Il libero arbitrio

Il libero arbitrio è un bene medio

5.12 - Dio è sempre da lodarsi

Quello poi che hai ricordato al terzo posto, come si possa non imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità, non scuoterà facilmente la norma di religione, di cui è opportuno ricordarci, che cioè dobbiamo render grazie al nostro Creatore.

Certamente la sua munifica bontà dovrebbe esser lodata, anche se ci avesse posto in un grado inferiore del creato.

Infatti quantunque la nostra anima sia stata contaminata dal peccato, è sempre più alta e buona che se fosse convertita in questa luce visibile.

E puoi facilmente constatare quanto onorino Dio per l'eccellenza della luce corporea le anime anche se dedite ai piaceri sensibili.

Non ti turbi pertanto il fatto che sono biasimate le anime peccatrici al punto da farti dire nella tua coscienza che sarebbe meglio non esistessero.

Sono biasimate nel confronto con se stesse se si pensa quali sarebbero se non avessero voluto peccare.

Ma Dio ordinatore si deve altamente lodare secondo l'umana capacità, non solo perché le ordina con giustizia se hanno peccato, ma anche perché le regola così che anche macchiate di peccato non possono assolutamente esser superate dall'eccellenza della luce visibile.

Eppure anche di essa è lodato.

5.13 - Due prospettive: ideale ed empirica …

Ti avverto inoltre dal guardarti di dire di tali cose che sarebbe stato meglio non fossero.

Devi dire che avrebbero potuto esser prodotte diversamente.

Qualunque sia l'essere che ti si presenterà mediante ideale ragione, sappi che l'ha prodotto Dio in quanto creatore di tutte le cose.

Non è invece ideale ragione ma astiosa debolezza pretendere che non fosse prodotto un essere meno perfetto perché tu hai pensato che se ne poteva produrre uno più perfetto.

È come se, visto il cielo, non volessi che fosse fatta la terra.

Del tutto irragionevolmente.

Biasimeresti ragionevolmente se, non essendo stato fatto il cielo, tu vedessi che è stata fatta la terra.

Potresti infatti dire che avrebbe dovuto essere formata secondo l'idea che hai del cielo.

Ma puoi osservare che è stata prodotta anche quella realtà, alla cui perfezione volevi far giungere la terra e che esso non si chiama terra ma cielo.

Credo dunque che, non privato della realtà migliore, non dovresti affatto esser contrario a che fosse prodotta anche l'inferiore e fosse terra.

E nella terra a sua volta, in riferimento alle sue parti, v'è tanta varietà che non si può presentare idealmente un oggetto della sfera della terra che Dio creatore di tutte le cose non abbia realmente prodotto, tenuto conto di tutta la massa terrestre.

Infatti dalla terra molto produttiva e amena si giunge gradualmente attraverso le terre medie fino alla terra deserta e sterile.

E tu non potrai biasimarne alcuna se non in confronto con la migliore.

E così salirai per tutti i gradini dell'approvazione in maniera da non volere che sia sola quella che hai scoperto come la più nobile manifestazione della terra.

E intanto fra la terra nella sua totalità e il cielo quanta distanza!

S'interpongono i corpi umidi e aerei e da questi quattro elementi è data una molteplicità di altre forme e perfezioni, innumerevoli per noi, ben note nel numero a Dio.

Vi può essere quindi in natura un oggetto che tu non ti rappresenti con la tua ragione empirica.

Ma non è possibile che non vi sia quello che tu puoi rappresentarti con l'ideale ragione.

Non potresti rappresentarti nel creato qualche cosa di più perfetto che sia sfuggito all'artefice del creato.

E l'anima umana, quando in considerazione di ragioni trascendenti, da cui deriva per partecipazione, dice: " Questo sarebbe meglio di quello ", se parla del mondo ideale e ha intelligenza di quel che dice, ne ha intelligenza in quelle ragioni, di cui partecipa.

Creda dunque che Dio ha fatto ciò che doveva esser fatto, poiché essa lo ha conosciuto con l'ideale ragione, sebbene non lo veda nelle cose create.

Anche se non potesse vedere il cielo con la vista e tuttavia con l'ideale ragione concludesse che tale realtà doveva esser prodotta, dovrebbe credere che è stato prodotto, quantunque non lo veda con gli occhi.

Col pensiero non potrebbe vedere che doveva esser fatto se non in quelle ideali ragioni, con cui tutto è stato fatto.

E di ciò che in esse non è non si può avere intelligenza con l'ideale ragione per il solo motivo che non è intelligibile.

5.14 - … nei confronti della libertà e peccato

Parecchi uomini errano appunto perché, avendo compreso con la intelligenza gli oggetti più perfetti, non li cercano nei soggetti convenienti, ad esempio se un tizio, rappresentandosi col pensiero la perfetta rotondità, si sdegna perché non la trova in una noce, nell'ipotesi che, eccettuati questi frutti, non abbia mai visto un altro corpo rotondo.

Così alcuni con puro pensiero intuiscono che è migliore la creatura che, sempre unita a Dio, mai ha peccato, sebbene abbia la libera volontà.

Tuttavia scorgendo i peccati degli uomini, si dolgono non per smettere di peccare ma perché sono stati creati e dicono: " Ci avrebbe dovuto far tali che volessimo sempre godere della sua immutabile verità e mai peccare ".

Non strepitino, non vadano in collera.

Non li ha costretti a peccare per il fatto che li ha creati, ma ha dato loro il potere di scegliere.

Vi sono degli angeli che non hanno mai peccato né mai peccheranno.

Pertanto se ammiri una creatura che con perseverante volontà non pecca, non v'è dubbio che con l'ideale ragione la anteponi a quella che pecca.

Ma come tu la anteponi col pensiero, così Dio creatore la antepone nell'ordinamento.

Abbi fede che ella vive in un mondo superiore e nell'alto dei cieli perché se il Creatore ha manifestato bontà nella creatura di cui prevede i futuri peccati, manifesta in senso assoluto bontà nel creare la creatura, di cui ha previsto che non avrebbe peccato.

5.15 - Dignità dell'anima anche se pecca …

Ella, la più alta di tutte, godendo indefettibilmente del suo Creatore, ha la propria indefettibile felicità che merita per l'indefettibile volere di mantenere la giustizia.

Ma anche la creatura terrena peccatrice rientra nell'ordine perché, pur avendo smarrito la felicità col peccato, non ha perduto il potere di riconquistarla.

Ed essa è certamente superiore a quella che è legata da un'indefettibile volontà di peccare.

Fra quest'ultima e quella che persiste nella volontà di giustizia, la seconda manifesta un certo stato di mezzo perché con l'umiltà del pentimento riconquista la propria nobiltà.

