Il libero arbitrio

Dalla volontà libera dipendono bene e male

15.42 - Limiti del contingente

Se dunque il biasimo delle imperfezioni mette in luce la competente dignità delle nature, anche di quelle di cui sono imperfezioni, quanto più si deve lodare Dio, creatore di tutte le nature, e perfino nelle loro imperfezioni.

Da lui appunto hanno l'essere ed in tanto sono difettose, in quanto si allontanano dalla sua idea, con cui sono state create, ed in tanto sono ragionevolmente biasimate, in quanto chi le biasima conosce l'idea con cui sono state create e le biasima appunto perché in esse non la trova.

E se l'idea, mediante la quale tutte le cose sono state fatte, cioè la somma e immutabile sapienza di Dio ha, come difatti ha, l'essere sommamente intelligibile, puoi vedere dove tende l'essere che da essa si allontana.

Ma questo dissolversi dell'essere non sarebbe biasimevole, se non fosse volontario.

Rifletti, per piacere, se puoi ragionevolmente biasimare un essere che è come dovrebbe essere.

Io non lo penso. Si biasima l'essere che non è come doveva essere.

Non si deve ciò che non si è ricevuto, e se si deve, si deve a colui da cui si è ricevuto con l'intenzione di doverlo.

Anche le cose che si restituiscono per trasmissione ereditaria, si restituiscono a chi le ha trasmesse.

Ed anche ciò che si rende ai legittimi eredi dei creditori, si rende a coloro, a cui questi secondo la legge succedono.

Altrimenti non si deve considerare restituzione, ma cessione, concessione o altro di simile.

Pertanto molto illogicamente si dice che non dovrebbero cessar d'essere tutte le cose temporali.

Esse sono così disposte nell'ordine della realtà che se non cessano d'essere, non possono le cose future succedere alle passate in maniera che si svolga nel suo genere tutta l'armonia dei tempi.

Quanto hanno ricevuto infatti, tanto realizzano e tanto restituiscono a chi devono ciò che sono nei limiti del loro essere.

Chi poi si duole che cessano d'essere, deve riflettere sul proprio discorso, quello appunto con cui si lamenta, se lo ritiene giusto e dettato dalla prudenza.

Infatti per quanto attiene al suono di questo discorso, se qualcuno ne preferisse una piccola parte e non volesse che essa cessando dia luogo alle altre, le quali trascorrendo e succedendosi danno lo svolgimento dell'intero discorso, sarebbe tacciato di strabiliante pazzia.

15.43 - Norma del dover essere o restituzione …

Non si può dunque ragionevolmente biasimare la fine delle cose che appunto cessano d'essere perché non hanno avuto di essere più a lungo affinché tutte le cose si svolgano nel loro tempo.

Non si può dire: " Doveva rimanere ancora ".

Non poteva oltrepassare i limiti stabiliti.

Nelle creature razionali poi, siano peccatrici o no, si conduce alla perfezione nella misura più conveniente l'armonia universale.

In esse o non vi sono peccati, che è un'assurdità il dirlo, perché pecca per lo meno chi condanna come peccati azioni che non lo sono; ovvero non si devono biasimare i peccati, ma questo è ugualmente assurdo, perché comincerebbero a non esser lodate neanche le azioni buone e così il disporsi al fine dell'umana ragione sarebbe turbata e sconvolgerebbe tutta la vita; o anche si biasimerà un'azione compiuta come si doveva, e ne nascerà una esecranda pazzia, o tanto per usare un eufemismo, un miserevole errore; ovvero se una valida dimostrazione ci costringe, come ci costringe, a biasimare i peccati e biasimare quanto ragionevolmente si biasima appunto perché non è come doveva essere, cerca cosa deve l'essere che pecca e scoprirai che deve la buona azione, cerca a chi la deve e troverai che la deve a Dio.

Da chi ha ricevuto la possibilità di agire secondo ragione se vuole, ha ricevuto anche di essere infelice se non l'ha fatto, felice se l'ha fatto.

15.44 - … cui segue sanzione

E poiché non si possono superare le leggi dell'onnipotente Creatore, non si permette all'anima di non restituire il dovuto.

Perché o restituisce usando bene ciò che ha ricevuto o restituisce perdendo ciò che non ha voluto usar bene.

Dunque se non restituisce operando la giustizia, restituisce subendo l'infelicità.

Nell'uno e nell'altro aspetto si manifesta appunto il concetto di dovuto.

La massima infatti si può formulare anche in questo modo: " Se non restituisce facendo ciò che deve, restituirà subendo ciò che deve ".

I due momenti non sono separati da discontinuità di tempo nel senso che in uno non fa ciò che deve e nell'altro subisce ciò che deve.

Neanche in una piccola frazione di tempo deve esser turbata l'armonia dell'universo.

Si avrebbe l'indegnità del peccato senza la dignità della punizione.

Ma quanto è ora punito occultamente sarà riservato al futuro giudizio per render manifesta la tormentata coscienza della infelicità.

