini si sono preoccupati dei loro sacrifici, così essi si preoccupassero delle loro azioni.

Si risponde che si è cattivi per volontà propria. E chi lo nega?

Tuttavia era di dèi provvidi non tenere nascosti ai propri adoratori comandamenti di moralità, ma presentarli in una chiara promulgazione, rimproverare personalmente i trasgressori mediante profeti, minacciare palesemente pene ai malvagi, promettere ricompense agli onesti.

Quando mai si è fatta udire con parole espresse e autorevoli una tale promulgazione nei loro templi?

Andavamo anche noi da giovanetti qualche volta a osservare le profanazioni di osceni spettacoli, guardavamo gli invasati, ascoltavamo i coristi, ci deliziavamo delle rappresentazioni veramente indecenti che si facevano in onore di dèi e dee, della vergine Celeste e di Cibele madre di tutti loro.2

Davanti al suo trono, nel giorno solenne del suo bagno, erano cantati pubblicamente da mimi pervertiti canzoni tali, quali non era conveniente che udisse, non dico la madre degli dèi, ma neanche la madre di un qualche senatore o di qualsiasi persona onesta, anzi neanche la madre degli stessi mimi.

L'umano pudore ha qualche cosa nei confronti dei genitori che neanche la perversità riesce a togliere.

Gli stessi mimi si sarebbero vergognati di eseguire a scopo di prova generale nelle loro case davanti alle loro madri lo sconcio di quelle oscene parole e azioni drammatiche.

Eppure lo compivano in pubblico davanti alla madre degli dèi, mentre vedeva e udiva una gran calca dell'uno e dell'altro sesso.

E se la gente attirata dalla curiosità poté assistere perché confusa nella folla, dovette andarsene confusa almeno per l'offesa alla decenza.

Che cosa sono le profanazioni del sacro se quelli sono riti sacri?

E che cos'è l'insozzarsi se quello è un bagno?

E si chiamavano pietanze, quasi fosse dato un pranzo, durante il quale come a un proprio banchetto mangiassero le immonde divinità.

Non si capisce dunque di che razza siano gli spiriti che si dilettano di tali oscenità?

A meno che si ignori l'esistenza di spiriti immondi i quali ingannano col titolo di dèi o si conduca una vita in cui si desiderano propizi o si temono irati loro anziché il vero Dio.

5 - Nasica riceve Cibele a Roma

In questo argomento non vorrei avere come giudici costoro, che desiderano esser dilettati anziché lottare contro i vizi di una dannosa usanza, ma lo stesso Nasica Scipione che fu eletto dal senato alla più alta carica e da cui personalmente fu accolta e portata in Roma la statua di quella divinità.3

Ci direbbe se avrebbe voluto che sua madre fosse tanto altamente benemerita dello Stato da esserle tributati onori divini.

È noto che i Greci, i Romani e altri popoli li hanno decretati ad alcuni mortali.

Avevano tenuto in gran conto i benefici ricevuti e creduto che fossero divenuti immortali e quindi accolti nel numero degli dèi.4

Nasica certamente, se fosse possibile, desidererebbe un destino così alto per sua madre.

Chiediamogli poi se desidererebbe che fra gli onori divini per lei si eseguissero quelle rappresentazioni oscene.

Griderebbe di preferire che sua madre rimanga morta nella tomba senza conoscenza piuttosto che vivere come dea per ascoltare favorevolmente quelle cose.

Un senatore del popolo romano, provvisto di un carattere tale per cui impedì che in una città di uomini forti si costruisse un teatro, non vorrebbe che la madre fosse onorata così da essere resa propizia come dea con riti da cui una matrona sarebbe oltraggiata.

E non avrebbe mai supposto che il pudore di una donna onorata fosse dagli attributi divini volto al significato contrario, sicché i suoi adoratori la rendessero propizia con onori corrispondenti ad oltraggi lanciati contro qualcuno.

