Supplemento alla III parte

Indice

L'ordine sacro

( Suppl., qq. 34-40 )

1 - Un discorso sul sacramento dell'ordine è sempre una presa di posizione sulla costituzione gerarchica della Chiesa.

Infatti dire ordine è come dire gerarchia.

E poiché in questi ultimi secoli, dopo la crisi protestante, ogni tentativo di dialogo per riparare la frattura che si è prodotta nella cristianità deve affrontare questo problema della struttura fondamentale della Chiesa, gli scritti sull'ordine sacro sono stati innumerevoli, e in questi ultimi anni sembrano addirittura moltiplicarsi in proporzione geometrica.

Ciò nonostante in questa colluvie di libri e di articoli, quasi sommersi dalle pubblicazioni più recenti, il trattato di S. Tommaso, estratto dal suo commento giovanile alle Sentenze di Pietro Lombardo, conserva un valore inestimabile: se non altro come documento storico.

Poco egli stesso vi ha aggiunto nella Summa Contra Gentiles e nell'opuscolo De articulis fidei et Sacramentis Ecclesiae.

A questo suo ultimo scritto fecero ricorso i padri del Concili di Firenze nel 1439, per redigere il famoso Decretum pro Armenis; e i Padri del Concilio Tridentino tennero costantemente sott'occhio il testo del Supplemento nella celebre Sessione XXIII dedicata all'ordine sacro [ 15 Giugno 1563 ].

Siamo certi quindi che la pubblicazione in italiano delle questioni dedicate al sacramento dell'ordine non costituisce la presentazione di un cimelio storico, ma l'occasione per un riesame approfondito dei problemi più vitali e attuali della Chiesa Cattolica.

Nel far questo non pretendiamo affatto di canonizzare e difendere tutte le affermazioni dell'Aquinate.

Siamo anzi perfettamente coscienti dei suoi limiti, cioè del condizionamento della sintesi tomistica in materia, per colpa di una cultura storica troppo sommaria, e in certi particolari addirittura inesatte.

È necessario però avvertire i lettori più sprovveduti che sarebbe vano cercare qui nel Supplemento alla Terza Parte quanto si riferisce alla vita spirituale del sacerdote; perché l'Autore, sia pure in maniera molto sommaria, ha già provveduto a farlo nell'ultimo trattato della Secunda Secundae, cioè nelle qq. 184 ss.

In codeste pericopi della maturità S. Tommaso ha messo in evidenza la perfezione della vita clericale soprattutto nel vescovo.

Qui invece, come vedremo, l'episcopato considerato da un punto di vista sacramentale, è posto quasi ai margini del trattato.

C'è voluto il Concilio Vaticano II per definire una volta per sempre che anche l'episcopato è un ordine, un sacramento quindi, e che imprime il carattere.

Gran parte dei teologi occidentali, e con essi S. Tommaso, era rimasta inchiodata su una posizione sbagliata, per l'inquinamento delle fonti.

Anche nella determinazione della materia e della forma dell'ordine sacro i teologi medioevali si sono ostinati a difendere la tesi che l'elemento determinante era la consegna degli strumenti del culto, relativi all'esercizio di ciascun ordine.

E questo non per colpa della teoria ilemorfica applicata ai sacramenti, come vorrebbero certi critici superficiali, ma per la scarsità della documentazione storica di cui quei teologi potevano disporre.

I - Il punto di partenza per la riflessione teologica sul sacerdozio.

2 - Ci sembra però che, nonostante il condizionamento storico evidentissimo, non si possa negare l'esattezza del punto di partenza adottato da S. Tommaso nella riflessione teologica sul sacerdozio.

Come tutti sanno codesto punto di partenza è il mistero eucaristico.

E questo non solo nel Supplemento, vale a dire nel suo commento giovanile alle Sentenze da cui questo fu ricavato, ma anche nelle opere posteriori.

Ecco, per esempio, come si esprime nella Contra Gentiles: « L'istituzione e la virtù dei sacramenti prende inizio da Cristo: poiché di lui l'Apostolo afferma, che « Cristo amò la Chiesa, e diede se stesso per essa, al fine di santificarla, purificandola col lavacro dell'acqua nella parola di vita [ Ef 5 ].

Ora, è evidente che Cristo diede nell'ultima cena il sacramento del suo corpo e del suo sangue, e ne istituì la frequente ripetizione.

E in ciò abbiamo i principali sacramenti.

E poiché Cristo era per sottrarre alla sua Chiesa la presenza sua corporale, era necessario che si procurasse dei ministri atti a dispensare i sacramenti ai fedeli: secondo l'affermazione dell'Apostolo [ 1 Cor 4,1 ]: "Noi ci si devo considerare come ministri di Cristo e come amministratori dei misteri di Dio".

Ecco perché egli affidò ai suoi discepoli la consacrazione del suo corpo e del suo sangue, dicendo: "Fate questo in memoria di me": e agli stessi diede il potere di rimettere i peccati, nonché l'ufficio di insegnare e di battezzare, dicendo [ Mt 28,19 ]: "Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole".

Ora, il ministro o servo sta al suo padrone come lo strumento all'agente principale.