Come infatti chi non veglia, dorme, così chi non fa ciò che deve, senza soluzione di continuità subisce ciò che deve poiché è tanto grande la felicità della giustizia, che ce se ne può allontanare soltanto per avviarsi alla infelicità.

In tutti i casi di mancanza di essere, o non hanno più ricevuto l'essere le cose che vengono a mancare e non è colpa; ugualmente non è colpa che, mentre ancora esistono, non hanno ricevuto di essere più di quel che sono; ovvero non vogliono essere ciò che potrebbero essere se lo volessero, e poiché è un bene, è colpa se non vogliono.

16.45 - Dio non deve nulla, noi tutto …

Dio non deve nulla a nessuno poiché dà tutto gratuitamente.

E se qualcuno dirà che da Dio si doveva qualche cosa ai suoi meriti, almeno l'esistenza, si ricordi che non gli si doveva.

Neanche esisteva colui a cui si sarebbe dovuto.

E tuttavia quale merito è volgerti a lui, da cui sei, per esser da lui anche migliore perché da lui hai l'essere?

E che cosa gli avanzi da chiederglielo come debito?

Se non ti vuoi volgere a lui, a lui non manca nulla, a te invece manca lui.

Senza di lui sei un nulla e da lui sei un qualche cosa.

E se non gli restituirai ciò che da lui sei a lui volgendoti, non diverrai certamente un nulla ma sarai infelice.

Tutti gli esseri dunque gli debbono prima di tutto ciò che sono nei limiti del loro essere; tutti gli esseri poi che hanno ricevuto di volere hanno da lui ogni cosa che possono essere di più perfetto, se vogliono, e tutto ciò che è conveniente al loro essere.

Quindi non si è rei per il fatto che non si è ricevuto, ma si è meritatamente rei perché non si è fatto ciò che si deve.

E si deve se si è ricevuta la libera volontà e una valida capacità di fare.

16.46 - … fuorché il peccato

Dunque se non si fa ciò che si deve, non è colpa del Creatore, anzi a lui ne viene lode perché si subisce ciò che si deve e per il fatto che si è biasimati non facendo ciò che si deve, è lodato lui a cui si deve.

Tu sei lodato quanto t'impegni a conoscere il tuo dovere, sebbene lo conosci soltanto in lui che è l'immutabile Verità.

Quanto più dunque è lodato lui, il quale ha comandato il volere, ha offerto il potere e non ha permesso che il non volere rimanesse impunito!

Se dunque si deve ciò che si è ricevuto e se l'uomo è così fatto che pecca necessariamente, deve il peccare.

E quando pecca, fa ciò che deve. Ma è delitto dirlo.

Dunque non si è costretti a peccare dalla propria natura.

Ma neanche da un'altra. Infatti non si pecca quando si subisce ciò che non si vuole.

E in definitiva se si subisce giustamente, non si pecca per il fatto che si subisce contro volere, piuttosto si è peccato perché si è agito volontariamente in maniera da subire meritatamente ciò che non si voleva.

Se però si subisce ingiustamente, come si pecca?

Infatti non è peccato subire ingiustamente, ma agire ingiustamente.

Che se non si è costretti a peccare né dalla propria natura né da un'altra, rimane che si pecca di volontà propria.

Se poi lo vorrai attribuire al Creatore, scagionerai il peccatore perché non ha fatto altro che eseguire gli ordinamenti del Creatore.

Ma se è ragionevolmente scagionato, non ha peccato e non hai quindi di che imputare al Creatore.

Lodiamo dunque il Creatore se può esser difeso il peccatore, lodiamolo se non lo può.

Difatti se è giustamente scagionato, non è peccatore.

Loda dunque il Creatore.

Se poi non si può difendere, in tanto è peccatore in quanto si è voltato in altro senso dal Creatore.

Loda dunque il Creatore.

Pertanto non trovo proprio, anzi affermo che non si può trovare e che non esiste affatto un motivo per attribuire a Dio nostro Creatore i nostri peccati.

Anzi io lo trovo degno di lode perfino in essi, non solo perché li punisce, ma anche perché si commettono nel momento in cui ci si allontana dalla sua verità.

E. - Accolgo questi pensieri con molto piacere e li approvo, ed è del tutto vero, sono d'accordo, che è assolutamente impossibile imputare i nostri peccati al nostro Creatore.

17.47 - Obiezione della prescienza

Vorrei sapere tuttavia, se fosse possibile, perché non pecca l'essere, di cui Dio ha preveduto che non avrebbe peccato e perché pecca un altro, di cui egli ha preveduto che avrebbe peccato.

Non penso che dalla prescienza di Dio siano costretti l'uno a peccare e l'altro a non peccare.

Ma se non ci fosse una causa, la creatura ragionevole non sarebbe così ripartita che una non pecchi mai, un'altra persista nel peccare e una terza quasi di mezzo fra di esse, ora pecchi ed ora si converta ad agir bene.

Quale causa le distribuisce in questi ranghi?

Non vorrei che mi si risponda " la volontà ".

Io cerco la causa della stessa volontà.