Se, mentre viveva fra gli uomini, non si turava gli orecchi per non udirli, ne sarebbero arrossiti per lei congiunti, marito e figli.

Pertanto una madre degli dèi che chiunque, anche il peggiore degli uomini, si vergognerebbe di avere per madre, per impadronirsi delle coscienze dei Romani si servì di un ottimo individuo non per renderlo buono col consiglio e l'aiuto ma per raggirarlo con l'inganno.

Fu dunque simile a quella donna di cui è stato scritto: La donna dà la caccia alle anime di valore degli uomini. ( Pr 6,26 )

Ne conseguì che quell'uomo di grande temperamento, come sublimato dall'attestazione della dea e reputandosi veramente ottimo non cercò la vera pietà religiosa, senza di cui anche un nobile ingegno si svuota a causa della superbia e si accascia.

In che modo dunque se non perfidamente la dea chiese un uomo ottimo?

Perché nei propri misteri chiede cose che gli individui ottimi aborriscono di usare nei loro banchetti.

6 - Gli dèi e la moralità umana

Quindi le divinità non si preoccuparono della vita e dei costumi delle città e popoli da cui erano adorate.

Permisero anzi non dando alcuna proibizione che divenissero veramente perversi riempiendosi di mali orrendi e detestabili non nel campo e nelle vigne, non nella casa e nella proprietà, non infine nel corpo che è soggetto alla mente, ma nella stessa mente, nello stesso spirito che domina il corpo.

Che se lo proibivano si dimostri, si provi.

Non ignoro quali bisbigli soffiati agli orecchi di pochissimi e come tramandati da un'arcana religione, con cui s'insegna la moralità, vadano vantando nei nostri confronti.5

Ma siano mostrati o citati i luoghi destinati a queste riunioni.

Non si tratti dei luoghi in cui sono eseguiti degli spettacoli con l'oscena rappresentazione drammatica degli attori, non del luogo in cui si celebra la festa della cacciata che si abbandona senza ritegno allo sconcio, e quindi è proprio una cacciata, ma del pudore e dell'onestà.

Si mostri cioè il luogo in cui i cittadini possano ascoltare ciò che gli dèi comandano sulla necessità di frenare l'avarizia, spezzare l'ambizione, reprimere la dissolutezza, in cui gli infelici possano imparare ciò che si deve sapere, come altamente afferma Persio: Imparate, o infelici, a conoscere le ragioni ideali delle cose, che cosa siamo, perché siamo generati a vivere, quale ordinamento è dato, quale e da chi è la reciprocità del limite, qual è l'uso moderato della ricchezza, che cosa è possibile desiderare, quale utile apporta il denaro che tormenta, fino a che punto è lecito concedere alla patria, agli amici e congiunti, chi Dio ti ha comandato di essere e da quale parte ti trovi nella realtà umana.6

Si dica in quali luoghi di solito si recitavano simili precetti di dèi che l'avessero insegnati e si udivano dai cittadini loro adoratori adunati in gran numero, allo stesso modo che noi indichiamo le chiese istituite allo scopo, dovunque si diffonda la religione cristiana.

7 - I filosofi e i riti pagani

Ci citeranno forse le scuole e dispute dei filosofi?

Prima di tutto non sono romane ma greche.

E se ormai sono romane perché la Grecia è divenuta provincia romana, non sono precetti degli dèi ma scoperte degli uomini.

Essi comunque, dotati di molto acume, hanno tentato di scoprire col pensiero i segreti della natura, i precetti e divieti nella morale, la conclusione che si trae con determinato nesso logico nelle regole del ragionamento, la deduzione legittima e perfino il sofisma.

E alcuni di essi, perché aiutati da Dio, hanno scoperto grandi verità ma in quanto umanamente limitati hanno insegnato errori, soprattutto perché giustamente la divina provvidenza resisteva alla loro altezzosità.

Così anche dal raffronto con essi mostrava la via della pietà che dalla terrenità si leva verso l'alto.