Infatti neanche da quella creatura, di cui fu presciente che non solo avrebbe peccato ma avrebbe persistito nella volontà di peccare, Dio ha trattenuto, per non crearla, la larghezza della sua bontà.

Come infatti è migliore un cavallo, sia pure brado, di una pietra che non è brada appunto perché è priva di movimento proprio e di sensazione, così è più nobile la creatura che pecca per libera volontà di quella che non pecca appunto perché non ha la libera volontà.

Allo stesso modo loderei un vino buono nel suo genere, mentre biasimerei l'individuo ubriacato da quel vino, e tuttavia anteporrei l'individuo biasimato e ancora ubriaco al vino lodato, con cui si è ubriacato.

Così giustamente si deve apprezzare la creatura fisica, ciascuna nel suo grado, quantunque siano da biasimare coloro, i quali con l'uso immoderato che ne fanno si distolgono dalla conoscenza della verità.

Tuttavia essi, a loro volta, ormai pervertiti e in certo senso ubriachi, sono preferiti, non già per merito di vizi ma per dignità di natura alla creatura fisica, nel suo ordine apprezzabile, sebbene si siano perduti nel desiderio smodato di essa.

5.16 - … rimane superiore al corpo

Dunque l'anima è assolutamente più perfetta del corpo e l'anima peccatrice, in qualunque abisso sia caduta, non può assolutamente per qualche trasformazione divenir corpo, non le si toglie affatto di rimanere anima e non perde assolutamente di esser più nobile del corpo e infine la luce occupa il primo posto fra gli esseri fisici.

Ne consegue quindi che l'anima più bassa sia anteposta al corpo più alto.

È possibile inoltre che un certo corpo sia anteposto al corpo di una determinata anima ma in nessuna maniera alla stessa anima.

Perché dunque non dovrebbe esser lodato Dio con una lode inesprimibile a parole per la ragione che, avendo creato anime, le quali avrebbero perseverato nelle leggi della giustizia, ne creò altre, di cui previde che avrebbero peccato o perfino che avrebbero perseverato nel peccato?

Esse sono più nobili di quelle anime che non possono peccare perché non hanno il libero arbitrio fondato sulla ragione.

Queste tuttavia sono più perfette della lucentezza per quanto viva di determinati corpi, sia pur quella che alcuni, quantunque con grande errore, venerano come la sostanza dello stesso sommo Dio.

Ora nell'ordine delle creature fisiche, dai sistemi stellari fino al numero dei nostri capelli, è gradualmente così coordinata l'armonia delle cose buone che proprio insensatamente si può dire: " Che cosa è questo? A che scopo quest'altro? ".

Tutto infatti è stato creato nel proprio ordine: quanto molto più insensatamente si dice in riferimento a qualsiasi anima, la quale, anche se giunta a qualsivoglia diminuzione di perfezione, supererà senza alcun dubbio la perfezione di tutti i corpi?

5.17 - Ragione ed esperienza nel giudizio pratico

In un senso giudica la ragione, in un altro l'esperienza.

La prima giudica alla luce della verità per subordinare le cose meno perfette, alle più perfette, l'esperienza al contrario è spesso mossa dall'abitudine dell'interesse a stimar di più cose che la verità ritiene meno perfette.

Il pensiero antepone di gran lunga i corpi celesti ai terrestri.

Eppure quale degli uomini sensuali non preferirebbe che mancassero parecchie stelle in cielo anziché un arboscello nel proprio campo o una mucca nel proprio armento?

I più anziani disprezzano o per lo meno attendono con pazienza che si correggano certi apprezzamenti dei fanciulli.

Costoro infatti preferiscono magari che, esclusi alcuni del cui affetto si rallegrano, muoiano tutti gli altri uomini anziché un loro uccellino, e tanto più se l'uomo è repellente e l'uccellino canterino e grazioso.

Allo stesso modo alcuni che mediante avanzamento spirituale hanno raggiunto la sapienza, trovano che certi inesperti apprezzatosi delle cose lodano Dio nelle creature più imperfette perché le usano con maggior vantaggio per la vita sensibile, ma che alcuni non lo lodano affatto o di meno per le creature più alte e perfette, che alcuni perfino tentano di biasimarlo e correggerlo e che altri infine non credono che ne sia il creatore.

Ora gli anziani disprezzano del tutto i loro giudizi, se non possono correggerli, o in attesa di correggerli, si abituano a sopportarli pazientemente con animo tranquillo.

6.18 - A Dio non si attribuisce il peccato

Stando così le cose, è assurdo che si pensi di attribuire al Creatore i peccati delle creature, anche se avvengono per necessità gli eventi che egli ha preveduto dovessero avvenire.

Dunque se tu dicessi che non puoi trovare come non si debba attribuire a lui tutto ciò che per necessità avviene nella sua creatura, io al contrario non troverei la misura e affermerei che è impossibile trovarla, che anzi non esiste, per attribuirgli tutto ciò che nella creatura si verifica necessariamente soltanto per volere di chi pecca.

Se qualcuno dirà: " Preferirei non essere che essere infelice ", risponderò: " Dici una bugia perché adesso sei infelice e appunto per essere non vuoi morire, quindi quantunque non vuoi essere infelice, vuoi essere tuttavia.

Sii grato quindi di ciò che, in corrispondenza al tuo volere, tu sei per liberarti di ciò che sei contro il tuo volere.

In corrispondenza al volere sei e contro il volere sei infelice.

Che se sei ingrato in quello che desideri essere, giustamente sarai necessitato ad essere ciò che non vuoi essere.

Dal fatto dunque che, anche se ingrato, hai ciò che vuoi, lodo la bontà del Creatore, e dal fatto che, perché ingrato, devi sopportare ciò che non desideri, lodo la giustizia dell'ordinatore ".

6.19 - Volere e felicità dipendono da noi

Se dirà: " Non voglio morire non perché preferisco essere infelice anziché non essere affatto, ma per non essere ancor più infelice dopo morte ", risponderò: " Se questo è ingiusto, non esisterai così, se poi è giusto, lodiamo lui, per le cui leggi così esisterai ".

Se dirà: " Da che cosa dovrei presupporre che, se questo è ingiusto, non esisterò così? ", risponderò:

" Se sarai in tuo potere, o non sarai infelice, ovvero ordinandoti ingiustamente, sarai giustamente infelice; oppure volendo ma non potendo ordinarti, non sarai in tuo potere e allora o non sarai in potere di un altro o lo sarai.

Se non sarai in potere di un altro, non lo sarai o non volendolo o volendolo.

Ma se non vuoi, non puoi essere cosa alcuna, a meno che non ti abbia assoggettato una qualche forza; ora non può essere assoggettato da una qualche forza chi non è in potere di altri.

