Gli stati di vita del cristiano

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Stato sacerdotale e stato dei consigli

L'elezione al sacerdozio come ministero oggettivo nella Chiesa e l'elezione allo stato dei consigli come forma di vita soggettiva della sequela di Cristo sono ambedue forme d'espressione dell'unico stato d'elezione ecclesiale.

Ambedue debbono perciò anche corrispondere alle strutture generali di questo stato, per quanto esse possano anche essere rette da leggi speciali.

Sarà bene, se si vuol descrivere le loro complesse relazioni reciproche, prescindere dapprima da ogni valutazione e accontentarsi di presentare solo la struttura comune e poi quella specifica di entrambi gli stati.

Perciò deve ora seguire dapprima una descrizione di queste strutture, quale risulta dai presupposti prima enunciati.

Poi quanto detto verrà esaminato alla luce dell'insegnamento della Scrittura.

Da ultimo può essere utile occuparci sommariamente della discussione storica su questa questione.

Qui verrà dapprima mostrato il percorso che va dagli inizi fino alla definitiva separazione nell'alto Medioevo, poi verrà sviluppata la dottrina della Scolastica, e infine la problematica attuale.

Qualcosa di conclusivo circa il rapporto fra i due stati d'elezione verrà detto soltanto allorché anche lo stato laicale sarà stato incluso nel confronto ( nel capitolo finale: « Stato dei consigli, stato sacerdotale, stato laicale » ),

a) Forma di vita ed ethos

Il sacerdozio è primariamente una funzione ecclesiale, un ministero oggettivo, e in base a questo è in seguito una personale forma di vita.

Lo stato dei consigli è primariamente una personale forma di vita, che in seguito diventa una forma di vita ecclesiale e con ciò analoga al ministero, obiettivamente anonima.

Comune a entrambe le forme è che esse - fondate da Cristo nel medesimo atto - sono forme di elezione speciale, obbligano l'eletto ad un totale e di per sé irrevocabile legame ad una legge di vita superiore al soggetto: il prete attraverso la consacrazione sacramentale, colui che vive nello stato dei consigli attraverso la professione dei voti e l'assunzione di una regola che dia forma alla vita.

A ciò che è comune appartiene così anche una tensione mai del tutto eliminabile fra forma oggettiva, soprannaturale - per il prete il ministero, per chi vive secondo i consigli la regola a cui si ha solennemente promesso fedeltà - e la persona collocata in questa forma, che deve adattarsi alla forma come ad un canone di vita, senza mai però poter coincidere con essa.

Questa tensione è il destino speciale di ogni inviato, la cui soggettività sta nel puro servizio alla missione oggettiva, per orientarsi secondo le sue leggi, necessità ed esigenze e realizzare così l'essenza della fede, che vive più in Dio che in se stessa, guarda più all'unità dell'esistenza in Dio che al dualismo di essere e dover essere, quale si spalanca ad un « ragionevole » sguardo su di sé.

All'interno di questa unità strutturale possono ora venire registrati più chiaramente i già menzionati tratti distintivi.

Il sacerdozio è primariamente funzione e ministero; al punto che la cosa prima e permanente è l'incongruenza tra l'assoluto della funzione e la relatività del suo portatore.

Anche solo mirare ad un pareggio fra i due fino a farli coincidere sarebbe presunzione e mostrerebbe che non si è capito cos'è la funzione.

La funzione del ministero sacerdotale all'interno della Chiesa vive del fatto che essa è di più di quanto un qualsiasi uomo, anche col massimo impegno, può raggiungere e rappresentare da sé.

Nel sacerdozio la dimensione ministeriale e perciò impersonale del portatore deve rimaner visibile, affinché attraverso di lui si irradi tanto più fortemente la personalità di Cristo.

Quanto più il prete si pone a disposizione del suo ministero senza sue proprie accentuazioni, per vivere solo della sua funzione, tanto meglio egli la adempie.