Si avrà in seguito con l'aiuto di Dio vero Signore l'opportunità di discutere in profondità sull'argomento.

Tuttavia se i filosofi hanno scoperto, quanto bastava, i principi dell'azione morale e del conseguimento della felicità, a loro giustamente si sarebbero dovuti attribuire onori divini.

È meglio e più onesto che in un tempio a Platone siano letti i suoi libri che nei templi dei demoni siano evirati i sacerdoti di Cibele, siano offerti in voto gli eunuchi, siano mutilati certi pazzi e tutto ciò che di crudele e sconcio o di sconciamente crudele o crudelmente sconcio nei riti di tali divinità si suole celebrare.

Era preferibile che per educare socialmente la gioventù si recitassero in pubblico le leggi degli dèi che lodare inutilmente le leggi e istituti degli antenati.

Tutti gli adoratori di tali divinità, appena la passione, pitturata, come dice Persio, di ardente veleno7 li abbia stimolati, pensano di preferenza alle azioni di Giove che agli insegnamenti di Platone o alle censure di Catone.

E per questo in Terenzio un libertino guarda una pittura alla parete, nella quale era dipinto il modo con cui Giove, dicono, in quei tempi infuse in grembo a Danae una pioggia d'oro.8

Da un essere tanto autorevole deriva la difesa della propria dissolutezza giacché si vanta di imitare in essa il dio, e quale dio, dice, proprio quello che scuote col tuono i templi del cielo.

Ed io, omuccio, non lo farò? Ma l'ho fatto e con soddisfazione.9

8 - Riti e spettacoli incentivi all'edonismo

Queste cose, obiettano, non sono presentate nei riti degli dèi ma nelle composizioni drammatiche dei poeti.

Non intendo dire che i riti siano più osceni delle rappresentazioni teatrali.

Dico, come afferma irrefutabilmente la storia contro chi nega, che non sono stati i Romani per un grossolano omaggio ai misteri dei loro dèi a introdurre gli spettacoli in cui dominavano le favole poetiche.

Gli stessi dèi han voluto che fossero eseguiti con solennità e dedicati in loro onore ordinandoli imperiosamente e quasi estorcendoli.

L'ho detto sommariamente nel primo libro.10

Infatti gli spettacoli furono istituiti a Roma la prima volta d'autorità dei pontefici durante l'infuriare di un'epidemia.11

E chi nella propria condotta non preferisce seguire le parole che si recitano spesso in spettacoli istituiti per autorità del dio, anziché quelle che sono scritte in leggi promulgate dalla giurisprudenza dell'uomo?

Se i poeti hanno falsamente indicato Giove come adultero, dèi che fossero casti avrebbero dovuto vendicarsi per ira perché fu rappresentato mediante spettacoli umani un delitto così grosso e non perché fu passato sotto silenzio.

E questi sono gli aspetti più sopportabili delle rappresentazioni teatrali, cioè della commedia e della tragedia, ossia della favola poetica da eseguirsi negli spettacoli con grande indecenza dei fatti ma almeno non composte, come molte altre, con parole oscene.

Eppure i fanciulli sono costretti dagli anziani a leggerle e impararle negli studi che si dicono umanistici.

9 - La denigrazione nel teatro greco e romano

Che cosa abbiano pensato del fatto i vecchi Romani ce lo attesta Cicerone nell'opera Sullo Stato in cui Scipione, uno dei dialoganti, dice: Le commedie non avrebbero potuto presentare nei teatri la propria infamia se non l'avesse tollerato il modo di vivere.12

I Greci antichi si attennero a una certa coerenza con la cattiva reputazione che ebbero, giacché da loro fu concesso per legge che la commedia manifestasse espressamente il tema e l'individuo cui lo applicava.

Perciò, come dice Scipione Africano in quell'opera, chi non ha raggiunto, anzi chi non ha insultato, chi ha risparmiato?

E vada pure se ha insultato cittadini disonesti, sediziosi nell'amministrazione, un Cleone, un Cleofonte, un Iperbolo.