Infatti come lo strumento è mosso a compiere qualche cosa dall'agente principale, così il ministro è mosso a eseguire qualche cosa dal comando del padrone.

Ma lo strumento deve essere proporzionato all'agente principale.

Perciò i ministri devono essere a lui conformi.

E poiché Cristo, come Signore, ha operato la nostra salvezza con la propria autorità e potenza, e in quanto Dio e in quanto uomo, in modo da soffrire la passione per la redenzione nostra in quanto uomo e da renderla salutare per noi in quanto Dio; è necessario che anche i ministri di Cristo siano uomini, e che partecipino qualche cosa della sua divinità secondo un certo potere spirituale…

- D'altra parte non si può dire che codesto potere sia stato dato ai discepoli di Cristo così da non poter essere comunicato ad altri: poiché esso fu dato, come dice l'Apostolo, "per l'edificazione della Chiesa".

Ora, questo è necessario che si attui dopo la morte dei discepoli fino alla fine del mondo…

Infatti il Signore disse ai discepoli: "Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo …".

3 - « Ma poiché il potere conferito dall'Ordine ha per fine l'amministrazione dei sacramenti, e tra i sacramenti l'Eucarestia è il più nobile e il coronamento degli altri, com'è evidente da quanto abbiamo già detto, è necessario che il potere di [ quest'Ordine sia considerato soprattutto in rapporto a questo sacramento; poiché "ogni cosa va denominata dal fine" » ( 4 Cont. Gent., c. 74 ).

I lettori ci perdoneranno la lunga citazione, che offre uno scorcio abbastanza persuasivo e complesso della sintesi sacramentaria dell'Autore.

Codesta sintesi fino a ieri era sostanzialmente accettata dalla massa dei teologi: ma il pacifico possesso delle posizioni più solide sembra finito in quest'epoca di contestazione.

Scrive infatti il P. Karl Rahner nel 3° numero 1969 della rivista Concilium: « Per l'attuale situazione concreta del sacerdozio ed anche per motivi teologici non sembra vantaggioso determinare di primo acchito l'essenza del sacerdozio gerarchico partendo dal potere sacramentale ( che secondo la dottrina conciliare, specie del Tridentino, gli spetta a differenza del laico e degli altri gradi della gerarchia, soprattutto del diacono ), quindi dal potere di dirigere la celebrazione eucaristica, rimettere sacramentalmente i peccati e amministrare l'unzione agli infermi.

« Non c'è bisogno di dimostrare qui ulteriormente che almeno ai nostri giorni solo difficilmente questo punto di partenza può essere il primo e fondamentale per la concezione del sacerdote ed addirittura non è sufficiente.

Inoltre esso non avrebbe alcun fondamento biblico immediatamente percepibile » ( Concilium, 1969, p. 108 ).

Notiamo però con piacere che il dotto gesuita, dopo aver preso atto delle molteplici istanze che la crisi del sacro e il tormento del clero in questo delicato periodo di assestamento impone alla teologia, conclude: « In parole del tutto semplici, il sacerdote è il predicatore del Vangelo per incarico ed in nome della Chiesa.

Il modo supremo di realizzazione di questa parola si ha nell'anamnesi della morte e resurrezione del Signore fatta dalla celebrazione eucaristica » ( ibid., p. 112 ).

4 - Questo discorso non è molto lontano da quello ascoltato sopra, cioè da quello di S. Tommaso, il cui trattato sull'ordine si integra con quanto egli ha detto a proposito dell'Eucarestia ( III, qq. 82. ).

Meno sostenibile ci appare invece l'affermazione sempre del Rahner, secondo la quale, a tutto rigore la Chiesa potrebbe sacramentalizzare compiti distinti del sacerdote, creando cioè ordini differenti per la predicazione, oppure per la presidenza di una comunità cristiana, anche a prescindere dall'Eucarestia.

Noi pensiamo che un'opinione del genere, in base ai principi dell'Aquinate, sia insostenibile.

Non perché S. Tommaso ha avuto modo di prendere coscienza della crisi del clero come oggi si presenta e di risolverla in termini perentori; ma perché certe soluzioni sono contraddittorie e incompatibili con i principi accettati: principi che derivano direttamente dalla rivelazione divina.

Né basta affermare il contrario, ossia che l'incompatibilità non esiste, per superare la contraddizione evidente.

Questo ci sembra l'appunto da farsi ai due seguenti periodi del Rahner che si susseguono senza soluzione di continuità nell'articolo citato « Secondo la tradizione e la terminologia corrente si può chiamare "sacerdotale" una tale funzione solo quando include la direzione della celebrazione eucaristica e gli altri poteri sacramentali già menzionati.

Questo però non esclude che la Chiesa disponga di ampia libertà di suddividere in varia misura il suo unico ufficio secondo le esigenze delle circostanze storiche e le funzioni implicate dall'essenza della Chiesa ( op. cit., p. 110 ).

Per quanto ampi infatti possano essere i poteri concessi alla Chiesa, ci sembra che quest'ultima non possa mai essere dispensata dalla perfetta fedeltà agli intendimenti di Cristo.