In tale dedizione il prete « perde la sua anima », compie quindi l'azione d'obbedienza della sua soggettività, quale è necessaria in ogni speciale elezione e missione.

L'autorità che viene amministrata e rappresentata dagli esponenti ecclesiastici è quella di Cristo, il Redentore, che si fece obbediente sino alla morte.

Non soltanto essa esige obbedienza, ma è nella sua stessa essenza obbedienza.

In tal modo essa può solo piegare tanto più profondamente colui che la porta nell'obbedienza di Cristo.

Ma essa non è solo autorità come servizio, bensì espressamente autorità per il servizio, partecipazione alla responsabilità del divino pastore, che dà la sua vita per le sue pecore ( Gv 10,15 ) e nella trasmissione del suo amore e della sua responsabilità di pastore si aspetta dai suoi che « come egli ha dato la sua vita per noi, anche essi diano la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).

Elezione al sacerdozio è equivalente a « servizio sacrificale alla vostra fede » ( Fil 2,17 ), « consacrazione delle energie di vita » alla Chiesa ( 1 Ts 2,8 ), fino alla « follia », affinché la Chiesa sia assennata, allo « smacco », affinché essa sia onorata, ad essere « rifiuto di tutti », affinché essa sia così purificata e senza macchia ( 1 Cor 4,10-13 ).

Ma questo servizio al ministero non è nel caso del prete, come abbiamo detto, il tentativo di identificarsi come soggetto col ministero, di far coincidere in sé col massimo impegno ufficio e persona, per essere così « all'altezza » del proprio ufficio.

L'esistenza sacerdotale viene piuttosto fondata definitivamente, come viene presentato nell'ultimo capitolo nei confronti di Pietro, nell'aperta discrepanza tra ministero e persona, e perciò in un ethos che sorge radicalmente dall'umiltà e viene mantenuto vivo da una sempre nuova umiliazione, che apre e rinnova il permanente scarto tra dignità ministeriale e prestazione soggettiva.

L'impegno del prete ad essere degno del suo ministero, lasciando così che la sua soggettività ancor più di prima si disfi e scompaia in esso, non dovrà aspettarsi altro compenso che la coscienza che non egli è all'altezza del ministero, ma il ministero ha potuto affermarsi in lui nonostante la sua insufficienza.

Nell'ethos del prete domina fino all'ultimo la contrapposizione di ufficio e persona, uno statico dualismo che nessuno sforzo esistenziale può superare e nemmeno smorzare.

La sua dedizione conserva primariamente la forma dell'umiltà.

Lo stato dei consigli non è funzione, bensì ripresentazione di Cristo nella forma di vita dei voti.

In povertà, verginità e obbedienza colui che è stato a ciò eletto può rappresentare nella Chiesa e per la Chiesa la via del Redentore, rinunciare a tutto ciò a cui Cristo ha rinunciato, per testimoniare con l'offerta della propria esistenza la viva continuità della risposta ecclesiale che aderisce alla chiamata della parola e dell'essere di Cristo.

Se nel sacerdozio viene posta a disposizione della Chiesa intera l'azione del Capo della Chiesa nella sua integrità e ogni giorno nuova attualità, attraverso membri eletti della Chiesa, nella vita secondo i consigli diventa visibile, in base alla medesima « gratia capitis », la personale cooperazione dei membri del Corpo Mistico ( nella misura in cui la Grazia può diventare visibile ).

Anche la forma in cui viene immessa la soggettività dell'uomo che vive nello stato dei consigli è una forma oggettiva, superiore alla misura e alle possibilità della persona, una forma anonima ( come regola obiettiva ), che diventa per la soggettività l'occasione desiderata per aderire ad essa e in essa perdersi.

Ma poiché questa forma non è più qui funzione ministeriale in mano a Cristo, ma forma personale della dedizione redentrice di Cristo stesso, la « perfezione » di colui che è stato a ciò eletto deve consistere nello sforzo di appropriarsi sempre più di questa forma, di far divenire sempre più piccolo lo scarto fra essa e sé.

