Il libero arbitrio

Risposta ad alcune obiezioni

23.66 - Obiezione della morte dei fanciulli

A questa dimostrazione si suole opporre dagli ignoranti una obiezione sulla morte dei bambini e su alcuni dolori fisici, da cui spesso li vediamo colpiti.

Dicono: " Che bisogno c'era che nascesse, se è morto prima di cominciare ad acquistar merito, ovvero come sarà considerato nel futuro giudizio, se non v'è per lui luogo fra i giusti perché non ha compiuto alcuna opera buona, né fra i malvagi perché non ha peccato ".

Si risponde a costoro: In considerazione dell'intero dell'universo e dell'ordinatissimo concatenamento di tutto il creato mediante spazio e tempo, non è possibile che sia creato inutilmente un individuo umano.

Perfino una foglia d'albero non è creata inutilmente.

Certo però si cercano inutilmente i meriti di chi non ha meritato nulla.

Non si deve temere infatti che non si diano una via di mezzo tra la buona azione e il peccato e una sentenza del giudice tra il premio e la pena.

23.67 - Battesimo dei bimbi e fede degli altri

A questo punto si suole investigare cosa ha giovato ai bambini il sacramento del battesimo cristiano, poiché, ricevutolo, talora muoiono prima che ne abbiano potuto avere conoscenza.

Sull'argomento si crede secondo religione e ragione che giova al bambino la fede di coloro, da cui viene presentato al sacramento.

E la salutare autorità della Chiesa raccomanda che in considerazione di ciò ciascuno rifletta quanto gli giova la propria fede, se a beneficio di altri, che ancora non hanno la propria, può esser messa a loro disposizione l'altrui.

Cosa poteva giovare al figlio della vedova la propria fede, che, essendo morto, certamente neanche aveva?

Ma gli giovò per resuscitare la fede della madre. ( Lc 7,12-15 )

 più forte ragione dunque la fede di altri può soccorrere il bimbo, al quale non si può imputare la mancanza di fede.

23.68 - I gradi e le sofferenze dei piccoli

Un più grande lamento, quasi a titolo di pietà, si suole levare sulle sofferenze fisiche, da cui sono colpiti i piccoli che a causa dell'età non hanno peccati, nell'ipotesi che le loro anime non hanno cominciato ed esistere prima degli individui.

Si dice: " Che male hanno fatto per soffrire così? ".

Come se vi possa essere il merito dell'innocenza prima che si possa nuocere.

Dio opera un bene nel correggere i grandi, quando sono colpiti dalle sofferenze e morti dei propri piccoli che sono loro cari.

Ma perché non dovrebbero avvenire queste cose, se una volta passate saranno come non avvenute per coloro, in cui sono avvenute?

Coloro poi, per i quali sono avvenute, o diventeranno migliori se, corretti dalle disgrazie temporali, sceglieranno di vivere più onestamente, oppure non avranno scuse nella pena del futuro giudizio perché non hanno voluto approfittare delle angustie della vita presente per convertirsi al desiderio della vita eterna.

Ma chi sa che cosa Dio riserva ai piccoli, le cui sofferenze spezzano la durezza dei grandi, ne tengono in esercizio la fede, ne provano la benevolenza, chi sa dunque quale ricompensa riserva Dio ai piccoli nel segreto dei propri giudizi, perché anche se non hanno fatto niente di bene, tuttavia senza aver peccato hanno così sofferto?

Infatti non a caso la Chiesa esalta, inserendoli nel numero dei martiri, i bambini che furono uccisi, quando il Signore Gesù Cristo era cercato da Erode per essere ucciso. ( Mt 2,16 )

23.69 - Ordine e provvidenza nelle sofferenze dei bruti

Ma questi individui, che fanno tante obiezioni, che non esaminano con lo studio, ma strombazzano con grandi chiacchiere questi problemi, di solito turbano la fede dei meno istruiti allegando anche le sofferenze e le molestie delle bestie.