Se invece non sarai in potere di un altro perché vuoi, ritorna l'argomento che tu sia in tuo potere e che giustamente sarai infelice se ti ordini ingiustamente, ovvero per il fatto che potrai trovarti in qualsiasi condizione se lo vuoi, hai ancor motivo di esser grato alla bontà del tuo Creatore.

Che se non sarai in tuo potere, ti avrà in potere un essere o più potente o più debole.

Se più debole, è colpa tua, e meritata infelicità perché potresti assoggettare uno più debole se volessi.

Se poi un essere più potente avrà in potere te più debole, non potrai assolutamente pensare con ragione che sia ingiusto un ordinamento tanto razionale.

Con verità è stato premesso dunque: Se è cosa ingiusta, non sarai così; se poi è giusta, lodiamo lui, per le cui leggi sarai così ".

7.20 - Il bene dell'esistenza

Poniamo che dica: " Perciò appunto preferisco essere infelice che non esistere affatto, perché già esisto; se potessi essere richiesto prima di esistere, sceglierei di non essere anziché essere infelice.

Attualmente il temere di non esistere, sebbene non infelice, rientra nella stessa infelicità, per cui non voglio ciò che dovrei volere: dovrei infatti desiderare di non esistere, anziché di essere infelice.

Attualmente, certo, ammetto che preferisco di essere anche infelice anziché non essere, ma lo desidero tanto più insipientemente quanto più infelicemente e tanto più infelicemente quanto più veramente penso che non avrei dovuto desiderarlo ".

Ed io rispondo: " Sta attento piuttosto a non sbagliare proprio in questo, che credi di pensare il vero.

Se infatti tu fossi felice, preferiresti essere che non essere; e attualmente, sebbene infelice, preferisci essere, magari infelice, che non essere affatto, quantunque non vuoi essere infelice.

Rifletti dunque, nei limiti del possibile, quale grande bene sia lo stesso essere che felici e infelici desiderano.

Se rifletterai bene sul tema, ti accorgerai che in tanto sei infelice, in quanto non sei vicino all'essere che sommamente è, che in tanto pensi che è meglio non essere che essere infelici, in quanto non intuisci l'essere che sommamente è e che perciò appunto desideri esistere perché sei da lui che sommamente è ".

7.21 - L'indistruttibile desiderio di essere

Se dunque desideri sfuggire all'infelicità, ama in te questo tuo voler essere.

Se infatti desidererai sempre di essere, ti avvicinerai a lui che sommamente è.

E per adesso sii grato perché esisti.

Quantunque infatti tu sia inferiore agli uomini felici, sei superiore a quegli esseri che non hanno neanche il desiderio della felicità.

Eppure molti di essi sono apprezzati perfino dagli infelici.

In verità tutte le cose, per il fatto che sono, giustamente si devono apprezzare, perché per il fatto che sono, sono buone.

Infatti quanto più amerai di essere, tanto più desidererai la vita eterna e intensamente vorrai avere tali attitudini che le tue inclinazioni non siano temporali, impresse a fuoco dall'amore delle cose temporali.

E le cose temporali non sono prima di essere, fuggono quando sono e quando fuggiranno non saranno.

Dunque quando sono future, ancora non sono e quando sono passate, non sono più.

Come dunque possono essere trattenute perché si arrestino?

Per esse infatti il cominciare ad essere è muoversi al non essere.

Chi ama di essere, le ritiene buone in quanto sono, ma ama ciò che è eternamente.

E se si diversificava nell'amore delle cose temporali, tornerà all'uno nell'amore dell'eterno, e se si poneva nel divenire mediante l'amore delle cose che passano, si renderà immobile e avrà quiete nell'amore dell'essere che permane e conseguirà lo stesso essere che desiderava, quando temeva di non essere e non poteva avere quiete perché trascinato dall'amore delle cose che passano.

Non ti dispiaccia dunque, anzi ti piaccia molto che preferisci essere, magari infelice, che non essere infelice per il motivo che non saresti affatto.

Se a questo fondamento del voler essere tu aggiungi di essere sempre di più, tu ti edifichi innalzandoti a ciò che sommamente è; e così ti preserverai da ogni crollo con cui passa al non essere l'essere più basso e trascina con sé le energie di chi lo ama.

Ne avverrà come risultato che chi preferisce di non essere per non essere infelice sia infelice perché non può non essere.

Chi poi ama di essere più di quanto odia di essere infelice, con l'accrescere ciò che ama, escluda ciò che odia.

Quando comincerà ad essere secondo fine nel proprio grado, non sarà più infelice.

8.22 - Non si sceglie il nulla

Rifletti con quanto illogica contraddizione si dice: " Preferirei non essere che essere infelice ".

Chi dice: " Preferirei questo a quello ", sceglie un qualche cosa.

Il non essere invece non è un qualche cosa, ma niente.

Dunque ti è assolutamente impossibile scegliere secondo ragione, se ciò che scegli non è.

Ma tu dici che desideri di esistere, magari infelice, ma che non avresti dovuto desiderarlo.

Che cosa dunque avresti dovuto desiderare?

" Non essere piuttosto ", rispondi.

Se tu avessi dovuto voler questo, esso sarebbe più perfetto, ma è impossibile che il non essere sia più perfetto.

Dunque non avresti dovuto desiderare il non essere ed è più veritiero il sentimento per cui non lo desideri che la teoria per cui ritieni che avresti dovuto desiderarlo.

Inoltre, quando l'uomo giunge a ciò che sceglie come oggetto di desiderio, diventa necessariamente più perfetto.

Ora chi non esiste non potrà esser più perfetto.

Dunque non si può assolutamente scegliere di non essere.

E bisogna che non ci lasciamo scuotere dal giudizio di coloro che sotto il travaglio della infelicità si sono uccisi.

Essi hanno cercato scampo dove hanno ritenuto di trovarsi meglio e, comunque l'abbiano ritenuto, non costituisce difficoltà per la nostra tesi, ovvero se hanno supposto di finire nel nulla, assai meno m'impressionerà la falsa scelta di individui che scelgono il nulla.

Come potrò seguire nella scelta un tizio, il quale se gli chiedessi che sceglie, mi rispondesse: " Niente "?

Infatti chi sceglie di non esistere è costretto certamente ad ammettere, anche se non vuole ammetterlo, che non ha scelto nulla.

8.23 - Opinioni sentimento e desiderio di non essere

Dirò tuttavia, se ne sarò capace, il mio parere sull'argomento.

Mi sembra che quando un individuo si uccide o comunque desidera di morire, non ritiene nel proprio sentimento che dopo morte non esisterà più, anche se lo ritiene per opinione.

La opinione consiste infatti o nell'errore o nella verità raggiunta da chi dimostra o crede; il sentimento, al contrario, si fonda o sulla consuetudine o sulla natura.