Ciò a cui egli tende è la dedizione incondizionata, che gli viene presentata come forma della regola; e quanto più perfettamente egli mantiene i suoi voti, tanto più egli viene conformato all'atteggiamento redentore e così all'opera redentrice di Cristo.

Così egli personifica nella Chiesa, di fronte al sacerdozio oggettivo e funzionale del ministero, il sacerdozio soggettivo, senza ufficio, dell'amore e ripresenta così nella sua vita il Signore, come il sacerdote ministeriale lo rende presente oggettivamente ( nella predicazione, Messa, Sacramenti e cura pastorale ) in forza della sua potestà.

« Se io rinuncio a tutto quello che possiedo e prendo su di me la mia croce e seguo Cristo, ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio », o se offro la mia vita alle fiamme e ho la carità, ( … ) se amo i miei fratelli sino a donare la mia anima; se io « combatto sino alla morte per la giustizia e la verità », ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio ».

Se io « mortifico le mie membra » da ogni concupiscenza della carne, se « per me il mondo è crocifisso e io lo sono per il mondo », ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio » e sono diventato sacerdote della mia propria offerta » ( Origene, in Levit hom 9,9, Baehrens 6,436 ).

« Ci sono alcuni, delle tribù di Israele, che attraverso i leviti e i sacerdoti offrono le « decime » e le « primizie », ma non godono essi stessi delle decime e delle primizie.

I leviti e i sacerdoti, che da tutto trattengono per sé le decime e le primizie, offrono a Dio le decime e, come penso, anche le primizie attraverso il sommo sacerdote.

Fra di noi, però, che siamo entrati alla scuola di Cristo, i più sono quasi sempre occupati con le cose di questo mondo ed elevano solo poche azioni verso Dio ( … )

Quelli che invece attendono alle parole divine e stanno regolarmente a servizio di Dio solo possono venir definiti leviti e sacerdoti. » ( id., in Joh comm. 1,3, Preuschen 4,5 ).

Questo sacerdozio interiore e soggettivo ha il suo centro nella sempre dinamica adeguazione di tutta la vita personale alla forma oggettiva dell'offerta nella regola, nell'impegno giorno per giorno nuovo di lasciare che ciò che una volta per tutte è stato promesso col voto si realizzi.

Anche questa forma di vita è fondamentalmente senza termine, poiché la perfezione della dedizione di Cristo ci sta davanti agli occhi non altrimenti che in un eternamente aperto tendere verso di essa.

Questo tendere diventa così la forma distintiva dello stato dei consigli: esso è e rimane fino all'ultimo status perfectionis acquirendae, di quella perfezione che l'uomo ha promesso nel voto di assumere come forma di vita, per adattarsi ad essa all'infinito.

Fa parte del concetto di perfezione cristiana il fatto che essa non diventa mai una mèta raggiunta, al di là della quale non sarebbe più possibile aspirare ancora a qualcos'altro, ma consiste invece nella « perfezione del tendere verso la perfezione ».

E questo non solo a motivo dell'imperfezione dello stato peccatore dell'uomo sulla terra, ma proprio a causa di una proprietà caratteristica essenzialmente di Dio e della sua Grazia: l'essere « sempre di più », « sempre più grande » di ciò che può venir raggiunto.

Così anche le elezioni e le missioni neotestamentarie, corrispondentemente alla partecipazione cristologica alla natura divina, non sono più internamente limitate come quelle veterotestamentarie e perciò nemmeno sono da assolvere una volta per tutte, per poi lasciarsele dietro le spalle.

Così già Origene interpreta il « semper sperabo » nel senso di un interminabile progredire ( Comm in PS 70,14, Pitta, Ana-lecta Sacra 9,91 ).

