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Lettera 144

Scritta forse prima del 411.

Agostino si congratula con i cittadini di Cirta convertitisi dal Donatismo alla comunione cattolica, esortandoli ad attribuirne il merito alla grazia di Dio, il quale si serve dei suoi ministri ( n. 1 ), come avvenne per Polemone dopo aver ascoltato Senocrate ( n. 2 ); esorta infine i contumaci a credere alle divine Scritture e non alle menzogne umane ( n. 3 ).

Agostino Vescovo ai cittadini di Cirta, signori onorevoli e giustamente commendevoli, carissimi e desideratissimi fratelli, in tutti i gradi delle cariche pubbliche

1 - La conversione è opera di Dio

Se ciò, che nella vostra città ci contristava, è scomparso, se la durezza del cuore umano, che resisteva alla verità evidentissima e per così dire esposta alla vista di tutti, è stata vinta dalla forza della verità stessa, se la dolcezza della pace viene gustata e l'amore della verità non offende più gli occhi malati, ma risanati li illumina e rinvigorisce, questo risultato non è opera mia, ma di Dio: non lo attribuirei affatto alle azioni degli uomini, neanche se la conversione così confortante di una moltitudine fosse avvenuta mentre eravamo presso di voi e vi parlavamo ed esortavamo.

Tutto ciò è opera di Colui che, per mezzo dei suoi ministri, ammonisce dal di fuori con i segni delle cose, ma li istruisce internamente da se stesso con le cose stesse.

Ma non per questo dobbiamo muoverci troppo pigramente per visitarvi, per il fatto cioè che qualunque cosa è avvenuta di lodevole in voi, non è stata operata da noi, ma da Colui che solo compie meraviglie. ( Sal 72,18 )

Molto più alacremente dobbiamo accorrere a contemplare le opere divine anziché le nostre, poiché anche noi, se siamo qualcosa di buono, siamo opera di Dio, non degli uomini.

Ecco perché l'Apostolo disse: Non è qualche cosa né chi pianta né chi irriga, ma è Dio che fa crescere. ( 1 Cor 3,7 )

2 - Polemone convertito da Senocrate

Senocrate come voi mi scrivete e come ricordo anch'io dalle letture classiche, in una conferenza sui vantaggi della temperanza, convertì d'un tratto a un tenore di vita morigerato Polemone, che non solo era un ubriacone, ma in quel momento era anche ubriaco.

Sebbene quello, come saggiamente avete compreso, non fosse guadagnato alla causa di Dio, ma liberato soltanto dalla tirannia della dissolutezza, tuttavia non attribuirei neppure questo suo mutamento in meglio all'opera di un uomo, ma di Dio.

Poiché i beni del corpo stesso, cioè dell'infima parte di noi, quali sono ad esempio la bellezza, le forze, la salute e qualunque altro bene di tale genere, non provengono se non da Dio creatore e perfezionatore della natura: con quanto maggior ragione nessun altro può darci i beni dell'anima!

Qual pensiero più orgoglioso e più ingrato potrebbe nutrire la pazza mente umana, che reputare che Dio renda bello l'uomo nel fisico, e che l'essere reso casto nell'anima provenga dall'uomo?

Nel libro della Sapienza cristiana sta scritto: Poiché sapevo che nessuno può essere continente, se Dio non lo concede; ed era già questo un frutto della sapienza, il sapere cioè da chi ci è concesso questo dono. ( Sap 8,21 )

Se dunque Polemone, divenuto temperante, da sensuale che era, avesse saputo di chi fosse questo dono, in modo da adorarlo con sentimenti di vera pietà, liberandosi dalle superstizioni dei pagani, sarebbe stato esaltato non solo per la temperanza, ma anche per la verace sapienza e per la salutare religione, né gli sarebbe giovato solo per l'onestà della vita presente, ma anche per l'immortalità della vita futura.

Quanto meno dunque mi devo arrogare io il vanto di questa conversione vostra o del vostro popolo, che mi avete annunciata poco tempo fa; essa è senza dubbio effetto dell'intervento di Dio in coloro nei quali si è veramente compiuta e non delle mie parole né della mia presenza tra voi.

Ciò soprattutto dovete riconoscere, ciò meditare con pietà ed umiltà.

A Dio, fratelli miei, a Dio dovete esser grati; Dio dovete temere per non mancare, Dio amare per avanzare.

3 - Credere alle divine Scritture non alle menzogne umane

Se tra voi ci sono ancora alcuni che sono separati ( dall'unità cattolica ) a causa di qualche attaccamento umano nascosto o che vi sono rientrati solo per finzione a causa di qualche timore umano, questi tali considerino che Dio, a cui la coscienza umana è chiaramente palese, non lo ingannano come testimone né lo evitano come giudice.

Se poi, per la preoccupazione della propria salvezza, sono angustiati da qualche grave dubbio circa la questione dell'unità stessa, se lo tolgano - come io credo sia la cosa più giusta - credendo nei riguardi della Chiesa cattolica, cioè diffusa in tutto il mondo, alle affermazioni veritiere delle divine Scritture, più che alle bugie spacciate con malignità dalle lingue degli uomini.

Quanto alle discordie sorte tra uomini, questi tali, chiunque essi siano, pensino che non pregiudicano affatto le promesse di Dio, che disse ad Abramo: Nel tuo Discendente saranno benedette tutte le nazioni, ( Gen 26,4 ) promesse cui si prestò fede quando se ne udì la predizione, mentre si osa negarle adesso che si vedono compiute.

I Donatisti riflettano frattanto su questa considerazione brevissima e, se non erro, irrefutabile: o la causa fu trattata nel tribunale della Chiesa d'oltremare, o non fu trattata.

Se non lo fu, la comunità cristiana che abbraccia i popoli d'oltremare, e della quale godiamo d'essere membri, è innocente, e quindi i Donatisti si sono divisi dai Cristiani innocenti con uno scisma sacrilego.

Se invece la causa fu trattata, chi potrebbe non comprendere, non credere, non vedere che furono in essa sconfitti coloro che si separarono dalla comunione di quei popoli?

Scelgano dunque se preferiscono credere alla sentenza emanata dai giudici ecclesiastici, o alle proteste di litigiosi scismatici battuti in giudizio.

Prudenti come siete, badate attentamente come non si possa rispondere nulla di serio contro questo ragionamento, brevissimo a dirsi, facilissimo a intendere: eppure il cattivo Polemone preferisce lasciarsi trascinare alla rovina dall'ebbrezza del suo inveterato errore.

Perdonatemi questa mia lettera, forse più prolissa che gradita, ma a mio giudizio più utile che piacevole, o miei signori onorevoli e meritamente commendevoli, molto cari e desiderati fratelli.

Quanto alla visita che vi farò, compia Iddio il nostro comune desiderio.

Non posso spiegarvi a parole da quale ardore di carità mi sento infiammato per venire a visitarvi, e non dubito affatto della vostra benevolenza nel credermi.

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