Dicono: " Che cosa hanno meritato di male anche le bestie da soffrire tanti disagi, ovvero che cosa sperano di bene da essere colpite da tanti disagi? ".

Ma dicono e pensano così perché giudicano molto male le cose.

Non sapendo farsi un'idea dell'essenza e del valore del sommo bene, vogliono che tutte le cose siano come ritengono che è il sommo bene, non riescono a concepire il sommo bene al di sopra dei corpi più perfetti che sono i celesti e che sono i meno soggetti alla corruzione.

Per questo molto irrazionalmente chiedono che il corpo delle bestie non subisca né morte né alcuna corruzione, come se non fosse mortale, pur essendo il meno perfetto, ovvero come se fosse un male perché i corpi celesti sono più perfetti.

Inoltre il dolore che le bestie sentono pone in rilievo anche nelle anime brute una certa facoltà, nel suo genere ammirevole e degna di considerazione.

Da questo fatto appare sufficientemente che esse tendono all'unità nel dominare e animare il proprio corpo.

Il dolore non è altro appunto che un sentimento, il quale reagisce alla divisione e dissoluzione.

Ne risulta più chiaro della luce quanto l'anima bruta sia desiderosa e conservatrice dell'unità nel complesso del proprio corpo.

Essa infatti, non con soddisfazione e indifferenza ma con resistenza e reazione, si oppone alla perturbazione del proprio corpo, perché avverte con disagio che da essa viene demolita la perfetta unità.

Non apparirebbe dunque se non dal dolore delle bestie quale tendenza all'unità hanno le più basse creature animate.

E se non apparisse, meno del necessario saremmo avvertiti che tutto ciò è stabilito dalla somma perfetta ineffabile unità del Creatore.

23.70 - Funzione del dolore e del piacere

E in verità se rifletti con religiosa attenzione, ogni determinazione ed ogni movimento della creatura fanno appello al nostro ammaestramento, stimolandoci insistentemente, mediante inclinazioni ed esperienze varie che sono come un contesto di parole, a riconoscere il Creatore.

Non v'è infatti un essere fra quelli che non sentono né dolore né piacere, il quale non raggiunga con una certa unità la perfezione del proprio genere o addirittura una determinata permanenza della propria natura.

Egualmente, fra quelli che provano le molestie del dolore e le lusinghe del piacere, non v'è un essere, il quale per il fatto stesso che fugge il dolore e tende al piacere, non suggerisca che fugge il dissolvimento e tende all'unità.

Nelle stesse anime ragionevoli la tendenza a conoscere, di cui l'essere pensante gode, riferisce all'unità l'oggetto della conoscenza e nell'evitare l'errore non fugge altro che il dissolversi nell'antinomia che elude l'espressione del vero.

E l'antinomia è molesta soltanto perché non è riducibile all'unità.

Ne consegue che tutte le cose, sia quando danneggiano o sono danneggiate, e quando dilettano o sono dilettate, dichiarano insistentemente l'unità del Creatore.

Se poi l'ignoranza e l'incapacità, da cui la vita presente necessariamente inizia, non sono naturali per le anime, resta che siano state accettate come dovere o irrogate come pena.

Ma penso che sull'argomento abbiamo parlato abbastanza.

24.71 - Possibile stato di mezzo fra sapienza e insipienza

Pertanto si deve investigare più attentamente in quale stato fu creato il primo uomo anziché il modo con cui si è propagata la sua discendenza.

Alcuni ritengono di proporre la questione con molto acume, quando dicono: " Se l'uomo è stato creato nella sapienza, perché è stato ingannato?

Se invece è stato creato nell'insipienza, in che modo Dio non è autore dei difetti, se l'insipienza è il difetto più grande? ".

Dicono così supponendo che la natura umana non possa ricevere uno stato di mezzo fra sapienza e insipienza.

L'uomo comincia a divenire o sapiente o insipiente, e quindi il suo stato si può considerare o l'uno o l'altro, soltanto quando può avere la sapienza, se non la trascura, di modo che la volontà sia responsabile dell'insipienza in quanto imperfezione.