Infatti non è senza causa che una non vuole peccare mai, che un'altra non vuole mai non peccare e che un'altra ora vuole ed ora non vuole.

Sono in definitiva della medesima natura.

Mi sembra di capire soltanto questo, che non è senza causa questa tripartizione del volere della creatura ragionevole, ma quale ne sia la causa non so.

17.48 - Causa prossima del peccato …

A. - Il volere è causa del peccato, ma tu cerchi la causa del volere stesso.

Ora se io potrò trovarla, cercherai anche la causa di quella causa che è stata trovata?

E quale limite vi sarà al ricercare, quale termine nel discutere col dialogo, quando è necessario che non ricerchi al di là della radice?

Non pensare che si poteva dire qualche cosa di più vero del detto che la radice di tutti i mali è l'avarizia, ( 1 Tm 6,10 ) cioè voler di più di quanto basta.

E basta quanto richiede, per sé il limite di ogni natura per conservarsi nel suo genere.

L'avarizia infatti, che in greco si denomina φιλαργυρία, non si dice soltanto per riferimento all'argento e alle monete.

Tuttavia ne deriva etimologicamente il nome perché presso gli antichi le monete si facevano prevalentemente di argento ovvero di una lega di argento.

Ma si deve intendere anche per riferimento alle cose che si desiderano immoderatamente, e in definitiva in ogni caso, in cui si vuole più di quanto basta.

Ora questo tipo di avarizia è desiderio disordinato e tale desiderio è volontà pervertita.

Dunque la volontà pervertita è causa di tutti i mali.

E se fosse secondo natura, la conserverebbe, non le sarebbe dannosa e perciò non sarebbe pervertita.

Ne consegue che la radice di tutti i mali non è secondo natura.

È un argomento sufficiente contro tutti coloro che considerano gli essere naturali un male.

Ma se tu ti metti a cercare la causa di questa radice, essa non sarebbe la radice di tutti i mali.

Sarebbe invece quella che ne è causa.

E se la trovassi, dovresti, come ho detto, cercare ulteriormente la causa di questa seconda e non avresti un limite alla ricerca.

17.49 - … è la stessa volontà …

Ma in definitiva quale potrà essere la causa della volontà anteriormente alla volontà?

O è la stessa volontà, e non ci si allontana da questa radice della volontà, ovvero non è volontà, e allora non ha alcun peccato.

Quindi o è la volontà stessa la prima causa del peccato, ovvero la prima causa del peccato non è peccato.

Ora non si può ragionevolmente imputare a qualcuno un peccato, se non pecca.

Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole.

Ma non capisco perché vorresti ricercare ancora.

Poi, qualunque sia la causa della volontà o è giusta o è ingiusta.

Se è giusta, chi le obbedisce, non pecca; se è ingiusta, non le obbedisca e non peccherà.

18.50 - … quindi è possibile non peccare

Forse è una causa violenta e costringe anche chi non vuole?

Ma dobbiamo ripetere tante volte i medesimi concetti?

Ricordati, fra le cose già dette da noi, le molte sugli argomenti del peccato e della volontà libera.

Ma se è faticoso ritenere tutto a memoria, ritieni questo breve tema.

Qualunque sia codesta causa della volontà, se non è possibile resisterle, si cede ad essa senza peccato; se è possibile, non le si ceda e non si peccherà.

Ma forse può ingannare un incauto?

Dunque si guardi per non essere ingannato.

Ma ha tanto potere d'ingannare che proprio non è possibile guardarsene?

Se è così, non si danno peccati.

Non si pecca in condizioni, in cui è assolutamente impossibile evitare.

Ma si pecca, dunque è possibile evitare.

18.51 - Condizione dell'uomo decaduto …

E tuttavia anche azioni compiute per ignoranza sono disapprovate e giudicate da correggere dall'autorità della sacra Scrittura.

Dice l'Apostolo: Ho ottenuto il perdono perché l'ho fatto per ignoranza. ( 1 Tm 1,13 )

Ed il Profeta: Non ricordare le colpe della giovinezza e della mia ignoranza. ( Sal 25,7 )

Si devono disapprovare anche azioni compiute per necessità, quando l'uomo vuole agire bene e non può.

Da questo principio derivano le seguenti espressioni: Non faccio il bene che voglio, ma compio il male che non voglio ( Rm 7,19 ) e questa: Volere il bene è alla mia portata, ma non riesco a compierlo, ( Rm 7,18 ) e ancora: La carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito contro la carne; essi si contrastano a vicenda per non farvi compiere le azioni che volete. ( Gal 5,17 )

Ma tutto questo è degli uomini che provengono dalla condanna di morte.

Se essa non è pena dell'uomo, ma natura, essi non sono peccati.

Se non ci si allontana dallo stato, in cui secondo natura l'uomo è stato creato, sicché non può essere in condizione migliore, fa ciò che deve, quando compie le azioni indicate.

Se l'uomo fosse buono, sarebbe in una diversa condizione, ma ora perché è così, non è buono, e non ha in potere di esserlo sia che non veda come dovrebbe essere, sia che lo veda e non possa essere come vede che dovrebbe essere.

