La Trinità

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Libro IX

6.10 - Le verità eterne

Così pure, per quanto concerne le immagini delle cose materiali attinte per mezzo dei sensi del corpo e come infuse nella memoria, per mezzo delle quali ci formiamo, anche delle cose che non abbiamo visto, delle rappresentazioni immaginarie ( siano, queste immagini, diverse o, per caso, corrispondenti alla realtà ), è ancora secondo regole del tutto diverse, regole immutabili che trascendono il nostro spirito, che noi le approviamo o disapproviamo in noi stessi, quando le approviamo o disapproviamo secondo il retto giudizio.

Infatti anche quando mi ricordo delle mura di Cartagine che ho visto, ed immagino quelle di Alessandria che non ho visto, e preferisco tra queste rappresentazioni presenti alla mia immaginazione talune ad altre, la mia preferenza è razionale; si afferma e brilla al di sopra di esse il giudizio di verità e gli danno fermezza le regole incorruttibili del suo diritto; e sebbene sia quasi velato da una nube di immagini materiali, esso non ne è avviluppato e non si confonde con esse.

6.11 Ma mi interessa sapere se io sotto questa caligine o in essa possa essere come isolato dal cielo sereno, o se invece possa, come suole accadere sulla cima elevata delle montagne, trovarmi tra i due godendo dell'aria pura, contemplando al di sopra di me la luce limpidissima e al di sotto le densissime nubi.

Infatti da che proviene che io mi infiammi di amore fraterno quando sento dire che un uomo ha, per la bellezza e fermezza della fede, sopportato dei tormenti troppo crudeli?

E se mi si indica con il dito questo stesso uomo, desidero unirmi a lui, desidero farglielo comprendere e legarmi a lui con l'amicizia.

E dunque se mi si presenta l'occasione propizia mi avvicino, gli parlo, converso con lui, gli esprimo, come posso, il mio affetto, voglio che egli mi ripaghi l'affetto e me lo dica, provoco il nostro abbraccio spirituale basandomi sulla fede in ciò che mi è stato detto, perché non posso in poco tempo espletare la mia indagine e penetrare nel suo interno.

Amo questo eroe della fede con amore casto e fraterno.

Ma se nella nostra conversazione mi confessa o mi lascia intendere incautamente che egli ha su Dio delle idee indegne di Dio e che ciò che desidera in Dio è ancora qualcosa di carnale e che ha sopportato quei tormenti per sostenere tale errore o per cupidigia di un lucro desiderato, o vano desiderio di gloria umana, subito l'amore che mi portava verso di lui, offeso e come respinto dall'ostacolo, si ritira dall'uomo che non ne è più degno, ma tuttavia rimane in quella forma ideale, che me lo aveva fatto amare quando lo credevo degno.

A meno che non lo ami ora perché divenga tale quale ho visto che non era.

Tuttavia in quell'uomo nulla è cambiato: ma può mutarsi per diventare ciò che avevo creduto che fosse inizialmente.

Però nel mio spirito senza dubbio è mutata la valutazione che avevo di lui: essa era diversa prima da quello che ora è, ma è lo stesso amore che si è distolto dal desiderio della fruizione per tendere alla benevolenza, e questo per il comando della giustizia immutabile e trascendente.

È lo stesso ideale di verità stabile ed incrollabile - il quale mi faceva fruire di quell'uomo, ritenendolo buono, e che mi fa ora volere che divenga buono, con la luce della ragione incorruttibile e purissima - che inonda della sua serena eternità lo sguardo del mio spirito e quella nube dell'immaginazione che vedo al di sotto, quando penso a quell'uomo che avevo visto.

Così quando mi ricordo un arco curvato in forma bella ed esatta, che ho visto, per esempio, a Cartagine, l'oggetto materiale trasmesso allo spirito per mezzo degli occhi, passato nella memoria, suscita una rappresentazione immaginaria.

Ma ciò che contemplo con lo spirito, secondo cui approvo la sua bellezza, e secondo cui lo correggerei se non mi piacesse, è tutt'altra cosa.

E così giudichiamo di queste cose corporee secondo la verità eterna che percepisce l'intuizione dell'anima razionale.