Così Ireneo fa continuare nell'eternità non solo la carità, ma anche fede e speranza, poiché « al di là di tutto Dio deve essere sempre il più grande ( … ) e questo non soltanto in questo mondo, ma anche in quello futuro, affinché Dio rimanga sempre colui che insegna, e l'uomo come allievo impari sempre da Dio » ( Adv. haer., 2,28, 3 ), e giunge sino ad un'equiparazione di « andare » e « stare » ( ibid., 5, 8,3 ).

Anche i beati « riceveranno il Regno continuamente e in esso progrediranno continuamente » ( ibid., 4,28,2 ).

Così Gregorio di Nissa descrive la stessa beatitudine eterna come infinito tendere verso Dio, e pone sullo stesso piano « nostalgia » e « visione » ( In cant. hom. 8, PG 44,941s; hom. 6, PG 44,89 ).

Per ulteriori esempi cfr. il nostro studio « Présence et Pensée » ( Parigi 1942, 67-80 ).

È anche la formula di Agostino: « ut inventus quaeratur ( Deus ) immensus est » ( In Joh tr 65,1 ).

E commentando le parole di Paolo ( Fil 3,6-16 ), che ora dice di sé non pensa di aver raggiunto la perfezione, ma dimentica ciò che sta dietro di lui e tende a ciò che sta davanti a lui, ora invece parla di nuovo di sé come di uno che è perfetto; « Prima si diceva imperfetto, adesso perfetto.

Per nessun altro motivo che per il fatto che la perfezione dell'uomo consiste nell'aver scoperto di non essere perfetto ( … )

E se voi forse ad un qualche grado di progresso spirituale vi ritenete perfetti, potete d'altra parte, leggendo la Scrittura e trovando che cos'è la perfetta giustizia, scoprirvi peccatori, condannare il presente nel tendere al futuro, vivere di fede, speranza e carità ( … ) fino a ereditare un'insaziabile sazietà senza noia: in eterno diventiamo affamati e in eterno siamo saziati » ( Sermo 170 ).

Così parla sempre Agostino ( In 1 Job tr. 4; Sermo 15 de Verbis Apost.; Sermo 50 de tempore, liber de Cant. novo ).

Così Cassiano ( collatio 1, cap. 7 e 13 ).

Così Gregorio Magno ( In Ezech. hom. 13 ).

Così ( pseudo ) Bernardo ( tr. de vita solit. ), riassumendo la dottrina e rivolgendola allo stato religioso: « Ab omnibus vobis perfectio exigitur, licet non uniformis; sed si incipis, incipe perfecte, si iam in profectu es, et hoc ipsum iam perfecte age; si autem perfectionis aliquid attigisti, teipsum in temetipso metire et die cum Apostolo: « non quod iam apprehenderim aut perfectus sim ( … ) Quotquot ergo perfecti sumus, hoc sapiamus. »

In quo manifeste Apostolo docente declaratur, quia perfecta eorum quae retro sunt oblivio, et perfecta in anteriora extensio, ipsa est hominis iusti in hac vita perfectio ».

E concisamente nella lettera 253: « Indefessum proficiendi stu-dium et iugis conatus ad perfectionem perfectio reputatur ».

Al di là di questa perfezione dinamica non ce n'è nessuna superiore, statica, da cercare.

E questa dinamica personale, all'interno della medesima tensione generale tra forma di vita assunta e sforzo soggettivo di dedizione, è l'atteggiamento che contraddistingue lo stato dei consigli.

Se Pietro non supera nel suo ministero la brusca antinomia tra funzione e corrispondenza personale, se egli nel suo primo incontro col Signore viene scaraventato immediatamente dalla persona ( « Tu sei Simone, il figlio di Giona » ) nel ministero ( « Ti chiamerai Cefa, Pietro », Gv 1,42), viene invece presentato subito Giovanni ( egli è certo il primo discepolo, quello senza nome ) nel movimento dinamico del seguire ( « essi seguirono Gesù » ), del venir invitato e andare con lui ( « Cosa cercate? » « Dove abiti? » « Venite e vedete », Gv 1,37-39 ).