Chi dubiterebbe che questa è una pena?

Ora ogni pena, se è giusta, è pena del peccato e si denomina supplizio.

Se poi la pena è ingiusta, poiché non v'è dubbio che è pena, è stata imposta da un ingiusto dominatore.

Ma è da pazzi dubitare della onnipotenza e della giustizia di Dio.

Dunque la pena è giusta e si paga per un peccato.

Infatti è impossibile che un qualche ingiusto dominatore abbia sottratto l'uomo a Dio, che non se ne sarebbe accorto, ovvero glielo abbia estorto contro il suo volere mediante il timore o la lotta come a uno più debole per tormentare l'uomo con una pena ingiusta.

Rimane dunque che questa giusta pena derivi dalla condanna dell'uomo.

18.52 - … per soggezione a ignoranza e passione

Non c'è da meravigliarsi che l'uomo o per ignoranza non abbia il libero arbitrio della volontà, con cui scegliere il da farsi secondo ragione, ovvero che per la resistenza dell'abito della passione, sviluppatosi in certo senso come un'altra natura a causa della illibertà nella propagazione della specie, egli conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa compierlo.

È pena giustissima del peccato che si perda ciò che non si è voluto usar bene, sebbene fosse possibile senza alcuna difficoltà, se si volesse.

È quanto dire che chi, pur conoscendo, non agisce secondo ragione, perde la conoscenza di ciò che è ragionevole e chi non ha voluto agire secondo ragione potendolo, ne perde la possibilità quando lo vuole.

Vi sono in realtà per l'anima che pecca queste due condizioni di pena: l'ignoranza e la debolezza.

A causa dell'ignoranza ci toglie dignità l'errore, a causa della debolezza ci tormenta il dolore.

Ma affermare il falso a posto del vero fino ad errare involontariamente e non poter trattenersi da azioni passionali, perché reagisce con tormento la sofferenza della soggezione alla carne, non è natura dell'uomo in quanto tale, ma pena dell'uomo condannato.

Ma quando si parla della libera volontà di agire secondo ragione, si parla di quella, in cui l'uomo è stato creato.

19.53 - L'uomo può superare errore e passione

Qui si presenta il problema che gli uomini sono soliti di rimuginare, giacché in tema di peccato sono disposti a tutto fuorché ad accusarsi.

Dicono: " Se Adamo ed Eva hanno peccato, che cosa noi meschini abbiamo fatto da nascere con l'accecamento della ignoranza e con le tribolazioni della debolezza?

Siamo condizionati ad errare in un primo tempo perché non sappiamo cosa dobbiamo fare, poi, appena ci si manifestano i comandamenti della giustizia, vorremmo eseguirli, ma non ne siamo capaci perché ce lo impedisce non saprei quale necessità della concupiscenza carnale ".

A costoro in poche parole si risponde che stiano quieti e la smettano di mormorare contro Dio.

Forse si lagnerebbero giustamente, se nessun uomo riuscisse vittorioso dell'errore e della passione.

Ma Dio è dovunque presente e mediante la creatura che gli obbedisce come a signore in molti modi chiama chi si è allontanato, insegna a chi crede, consola chi spera, esorta chi ama, aiuta chi si sforza, esaudisce chi invoca.

Quindi non ti si rimprovera come colpa che senza volere ignori, ma che trascura di cercare ciò che ignori, ed ugualmente non che non fasci le membra ferite, ma che disprezzi chi ti vuol guarire.

Questi sono peccati tuoi.

A nessuno è stato negato di conoscere che si cerca con utilità ciò che senza utilità si ignora e che si deve umilmente riconoscere la debolezza affinché a lui, che cerca e riconosce, venga in aiuto colui che, nel venire in aiuto, non erra e non si affatica.

19.54 - Condizione prima e dopo il peccato

Infatti l'azione che non si compie secondo ragione per ignoranza e quella che non si può compiere secondo ragione anche se si vuole si dicono peccati appunto perché hanno origine dal primo peccato della libera volontà.

Quella premessa ha richiesto queste conclusioni.

Si dice lingua non soltanto l'organo che si muove in bocca nel parlare, ma anche l'effetto che consegue al movimento di questo organo, cioè la forma e la sequenza delle parole e in questo senso appunto si dice che la lingua greca è diversa dalla latina.

Così non solo si dice peccato quello che propriamente è considerato peccato perché si commette volontariamente e coscientemente, ma anche quello che necessariamente consegue da quella condanna.

Allo stesso modo, in termini di natura, la natura dell'uomo, in cui originariamente nel suo genere l'uomo è stato creato innocente, parlando con proprietà s'intende diversamente da questa, in cui dalla pena del primo uomo condannato si nasce mortali, ignoranti e schiavi della carne.

In questo senso dice l'Apostolo: Siamo stati anche noi per natura figli dell'ira, come gli altri. ( Ef 2,3 )

20.55 - Trasmissione della condanna …

Ora dalla prima coppia noi nasciamo nell'ignoranza, nella debolezza e nella mortalità, poiché essi avendo peccato sono stati precipitato nell'errore, nella tribolazione e nella morte.