Queste cose invece, se presenti, noi le tocchiamo con i sensi del corpo; se assenti ricordiamo le loro immagini conservate nella memoria, o secondo la loro rassomiglianza, le immaginiamo tali come le faremmo nella realtà, se ne avessimo la volontà e i mezzi.

Una cosa è dunque rappresentarsi con l'anima ( animus ) le immagini dei corpi, o vedere per mezzo del corpo le cose materiali, altra cosa intuire con la pura intelligenza, al di sopra dello sguardo dello spirito, le ragioni e l'arte ineffabilmente bella di tali immagini.

7.12 - La generazione del verbo umano

Dunque in quella eterna verità, secondo la quale sono state create tutte le cose temporali, vediamo, con lo sguardo dello spirito, la forma che è il modello del nostro essere, e di quanto facciamo in noi o nei corpi, quando agiamo secondo la vera e retta ragione; e la conoscenza vera che grazie ad essa noi concepiamo l'abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi.

Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all'aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell'anima di chi ascolta, mediante un'evocazione sensibile, un qualcosa di somigliante a ciò che permane nell'anima di chi parla.

Così nulla facciamo con le membra del nostro corpo, nei gesti o nelle parole, con cui approviamo o disapproviamo la condotta degli uomini, che non anticipiamo con un verbo espresso nell'intimo di noi stessi.

Nessuno infatti fa qualcosa volontariamente, che prima non l'abbia detto nel suo cuore.

7.13 Questo verbo è concepito per amore o della creatura o del Creatore, cioè o della natura mutevole, o della verità immutabile.

8 - Concupiscenza e carità

È dunque per concupiscenza o per carità; non che non si debba amare la creatura, ma se questo amore viene riferito al Creatore, non sarà più concupiscenza, ma carità.

C'è infatti concupiscenza, quando la creatura è amata per se stessa.

Allora non è più di utilità per chi ne usa, ma corrompe chi di essa fruisce.

Dato perciò che la creatura o ci è uguale o ci è inferiore, bisogna usare di quella inferiore in vista di Dio, fruire invece di quella uguale, ma in Dio.

Come infatti tu devi compiacerti di te stesso, non in te stesso bensì in Colui che ti ha creato, così pure di colui che ami come te stesso.

Di noi dunque e dei fratelli fruiamo in Dio e non osiamo abbandonarci a noi stessi e lasciarci trascinare, per così dire, verso il basso.

Il verbo nasce quando un pensiero ci attira al peccato o a far bene.

Mediatore tra il nostro verbo e la mente da cui è generato, l'amore dunque li unisce e si stringe con loro due, come terzo elemento, in un abbraccio spirituale senza con essi confondersi.

9.14 - Il verbo nell'amore delle cose spirituali e nell'amore delle cose carnali

Il verbo è identico nella sua concezione e nella sua nascita, quando la volontà si riposa nella conoscenza, cosa che accade nell'amore delle cose spirituali.

Colui che, per esempio, conosce perfettamente ed ama perfettamente la giustizia, è già giusto, anche prima che debba tradurre questo ideale di giustizia in un atto esteriore mediante le membra del corpo.

Al contrario, nell'amore delle cose carnali e temporali, è come nella generazione degli animali; una cosa è la concezione del verbo, un'altra il parto.

In questo caso infatti ciò che si concepisce con il desiderio, nasce con il conseguimento.

Perché non basta all'avarizia conoscere ed amare l'oro, se anche non lo possiede; non basta conoscere ed amare i piaceri della tavola e del letto, se non se ne gode di fatto; né conoscere ed amare gli onori ed il potere, se non li si consegue.

Ma anche quando si posseggono tutti, questi beni non bastano.

È detto: Chi berrà di questa acqua, tornerà ad aver sete. ( Gv 4,13 )

Perciò è detto nel Salmo: Ha concepito il dolore e generato l'iniquità. ( Sal 7,15 )

Il Salmista dice che si concepisce il dolore o la pena, quando si concepiscono le cose che non basta conoscere e volere, e l'anima arde e soffre nella sua indigenza fino a quando non abbia raggiunto quelle cose e non le abbia quasi date alla luce.