Ora è possibile che si abbiano in maniera diversa l'opinione e il sentimento.

È facile conoscerlo anche dal fatto che spesso riteniamo di dover fare una cosa, mentre ci piace farne un'altra.

E talora è più veritiero il sentimento che l'opinione, se questa ha origine dall'errore e il sentimento dalla natura.

Ad esempio, un infermo spesso trae piacere, e con vantaggio, dall'acqua fredda, ma crede che, se la beve, gli nuocerà.

Talora è più veritiera l'opinione che il sentimento, se l'infermo crede alla diagnosi del medico che l'acqua fredda è nociva, se di fatto è nociva, e tuttavia ha piacere nel berla.

Talora sono tutte e due nella verità, quando ciò che è giovevole non solo è ritenuto tale ma piace anche, e talora tutte e due nell'errore, come quando ciò che è nocivo si ritiene giovevole e l'infermo non lo rifiuta liberamente.

Inoltre di solito tanta forza è nel dominio e nella supremazia della ragione che una retta opinione corregge una cattiva abitudine e una cattiva opinione deprava la retta natura.

Quando dunque qualcuno, credendo che egli dopo morto non ci sarà più, è spinto da intollerabili sofferenze al definitivo desiderio della morte e la incontra per libera scelta, secondo l'opinione ha l'errore della totale distruzione, ma nel sentimento il naturale desiderio di riposo.

Ora ciò che è in riposo non è un nulla, anzi è anche più perfetto dell'essere in movimento.

Il movimento infatti diversifica le determinazioni d'essere nel senso che una esclude l'altra.

Il riposo al contrario ha la permanenza, per cui principalmente si concepisce il predicato È.

Pertanto il desiderio di voler morire va inteso non nel senso che chi muore non è più, ma che raggiunge il riposo.

Così, sebbene per errore crede di non esser più, per natura tuttavia desidera di essere nel riposo, cioè di essere di più.

Quindi come è assolutamente impossibile che piaccia di non essere, così bisogna assolutamente non essere ingrati al proprio Creatore di ciò che si è.

9.24 - Ogni cosa nel suo grado di perfezione

Poniamo che dica: " Non era difficile o faticoso a Dio onnipotente che tutte le cose da lui create avessero il proprio ordine senza che alcuna giungesse alla infelicità.

Essendo onnipotente, non è che non l'ha potuto ed essendo buono, non ce l'ha invidiato ".

Risponderò che l'armonia del creato, dalla più grande alla più piccola delle creature, si dispone con ordine così giusto che lo sviserebbe chi dicesse: " Questa cosa non dovrebbe esserci ", ed anche chi dicesse: " Questa cosa dovrebbe esser come quest'altra ".

Desidera, supponiamo, che essa diventi eguale a una superiore.

Ma la superiore esiste già ed ha l'essere competente sicché non è possibile aggiungergliene altro perché è perfetta.

E chi obiettasse: " Anche l'inferiore dovrebbe esser come l'altra ", o vorrebbe aggiungere a quella superiore già perfetta e sarebbe privo della misura e ingiusto, oppure vorrebbe sopprimere l'inferiore e sarebbe malvagiamente invidioso.

Chi dicesse: " L'inferiore non dovrebbe esistere ", sarebbe in egual modo malvagiamente invidioso perché non vorrebbe che esistesse una creatura anche se è costretto ad apprezzarne una meno perfetta.

Poniamo che dica: " Non dovrebbe esserci la luna ".

Eppure deve ammettere, e se lo nega è per vera ignoranza o caparbietà, che lo splendore di molto inferiore di una lucerna è nel suo genere bello, conveniente durante le tenebre della terra perché adatto agli usi della notte e a motivo di tutto questo certamente apprezzabile nei suoi limiti.

Non può dunque dire ragionevolmente: " La luna non dovrebbe esserci nel mondo ", giacché comprenderebbe di dover essere deriso anche se dicesse: " Non dovrebbe esserci la lucerna ".

Che se dice: " La luna non dovrebbe esserci ", ma aggiunge che la luna dovrebbe essere come vede che è il sole, non capisce che finisce per dire: " Non dovrebbe esserci la luna, ma due soli ".

E sbaglia per due motivi, perché desidera aggiungere qualche cosa alla perfezione della realtà, quando desidera un altro sole, e desidera diminuire, quando vuole che sia soppressa la luna.

9.25 - Provvidenza nella verità delle perfezioni

A questo punto forse mi potrebbe dire che non si lamenta affatto della luna perché anche se il suo splendore è così scarso non può essere infelice.

Si lamenta invece non della mancanza di luce ma dell'infelicità delle anime.

Ma egli rifletta attentamente che se lo splendore della luna non è infelice, quello del sole non è felice.

E sebbene siano corpi celesti, sono tuttavia corpi per attinenza alla luce che si può percepire con la vista.

I corpi per sé non possono essere né felici né infelici, sebbene possano essere corpi di esseri felici o infelici.

Ma la similitudine derivata da quegli splendori insegna qualche cosa.

Nell'osservare le diversità dei corpi, quando scorgi alcuni più splendenti, richiedi ingiustamente che i più oscuri siano eliminati o resi eguali ai più splendenti.

Riferendo tutto alla perfezione dell'universo, ti è possibile constatare che se fra di loro sono più o meno splendenti, lo sono in quanto hanno tutti l'esistenza e non ti si manifesterebbe un universo perfetto se nell'apparire dei più perfetti mancassero i meno perfetti.

Pensa la medesima cosa sulla differenza delle anime.

Avrai modo perfino di conoscere che l'infelicità, di cui ti lamenti, serve anche ad uno scopo.

Alla perfezione dell'universo infatti non devono mancare anime che sono dovute divenire infelici perché hanno voluto peccare.

E non si deve affermare che Dio non doveva crearle in quelle condizioni perché deve esser lodato anche se ha creato altri esseri di molto inferiori a quelle infelici.

9.26 - Per ordine è creata l'anima …

Ma sembra che comprendendo meno bene quanto è stato detto, abbia ancora una obiezione.

Dice infatti: " Se anche la nostra infelicità completa la perfezione dell'universo, sarebbe mancato qualche cosa e questa perfezione nell'ipotesi che fossimo sempre felici.

Quindi se l'anima incontra l'infelicità soltanto peccando, anche i nostri peccati sono necessari alla perfezione dell'universo che Dio ha creato.

Come dunque punisce giustamente i peccati dal momento che se fossero mancati, il creato non avrebbe pienezza e perfezione? ".

Si risponde che non i peccati o l'infelicità sono necessari alla perfezione dell'universo ma le anime in quanto anime.

Se esse vogliono, peccano; se hanno peccato, divengono infelici.