Con assoluta giustizia dunque Dio, sommo ordinatore della realtà, volle che dall'origine apparisse nella nascita dell'uomo la giustizia di chi punisce ed in seguito la misericordia di chi libera.

Al primo uomo dopo la condanna non è stata tolta la felicità in maniera da togliergli anche la fecondità.

Era possibile infatti che anche dalla sua discendenza, sebbene carnale e mortale, provenisse nel suo genere un conveniente ornamento della terra.

Non era certamente giusto che generasse individui migliori di se stesso, ma era necessario che, col volgersi verso Dio, chi voleva non solo non fosse impedito, ma anche aiutato per superare la condanna che col volgersi in altro senso il capostipite aveva meritato.

Anche così il Creatore delle cose ha mostrato con quanta facilità l'uomo, se avesse voluto, avrebbe potuto conservare ciò che è stato creato, quando la sua discendenza ha potuto trionfare della condizione in cui è nato.

20.56 - … nell'ipotesi creazionista …

Inoltre se è stata creata una sola anima, da cui sono derivate quelle di tutti gli uomini che nascono, chi può dire di non aver peccato quando il primo ha peccato?

Se invece sono create singolarmente in ciascuno che nasce, non è ingiusto, anzi appare come molto conveniente all'ordine che il cattivo merito di chi precede sia natura di chi segue e che il buon merito di chi segue sia natura di chi precede.

Che cosa di irrazionale infatti se il Creatore ha voluto anche così mostrare che a tal punto eccelle la dignità dell'anima sulle creature materiali che il sorgere di uno può iniziare da quel punto, in cui si è avuto il tramontare di un altro?

Infatti il giungere dell'anima peccatrice all'ignoranza e debolezza si dice appunto pena perché prima di questa pena è stata più perfetta.

Se dunque una ha cominciato non solo prima del peccato, ma addirittura prima della propria vita, ad esser tale, quale un'altra diventa dopo una vita colpevole, possiede ugualmente un grande bene, di cui ringraziare il proprio Creatore perché il suo sorgere e incominciare sono più perfetti di qualsiasi corpo perfetto.

Non sono beni mediocri non solo che è anima e che per questo suo essere è più perfetta del corpo, ma anche che può, con l'aiuto del suo Creatore, perfezionarsi e con religioso impegno acquistare e vivere le virtù.

Con esse si riscatta dalla debolezza che tormenta e dalla ignoranza che acceca.

Che se è vera l'ipotesi, per le anime create l'ignoranza e la debolezza non saranno pena del peccato, ma stimolo ad avanzare e inizio di perfezione.

Infatti prima di ogni merito di opera buona non è poco avere ricevuto un naturale criterio con cui l'anima preferisce la sapienza all'errore, la serenità alla tribolazione, per giungervi non in virtù dell'origine ma della scelta.

E se l'anima non vorrà farlo, sarà a diritto giudicata rea di peccato, perché non ha bene usato della facoltà che ha ricevuto.

Quantunque infatti sia nata nell'ignoranza e della debolezza, non è tuttavia costretta da qualche necessità a rimanere nello stato in cui ha avuto origine.

Inoltre soltanto Dio onnipotente ha potuto essere creatore anche di tali anime che non amato crea, amando sana e amato perfeziona.

Egli concede di esistere a quelle che non esistono e di essere beate a quelle che lo amano perché da lui esistono.

20.57 - … nell'ipotesi della preesistenza …

Se poi sono mandate ad animare e informare i corpi dei singoli individui che nascono anime preesistenti in un mondo trascendente, esse vi sono mandate con un compito.

Dovranno appunto preparare nell'ordine e tempo opportuno anche al corpo il luogo della celeste incorruzione disciplinando bene il corpo stesso che nasce dalla pena del peccato, cioè dalla mortalità del primo uomo, in altri termini dominandolo con le virtù e imponendogli una ben regolata e dovuta soggezione.

Esse quando entrano in questa vita sono soggette a portare membra mortali, sono necessariamente anche soggette all'oblio della vita precedente e alla sofferenza della presente.

Ne seguiranno la già detta ignoranza e la debolezza che nel primo uomo sono state pena della mortalità nel subire l'infelicità della coscienza e nelle anime l'inizio del dovere a conquistare l'incorruzione del corpo.

Anche in tal caso questi non sono peccati, salvo che la carne, provenendo dalla discendenza di un peccatore, procura alle anime che vengono in essa questa ignoranza e questa debolezza.

Ma esse non si possono imputare a colpa né alle anime né al Creatore.

Infatti egli ha dato la capacità di agir bene nel difficile compimento del dovere e la via della fede contro l'accecamento dovuto all'oblio.

Ha dato soprattutto il criterio, per cui ogni anima ammette che si deve ricercare ciò che è utile non ignorare e che si deve attendere con costanza agli impegni del dovere per superare la difficoltà, di agire secondo ragione e infine che si deve chiedere il soccorso del Creatore affinché aiuti chi si sforza.