Da ciò deriva che nella lingua latina si dice non senza una certa eleganza: parta ( partoriti ) e reperta, comperta ( trovati, scoperti ), parole che secondo l'assonanza sembrano derivare da partus ( parto ).

Perché: La concupiscenza quando ha concepito, genera il peccato. ( Gc 1,15 )

Di qui il grido del Signore: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, ( Mt 11,28 ) ed in un altro passo dice: Guai alle donne incinte ed allattanti in quei giorni. ( Mt 24,19; Mc 13,17; Lc 21,23 )

E dunque, riferendo ogni buona azione o ogni peccato alla nascita di un verbo, dice: Dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato, ( Mt 12,37 ) intendendo parlare non delle labbra visibili, ma di quelle interiori, invisibili, del pensiero e del cuore.

10.15 - Solo la conoscenza amata è verbo dello spirito

Si ha dunque motivo di chiedersi se ogni conoscenza è verbo o lo è soltanto la conoscenza amata.

Infatti noi conosciamo anche le cose che odiamo; ma non si deve dire che sono concepite e generate dall'anima le cose che ci dispiacciono.

Perché non tutto ciò che ci tocca in qualche modo è concepito, ma alcune cose ci toccano per essere soltanto conosciute senza che, come tali, meritino il nome di verbo, come quelle di cui ora trattiamo.

In un senso si dice verbo la parola, le cui sillabe - sia che si pronuncino, sia che si pensino - occupano un certo spazio di tempo; in un senso diverso tutto ciò che è conosciuto si dice verbo impresso nell'anima, fintantoché la memoria può esprimerlo e definirlo, sebbene la cosa in sé dispiaccia; in un altro senso infine si parla di verbo quando piace ciò che lo spirito concepisce.

Secondo quest'ultima accezione della parola "verbo" va intesa l'espressione dell'Apostolo: Nessuno dice: Signore Gesù, se non nello Spirito Santo. ( 1 Cor 12,3 )

Ma è secondo un'altra accezione della parola "verbo" che si debbono intendere le parole di coloro di cui il Signore dice: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli. ( Mt 7,21 )

Ma quando ciò che odiamo ci ispira una giusta avversione e lo disapproviamo a ragione, noi approviamo questa disapprovazione e ce ne compiacciamo, e c'è il verbo.

Non è la conoscenza dei difetti che ci dispiace, ma sono i difetti in se stessi.

Infatti mi piace conoscere e definire cosa sia l'intemperanza, e questo è il suo verbo.

Così l'ideale artistico non esclude la conoscenza di alcuni difetti, ed a ragione si trova che è una cosa buona conoscerli, quando il conoscitore discerne la presenza e l'assenza di una qualità, come si distingue l'affermazione dalla negazione e l'essere dal non-essere; ma essere privi di una qualità e cadere in un difetto è cosa condannabile.

Definire l'intemperanza, dire il suo verbo, fa parte della scienza morale: essere intemperante appartiene a ciò che disapprova la morale.

Come sapere e definire che cos'è un solecismo fa parte delle regole del linguaggio, proferire un solecismo è un difetto che queste regole condannano.

Il verbo, di cui ora vogliamo discernere e suggerire la natura, è dunque la conoscenza unita all'amore.

Ecco perché quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l'amore.

E poiché ama la conoscenza e conosce l'amore, il verbo è nell'amore e l'amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo.

11.16 - La conoscenza dello spirito è sua immagine e suo verbo

Ma ogni conoscenza che attinge la conformità di una cosa alla sua idea è simile alla realtà che conosce.

C'è infatti un altro tipo di conoscenza che attinge la privazione in rapporto all'idea e che esprimiamo quando disapproviamo qualcosa.

Ma la disapprovazione di questa privazione è un elogio dell'idea e per questo la si approva.

Dunque l'anima ha in sé una qualche similitudine dell'idea conosciuta sia quando essa piace, sia quando la sua assenza dispiace.

Perciò nella misura in cui conosciamo Dio noi gli siamo simili, ma non simili fino all'uguaglianza, perché non lo conosciamo tanto quanto egli conosce se stesso.