Non si vaneggia al punto da chiamare insipiente un bambino, quantunque si sarebbe più irragionevoli, se si volesse chiamarlo sapiente.

Dunque un bambino non può essere considerato né insipiente né sapiente, sebbene sia già un uomo.

Ne consegue che la natura può ricevere uno stato di mezzo che non puoi considerare né insipienza né sapienza.

Così se un individuo ricevesse l'anima nello stato in cui si trova chi è privo di sapienza a causa della negligenza, non si può ragionevolmente considerarlo insipiente perché vi si trova non per imperfezione ma per natura.

L'insipienza è infatti non una qualsiasi ma una difettosa ignoranza delle cose che si devono desiderare e fuggire.

Per questo non consideriamo insipiente il bruto perché non ha ricevuto la possibilità di essere sapiente.

Tuttavia talora consideriamo l'imperfezione, non propriamente ma per analogia.

La cecità è infatti il più grande difetto della vista, ma nei cuccioli appena nati non è difetto e neanche si può considerare cecità.

24.72 - Sapienza e comando nel primo uomo

Dunque l'uomo è stato così creato che, sebbene non fosse ancora sapiente, poteva ricevere il comando, al quale doveva obbedire.

Dunque non c'è da meravigliarsi che ha potuto essere ingannato, e non è ingiustizia che paghi la pena perché non ha obbedito al comando.

Il suo Creatore inoltre non è autore delle imperfezioni perché non possedere la sapienza non era ancora una imperfezione nell'uomo, se ancora non aveva ricevuto di possederla.

Ma aveva un potere con cui, se usato bene, poteva elevarsi a ciò che non aveva.

È diverso essere ragionevoli ed esser sapienti.

Con la ragione si riceve il comando e ad esso l'uomo deve la fedeltà di osservare ciò che è comandato.

E come la natura consegue il comando della ragione, così l'osservanza del comando consegua la sapienza.

E ciò che è la ragionevolezza per ricevere il comando, è la volontà per osservarlo.

E allo stesso modo che l'essere ragionevole è come un merito per ricevere il comando, così l'osservanza del comando è un merito per ricevere la sapienza.

E l'uomo comincia a poter peccare dal momento in cui comincia ad essere capace di comando.

In due modi pecca prima di divenir sapiente, o perché non si dispone a ricevere il comando o se l'ha ricevuto, non l'osserva.

E quando è già saggio, pecca se si volge in altra parte dalla sapienza.

Come infatti il comando non proviene da colui, al quale si comanda, ma da chi comanda, così la sapienza non proviene da chi è illuminato ma da chi illumina.

Perché dunque non si dovrebbe lodare il Creatore dell'uomo?

L'uomo è un bene, e più perfetto della bestia perché è capace di comando, più perfetto ancora, quando ha ricevuto il comando, ed ancora più perfetto, quando ha obbedito al comando, e di tutti questi più perfetto, quando è felice nella luce eterna della sapienza.

Il peccato invece è un male nella trascuranza a ricevere il comando, o a osservarlo, ovvero a conservare la conoscenza intellettuale della sapienza.

Da questo si capisce che l'uomo poteva essere ingannato, anche se fosse stato creato sapiente.

E poiché il peccato dipendeva dal libero arbitrio, una giusta pena ne conseguì per legge divina.

Così dice anche l'apostolo Paolo: Poiché dicevano di essere sapienti, sono divenuti insipienti. ( Rm 1,22 )

La superbia infatti volge in altro senso dalla sapienza, e l'insipienza segue a questo volgersi.

L'insipienza è appunto una specie di cecità, come dice il medesimo Apostolo: E si è oscurato il loro cuore insipiente. ( Rm 1,21 )

E tale oscuramento deriva appunto dall'essersi voltati in altra parte dal lume della sapienza e questo volgersi si ha perché :colui, il cui bene è Dio, pretende di essere bene a sé, come Dio lo è a sé.