E quando questi sono dichiarati o armonizzati con il mistero cristiano da tutta una tradizione, la libertà di disporre le cose diversamente non è ammissibile.

È vero infatti che anche in passato la Chiesa ha spartito con una certa varietà compiti ministeriali negli ordini minori: ma codesti uffici sono incentrati più o meno direttamente sul mistero eucaristico, e precisamente sulla celebrazione solenne e decorosa del culto in cui il vescovo, o il presbitero accentra tutta la potestà di ordine concessa alla Chiesa, sia per la ripresentazione dei misteri relativi al corpo reale di Cristo, che per l'edificazione del suo corpo mistico.

Siamo però perfettamente d'accordo col Rahner nel ritenere che « non è vantaggioso voler determinare di primo acchito l'essenza del sacerdozio gerarchico partendo dal concetto di mediatore » ( ibid., p. 108 ).

Principalmente perché questo punto di partenza non avrebbe una chiara giustificazione biblica; poiché nella sacra Scrittura il concetto di mediatore è applicato solo a Gesù Cristo.

D'altra parte non si saprebbe facilmente comprendere una partecipazione alla mediazione stessa di Cristo.

Ci sembra invece che si debba prendere qui come punto di partenza il sacerdozio stesso di Cristo.

In questo troviamo consenziente il Dottore Angelico, il quale considera Cristo come « totius sacerdotii origo « ( III, q. 50, a. 5, ad 2 ).

Consigliamo anzi ai nostri lettori che fossero interessati alla ricostruzione della sintesi teologica dell'Aquinate sul sacerdozio, di cominciare senz'altro dalla q. 22 della Terza Parte, dedicata per intero al sacerdozio di Cristo, anche se gli articoli che la compongono non sono ricordati qui nel Supplemento tra i luoghi paralleli.

Il sacerdozio nella Chiesa Cattolica è considerato infatti come un compito ministeriale dell'unico sacerdozio del Nuovo Testamento, che è quello di Cristo.

5 - Per uno studio approfondito sull'argomento dovremmo suggerire in secondo luogo il trattato sui sacramenti in generale ( III, qq. 60-65 ).

E nel trattato si dovrebbe dare un risalto particolarissimo alla q. 63, dove tra l'altro si possono leggere queste parole: « Ogni fedele viene deputato a ricevere o a conferire ad altri quanto riguarda il culto di Dio.

E a questo scopo viene propriamente dato il carattere sacramentale.

Infatti tutto il rito della religione cristiana deriva dal sacerdozio di Cristo.

Perciò è evidente che il carattere sacramentale in modo speciale è il carattere di Cristo, al cui sacerdozio i fedeli vengono configurati mediante i caratteri sacramentali, che poi altro non sono che una partecipazione del sacerdozio di Cristo, derivante da Cristo medesimo » ( III, q. 63, a. 3 ).

Per chiunque abbia occhi per vedere e orecchi per intendere è chiaro che S. Tommaso ha accolto per primo il punto di vista che ritroviamo nella costituzione dogmatica Lumen Gentium del Vaticano II, dove il sacerdozio ministeriale è colto nella prospettiva del sacerdozio comune di tutti i fedeli: « Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo.

Il sacerdote ministeriale con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucarestia, e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità.

« L'indole sacra e organica della comunità sacerdotale viene attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù.

I fedeli, incorporati nella Chiesa col Battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere, ed essendo rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa.

Col sacramento, della Confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere con la parola e con l'opera la fede come veri testimoni di Cristo.

Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con l'oblazione che con la santa Comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro.

Cibandosi poi del corpo di Cristo, nella santa Comunione, mostrano concretamente l'unità del Popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata » ( Lumen Gent., nn. 10-11 ).

6 - Nel ricercare le cause che hanno prodotto, dopo il Concilio specialmente, lo smarrimento e la defezione in tanti membri del clero, nessuno ha avuto la cattiva idea di incolpare questa rivalutazione del sacerdozio universale dei fedeli.

Questa concezione infatti di suo dovrebbe portare a una esaltazione del sacro in tutto l'arco della vita dell'uomo e delle sue attività, e in nessun modo può essere incentivo a quel fenomeno di desacralizzazione, che ha trascinato molti fuori di strada.

Ma per capire certe cose bisogna avere la fede nella realtà soprannaturale.

Purtroppo l'esperienza concreta e banale della vita offre mille e mille tentazioni a chi ha assunto l'impegno di camminare sulla terra come cittadino del regno dei cieli: e questo non da ora ma da sempre.

Un tempo però la vita era più tranquilla, era quindi più facile appartarsi in piccoli ambienti a misura d'uomo, in cui la suggestione del mondo aveva proporzioni meno impressionanti.

Oggi la denigrazione secolaresca e anticlericale del sacro, e del prete che lo rappresenta, ha raggiunto una gravità insostenibile per chi non riesce a evadere, o non riesce ad affrontare la lotta con una maturità intellettuale e morale, nonché mediante un aggancio perfetto alle realtà di ordine superiore cui ci siamo votati.

d aggravare la situazione c'è forse nella cultura di molti chierici un sottofondo storicista di basso conio, in cui la storia della Chiesa è proiettata in una prospettiva alla rovescia.