E quando con un verbo sensibile conosciamo i corpi, si produce nella nostra anima una certa somiglianza di essi, che è la loro immagine presente nella memoria, perché non sono affatto i corpi stessi che sono nella nostra anima, quando li pensiamo, ma le loro immagini, e perciò cadiamo in errore quando prendiamo quelle per questi, poiché l'errore consiste nel prendere una cosa per un'altra; e tuttavia l'immagine del corpo nell'anima è superiore alla forma corporea, in quanto appartiene ad una natura superiore, cioè ad una sostanza vivente, quale è l'anima.

Allo stesso modo, quando conosciamo Dio, sebbene diventiamo migliori di quello che eravamo prima di conoscerlo, soprattutto quando questa conoscenza, provocando la compiacenza e l'amore che merita, è verbo e diviene una somiglianza di Dio, tuttavia essa è inferiore a Dio, perché appartiene ad una natura inferiore: l'anima infatti è creatura, Dio è Creatore.

Da questo si deduce che, quando lo spirito si conosce ed approva, questa conoscenza è il suo verbo che gli è del tutto uguale e adeguato, e ciò ad ogni istante, perché non è una conoscenza di natura inferiore, come il corpo, né di una natura superiore, come Dio.

E poiché la conoscenza rassomiglia a ciò che conosce, cioè a ciò di cui essa è conoscenza, ha una somiglianza perfetta e adeguata la conoscenza con cui lo spirito stesso, che conosce, conosce se stesso.

Perciò è immagine e verbo, perché da esso è espressa, allorché nell'atto della conoscenza ad esso si eguaglia e ciò che è generato è uguale al generante.

12.17 - Perché lo spirito non genera l'amore di sé?

Che è dunque l'amore? Non è esso un'immagine? un verbo? non è esso generato?

Perché lo spirito genera la sua conoscenza, quando si conosce; e non genera il suo amore, quando si ama?

Infatti se esso è causa della sua conoscenza, perché è conoscibile, è anche causa del suo amore, perché è amabile.

Dunque è difficile dire perché non generi tutti e due.

Questa stessa questione si pone a proposito della Trinità suprema, Dio onnipotente creatore, ad immagine del quale l'uomo è stato creato, ( Gen 9,6 ) e ingenera molto spesso questa difficoltà per gli uomini che la verità divina, per mezzo del linguaggio umano, invita alla fede; perché non si crede o non si pensa che anche lo Spirito Santo è stato generato da Dio Padre, cosicché anche lui si chiami figlio?

È ciò che ci sforziamo ora di investigare in qualche modo, nello spirito umano, affinché, partendo da una immagine inferiore, nella quale la nostra stessa natura, interrogata in qualche maniera, ci offre delle risposte che sono più alla nostra portata, dirigiamo lo sguardo del nostro spirito meglio esercitato dalla creatura illuminata alla luce immutabile; sempre supponendo tuttavia che la verità stessa ci abbia persuasi che lo Spirito Santo è carità, come non vi è dubbio per nessun cristiano che il Figlio è il Verbo di Dio. ( Sir 1,5; 1 Ts 2,13; Ap 19,13 )

Ritorniamo dunque a questa immagine creata, cioè allo spirito razionale, per interrogarlo e considerarlo più attentamente circa questa questione.

Infatti in essa si produce nel tempo la conoscenza di alcune cose che prima non c'era, e l'amore di alcune cose che prima non erano amate, e questo ci fa vedere in maniera più distinta ciò che abbiamo da dire; perché al linguaggio che si sviluppa esso stesso nel tempo è più facile spiegare una cosa che si inserisce nell'ordine del tempo.

12.18 - Soluzione del problema: lo spirito, la conoscenza e l'amore di sé, immagine della Trinità

Anzitutto sia chiaro che può accadere che vi sia una cosa conoscibile, cioè che si potrà conoscere e che tuttavia si ignora; e che, al contrario, non può accadere che si conosca ciò che è inconoscibile.

Si deve dunque tenere come evidente che ogni cosa che noi conosciamo co-ingenera in noi la conoscenza che abbiamo di essa.