Da questa caratterizzazione è divenuto chiaro che ambedue, sacerdozio e stato dei consigli, hanno la loro propria legge all'interno dell'unica forma d'elezione.

Ambedue sono, come forma ecclesiale, un puro dono di Dio agli uomini, ma nel sacerdozio l'uomo viene esigilo da Dio più strumentalmente e deve consegnarsi al ministero quasi senza proferir motto, nello stato dei consigli invece il dono assume più espressamente la forma del poter rispondere personalmente.

Nel sacerdozio è talmente funzione, che Dio può operare anche attraverso uno strumento recalcitrante.

Nello stato dei consigli il dono assume di più la colorazione dell'amore reciproco, in cui Dio non va avanti se l'uomo non segue volontariamente.

Se ambedue stanno in una speciale tensione di essere e dover essere, nel prete prevale tuttavia l'essere, nell'uomo dei consigli il dover essere.

Si possono caratterizzare i due stati nella loro distinzione e reciproca appartenenza anche a partire da ciò che fu detto a proposito dello « stato di Cristo » circa il suo rapporto con lo Spirito Santo.

Da una parte la vita terrena di Gesù comincia col fatto che egli si lascia incarnare per opera dello Spirito Santo e conserva lo Spirito Santo in sé e sopra di sé come regola durante la vita intera, o detto altrimenti: che egli aderisce al Padre così profondamente che, insieme col suo proprio esser Figlio, riceve anche la possibilità di spirare insieme col Padre lo Spirito Santo.

Questo profondamente umile esser aperto per il Padre e per lo Spirito che, come regola di vita, promana da Lui è l'atteggiamento originario della vita secondo i consigli: obbedienza in povertà e purezza nei confronti dell'insuperabile « Padre più grande » ( Gv 14,28 ), e questo nell'eterno movimento del Figlio verso il Padre all'interno dello Spirito, che questo Spirito soffi dal Padre verso il mondo e indichi l'Inviato oppure oramai dal mondo verso il Padre.

Dall'altra parte la vita terrena di Gesù sfocia nello spirare lo Spirito Santo della missione - prima sulla croce, poi a Pasqua e nell'Ascensione al Padre -, e di questo ( post-pasquale ) Spirito della missione vive lo stato sacerdotale, che ha da comunicare lo Spirito primariamente a livello ministeriale, in una totalità a cui esso esistenzialmente non può mai corrispondere, sebbene debba tentare di corrispondervi meglio che può.

Da ciò viene di nuovo posto in luce, però, che le due forme d'elezione così come sono costituite si rapportano tuttavia l'una all'altra anche in maniera, complementaria.

Nella misura in cui il sacerdozio è funzione oggettiva a servizio del sacerdozio di Cristo, invoca di per sé un completamento personale, che non può esser altro che l'incondizionata dedizione che include in sé il voto fondamentale insito in ogni amore, la rinuncia a tutto ciò che si ha di proprio.

Il prete, che d'ufficio è rappresentante della grazia redentrice di Cristo, non può rispondere a questa grazia altrimenti e meglio che con l'essere anche soggettivamente uomo sacerdotale nel senso di Cristo, cioè, come abbiamo visto, uno che nel completo olocausto della sua vita sta a disposizione di Dio e degli uomini.

Non c'è nessuna etica presbiterale che in nucleo possa avere altro contenuto che la totale espropriazione dei propri interessi privati e hobby, per essere puro strumento delle intenzioni di Cristo con la Chiesa.

Simile dedizione è contenuta inclusivamente nella decisione di diventar prete; nel dono della grazia sacramentale e del carattere incancellabile è donata al prete e da lui richiesta e attesa altrettanto quanto essa giace nella irrevocabilità dei voti.