Nei tempi andati, insomma, tutto appare grandioso e relativamente facile; oggi tutto è piccolo, meschino e difficile.

O, peggio ancora, si accede con una certa compiacenza o spregiudicatezza alle tesi dei denigratori di professione, dando corpo alla pretesa di essere addirittura dei pionieri, perché finora non si sarebbe praticamente attuato il messaggio cristiano.

In tutti i casi si dimentica che il cristianesimo è stato sempre ( e sempre sarà ) un pugno di lievito, un piccolo gregge, spesso braccato, più spesso ancora disprezzato e osteggiato: una delle tante componenti degli avvenimenti stessi che in passato hanno inciso nella storia del nostro occidente non già il motore universale.

E tale compito la religione continua ad assolverlo, bene o male, anche ai nostri giorni, mediante la sofferta testimonianza delle anime fedeli, che qui sulla terra non sognano trionfi.

Non è nostra intenzione scendere qui sul terreno pratico, suggerendo eventuali rimedi di ordine pastorale: ci sembra però che la riflessione teologica, quella tomistica soprattutto, possa e debba suggerire a tutti i chierici in sacris un atteggiamento meno orizzontale e più verticale della loro partecipazione al sacerdozio di Cristo.

Per il nostro ministero noi siamo posti così spesso ai limiti della realtà contingente, per affacciarci sull'abisso dell'invisibile, del necessario e dell'eterno.

Se questa seconda realtà non impariamo a considerarla per quello che è, ossia infinitamente più importante e interessante della prima, è inutile insistere in un ministero che ha perduto per ciò stesso ogni ragione di esistere.

« Il compito proprio [ e principale ] del sacerdote è quello di essere mediatore tra Dio e il popolo ( III, q. 22, a. 1 ).

È vero infatti che codesto compito noi lo assolviamo quali ministri di Cristo, offrendo la Vittima del suo stesso sacerdozio; ma sarebbe peggio di un'eresia credere che un qualsiasi altro nostro compito o ministero possa valere più di questo.

II - La sacramentalità dell'episcopato.

7 - Abbiamo accennato già alla falsa opinione dei teologi medioevali circa la sacramentalità dell'episcopato.

Ci torniamo sopra per chiarire la posizione personale di S. Tommaso in proposito, che a prima vista non si distingue affatto da quella dei contemporanei.

Ma poiché in seguito alla definizione del problema da parte del Concilio Vaticano II ( e alcuni non avevano atteso neppure tale scadenza ), si è tentato di scagionare il Santo dalla responsabilità di aver condiviso l'opinione comune ai suoi tempi, ci sembra opportuno riprendere in esame il problema.

Non abbiamo per questo nessuna difficoltà a percorrere la stessa strada del P. Santiago Ramirez, che ha dedicato al problema molte pagine della sua monografia De Episcopatu ut sacramento deque Episcoporum collegio ( Salamanca, 1966 ), pur essendo persuasi che a un certo punto le nostre opinioni divergono.

Il compianto confratello ha reso un servizio inestimabile alla teologia raccogliendo i testi più autorevoli e significativi in proposito, cominciando dagli scritti di S. Ignazio martire, che quasi a conclusione del I secolo afferma più volte chiaramente che la gerarchia si compone di vescovi, presbiteri e diaconi.

Le stesse cariche si riscontrano negli scritti di Tertulliano.

La confusione comincia nel secolo IV con un vero e proprio eresiarca, cioè con Ario, prete di Sebaste nell'Armenia minore, il quale per invidia verso un amico promosso all'episcopato prese a difendere l'idea che ai primordi della religione cristiana non ci fosse differenza tra vescovi e presbiteri.

Confutata da S. Epifanio, l'idea risuscitò qualche anno più tardi a Roma stessa per colpa di un gruppo di diaconi, i quali pretendevano di stare alla pari dei preti e di dipendere esclusivamente dal vescovo e in nessun modo dai presbiteri.

Per escludere codesta parità l'Ambrosiaste, ossia quell'ignoto esegeta autore di un Commento sulle Epistole di S. Paolo e delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti CXXX VII, che per secoli furono attribuiti a S. Ambrogio, riprese le idee di Ario, fornendo così argomenti ai futuri negatori dell'episcopato monarchico.

La stessa controversia scoppiata nel clero romano spinse S. Girolamo a imboccare la stessa strada: per difendere la superiorità dei presbiteri sui diaconi non esitò a equiparare i presbiteri ai vescovi.

Nella polemica, pur di ottenere codesto risultato, non si tenne nessun conto di una tradizione ormai venerabile di tre secoli, argomentando con puntiglio dalle sole frasi generiche degli scritti neotestamentari, che in quella tradizione trovano il criterio più sicuro della loro interpretazione.

Ad aggravare l'errore nel secolo V si ebbe la pubblicazione di un opuscolo De septem ordinibus Ecclesiae, che finì tra le opere di S. Girolamo, come vi era finito un commento di Pelagio alle lettere di S. Paolo, improntato alle stesse idee.