Ed egli, all'esterno con la legge o parlando nella intimità, ha ordinato che ci si deve sforzare e prepara la gloria della città felice a coloro che trionfano del diavolo, il quale ha condotto il primo uomo a questa infelicità con la peggiore istigazione.

Ed essi per vincerlo accettano questa infelicità con la migliore fede.

Non è di poca gloria vincere in battaglia il diavolo, accettando la pena, a cui egli si vanta di aver condotto l'uomo vinto.

Ma chi, preso dall'amore di questa vita, trascura tale impegno, non potrà assolutamente imputare con giustizia al comando del re il delitto della propria diserzione, ma piuttosto sotto il signore di tutti sarà posto nelle schiere del diavolo perché ha preferito il suo soldo ignominioso per disertare gli accampamenti di Dio.

20.58 - … anche se le anime scelgono la terra

Se poi le anime viventi fuori del corpo non sono mandate da Dio Signore, ma spontaneamente vengono ad abitare nei corpi, è facile comprendere che non si deve assolutamente incolpare il Creatore per qualsiasi effetto di ignoranza e difficoltà che è seguito alla loro stessa scelta.

Ma egli sarebbe ugualmente senza colpa, anche se le avesse mandate lui perché malgrado l'ignoranza e debolezza, non ha tolto loro il libero volere di chiedere, ricercare e sforzarsi, pronto a dare a coloro che chiedono, a mostrare a coloro che ricercano, ad aprire a coloro che picchiano.

Egli concederà che l'ignoranza e debolezza, le quali devono esser superate dagli individui desiderosi d'apprendere e volenterosi, valgano per conseguire la corona della gloria.

Ai negligenti invece che col pretesto della debolezza intendono scusare i propri peccati, non rinfaccerà come peccato la ignoranza e la debolezza, ma li punirà con giusta pena perché hanno preferito rimanere in esse piuttosto che giungere alla verità e vigore spirituale con l'impegno di apprendere nella ricerca e con l'umiltà di lodare Dio nella preghiera.

21.59 - Cautela sull'origine dell'anima

Di queste quattro teorie sull'anima, e cioè se le anime hanno origine per discendenza, se sono create nei singoli che nascono, se già preesistenti altrove sono da Dio mandate nei corpi degli individui che nascono, ovvero se vi cadono di proprio impulso, non si deve affermare nessuna pregiudizialmente.

Infatti o il problema non è stato ancora chiaramente trattato a causa della sua oscurità e incertezza dagli interpreti cattolici dei Libri sacri, ovvero se è stato già fatto, testi simili non sono ancora giunti nelle mie mani.

Ma almeno ci sia la fede di non pensare qualche cosa di falso e indegno della essenza del Creatore.

A lui infatti tendiamo per il cammino della religione.

Se dunque penseremo di lui altro da quel che è, il nostro proposito non ci indurrà ad andare alla felicità, ma alla vanità.

Invece non si ha alcun pericolo se penseremo della creatura qualche cosa di diverso da quel che è, purché non lo riteniamo come conoscenza certa.

Infatti non ci si comanda per esser felici di tendere alla creatura ma allo stesso Creatore.

E se su di lui ci facciamo una idea differente di quel che conviene e diversa da quel che in effetti è, ci lasciamo ingannare da un errore rovinoso.

Non si può giungere alla felicità, se ci muoviamo verso qualche cosa che o non esiste, o se esiste, non rende felici.

21.60 - La luce della rivelazione …

Ma per avviarci alla visione della eternità della verità onde goderne e a lei unirci, alla nostra debolezza è stata indicata la via dalle cose temporali.

Dobbiamo appunto accettare per fede avvenimenti passati e futuri in maniera d'averne a sufficienza per il cammino di chi si muove verso l'eternità.

E questo insegnamento della fede, affinché s'imponga con l'autorità, è ordinato dalla misericordia di Dio.

Gli avvenimenti presenti invece, per quanto attiene alla creatura, sono percepiti come fluenti nel movimento e divenire del corpo e dell'anima.

Ma tutto ciò di cui in essi non abbiamo esperienza non può essere oggetto di un'altra qualunque conoscenza.

Tutti questi fatti, passati o futuri, relativi a varie creature, ci sono proposti come oggetto di fede dall'autorità di Dio.

Di essi alcuni sono già trascorsi prima che noi potessimo percepirli, altri non sono ancora arrivati ai nostri sensi.

Essi servono moltissimo a fortificare la nostra speranza e a stimolare la nostra carità facendoci ricordare, attraverso la serie ordinatissima dei tempi, che Dio non abbandona la nostra liberazione.

Devono dunque esser creduti senza alcuna esitazione.

Ma ogni errore che si arroga il ruolo dell'autorità di Dio si deve respingere soprattutto se viene confutato perché crede o afferma che oltre la creatura v'è qualche altra determinazione del divenire, ovvero che una qualche determinazione del divenire esiste nella sostanza di Dio o se vuol dimostrare che la medesima sostanza sia più o meno che Trinità.