Se invece tolto il loro peccato, la infelicità continuasse o anche precedesse il peccato, allora con ragione si direbbe che viene alterato l'ordinato governo dell'universo.

Ma a sua volta se si commette il peccato e non ci fosse l'infelicità, ugualmente l'ingiustizia demolisce l'ordine.

Ma l'universo ha perfezione, quando c'è felicità per chi non pecca.

Ed ugualmente l'universo ha perfezione, quando c'è infelicità per chi pecca.

Ma per il fatto che non mancano le anime, le quali hanno l'infelicità se peccano e la felicità se agiscono secondo ragione, l'universo è pieno e perfetto di tutte le determinazioni dell'essere.

Infatti il peccato e la pena del peccato non sono esseri determinati ma perturbazioni dell'essere, la prima volontaria, la seconda penale.

Ma la volontaria, che avviene col peccato, è una perturbazione contro il fine.

Le si applica dunque quella penale che la reinserisca in quel settore dell'ordine, in cui quello stato non è contro il fine e la costringa a conformarsi all'armonia dell'universo.

Così la pena del peccato corregge la disarmonia del peccato.

9.27 - … ma il peccato e l'infelicità …

Ne risulta che una creatura più perfetta, se pecca, sia punita dalle creature meno perfette giacché esse sono tanto basse che possono ricevere elevazione anche dalle anime indegne e così adattarsi all'armonia dell'universo.

Non v'è in una casa nulla di più degno dell'uomo e nulla di così abietto e basso che la fogna della casa.

Eppure lo schiavo sorpreso in una trasgressione tale che sia giudicato degno di curare la nettezza della fogna, la rende degna con la propria indegnità.

Le due cose, cioè l'indegnità del servo e la ripulitura della fogna, sono ormai congiunte e ridotte a una determinata unità, sono inserite così idoneamente nella sistemazione della casa che convengono all'insieme di essa con ordine e decoro.

Ma se il servo non avesse voluto peccare, non sarebbe mancato all'organizzazione della casa un altro provvedimento per le necessarie ripuliture.

Pertanto il corpo terreno è la cosa più bassa nella realtà.

Eppure anche un'anima peccatrice innalza in tal maniera la carne corruttibile da offrirle la perfezione conveniente e il movimento della vita.

Dunque una simile anima a causa del peccato non è idonea all'abitazione nel cielo, ma è idonea mediante la pena a quella sulla terra.

Quindi, comunque sceglie, l'universo rimane bello in quanto ordinato mediante parti convenienti perché Dio ne è creatore e provvidenza.

E le anime più buone finché rimangono fra le creature più basse, non le elevano con la propria infelicità, che non hanno, ma con il loro buon uso.

Se poi fosse permesso alle anime peccatrici di raggiungere i luoghi più elevati, sarebbe un disordine in quanto non sono idonee ad essi perché non possono usarne bene né conferire loro una qualche elevazione.

9.28 - … rientrano nell'ordine

Dunque sebbene l'orbe terrestre sia stato assegnato alle cose materiali, tuttavia conservando, quanto è possibile, l'immagine esemplare più alta, non manca di mostrarcene copie e segni.

Supponiamo dunque di vedere un individuo buono e illustre, il quale, sotto l'impulso del dovere dell'umana dignità, lascia bruciare il proprio corpo dal fuoco.

Non consideriamo il fatto come pena di un peccato ma testimonianza di fortezza e di pazienza e stimiamo l'uomo nel momento in cui un'orribile consunzione distrugge le membra del suo corpo più che se non avesse sopportato tale pena perché ammiriamo che l'indole spirituale non muta col mutare del corpo.

Ma quando vediamo consumarsi con tale supplizio il corpo di un bandito sanguinario, noi approviamo l'ordinamento delle leggi.

Quindi tutte e due le pene elevano, ma la prima come merito della virtù, la seconda del peccato.

Se dunque dopo quel tormento o anche prima vedessimo che quell'individuo degnissimo, resosi capace della vita celeste che gli si addice, viene elevato alle stelle, certamente ci allieteremmo.

Ma ognuno si sentirebbe offeso nel vedere sia prima che dopo il supplizio, elevato alla dimora eterna della gloria, nel cielo, lo scellerato bandito, se persiste nella malizia del volere.

Avviene così che tutte e due hanno potuto elevare le creature meno perfette, ma una soltanto le più perfette.

Da ciò siamo indotti a constatare che la mortalità della carne è stata elevata tanto dal primo uomo perché la pena convenisse al peccato, quanto da Nostro Signore perché la misericordia ci liberasse dal peccato.

Dunque un giusto ha potuto, perseverando nella giustizia, avere un corpo mortale.

Invece un individuo iniquo, mentre rimane iniquo, non può giungere alla immortalità dei santi, intendi quella più alta e angelica, non di quegli angeli, di cui l'Apostolo ha detto: Non sapete che giudicheremo gli angeli, ( 1 Cor 6,3 ) ma di quelli, di cui il Signore ha detto: Saranno eguali agli angeli di Dio. ( Lc 20,36 )

Coloro invece, che desiderano l'eguaglianza con gli angeli per la propria vanagloria, non vogliono essere eguali agli angeli ma gli angeli a se stessi.

Pertanto, se continuano in tale volere, saranno eguagliati agli angeli prevaricatori che amano il proprio potere anziché quello di Dio onnipotente.

Ad essi, destinati alla sinistra giacché non hanno cercato Dio passando per la porta dell'umiltà che il Signore Gesù Cristo ha svelato in sé e sono vissuti nella superbia senza pietà per gli altri, sarà detto: Andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli. ( Mt 25,41 )

10.29 - Giusta soggezione al diavolo

Due sono le cause del peccato, una per spontanea determinazione, l'altra per istigazione di un altro.

Penso che al caso attiene ciò che dice il Profeta: O Signore, mondami dai miei peccato occulti e perdona il tuo servo da quelli degli altri. ( Sal 19,13-14 )

Certo l'uno e l'altro sono volontari.

Infatti come per spontanea determinazione un individuo non pecca illiberamente, così quando acconsente al cattivo istigatore, acconsente certamente col volere.

Tuttavia è più grave non solo peccare per propria determinazione senza l'istigazione di alcuno, ma soprattutto istigare ad altri il peccato per malanimo o inganno che esser trascinato a peccare dall'istigazione di un altro.

Dunque nell'uno e nell'altro peccato è stata mantenuta la giustizia del Signore nel punire.

Ed anche la istigazione al peccato è stata pesata al vaglio della equità al punto che l'uomo non fu sottratto al potere dello stesso diavolo che se lo aveva assoggettato con la cattiva istigazione.

Era ingiusto che non dominasse su chi aveva reso schiavo.