Codeste opere portarono fuori strada S. Isidoro di Siviglia [ 570-636 ], che ebbe un influsso enorme nell'alto medioevo.

Non c'è quindi da meravigliarsi che le affermazioni di S. Girolamo e dello Pseudo-Girolamo siano finite nel Decreto di Graziano ( secolo XII ), nonché nelle Sentenze di Pietro Lombardo, inchiodando i teologi successivi al rispetto per una tesi ormai tradizionale: l'episcopato sostanzialmente non è un ordine distinto dal presbiterato o sacerdozio; non è un sacramento; non imprime un suo proprio carattere, pur godendo di un potere di giurisdizione superiore.

8 - Questa era l'opinione comune che S. Tommaso trovò a Parigi quando iniziò il suo insegnamento nella seconda metà del secolo XIII ( vedi RAMIREZ, op. cit., pp. 143-195 ).

Ebbene, secondo il Padre Ramirez l'Aquinate avrebbe fatto all'opinione corrente solo delle concessioni verbali, ma in sostanza avrebbe percorso una strada diversa, che porta all'affermazione della sacramentalità dell'episcopato.

« Questa conclusione », egli dice, « scaturisce spontaneamente da tutto il tenore delle sue affermazioni, sebbene non l'abbia espressa a parole, forse per riverenza verso la tradizione teologica.

Tuttavia il suo pensiero, come spesso accade, supera di gran lunga le sue parole » ( op. cit., p. 206 ).

Per giungere a questa conclusione, da profondo e consumato conoscitore di S. Tommaso qual'era, egli cita tutti i testi del commento tomistico al 4 Sententiarum, mettendo bene in evidenza le frasi in cui il Santo afferma recisamente la superiore autorità e le prerogative dei vescovi ( soprattutto in d. 24, q. 3, a. 2, qe. 1, che i nostri lettori possono trovare qui tradotta in Suppl, q. 40, a. 4 ).

Si passano poi in rassegna gli scritti posteriori dell'Aquinate, ossia il Contra impugnantes Dei cultum et religionem [ c. 3 ] ( che risale come il detto commento alle Sentenze intorno al 1256 ), la Summa Contra Gentiles [ Lib. 4, c. 74-76 ] il De Perfectione vitae spiritualis [ c. 24 ], senza trascurare l'accenno contenuto nel Quod. 3, q. 6, a. 17 ad 5: « I vescovi hanno la cura principale del popolo, i pievani invece e gli arcidiaconi sono degli incaricati subalterni e loro coadiutori…

Cosicché, a ben considerare le cose, nel regime della Chiesa gli arcidiaconi e i pievani stanno ai vescovi come nel regime temporale i prefetti e i balivi stanno al re: perciò come nel regno solo il re viene coronato e consacrato con l'olio, non già i prefetti o i balivi, così nella Chiesa solo il vescovo, non già gli arcidiaconi e i pievani.

- Ecco perché l'Episcopato è un ordine in rapporto al corpo mistico, non già il pievanato o l'arcidiaconato, che sono soltanto uffici ».

Nell'esame accurato dei commenti di S. Tommaso alle epistole paoline si fa notare giustamente che il nostro Autore prende coscienza dell'errore di Ario il quale insegnò « che i Vescovi in nessun modo differiscono dai sacerdoti » ( In 1 Tim., c. 1, lect. 2, n. 12 ); e ciò contro l'insegnamento di Dionigi [ De Ecc1es .Jier. , c. 5 ], per il quale « nella Chiesa primitiva esistevano tre ordini soltanto: dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi » ( In 1Tim., c. 3, lect. 2, n. 109 ).

A giudizio del P. Ramirez il testo più esplicito dell'Aquinate sulla sacramentalità dell'Episcopato si riscontra nel suo commento all'epistola ai Filippesi.

Qui S. Tommaso sì chiede come mai l'Apostolo nelle parole di saluto passi dai vescovi ai diaconi, senza nominare i sacerdoti; e risponde: « Essi vengono compresi nel termine vescovi, perché in una sola città non possono esserci più vescovi.

Perciò parlando al plurale fa capire che si rivolge anche ai presbiteri.

E tuttavia si tratta di un altro ordine, perché nel Vangelo stesso si legge che dopo la designazione dei dodici Apostoli ( al posto dei quali sono i vescovi ) il Signore designò settantadue discepoli, il cui posto è occupato dai sacerdoti.

Inoltre anche Dionigi distingue i vescovi dai sacerdoti.

Ma in principio, sebbene i [ due ] ordini fossero distinti, non lo erano i nomi di codesti ordini; perciò qui i presbiteri sono compresi con i vescovi » ( Phil., c. 1, lect. 1, n. 6 ).

Le acquisizioni del commento alle epistole paoline sono ben presenti all'Aquinate nella Smma Teologica; e il P. Ramirez ne offre la documentazione ineccepibile.