In nessun modo si può dire che la funzione presbiterale, presa di per sé, richieda una dedizione meno grande e completa che la grazia dell'elezione alla vita secondo i consigli.

È piuttosto vero il contrario: la grandezza della vocazione al sacerdozio esige dall'eletto la più piena dedizione di cui un uomo sia capace, e solo allorché egli ha dato tutto, ma realmente tutto, si potrà definire servo inutile, ma pur sempre utilizzabile.

Che egli pronunci espressamente i voti oppure no, deve in ogni caso, in risposta alla grazia del Signore, mettere tutto ciò che è suo a disposizione di Dio.

Egli cercherà dunque la sua « perfezione », cioè la giustezza del suo servizio, in niente di diverso rispetto a colui che è stato eletto allo stato dei consigli, vale a dire nella povertà, verginità e obbedienza.

Certo la maniera della spersonalizzazione, della rinuncia alla configurazione in proprio della vita e dell'attività si conformerà per lui alla particolare anonimità tipica del carattere funzionale del suo ministero.

L'espropriazione esteriore e interiore di un membro di un ordine religioso, attraverso i voti, mira di più ad una generale disponibilità e libertà per ogni forma di conformazione al Signore, quale può venir disposta tanto da Dio nella contemplazione, quanto dal superiore per l'azione.

Il membro di un ordine religioso vive in una continua indifferenza nei riguardi di qualsiasi configurazione che attraverso l'ordine stesso e all'interno della generale forma dell'ordine gli possa venir conferita da Dio o dai superiori.

Questa è la forma particolare della sua « umiltà » - come « coraggio del servizio » -, di cui tutte le grandi regole degli ordini religiosi concordemente parlano, e che è un coraggio di compiere quel servizio che nella preghiera o in un atto esteriore gli può venir imposto.

Il divenir anonimo del prete secolare è di un'altra specie, sebbene l'atteggiamento di fondo del sacrificio della propria « personalità » sia lo stesso: è l'adeguamento della persona alla di per sé già anonima funzione.

Nelle loro funzioni i preti sono ampiamente interscambiabili, e quanto più trasparente è la loro sostanza spirituale, quanto più essi sono permeabili allo Spirito, quanto meno intorbidano con la pesantezza della loro cosiddetta personalità ( o addirittura del loro « ideale di personalità »! ) la pura attualizzazione del divino, tanto più essi saranno preti ideali.

Questo puro stare a servizio nel senso del loro ministero per tutte le necessità di Dio e della Chiesa ha necessariamente come sua anima lo spirito - espresso come voto oppure no - della povertà, della verginità e dell'obbedienza, ma nella particolare colorazione determinata dal ministero.

È chiaro che questa anonimità ministeriale che rende il prete strumento nelle mani di Dio e della Chiesa non lo dispensa affatto dallo sviluppare e impegnare le energie del suo spirito.

Esse sono la cosa più preziosa che di suo egli può porre a servizio di Dio, e sarebbe ingratitudine rifiutarle a Dio.

Ma la misura e il modo del loro dispiegamento stanno fondate completamente nell'apostolato del prete.

Anche le sue vacanze, anche il tempo che egli può e deve dedicare a ciò che è disinteressatamente bello e piacevole, rimangono circondati dalla legge superiore del suo servizio: è riposo per un migliore servizio.

Questo si differenzia contenutisticamente in molteplici modi da quello di coloro che vivono nello stato dei consigli, per cui di conseguenza ciò avviene anche per quanto riguarda rispettivamente la concreta maniera di lavorare e di riposare.

Ma comune ad entrambi è l'esclusività del servizio e la rinuncia a qualsiasi oasi riservata di pura esistenza privata o di interessi personali.

Nessun prete può mai dire che ha lavorato abbastanza; nell'aperto comparativo in cui il suo ufficio lo colloca egli incontra l'ethos della vita secondo i consigli, e quanto più delle sue sostanze egli offre al servizio, tanto più viene usato di esse per la fecondità di questo servizio.