È assolutamente impossibile infatti che la perfetta giustizia di Dio vero e sommo, la quale si estende dovunque, abbandoni senza ordinarla al fine persino la rovina di coloro che peccano.

Ma l'uomo aveva meno peccato del diavolo.

Gli valse dunque per riconquistare la salvezza il fatto stesso che è stato, fino alla mortalità della carne, assoggettato al principe di questo mondo, inteso come parte corruttibile e infima della realtà, cioè al principe di tutti i peccati e signore della morte.

Così, sgomento nella consapevolezza della soggezione alla morte, timoroso delle molestie e della morte provenienti da bestie molto spregevoli e abiette e perfino assai piccole, incerto del futuro, ha contratto l'abito di frenare i piaceri illeciti e soprattutto reprimere la superbia poiché per sua istigazione è decaduto.

Con questo solo vizio appunto si respinge la medicina della misericordia.

Chi infatti ha tanto bisogno di misericordia quanto un miserabile e chi è più indegno di misericordia d'un miserabile superbo?

10.30 - Ragione teologica dell'Incarnazione

Ne è avvenuto che il Verbo di Dio, mediante il quale tutto è stato fatto e da cui è costituita tutta la felicità degli angeli, ha esteso la propria clemenza fino alla nostra infelicità, è divenuto carne e ha abitato in mezzo a noi.

Così l'uomo, senza essere reso eguale agli angeli, avrebbe potuto mangiare il pane degli angeli, se lo stesso pane degli angeli si fosse degnato di eguagliarsi agli uomini.

Non è disceso fra noi per abbandonare gli angeli, ma tutto per essi e insieme tutto per noi, cibando quelli nell'interiorità mediante l'essenza divina e insegnando a noi nell'esteriorità mediante l'essenza umana, ci rende idonei con la fede a cibarci egualmente mediante l'apparenza sensibile.

La creatura pensante si ciba del Verbo come del suo migliore cibo.

L'anima umana è pensante, ma era trattenuta dalla catena della morte per la pena del peccato ed era ridotta a tale imperfezione che si sforzava di pensare gli intelligibili mediante l'esperienza dalle cose sensibili.

Pertanto il cibo della creatura pensante è divenuto visibile, non mediante trasformazione della propria natura ma mediante assunzione della nostra per richiamare a sé invisibile esseri che seguono le cose visibili.

Così l'anima trovò umile nell'esteriorità colui che aveva abbandonato insuperbendosi nella interiorità.

Doveva imitare la sua umiltà visibile e tornare all'altezza invisibile.

10.31 - Giusto riscatto del diavolo

E il Verbo di Dio, unico figlio di Dio, assunto l'uomo, assoggettò anche all'uomo il diavolo che ebbe sempre soggetto alle proprie leggi.

Non gli ha sottratto qualche cosa dominandolo con la forza, ma l'ha vinto con legge di giustizia.

Ora il diavolo, ingannata la donna e fatto cadere mediante la donna l'uomo, reclamava alle leggi della morte, sia pur con maligno desiderio di nuocere, ma con legittimo diritto, tutta la discendenza del primo uomo come peccatrice.

Quindi il suo potere avrebbe dovuto durare fino a quando non faceva morire il giusto, nel quale non poté riscontrare motivo che lo rendesse degno di morte, non solo perché è stato ucciso senza aver commesso delitto, ma anche perché è nato senza concupiscenza.

Ad essa aveva fatto soggiacere gli uomini, che aveva fatto prigionieri, in maniera da trattenere, sia pure con malvagio desiderio di dominare e tuttavia con legittimo diritto di possedere, come frutti del proprio albero, gli uomini che dovevano nascere dalla concupiscenza.

Con piena giustizia dunque è costretto a lasciar liberi i credenti in colui che con somma ingiustizia egli ha fatto morire, sicché per il fatto che muoiono nel tempo, paghino ciò che dovevano e per il fatto che vivono per sempre, vivano in lui che ha pagato ciò che non doveva.

Il diavolo poi avrebbe avuto con sé compagni in una perpetua condanna coloro che aveva istigato alla continuità nella ribellione.

Avvenne così che l'uomo non fu sottratto al diavolo con la forza perché anche egli non l'aveva preso prigioniero con la forza ma con l'istigazione.

E l'uomo che giustamente è stato umiliato di più ad essere schiavo di colui, a cui aveva acconsentito per il male, giustamente era liberato da colui, a cui aveva acconsentito per il bene perché di meno aveva peccato l'uomo col consentire che il diavolo, con la malvagia istigazione.

11.32 - Anime che peccano ed anime che non peccano

Dio dunque ha creato tutti gli esseri, e non solo quelli che avrebbero continuato nella virtù e giustizia, ma anche quelli che avrebbero peccato, non perché peccassero ma perché avessero conferito armonia all'universo, sia che avessero voluto peccare o non peccare.

Se infatti alla realtà mancassero anime che raggiungono fra tutte le creature la perfezione dell'ordine sicché se avessero voluto peccare, s'indebolirebbe e crollerebbe l'universo, verrebbe a mancare un grande principio al creato.

Mancherebbe appunto quel principio, senza di cui sarebbe turbata l'invariabile armonia delle cose.

Esse sono le ottime sante e altissime creature dei poteri celesti e sopracelesti, ai quali soltanto Dio comanda e cui l'universo è soggetto.

Senza la loro funzione di perfetta giustizia non può sussistere l'universo.

Egualmente mancherebbe moltissimo, se mancassero anime, le quali, sia che pecchino, sia che non pecchino, nulla sarebbe tolto all'ordine dell'universo.

Vi sono infatti delle anime ragionevoli, differenti dalle superiori per funzione, ma eguali per natura.

Sotto di esse vi sono ancora molti gradi inferiori, comunque degni di lode, di cose create da Dio sommo.

11.33 - I gradi di perfezione nelle anime

Di funzione più alta è dunque quell'essere, il quale non solo se non esistesse, ma anche se peccasse, renderebbe meno perfetto l'ordine dell'universo.

Di funzione inferiore è quello che soltanto se non esistesse e non se peccasse, l'universo subirebbe una imperfezione.

Al primo è stato dato il potere di contenere nella propria funzione tutto ciò che non può mancare all'ordine delle cose.

Esso non persiste nell'ordinato volere perché ha ricevuto questa funzione, ma l'ha ricevuta perché è stato previsto da chi gliela ha data che avrebbe perseverato.

E non per propria supremazia contiene tutto, ma unendosi alla supremazia e ubbidendo con assoluta dedizione all'ordine di colui che è principio, ordinatore e fondamento di tutte le cose.

Anche all'anima inferiore è data, se non pecca, la potente funzione di contenere tutto, non da sola tuttavia ma con quella superiore perché è stato previsto che peccherà.