Ed è proprio a spiegare, nei limiti consentiti dalla religione, la Trinità, che sta all'erta la vigile difesa della fede ed è indirizzato tutto il suo interesse.

Non è qui il posto di trattare dell'unità ed eguaglianza della Trinità e della proprietà delle singole Persone.

Infatti proporre su Dio Signore, creatore, causa esemplare e provvidenza di tutte le cose, alcuni temi che attengono alla fede più elementare e con cui vantaggiosamente è aiutato un proposito che ancora ha bisogno di latte e che inizia ad elevarsi dalle cose terrene alle celesti, è molto facile a farsi e da parecchi è stato già fatto.

Ma trattare l'intero argomento e svolgerlo in maniera che ogni intelligenza umana sia convinta, per quanto è concesso in questa vita, dall'evidenza del ragionamento, non può apparire per qualsiasi uomo, e certamente per me, impresa agevole e facile, non solo in termini di discorso, ma perfino col solo pensiero.

Ora dunque, per quanto siamo aiutati e per quanto ci è permesso, continuiamo ciò che abbiamo intrapreso.

Si devono credere senza incertezza tutti i fatti che, per quanto attiene alla creatura, ci vengono narrati come passati e preannunciati come futuri e che servono a proporci la perfetta religione stimolandoci al puro amore di Dio e del prossimo.

Ed essi si devono difendere contro gli increduli in maniera che o la loro miscredenza sia schiacciata dal peso dell'autorità, ovvero si mostri loro, per quanto è possibile, prima di tutto che non è da ignoranti credere tali cose, poi che è da ignoranti non crederle.

Tuttavia è necessario respingere una falsa teoria, non tanto su oggetti passati o futuri, quanto piuttosto su oggetti presenti e soprattutto immutabili, e per quanto è concesso, confutarla con dimostrazione evidente.

21.61 - … sul nostro passato e futuro …

Certamente nella serie delle cose temporali l'attesa del futuro è da anteporsi alla ricerca del passato.

Anche nei Libri sacri gli eventi, che si narrano come passati, propongono o una prefigurazione di eventi futuri, oppure una promessa o testimonianza.

Infatti anche negli interessi materiali, sia nella prosperità che nell'avversità, non si cerca tanto quel che è stato, ma si concentra tutta l'ansia nell'avvenire che si spera.

Non so per quale intimo o innato sentimento i fatti che ci sono occorsi, essendo passati, nel momento della felicità e infelicità, sono considerati come se non fossero mai accaduti.

Dunque non mi nuoce certamente se non so quando ho cominciato ad esistere, se io che esisto e non dispero che esisterò nel futuro.

Difatti non ritorno ai fatti passati per temere come rovinoso l'errore di pensarli diversamente da come sono, ma con l'aiuto della misericordia dei mio Creatore dirigo i passi verso il mio futuro.

Se crederò o penserò della mia futura esistenza o di colui presso il quale esisterò, diversamente da come la verità richiede, è questo l'errore che si deve assolutamente evitare.

Se qualche cosa mi sembra diversa da come è, potrei non preparare i mezzi necessari, ovvero non raggiungere il fine stesso delle mie intenzioni.

Pertanto, come non mi nuocerebbe affatto all'acquisto di una veste il fatto che mi sono dimenticato dell'inverno passato, ma mi nuocerebbe se non credessi che il freddo futuro è imminente, così non nuocerà affatto alla mia anima il fatto che ha dimenticato ciò che ha sofferto, purché ora avverta diligentemente e tenga presente il fine, al quale è ammonita di prepararsi.

Ad esempio, per chi naviga verso Roma non gli nuocerebbe affatto se gli esce di mente il lido, da cui è salpato, purché non ignori dove dirigere la prua dal luogo dove attualmente si trova, e non gli gioverebbe affatto ricordarsi del lido, da cui ha cominciato il viaggio, se andasse a finire negli scogli perché è male informato sul porto di Roma.

Così se non ricorderò l'inizio della mia vita, non mi nuocerà, purché sappia la fine, con cui la condurrò a riposo.

Egualmente non mi gioverebbe affatto la memoria o congettura dell'inizio della vita, se incorressi negli scogli dell'errore, pensando a Dio, la sola fine delle sofferenze dell'anima, diversamente da come si deve.

21.62 - … poiché la ragione è incompetente

Questo mio discorso non deve avere come risultato da far pensare a qualcuno che io proibisca a coloro che ne sono capaci di ricercare secondo le Scritture ispirate da Dio, se un'anima nasce da un'altra, ovvero se le anime sono create singolarmente in ogni individuo, ovvero se da qualche altro luogo per ordine divino sono mandate a reggere e animare il corpo, ovvero se vi entrano di propria scelta.

Basta che un qualche motivo richieda di trattare ponderatamente questi temi per chiarire un interessante problema e che, per indagarli e discuterli, sia a disposizione tempo libero da occupazioni più importanti.