Non è possibile quindi sfuggire all'impressione che stesse maturando nell' animo di S. Tommaso un superamento del grave intralcio della teologia sacramentaria costituito dalle affermazioni riferite e dell'Ambrosiaste e di S. Girolamo, quando al termine della Secunda Secundae leggiamo la denunzia esplicita dell'eretico Aerio : « Dire però che i presbiteri non differiscono dai vescovi è ricordato da S. Agostino tra le proposizioni ereticali nel suo libro De Haeresibus ( 53 ), dove riferisce che i seguaci di Ario affermarono non doversi riconoscere una qualsiasi differenza tra il presbitero e il vescovo » ( II-II, q. 184, a. 6, ad 1 ).

9 - Non sappiamo esattamente quello che S. Tommaso avrebbe scritto, se la morte prematura non gli avesse impedito di completare la Somma Teologica, e quindi di stendere un suo trattato più organico e completo sull'ordine sacro.

Ma stando alle sue parole, comprese le ultime nostre citazioni e quelle ben più numerose del P. Ramirez, non ci sembra che si possa concludere che egli ha compiuto il passo decisivo per romperla con la tesi ormai tradizionale.

Le ragioni di questa nostra persuasione sono le seguenti:

a) Il linguaggio che egli usa nel distinguere il potere dei vescovi da quello dei semplici sacerdoti è del tutto affine a quello di molti suoi contemporanei, che certamente negano la sacramentalità dell'episcopato

b) l'eresia di Ario è respinta non perché nega tale sacramentalità alla maniera dei teologi medioevali, ma perché nega tra presbiteri e vescovi « una qualsiasi differenza

c) la discrepanza dello Pseudo-Dionigi dalle altre fonti patristiche era stata avvertita dall'Aquinate fin dal suo commento giovanile alle Sentenze ( cfr. 4 Sent., d. 7, q. 3, a. 1, qc. 2, ad 3 ); ma ciò non aveva impedito la sua esplicita adesione alla tesi ormai tradizionale, perché egli credeva di doverla spiegare in modo da lasciare impregiudicata codesta posizione: si sarebbe trattato di un termine improprio, come tanti altri che ricorrono negli scritti di Dionigi

d) a tutti i testi in cui ricorre l'affermazione che l'episcopato è un ordine, è sempre possibile applicare la riserva, più volte espressa, che il termine in parola va preso in senso lato.

A queste ragioni dobbiamo aggiungere la principale.

L'Aquinate da buon teologo segue il criterio di non abbandonar mai, se non per ragioni gravissime, e appellandosi alla Scrittura, una tesi che abbia in suo favore le chiare affermazioni dei Padri « Delle sentenze dei sacri dottori della Chiesa [ la teologia ] si serve quasi come di argomenti propri, sebbene di valore probabile » ( I, q. 1, a. 8, ad 2 ).

Egli è persuaso che la luce della rivelazione cristiana degradi lentamente allontanandosi dalla sorgente che è Cristo.

Di qui il suo attaccamento agli antichi Padri ( cfr. II-II, q. 174, a. 6 ).

E non si può dire che avesse torto neppure nel caso specifico, qualora le vicende burrascose della storia del nostro occidente non gli avessero negato la conoscenza dei Padri apostolici.

Ma in questo caso egli ha dovuto arrendersi di fronte all'autorità di S. Girolamo, che col suo immenso prestigio interpretava nel modo ricordato le sacre Scritture.

10 - Qualcuno potrebbe forse infirmare il nostro argomento, ricordando che per S. Tommaso ciò che vale in modo inoppugnabile è l'autorità della Chiesa e non quella dei Padri: « Si deve stare più all'autorità della Chiesa, che a quella di S. Agostino, di S. Girolamo, o di qualunque altro Dottore » ( II-II, q. 10, a. 12 ).

Sta il fatto però che in questo campo il magistero ecclesiastico per secoli ha conservato un riserbo che oggi ci appare davvero eccessivo.

Pare che i vescovi abbiano avuto un sacro pudore a rivendicare le loro prerogative persino nel Concilio di Trento.

Si è dovuto attendere il Concilio Vaticano II, per ascoltare una definizione dogmatica in proposito ( cfr. Cost. dogm. Lumen Gentium, nn. 20 ss. ).

A togliere poi ogni probabilità alla tesi del P. Ramirez c'è una chiara affermazione di S. Tommaso, che certamente appartiene alla sua maturità.

L'opuscolo De Articulis Fidei et Ecclesiae Sacramentis è un piccolo catechismo, o meglio una silloge mnemonica da servire a iniziati, ossia a dei chierici, scritto dall'Aquinate verso la fine della vita.

In esso si afferma ancora una volta in maniera inequivocabile che l'episcopato « magis est dignitas quam ordo », pur condannando espressamente l'eresia di Ario.

Il P. Ramirez vorrebbe disfarsi di questo documento, dichiarandolo di poco valore e, relegandolo in una nota in calce ( vedi op. cit., p. 211, nota 11 ).

Sopra abbiamo notato che nel Concilio di Firenze esso fu adoperato per redigere il Decretum pro Armenis.

Riconosciamo che il dottissimo confratello aveva ragioni da vendere nel dimostrare che la sacramentalità dell'episcopato risulta logicamente da tutte le premesse poste dall'Aquinate in molte delle sue opere.