Infatti la conoscenza è generata da tutti e due, dal conoscente e dal conosciuto.12

Perciò, quando lo spirito conosce se stesso, esso solo genera la sua conoscenza, perché esso è insieme il conosciuto e il conoscente.

Esso era conoscibile a sé, anche prima che si conoscesse, ma non era in esso la conoscenza di sé, quando esso non conosceva se stesso.

Per il fatto che si conosce, genera una conoscenza uguale a sé, perché non si conosce meno di quello che è, e la sua conoscenza non è quella di un'altra essenza, e questo non solo perché è esso che conosce, ma anche perché conosce se stesso, come abbiamo detto prima.

Che dobbiamo dunque dire dell'amore? Perché non riteniamo ugualmente che, quando ama se stesso, lo spirito genera anche il suo amore?

Infatti esso era amabile a sé anche prima che si amasse, perché poteva amare se stesso; come era conoscibile a sé anche prima che si conoscesse, perché poteva conoscersi.

Infatti, se non fosse conoscibile a sé, non avrebbe mai potuto conoscersi.

Perché allora non si dice che, amandosi, genera il suo amore come, conoscendo se stesso, genera la sua conoscenza?

Sarà forse perché appare sì ben chiaro che il principio dell'amore è ciò da cui procede e l'amore procede dallo spirito che è amabile a sé prima di amarsi e dunque è lo spirito il principio dell'amore di sé con cui si ama, ma non si può dire secondo verità che è generato da esso, come la conoscenza di sé con cui si conosce, perché è per mezzo della conoscenza che è già stato scoperto ( inventum ) ciò che, si dice, è generato ( partum ) e riprodotto ( repertum ), scoperta che è spesso preceduta da una ricerca che non si appaga che giungendo a questo suo termine?

Infatti la ricerca è desiderio di scoprire ( inveniendi ), o, che è la stessa cosa, di riprodurre ( reperiendi ).

Le cose che si riproducono ( reperiuntur ), è come se si generassero ( pariuntur ); per cui sono simili ad una prole, e dove accade ciò se non nella conoscenza?

Là infatti, come esprimendosi, vengono formate.

Perché se già esistevano le cose che la ricerca scopre, non esisteva tuttavia la conoscenza, che paragoniamo ad un figlio che nasce.

Il desiderio che ispira la ricerca procede da chi cerca e sta, in qualche modo, in sospeso e non riposa nel termine cui tende se non quando ciò che è cercato, una volta trovato, sia unito a colui che cerca.

E questo appetito, cioè questa ricerca, sebbene non sembri essere amore - perché con l'amore si ama ciò che già si conosce e qui non si tratta che di una tendenza a conoscere -, tuttavia è qualcosa dello stesso genere.

Infatti la si può già chiamare volontà, perché chiunque cerca vuole trovare ( Mt 7,7; Lc 11,9; Lc 14,10 ) e, se si cerca qualcosa che appartiene alla conoscenza, chiunque cerca vuol conoscere.

E se lo vuole con ardore ed insistenza si dice che "studia", termine che si suole riservare soprattutto per esprimere la investigazione e l'acquisizione di tutti i tipi di scienze.

Perciò il parto dell'anima è preceduto da un desiderio, grazie al quale cercando e trovando ciò che vogliamo conoscere, nasce la prole, che è la stessa conoscenza.

Di conseguenza questo desiderio che è causa della concezione e della nascita della conoscenza non si può dire, se si vuole parlare propriamente, "parto" e "figlio".

E questo stesso desiderio, che spinge verso la cosa da conoscere, diventa amore della cosa conosciuta quando possiede ed abbraccia questa prole in cui si compiace, cioè la conoscenza, e la unisce al principio generatore.

Ed ecco una certa immagine della Trinità: lo spirito, la sua conoscenza che è la sua prole ed il verbo generato da esso, e, in terzo luogo, l'amore; e queste tre realtà fanno una sola cosa ( 1 Gv 5,7-8 ) ed una sola sostanza.

Né è inferiore la prole allo spirito, fintantoché questo si conosce in maniera adeguata al suo essere; né è inferiore l'amore, fintantoché lo spirito si ama in misura adeguata alla conoscenza di sé ed al suo essere.

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12 Porfirio, Sent. 40, 5-6