Ho detto queste cose prevalentemente perché qualcuno in un argomento simile non si adiri senza motivo contro chi non condivide la sua teoria, o anche perché, se qualcuno ha potuto avere sull'argomento qualche concetto competente e chiaro, non pensi che un altro ha perduto la speranza del futuro, appunto perché non ricorda come è iniziato il passato.

22.63 - Giusta la pena del peccato …

Comunque sia, tanto se l'argomento è addirittura da omettere, come da rimandare per ora e considerare in altra occasione, non viene elusa la conclusione che, come è evidente, le anime scontano le pene dei loro peccati perché si dà la perfettissima, giustissima, immobile e immutabile maestà e sostanza del Creatore.

E questi peccati, come da tempo stiamo discutendo, si devono imputare soltanto alla loro volontà.

Non si deve cercare altra causa del peccato.

22.64 - … nonostante difficoltà e ignoranza

Se invece ignoranza e debolezza sono naturali, proprio di lì l'anima inizia a progredire e ad avanzare alla conoscenza e alla serenità fino a che in lei non sia perfetta la felicità.

Ma se essa trascurerà di propria scelta, pur essendogliene stata concessa la possibilità, il progresso nelle conoscenze più alte e nella pietà, viene precipitata giustamente in ignoranza e debolezza più gravi, che sono già effetti della pena.

E perciò viene posta in un livello inferiore da un equo e convenientissimo ordinamento delle cose.

Infatti non viene all'anima imputato a colpa il fatto che per natura non sa e per natura non può, ma che non si è applicata a sapere e che non ha posto l'impegno ad acquistare la capacità di agire secondo ragione.

Non sapere e non poter parlare è naturale per il bambino.

E questa ignoranza e incapacità di parlare non solo non è colpevole dal punto di vista delle regole dei grammatici, ma desta perfino una certa carezzevole tenerezza nell'affettività umana.

Infatti il bambino non ha trascurato, per un suo vizio, di acquistare quella capacità o perduto, per vizio, una capacità che aveva acquistata.

Quindi se la felicità consistesse nell'arte del parlare e fosse considerata colpa lo sbagliare nelle parole, come quando si sbaglia nella vita morale, non si potrebbe incolpare alcuno d'infanzia perché è partito da essa per conseguire l'arte del parlare.

Giustamente invece sarebbe condannato, se per cattiva volontà vi fosse ritornato o rimasto.

Così anche adesso, se la ignoranza del vero e la difficoltà dell'onesto sono naturali nell'uomo perché da esse cominci ad elevarsi alla felicità della sapienza e della serenità, non si possono ragionevolmente condannare a causa dell'inizio naturale.

Se invece non si vuole avanzare o si vuole tornare indietro, molto giustamente si pagherà la pena.

22.65 - Si loda Dio che crea e salva

Ma il Creatore dell'anima è lodato in ogni caso, sia perché l'ha iniziata fin dal principio alla capacità del sommo bene, sia perché aiuta il suo progresso, sia perché la perfeziona compiutamente, se progredisce, sia perché la sottopone a giustissima condanna secondo i meriti, se pecca, cioè se rifiuta di elevarsi dai propri inizi alla perfezione o se torna indietro dopo aver progredito.

Dunque per questo appunto che non è ancor perfetta tanto quanto ha ottenuto di poter essere col progredire, non l'ha creata malvagia.

Infatti tutte le perfezioni dei corpi sono inferiori al suo stato originario.

Eppure le giudica degne di lode chi sa rettamente giudicare delle cose.

Il fatto dunque d'ignorare deriva dal motivo che ancora non ha ricevuto un dono; ma anche questo riceverà, se userà bene di ciò che ha ricevuto.

Ha ricevuto di cercare con diligenza e pietà, se vorrà.

Inoltre non ha ancora ricevuto di essere capace, conseguentemente alla conoscenza che ha, di compiere ciò che deve fare.

È andata avanti appunto una sua parte più nobile per conoscere qual è il bene della buona azione, ma una sua parte più tarda per il peso della carne non necessariamente viene condotta alla norma morale.

Così dalla stessa incapacità di agire è ammonita a implorare come soccorritore del proprio perfezionamento colui, al quale ella pensa come ad autore del proprio inizio.

Per questo le diviene più caro, perché è innalzata alla felicità, non dalle proprie forze, ma dalla misericordia di colui, dalla cui bontà ha l'esistenza.

E quanto è più cara a colui, dal quale esiste, con tanta maggiore tranquillità in lui si riposa e tanto più largamente gode della sua eternità.

Infatti non si può ragionevolmente considerare sterile un arboscello recente e ancora infruttuoso, sebbene trascorra alcune estati senza frutti, fino a che al tempo giusto non manifesta la propria produttività.

Si deve dunque lodare con la dovuta pietà il Creatore dell'anima perché le ha concesso un cominciamento tale che progredendo mediante l'impegno può giungere al frutto della sapienza e giustizia e le ha comunicato tanta dignità che ha anche posto in suo potere di tendere, se vuole, alla felicità.

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