È scritto appunto: L'anima mia è volta con turbamento a me stesso, ( Sal 42,7 ) e ancora: Mangiate e sarete come dèi. ( Gen 3,5 )

24.73 - Originario stato di mezzo

Turba chi riflette un po' quello che alcuni chiedono: " L'uomo si è allontanato da Dio a causa dell'insipienza, oppure è divenuto insipiente allontanandosi? ".

Se risponderai che con l'insipienza si è allontanato dalla sapienza, sembrerà che sia stato insipiente prima che si allontanasse dalla sapienza, di modo che l'insipienza fu causa dell'allontanarsi.

Egualmente se risponderai che è divenuto insipiente allontanandosi, chiedono se ha causato il proprio allontanamento con un atto da insipiente o da sapiente.

Se l'ha fatto con atto da sapiente, ha agito secondo ragione e non ha peccato, se da insipiente, già esisteva, dicono, in lui l'insipienza, per cui è avvenuto il suo allontanamento.

Non poteva infatti fare qualche cosa da insipiente senza l'insipienza.

Appare da ciò che v'è uno stato di mezzo, col quale si passa dalla sapienza all'insipienza.

E non si può dire di questo stato che sia stato causato da un atto da insipiente o da sapiente, giacché esso si può concepire dagli uomini durante la vita soltanto mediante i due opposti termini.

Infatti nessun mortale diviene sapiente, se non passa dalla insipienza alla sapienza.

Ora se il passaggio si fa con atto d'insipienza non è un passaggio.

Ma è da pazzi dire così.

Se poi si fa con un atto di sapienza, già esisteva nell'uomo, prima di passare alla sapienza, la sapienza.

Anche questo è un assurdo.

Se ne conclude che v'è uno stato di mezzo, il quale non si può dire né l'uno né l'altro e che anche il passaggio, con cui il primo uomo passò dal sommo della sapienza all'insipienza, non fu né insipiente né sapiente.

Esemplificando col sonno e la veglia, non è il medesimo dormire e addormentarsi, e così l'esser desti e il destarsi, ma un certo passaggio dall'uno all'altro.

La differenza sta in questo, che questi passaggi avvengono il più delle volte senza volontà, gli altri soltanto con la volontà.

Per questo li seguono giustissime retribuzioni.

25.74 - Conoscenza e scelta nel primo uomo

Soltanto un oggetto conosciuto stimola la volontà ad agire.

Ora è in potere ciò che si sceglie e ciò che si rifiuta, ma non è in potere l'oggetto, dalla cui conoscenza si è stimolati.

Si deve dunque ammettere che lo spirito è stimolato dalla conoscenza di oggetti più perfetti o meno perfetti affinché il soggetto ragionevole scelga dagli uni e dagli altri ciò che vorrà e dal merito della scelta seguano o infelicità o felicità.

Nel paradiso terrestre l'oggetto conosciuto è il comando di Dio da un punto di vista superiore e l'istigazione del serpente da un punto di vista inferiore.

Infatti non fu in potere dell'uomo né ciò che gli veniva comandato da Dio né ciò che era suggerito dal serpente.

Ma per chi è stabilito nella salvezza della sapienza è veramente dovuto a libertà ed esente dai vincoli della soggezione il non cedere agli stimoli della concupiscenza.

Lo si può comprendere anche da questo, che perfino gli insipienti li superano nel passare alla sapienza, e perfino col disagio di rimaner privi della morbosa dolcezza di esiziali abitudini.

25.75 - Conoscenza e scelta nel diavolo

Dato che furono a disposizione dell'uomo dall'una e dall'altra parte gli oggetti, uno dal comando di Dio, l'altro dalla istigazione del serpente, si può esaminare a questo punto da chi fu suggerito al diavolo il consiglio di scegliere la ribellione, per cui doveva precipitare dalle sedi più alte.

Se non fosse stato stimolato da un oggetto conosciuto, non avrebbe scelto di fare quel che ha fatto poiché se non gli fosse venuto in mente qualche cosa, non avrebbe volto l'atto del conoscere nell'azione colpevole.