In ogni predica, in ogni amministrazione dei sacramenti egli può distribuire e donare non solo il Signore e il suo Spirito, ma all'interno di questo Spirito anche se stesso.

Egli non verrà usato invano; ogni suo nascosto sacrificio verrà inserito nella divina fecondità a cui egli serve.

Che il suo servizio sia ricco di successo oppure no, egli ha la certezza che tutto verrà usato.

All'assolutezza in cui egli d'ufficio è posto e che egli non può né diminuire né aumentare, si aggiunge la relatività della sua prontezza.

Se quella fu difesa con ragione da Agostino contro la relativizzazione ad opera di Donato, si deve però sottolineare, non appena questa è acquisita, la fecondità soprannaturale della prontezza sacerdotale al sacrificio.

Senza dubbio un buon prete comunica più grazia che uno cattivo, non solo perché questo suscita scandalo e allontana i credenti dalla via della salvezza, ma perché già per essenza al prete che vive in grazia viene donata più grazia da distribuire che a quello che è fuori della grazia.

In ambedue gli stati d'elezione il compito consiste così nell'armonizzare un comportamento soggettivo con una forma o funzione oggettiva ricevuta in dono.

E ambedue le forme di vita sono create dal Signore della Chiesa e pensate per essa.

Ma le due forme come tali non tendono a coincidere, bensì conservano qualcosa della contrapposizione di movimenti che già osservammo tra lo stato dei discepoli e lo stato del popolo credente.

Le persone che vivono nello stato dei consigli sono pur sempre di per sé « laici », e non sta nella linea del loro ideale il tendere al presbiterato.

Le donne non lo possono affatto, e fondatori di ordini religiosi come Benedetto, Francesco d'Assisi e altri non lo vollero.

Come già abbiamo detto, il prete rappresenta prevalentemente nella sua funzione il capo della Chiesa per il corpo e deve perciò secondo le possibilità conformare la sua esistenza a quella del Capo.

L'uomo nello stato dei consigli rappresenta prevalentemente il corpo, la Chiesa sposa; egli è fermento in mezzo al popolo, e dovrebbe secondo le possibilità conformare il sì della Chiesa nel suo insieme al sì di Maria, che a sua volta trae la sua misura dal Figlio.

La spersonalizzazione di chi vive nello stato dei consigli è non tanto, come invece è quella del prete, servizio alla Chiesa, quanto piuttosto servizio della Chiesa stessa.

Vivere nello stato dei consigli è molto meno un mezzo per raggiungere gli scopi personali del singolo che tende alla « perfezione », che piuttosto un'espressione di ciò che la Chiesa nella sua purezza dovrebbe essere e fare per ricevere nella maniera più adeguata possibile quello che, sempre anche con la mediazione del prete, le perviene.

In tal modo le due forme di vita eletta mirano l'una all'altra.

Non quasi che siano così opposte da non poter essere ambedue insieme espressione di esistenza cristiana, poiché anche il prete appartiene primariamente alla Chiesa, è « presbitero », esponente della comunità, prima che esser eletto e ordinato per il suo « episcopo », preposto e superiore.

La sua elezione al ministero è secondaria rispetto alla sua elezione a « essere presso il Signore » e ad accompagnare con l'intera esistenza il Suo servizio redentore.

Ma per lui questo stare a servizio mira all'assunzione della funzione ministeriale, in cui egli deve rappresentare il Signore presso i suoi fratelli.

In questa funzione egli deve « perdersi ».

La persona nello stato dei consigli, invece, « si perde » nel servizio al sì della Chiesa, e racchiuso in esso anche al sì che dovrebbero pronunciare nella Chiesa i ministri sacerdotali.

Che questa reciprocità corrisponde già all'intenzione del Signore può confermarlo uno sguardo al Vangelo.

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