Ammettiamolo, sebbene cittadini di quella risma è meglio che siano bollati dal censore che da un poeta.

Ma che Pericle, dopo essere stato a capo della città in pace e in guerra con grande autorevolezza per molti anni, fosse oltraggiato con composizioni poetiche e che queste poi fossero eseguite in teatro fu meno conveniente che se il nostro Plauto o Nevio avessero detto male di Publio e Gneo Scipione o Cecilio di Marco Catone.

E poco dopo: Invece le nostre dodici tavole, nello stabilire le pochissime pene capitali, fra di esse hanno ritenuto di dover porre anche questa: "Per chi satireggia o compone un carme che porta disonore e danno all'altro".

Giustissimo. Dobbiamo sottoporre la nostra condotta ai giudizi dei magistrati e agli accertamenti della legge e non al capriccio dei poeti e non ascoltare un'accusa se non in base a una legge per cui si possa rispondere e difenderci in giudizio.13

Ho pensato di citare testualmente queste parole dal quarto libro Sullo Stato di Cicerone con qualche omissione o leggera variante allo scopo di una più facile intelligenza.

Il testo è molto pertinente all'argomento che mi accingo a trattare se ne sarò capace.

Aggiunge altre parole e tira la conclusione di questo passo per dimostrare che ai vecchi Romani dispiaceva che in teatro si lodasse o insultasse un individuo, mentre era vivo.

Ma come ho detto, i Greci, sia pur con minor rispetto e tuttavia con maggior coerenza, stabilirono che era lecito.

Essi pensavano che agli dèi fossero gradite nelle rappresentazioni teatrali le azioni disonorevoli non solo degli uomini ma anche degli stessi dèi, tanto se erano inventate dai poeti che se le loro reali azioni scandalose erano ricordate e rappresentate in teatro e sembravano degne ai loro adoratori soltanto, speriamo, di riso e non anche di imitazione.

Sembrò troppo altezzoso risparmiare la onorabilità dei primi della città e dei cittadini, quando la divinità non voleva che si risparmiasse la propria.

Indice

1 Tertulliano, Apol. 40, 2
2 Ovidio, Fasti 4, 355, Virgilio, Aen. 6, 784; 9, 82;
Apuleio, Met. 6, 4; 11, 5;
Ammiano Marcellino, Rer. gest. 22, 13, 3;
Arnobio, Adv. nat. 5, 13;
Tertulliano, Ad nat. 2, 8, 5;
Apol. 24, 7;
Agostino, Enarr. in ps. 63, 7; 99, 14;
Serm. 105, 9: NBA, XXX/2;
Erodiano, Hist. rom. 5, 15;
Anth. pal. 6, 217-218;
Minucio Felice, Octav. 7, 3
3 Livio, Ab Urbe cond. 29, 14, 5-14;
Diodoro Siculo, Bibl. 34, 33, 2
4 Servio, Ad Verg. Aen. 8, 275 (…communemque vocate deum et date vina volentes);
Ennio, Euhemerus, fr. 10 (cf. Lattanzio, Div. inst. 1, 11, 44);
Cicerone, De nat. deor. 1, 42, 119; 2, 24;
Diodoro Siculo, Bibl. 6, 2, 4;
Minucio Felice, Octav. 20, 1
5 Firmico Materno, De errore prof. rel. 19-23
6 Persio, Sat. 3, 66-72
7 Persio, Sat. 3, 37
8 Terenzio, Eun. 584-585
9 Terenzio, Eun. 590-591;
Agostino, Conf. 1, 16, 26; e sotto c. 12
10 Varrone, Antiq., fr. 168; cf. 1, 32
11 Varrone, Antiq., fr. 167;
Livio, Ab Urbe cond. 7, 2, 1-3
12 Cicerone, De rep. 4, 10, 11
13 Cicerone, De rep. 4, 10, 11-12;
Duod. Tab. VIII, 1a