Summa Teologica - I

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Articolo 1 - Se un uomo possa insegnare all'altro

In 2 Sent., d. 9, q. 1, a. 2, ad 4; d. 28, q. 1, a. 5, ad 3; C. G., II, c. 75; De Verit., q. 11, a. 1; De Unit. Int., c. 5

Pare che un uomo non possa insegnare all'altro.

Infatti:

1. Dice il Signore [ Mt 23,8 ]: « Non vi fate chiamare Rabbi »; cioè, come spiega la Glossa [ interlin. ] di S. Girolamo: « Non date l'onore divino agli uomini ».

Quindi essere maestro è una prerogativa divina.

Ma l'insegnamento è il compito proprio del maestro.

Quindi l'uomo non può insegnare, ma ciò è proprio di Dio.

2. Un uomo per insegnare a un altro dovrebbe agire positivamente con la sua scienza causando la scienza nell'altro.

Ma la qualità di cui uno si serve per produrre un effetto consimile è una qualità attiva.

Quindi ne viene che la scienza dovrebbe essere una qualità attiva, come il calore.

3. Per avere la scienza si richiede la luce intellettuale e la specie intelligibile dell'oggetto conosciuto.

Ma nessuna delle due cose può essere prodotta da un uomo nell'altro.

Quindi un uomo, con l'insegnamento, non può causare la scienza in un altro.

4. L'insegnante non fa altro che proporre all'alunno dei segni, esprimendosi o con le parole o con dei gesti.

Ma proponendo dei segni uno non può insegnare a un altro, causando in lui la scienza.

Infatti o propone segni di cose note, o di cose ignote.

Se di cose note, allora colui al quale i segni sono proposti possiede già la scienza, e perciò non l'acquista dall'insegnante.

Se di cose ignote, allora il discepolo non impara nulla: come chi proponesse a un latino delle parole greche, di cui questi ignorasse il significato, non riuscirebbe a istruirlo.

In nessun modo, dunque, un uomo può causare in un altro la scienza mediante l'insegnamento.

In contrario:

L'Apostolo [ 1 Tm 2,7 ] afferma: « Della quale testimonianza io sono stato costituito banditore e apostolo, maestro dei pagani nella fede e nella verità ».

Dimostrazione:

Su questo problema si sono avute diverse opinioni.

Averroè [ De anima 3, comm. 5 ], come già riferimmo [ q. 76, a. 2 ], parte dal presupposto che esiste un unico intelletto possibile per tutti gli uomini, dal che segue che le specie intelligibili di tutti gli uomini sarebbero le stesse.

E in base a queste premesse egli afferma che un uomo, insegnando a un altro, non causa in esso una scienza [ numericamente ] distinta dalla propria, ma gli comunica quella medesima da sé posseduta, facendo sì che l'altro ordini i fantasmi della sua anima nella maniera richiesta per l'apprensione intellettuale.

- Ora, tale opinione è vera nel senso che è identica la scienza del maestro e del discepolo in rapporto all'oggetto conosciuto: infatti il maestro e il discepolo conoscono un'identica verità oggettiva.

Ma essa è falsa, come si è già visto [ l. cit. ], in quanto pone un unico intelletto possibile per tutti gli uomini, e le stesse specie intelligibili, che sarebbero differenti solo in rapporto ai diversi fantasmi.

Altra è invece l'opinione dei Platonici i quali ritenevano, come già si disse [ q. 84, aa. 3,4 ], che la scienza fosse innata nelle nostre anime fin da principio, per una partecipazione intellettuale delle [ idee o ] forme separate, ma che l'anima, per la sua unione con il corpo, venisse impedita dal poter contemplare liberamente gli oggetti di cui ha la scienza.

E secondo questa opinione il discepolo non acquisterebbe una nuova scienza grazie al maestro, ma sarebbe soltanto da lui stimolato a considerare gli oggetti di cui possiede già la scienza, per cui l'imparare non sarebbe altro che un ricordare.

Proprio come, [ nell'ordine fisico ], essi dicevano che gli agenti naturali si limiterebbero a disporre la ricezione delle forme, che la materia corporea acquisterebbe per una partecipazione delle specie separate.

- Ma contro questa opinione fu dimostrato [ q. 79, a. 2; q. 84, a. 3 ] che l'intelletto possibile dell'anima umana è soltanto in potenza agli intelligibili, come afferma Aristotele [ De anima 3,4 ].

È necessario perciò dire altrimenti, e cioè che l'insegnante causa la scienza nell'alunno, portandolo dalla potenza all'atto, come dice Aristotele [ Phys. 8,4 ].

E per averne l'evidenza bisogna considerare che, tra gli effetti prodotti da princìpi estrinseci, ve ne sono alcuni che procedono esclusivamente da una causa estrinseca: la forma della casa, p. es., è causata nella materia esclusivamente dall'arte.