Ma la storia non è mai un trattato di logica, neppure quando a svolgervi la parte di protagonista troviamo un pensatore come S. Tommaso d'Aquino.

Questi sapeva troppo bene di non poter procedere come teologo, senza tener conto della tradizione.

E purtroppo, nel caso particolare che stiamo esaminando, la tradizione era viziata da un travisamento che solo l'erudizione storica avrebbe potuto chiarire.

III - Dai vescovi al primato del Papa.

11 - Trattando dell'episcopato il Dottore Angelico non rinunzia mai a gettare uno sguardo sull'insieme dei poteri gerarchici che governano la Chiesa.

I lettori lo possono constatare leggendo nel presente volume la q. 40, a. 6.

Ma necessariamente qui nel Supplemento codesto tema è chiuso entro lo schema rigido di un articolo, che si differenzia e si isola dai problemi affini e connessi.

Nel testo della Somma Contra Gentile il discorso è invece più complesso; cosicché c'è da ritenere che la sua traduzione costituisca per i nostri lettori il migliore coronamento del presente trattato.

« Il conferimento di tutti questi ordini, essendo compiuto mediante un sacramento, e d'altra parte i sacramenti della Chiesa dovendo essere dispensati da qualche ministro, è necessario che nella Chiesa ci sia un potere superiore di un ministero più alto, capace di amministrare il sacramento dell'Ordine.

Tale potere è quello episcopale, che pur non superando quello del sacerdote quanto alla consacrazione del corpo di Cristo, lo supera tuttavia nei riguardi dei fedeli.

Infatti il potere sacerdotale deriva da quello episcopale; e quanto di arduo c'è da compiere nei riguardi dei fedeli viene riservato ai vescovi, ed è in forza della loro autorità che i sacerdoti possono compiere quanto loro viene commesso.

Ecco perché nei sacramenti che i sacerdoti amministrano, questi si servono delle cose consacrate dal vescovo; nella consacrazione dell'Eucarestia, p. es., si servono del calice, dell'altare e dei lini consacrati dai vescovi.

Perciò è evidente che la supremazia nel governo del popolo fedele spetta alla dignità episcopale.

« Ora è evidente che il popolo, pur essendo diviso in diverse città e diocesi, tuttavia, come costituisce un'unica Chiesa, così deve formare un unico popolo cristiano.

Perciò come in ogni particolare popolo di una data chiesa si richiede un unico vescovo, che sia il capo di tutto il popolo; così in tutto il popolo cristiano si richiede che ci sia uno solo come capo di tutta la Chiesa.

« Inoltre per l'unità della Chiesa si richiede che tutti i fedeli concordino nella fede.

Ma circa le cose di fede capitano delle controversie.

La Chiesa quindi si dividerebbe per la diversità delle varie sentenze, se non venisse conservata nell'unità mediante la sentenza di uno solo.

Perciò per conservare l'unità, è necessario che uno sia incaricato di presiedere su tutta la Chiesa.

È infatti evidente che delle cose necessarie Cristo non può lasciare sprovvista la Chiesa che egli ama, e per la quale ha sparso il proprio sangue; dal momento che persino della Sinagoga il Signore ha detto "Che cos'altro dovevo fare per la mia vigna e non l'ho fatto?" [ Is 5,4 ].

Quindi non si può dubitare che per disposizione di Cristo un solo deve presiedere su tutta la Chiesa.

« Inoltre nessuno può dubitare che il governo della Chiesa sia ordinato nel migliore dei modi, essendo stato disposto da colui "per il quale regnano i re, e i legislatori prendano giuste disposizioni" [ Pr 8,15 ].

Ora, il regime migliore per governare un popolo è il governo di uno solo: il che è evidente dal fine del governo stesso che è la pace.

La pace infatti e l'unità dei sudditi è il fine di chi governa.

Ebbene, la causa meglio proporzionata dell'unità è l'uno e non i molti.

Perciò è evidente che il governo della Chiesa è così disposto che un solo individuo presieda su tutta.

« Si noti inoltre che la Chiesa militante ha il suo modello nella Chiesa trionfante: infatti S. Giovanni nell'Apocalisse [ Ap 21,2 ] "vide Gerusalemme che scendeva dal cielo"; e a Mosè fu detto di "fare tutto secondo l'esemplare a lui mostrato sul monte" [ Es 25,40; Es 26,30 ].

Ora, nella Chiesa trionfante è uno solo a presiedere, ed è colui che presiede all'universo, cioè Dio, secondo le parole dell'Apocalisse [ Ap 11,3 ] "Essi saranno il suo popolo, ed egli con essi sarà il loro Dio".

Dunque nella Chiesa militante dev'essere uno solo a presiedere su tutti.

« Di qui le parole del profeta Osea [ Os 2,2 ]: "Si riuniranno insieme i figli di Giuda e i figli d'Israele e si costituiranno un unico capo".

E il Signore dice nel Vangelo [ Gv 10,16 ] "Si farà un solo ovile e un solo pastore".

12 - « Se uno poi affermasse che l'unico capo e l'unico pastore è Cristo, che è l'unico sposo dell'unica Chiesa, la sua risposta non sarebbe sufficiente.