Da chi dunque gli venne in mente, a parte quel che gli venne in mente, di macchinare quell'impresa, per cui da angelo buono doveva divenire il diavolo?

Infatti chi vuole, vuole qualche cosa, e non può volerlo se non è stimolato o dall'esterno mediante il senso, ovvero se non gli viene in forma non manifesta.

Si devono dunque distinguere i generi degli oggetti.

Uno di essi è quello che deriva dalla volontà di chi istiga, come quello del diavolo, al quale consentendo l'uomo ha peccato, l'altro dalle cose sottoposte o all'atto conoscitivo dello spirito o ai sensi del corpo.

Sono sottoposti all'atto conoscitivo dello spirito, eccetto l'immutabilità della Trinità che certamente non è sottoposta, ma piuttosto sovrapposta, sono dunque sottoposti all'atto conoscitivo dello spirito, prima lo stesso spirito, per cui sentiamo di vivere, poi il corpo che esso domina del quale, per compiere qualsiasi azione, muove l'organo che conviene, quando conviene.

Sono poi sottoposti ai sensi tutti i sensibili.

25.76 - Peccato nell'uomo e nel diavolo

Nella conoscenza intellettuale della somma sapienza, che certamente non è lo spirito perché è al di sopra del divenire, lo spirito conosce anche se stesso, che è nel divenire, e in certo senso viene in mente a se stesso.

Ma ciò avviene con questa differenza che egli non è eguale a Dio, ma è pur un qualche cosa che può essere amato dopo Dio.

È più perfetto, quando dimentica se stesso per amore di Dio immutabile, o nel confronto con lui si disprezza.

Se al contrario in un confronto con se stesso si piace per imitare perversamente Dio e per voler godere del proprio dominio, diviene tanto più piccolo, quanto desidera essere più grande.

Sta scritto: Inizio di ogni peccato è la superbia, ( Sir 10,15 ) e ancora: Inizio dell'umana superbia è distaccarsi da Dio. ( Sir 10,14 )

Il diavolo aggiunge alla superbia l'invidia piena di tanta malevolenza da indurlo ad istigare l'uomo alla superbia, per cui egli capiva di essere stato condannato.

Ne conseguì che una pena di emendamento anziché di condanna a morte risollevò l'uomo, sicché mentre il diavolo gli si era offerto come esempio di superbia, il Signore gli si è offerto come esempio di umiltà.

Per mezzo suo ci si promette la vita eterna.

Quindi, dopo indicibili travagli e sventure, nel sangue di Cristo offerto in nostro riscatto, dobbiamo unirci al nostro liberatore con tanta carità ed essere a lui attratti da tanta sua clarità che gli oggetti più bassi non ci distolgano dalla visione verso l'alto.

E se qualche cosa di terreno viene suggerito a questo nostro atto conoscitivo dall'appetito degli oggetti più bassi, ci richiamino l'eterna condanna e pena del diavolo.

25.77 - Il ritorno a Dio

È tanta la bellezza della giustizia, tanto l'incanto della luce eterna, cioè della immutabile verità e sapienza che, anche nell'ipotesi che si potesse rimanere in essa per lo spazio di un sol giorno, per questo stesso motivo si dovrebbero disprezzare molto giustamente innumerevoli anni di questa vita, pieni di delizie e abbondanza di beni temporali.

Infatti non è stato detto erroneamente o con scarso sentimento: Un solo giorno nei tuoi atri è migliore di mille giorni. ( Sal 84,11 )

Certamente il testo si può intendere in altro senso.

I mille giorni potrebbero essere intesi come il divenire del tempo, invece col termine di un solo giorno si potrebbe intendere il non divenire dell'eternità.

Non so di aver tralasciato nella mia risposta, per quanto il Signore si è degnato di concedermelo, qualche argomento che lasci insoddisfatte le tue domande.

Tuttavia, anche se ti viene in mente qualche cosa, il limite del libro ci costringe a metter fine e riposarci alfine da questa discussione.

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