Ve ne sono altri invece che procedono a volte da un principio estrinseco e a volte da un principio intrinseco: come la guarigione dell'ammalato è causata qualche volta da un principio estrinseco, cioè dall'arte della medicina, qualche altra volta invece da un principio intrinseco, come quando uno guarisce per virtù della natura.

Ora, negli effetti di questo genere vanno osservate due cose.

Innanzitutto che l'arte nelle sue funzioni imita la natura: come infatti la natura opera la guarigione del sussidio dell'agente principale, che è il principio intrinseco, rafforzandolo e somministrandogli mezzi e aiuti che servono per raggiungere lo scopo: come fa appunto il medico che rinvigorisce la natura e le appremalato alterando, smaltendo ed espellendo la materia patogena, così fa anche l'arte.

Secondo, che il principio estrinseco, vale a dire l'arte, non opera come agente principale, ma come sta cibi e medicine, di cui essa si serve per conseguire l'effetto voluto.

Ora, la scienza può essere acquistata dall'uomo sia mediante un principio intrinseco, come è evidente nel caso di chi acquista la scienza con la propria ricerca personale, sia mediante un principio estrinseco, come nel caso di chi va a scuola.

È infatti innato in ciascun uomo un principio di scienza, e cioè il lume dell'intelletto agente, per mezzo del quale fin da principio vengono subito conosciuti naturalmente alcuni princìpi universali di tutte le scienze.

Quando perciò uno applica tali princìpi universali agli oggetti particolari, di cui ha ricordo o esperienza per mezzo dei sensi, acquista con la propria ricerca personale la scienza di ciò che ignorava, procedendo dal noto all'ignoto.

Per cui anche qualsiasi insegnante porta il discepolo a conoscere ciò che ignorava facendolo partire da quanto già sapeva; secondo appunto il detto del Filosofo [ Anal. post. 1,1 ]: « Ogni dottrina e ogni disciplina vengono acquisite partendo da una conoscenza preesistente ».

Ora, il maestro porta il discepolo alla conoscenza di ciò che ignora, partendo dalle cose conosciute, in due modi.

Primo, proponendogli aiuti e sussidi adatti al suo intelletto per l'acquisto della scienza: come quando, p. es., gli propone delle proposizioni meno generiche e universali, che però il discepolo può giudicare con nozioni già possedute; oppure come quando gli porta degli esempi sensibili, analoghi o contrari, o ancora altre cose del genere, per mezzo delle quali l'intelletto del discepolo è guidato come per mano alla conoscenza delle verità che ignora.

Secondo, corroborando l'intelletto dell'alunno: non certo mediante una virtù attiva quasi di natura superiore, analoga a quella degli angeli illuminanti, di cui si è parlato sopra [ q. 106, a. 1; q. 111, a. 1 ], - poiché tutti gli intelletti umani sono di un medesimo grado nell'ordine naturale -, ma mostrando all'alunno la connessione esistente fra i princìpi e le conclusioni, dato che egli forse non avrebbe da solo una capacità ragionativa tale da saper dedurre le conclusioni dai princìpi.

Per cui Aristotele [ Anal. post. 1,1 ] chiama la dimostrazione « un sillogismo che produce la scienza ».

E in questo modo chi dà una dimostrazione produce la scienza nell'uditore.

Analisi delle obiezioni:

1. Si è già spiegato [ nel corpo ] che l'uomo nell'insegnare esercita soltanto una funzione esterna, come il medico nel guarire; ma come la natura è la causa principale della guarigione, così pure la causa principale della scienza è l'interna luce intellettuale.

Ora, queste due cose procedono da Dio.

Quindi, come sta scritto [ Sal 103,3 ] di Dio che « guarisce tutte le tue malattie », così pure di lui è detto [ Sal 94,10 ] che « insegna all'uomo il sapere », in quanto la « luce del suo volto risplende su di noi » [ Sal 4,7 ], quella luce mediante la quale conosciamo tutte le cose.

2. Il maestro non causa la scienza nell'alunno nel modo di un agente naturale, come pretendeva Averroè [ l. cit. ].

Quindi non è necessario che la scienza sia una qualità attiva: è invece il principio che guida nell'insegnamento, così come l'arte è il principio che guida nella composizione di un'opera.

3. Il maestro non causa nel discepolo né la luce intellettuale né, direttamente, le specie intelligibili, ma col suo insegnamento eccita il discepolo a formare, mediante la luce del proprio intelletto, quei concetti che corrispondono ai segni da lui presentati esternamente.

4. I segni che il maestro propone all'alunno si riferiscono a cose vagamente e confusamente già note, ma ignote nei loro particolari e nella loro esattezza.

Per cui, quando uno acquista la scienza da sé, non si può dire che insegna a se stesso, o che è maestro di se stesso: non preesiste infatti in lui la scienza già formata, quale è richiesta nel maestro.

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