Poiché è evidente che tutti i sacramenti della Chiesa hanno Cristo medesimo per autore: è lui infatti che battezza; è lui che rimette i peccati è lui il vero sacerdote, che si è immolato sull'altare della croce, e per la cui virtù il suo corpo ogni giorno viene consacrato sull'altare; e tuttavia, poiché corporalmente egli non doveva esser presente con tutti i fedeli, scelse dei ministri mediante i quali dispensa i suddetti sacramenti ai fedeli…

Perciò per lo stesso motivo, cioè per il fatto che corporalmente avrebbe sottratto la sua presenza alla Chiesa, era necessario che affidasse a qualcuno al posto suo la cura della Chiesa universale.

Ecco perché egli disse a Pietro prima della ascensione "Pasci le mie pecore" [ Gv 21,17 ]; e prima della passione "Tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli" [ Lc 22,32 ].

« E a lui soltanto promise: "A te darò le chiavi del regno dei cieli" [ Mt 16,19 ]; per mostrare che il potere delle chiavi doveva da lui derivare agli altri per conservare l'unità della Chiesa.

« Né si può dire che questa dignità, pur avendola conferita a Pietro, non sia poi stata trasmessa ad altri.

Poiché è evidente che Cristo istituì la Chiesa perché essa durasse fino alla fine del mondo, secondo le parole di Isaia [ Is 9,7 ]: "Sederà sul trono di David e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora e in perpetuo".

Perciò è evidente che egli costituì dei contemporanei nel ministero, perché il loro potere si propagasse ai posteri per il bene della Chiesa fino alla fine del mondo; soprattutto se consideriamo le sue parole [ Mt 28,20 ] "Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo".

« Tutto questo esclude l'errore presuntuoso di alcuni, che cercano di sottrarsi all'obbedienza e alla sottomissione a Pietro, non volendo riconoscere il suo successore il Romano Pontefice, come pastore della Chiesa universale » ( 4 Cont. Gent., c. 76 ).

13 - Il discorso sul primato della cattedra Romana si fa meno limpido nell'opuscolo Contra Errores Graecorum, che l'Aquinate scrisse intorno al 1263, a richiesta del Papa Urbano IV.

Qui S. Tommaso ebbe il compito ingrato di fornire al Papa un giudizio sull'opuscolo di un greco oriundo della Dalmazia, il quale era stato già divulgato nell'occidente da alcuni anni.

Di quello si era servito S. Tommaso stesso, sia nel commentare il 4 Sent. d. 24, q. 3, a. 2, qc. 3 ( testo che poi è finito qui nel Supplemento, q. 40, a. 6 ), sia nell'opuscolo Contra impugnantes dei cultum et religionem.

Nicola di Durazzo, poi vescovo di Crotone, o di Cotrone secondo la dicitura medioevale, cui ormai viene comunemente attribuito l'opuscolo in parola, era un autore di pochi scrupoli.

I testi che egli attribuisce ai Padri Greci sono manipolati con tutta libertà, quando addirittura non sono inventati di sana pianta, lasciandosi forse guidare dal principio che il fine giustifica i mezzi.

S. Tommaso nel redigere il suo opuscolo al Papa espone le sue riserve: « Il piccolo libro che l'eccellenza vostra mi ha dato da esaminare, Santissimo Papa Urbano, l'ho letto attentamente.

E in esso ho riscontrato molte cose utili per l'asserzione della nostra fede.

Ritengo però che il suo frutto potrebbe essere impedito presso molti per certe cose contenute nei testi dei Padri, le quali sembrano dubbie, e quindi potrebbero dar esca all'errore, occasione a delle controversie, e a delle recriminazioni. » ( proem. ).

S. Tommaso si mise d'impegno a scartare i testi « dubbi », ovvero spuri; ma non avendo i mezzi sufficienti per condurre a buon fine l'impresa, spesso ha preso per buone le citazioni patristiche inventate o manipolate da Nicola Di Durazzo.

Questo è capitato anche per testi molto significativi e importanti a favore del primato del Romano Pontefice.

Ma non sono certo tali apporti a decidere il concetto che il grande teologo aveva di codesto primato.

E neppure egli può essere accusato di mala fede, o di negligenza, come qualcuno ha tentato di fare per il passato.

È certo comunque che nella perfetta maturità l'Aquinate si è guardato bene dal ricorrere a codeste pericopi sospette, anche là dove sarebbero state quanto mai opportune ( p. es. in II-II, q. 11, a. 2; q. 39, a. 1; Quodl. 9, a. 16 ).

Abbiamo voluto ricordare questa vicenda, che tocca da vicino, sia pure in minima parte il nostro trattato, per dare un'idea delle difficoltà e dei pericoli che ha dovuto affrontare l'Autore nella compilazione dell'opera.

E ciò serve ad acuire nello studioso il dispiacere per la sua morte immatura, che ha impedito una rielaborazione personale più approfondita dei tanti problemi, oggi più che mai sofferti per lo sviluppo del pensiero teologico sulla costituzione gerarchica della Chiesa.

P. TIT0 S. CENTI O. P.

Indice