Gli esseri spirituali infatti hanno fra di sé congiungimento senza accrescimento e separazione senza diminuzione.

Dunque l'essenza superiore non è agevolata nel compimento della sua azione, quando le si congiunge la inferiore, né l'azione gli diventa più difficile se l'altra abbandona la propria funzione col peccato.

Le creature spirituali possono unirsi o separarsi secondo concordia o discordanza delle disposizioni e non secondo spazio e tempo, sebbene alcune hanno un proprio corpo.

11.34 - Anime superiori e inferiori

L'anima ordinata dopo il peccato nei corpi inferiori e mortali domina il proprio corpo non certo arbitrariamente, ma come permettono le leggi dell'universo.

Comunque tale anima non è meno perfetta di un corpo celeste, sebbene ad esso siano soggetti i corpi terreni.

La veste cenciosa di uno schiavo condannato è molto inferiore alla veste di uno schiavo meritevole e avuto in grande onore dal padrone, ma lo schiavo è migliore di qualsiasi veste preziosa perché è uomo.

L'anima superiore dunque si unisce a Dio e in un corpo celeste con potenza angelica eleva e dirige anche il corpo terrestre come gli ordina colui, di cui ineffabilmente intuisce il volere.

La inferiore invece appesantita da membra mortali regge all'interno il corpo stesso, da cui è gravata e tuttavia lo eleva quanto può.

Quanto ai corpi che le sono vicini all'esterno, può modificarli all'esterno con azione molto più debole.

12.35 - Il peccato e il non peccato nell'ordine

Se ne conclude che non sarebbe mancata alla infima creatura corporea l'armonia più conveniente, anche se l'anima inferiore non avesse voluto peccare.

Infatti l'anima che può reggere il tutto, regge anche la parte, ma non necessariamente quella che può il meno, può anche il più.

Un bravo medico sana efficacemente anche la scabbia, ma non necessariamente chi provvede con vantaggio a uno scabbioso, può provvedere a tutta la salute umana.

E se si ha la dimostrazione valida dell'evidenza che era necessaria l'esistenza di una creatura che mai ha peccato e mai peccherà, la medesima dimostrazione ci svela anche che essa rifugge liberamente dal peccato e che non è costretta a non peccare, ma lo fa di propria scelta.

Ma poniamo che peccasse.

Non ha peccato tuttavia come Dio ha previsto che non avrebbe peccato.

Comunque se anche essa peccasse, basterebbe a reggere l'universo la grandezza dell'ineffabile potere di Dio.

Egli dando a ciascuno secondo convenienza e merito, non permette che in tutto il suo dominio vi sia qualche cosa di deforme e sconveniente.

Infatti da un lato, se ogni creatura angelica si fosse ribellata ai suoi ordini col peccato, egli mediante la sua potenza reggerebbe il tutto con assoluta convenienza e bontà, senza i poteri angelici creati a questo scopo.

Nell'ipotesi non invidierebbe alla creatura spirituale l'esistenza perché ha prodotto con tanta larghezza di bontà anche la creatura fisica molto inferiore agli esseri spirituali che hanno peccato.

Di conseguenza non v'è alcuno, il quale osservando con intelligenza il cielo, la terra e tutti gli esseri visibili prodotti nei loro generi secondo misura, forma e ordine, pensi che vi sia un altro artefice del tutto fuor di Dio e non confessi che egli si deve onorare con lodi ineffabili.

Dall'altro lato non c'è migliore ordinamento della realtà che quello, in cui il potere angelico per superiorità di natura e per bontà del volere eccelle nel governo dell'universo.

Ma anche se tutti gli angeli avessero peccato, non produrrebbero impotenza nel Creatore degli angeli a reggere il proprio dominio.

Infatti né la sua bontà mancherebbe per una certa qual noia, né la sua onnipotenza per qualche difficoltà di crearne altri da porre nelle sedi che i precedenti avessero abbandonato col peccato.

Ed anche se la creatura spirituale in qualsiasi numero fosse condannata perché lo merita, non potrebbe limitare l'ordine che con giustizia e convenienza accoglie tutti i dannati.

Quindi, da qualunque parte si volti la nostra considerazione, scopre di dover lodare Dio creatore ottimo e ordinatore giustissimo di tutti gli esseri.

Infine, per lasciare la contemplazione dell'armonia delle cose a coloro che per dono di Dio possono vedere e per non tentare di convincere con parole quelli che non possono a intuire l'ineffabile, tuttavia con attenzione a certe persone o ciarliere o deboli o cavillose, svolgiamo l'importante argomento con poche parole.

13.36 - Bontà degli esseri

Ogni natura, che può divenire meno buona, è buona ed ogni natura corrompendosi diviene meno buona.

Difatti o non le nuoce la corruzione, e allora non si corrompe, o se si corrompe, le nuoce la corruzione e se nuoce, fa diminuire un po' del suo bene e la rende meno buona.

Che se la priva di ogni bene, quanto di essa rimane non potrà più corrompersi.

Non vi sarà appunto il bene, con la cui sottrazione la corruzione può nuocere.

E la natura, cui la corruzione non può nuocere, non si corrompe.

Ora una natura che non si corrompe è incorruttibile, vi sarà quindi una natura resa incorruttibile dalla corruzione.

Ma è un'assurdità il dirlo.

Pertanto è assolutamente vero che ogni natura, in quanto natura, è buona.

Se è incorruttibile, è più perfetta di una corruttibile.

Se poi è corruttibile, giacché corrompendosi diviene meno buona, senza dubbio è buona.

Ora ogni natura o è corruttibile o incorruttibile.

Quindi ogni natura è buona.

Intendo per natura quel che si suol dire esseità.

Dunque ogni esseità o è Dio o è da Dio perché ogni bene o è Dio o è da Dio.

13.37 - Dio si loda anche nel biasimo …

Stabiliti validamente questi principi come premesse della nostra dimostrazione, segui ciò che sto per dire.

La natura ragionevole, creata con il libero arbitrio del volere, se persiste nel godere il sommo bene non diveniente, è senza dubbio da lodarsi.

Si deve lodare anche quella che tende a persistere.

Ma quella che non persiste in lui e non vuole impegnarsi a persistere si deve biasimare, ma solo in relazione al fatto che non è in lui e non si adopera ad esservi.

Se dunque si deve lodare la natura ragionevole che è stata creata, non v'è dubbio che si deve lodare chi l'ha creata, e se è biasimata, non v'è dubbio che il suo Creatore si deve lodare per questo stesso biasimo.

Se la biasimiamo appunto perché non vuol godere del bene sommo e non diveniente, cioè del suo Creatore, lui senza dubbio noi lo lodiamo.

Quanto gran bene è dunque e quanto si deve esaltare e onorare in modo ineffabile da tutte le lingue e anche da tutti i pensieri Dio creatore di tutte le cose perché senza la lode dovutagli noi non possiamo essere né lodati né biasimati.

Infatti è possibile biasimarci per il fatto che non persistiamo in lui soltanto perché il persistere in lui è grande, sommo e primo nostro bene.

E questo soltanto perché egli è il bene ineffabile.

Dunque non si può trovar nulla nei nostri peccati per biasimarlo perché è assurdo il biasimo per i nostri peccati se egli non è lodato.

13.38 - … meritato dall'essere imperfetto

E cosa dire che nelle stesse cose biasimate si biasima soltanto l'imperfezione?

Ma non si biasima l'imperfezione di qualche cosa, se non si loda la natura della cosa stessa.

Infatti o è secondo natura ciò che biasimi e allora non è imperfezione e tu piuttosto devi correggerti per imparare a biasimare ragionevolmente, anziché l'oggetto che non ragionevolmente biasimi; ovvero, se è imperfezione, perché si possa biasimare ragionevolmente, è necessario che sia contro la natura della cosa.

Ogni imperfezione, per il fatto stesso che è imperfezione, è contro la natura.

Se non offende la natura, non è imperfezione, ma se è imperfezione appunto perché offende, è imperfezione perché è contro la natura.

Che se una natura si corrompe non per propria imperfezione ma di altri, si biasima ingiustamente.

Bisogna ricercare se la natura, dalla cui imperfezione ha potuto esserne corrotta un'altra, non sia già corrotta per una propria imperfezione.

E che cos'è essere imperfetti se non esser corrotti da una imperfezione?

Ora una natura che non è imperfetta è esente da imperfezione, ma ha certamente imperfezione quella, dalla cui imperfezione è corrotta un'altra natura.

Per prima dunque è imperfetta e per prima è corrotta dalla propria imperfezione la natura, dalla cui imperfezione può esserne corrotta un'altra.

Se ne conclude che ogni imperfezione è contro la natura della cosa di cui è imperfezione.

Ora in ogni essere è biasimata soltanto l'imperfezione ed è imperfezione appunto perché è contro la natura della cosa di cui è imperfezione.

Dunque ragionevolmente si biasima soltanto l'imperfezione di una cosa, la cui natura è lodata.

Nell'imperfezione disapprovi ragionevolmente soltanto che rende imperfetto ciò che approvi nella natura.

14.39 - Ci si corrompe con la propria imperfezione

Si deve esaminare anche se è vero che una natura è corrotta dalla imperfezione di un'altra senza una propria imperfezione.

Se infatti la natura, che sopravviene con la propria imperfezione per corromperne un'altra, non trova in essa nulla di corruttibile, non la corrompe.

Se ve lo trova, ne compie la corruzione con l'imperfezione che vi trova.

Se una natura più potente non vuole essere corrotta da una più debole, non viene corrotta, ma se lo vuole è corrotta prima dalla propria imperfezione che da quella dell'altra.

Allo stesso modo se una eguale non vuole essere corrotta da una eguale, non può esserlo.

Infatti qualsiasi natura che sopravviene con la propria imperfezione ad un'altra senza imperfezione per corromperla, per il fatto stesso della propria imperfezione non sopravviene eguale ma più debole.

Nel caso che una natura più potente corrompa una più debole, la corruzione avviene o per imperfezione d'entrambi, se avviene per inordinato desiderio d'entrambi, ovvero per imperfezione della più potente se è di tanto prestigio di natura che, per quanto imperfetta, è più perfetta della più debole che corrompe.

Nessuno infatti potrà biasimare ragionevolmente i frutti del suolo perché gli uomini non ne usano bene e corrotti dalla propria imperfezione li corrompono abusandone a scopo di lussuria.

Tuttavia è da pazzi dubitare che la natura dell'uomo, anche imperfetta, sia più nobile e potente dei prodotti della terra, sebbene non imperfetti.

14.40 - Corruzione non dovuta a imperfezione

Può anche avvenire che una natura più potente ne corrompa una meno perfetta e che avvenga senza loro imperfezione perché sì dice imperfezione ciò che è degno di biasimo.

Chi oserebbe biasimare un individuo, magari frugale, che cerca nei prodotti della terra soltanto il sostentamento, o gli stessi prodotti che, usati come cibo, si corrompono?

Questa abitualmente neanche si dice corruzione perché di solito corruzione è concetto di imperfezione.

È possibile inoltre osservare nella realtà quanto segue.

Spesso una natura più perfetta ne corrompe una meno perfetta indipendentemente dalla esigenza di soddisfare un proprio bisogno, talora per punire secondo giustizia una colpa, come nella massima enunziata dall'Apostolo: Se qualcuno corromperà il tempio di Dio, Dio corromperà lui; ( 1 Cor 3,17 ) talora in base all'ordinamento delle cose divenienti che si susseguono per le leggi convenienti date all'universo secondo il rango delle singole parti.

Se infatti il sole con lo splendore rovina gli occhi di un tale, perché incapace di sopportar la luce, dato il limite della loro capacità, non si deve pensare che esso li trasforma per colmare una carenza della propria luce o che lo fa per imperfezione, o che si devono biasimare gli occhi perché hanno ubbidito alla persona nell'aprirsi contro luce o alla luce per esser rovinati.

Dunque fra tutte le corruzioni soltanto quella dovuta a imperfezione si biasima ragionevolmente.

Le altre neanche si possono dire corruzioni, o per lo meno non possono essere biasimevoli perché non sono dovute a imperfezione.

Si crede infatti che il termine vituperazione etimologicamente deriva dal concetto che essa è preparata, cioè adatta e dovuta al solo vizio.

14.41 - Biasimo dell'imperfezione e lode dell'essere

L'imperfezione, come avevo cominciato a dire, è male soltanto perché si oppone alla natura di quella cosa, di cui è imperfezione.

Ne deriva con evidenza che questa medesima cosa, di cui si biasima l'imperfezione, è buona di natura.

In definitiva dobbiamo ammettere che il biasimo stesso dell'imperfezione è lode delle nature, intendi di quelle le cui imperfezioni si biasimano.

E poiché l'imperfezione si oppone alla natura, tanto si aggiunge al male delle imperfezioni quanto si sottrae all'interezza delle nature.

Quando dunque biasimi una imperfezione, lodi certamente la cosa di cui desideri l'interezza.

E certamente la desideri della natura.

La natura perfetta infatti non solo non è degna di biasimo, ma di lode nel suo genere.

Tu vedi che manca qualche cosa alla perfezione della natura e la chiami imperfezione, mostrando che la natura la vuoi perché col biasimo della sua imperfezione mostri di volerla perfetta.

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