Teologia

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… Spirituale

Sommario

I. La storia della teologia come premessa per la comprensione del problema reale della teologia spirituale.
II. L'episodio recente della teologia spirituale.
III. I problemi ed i contenuti fondamentali del "nuovo" insegnamento e del nuovo manuale.
IV. Conclusione: la "teologia spirituale" come problema della teologia.
V. Nell'ambito della teologia spirituale:
    1. i gradi o le vie;
    2. gli stati di vita;
    3. la teologia spirituale e le "spiritualità".

I - La storia della teologia come premessa per la comprensione del problema reale della teologia spirituale

Riteniamo che una presentazione reale della "teologia" "spirituale" non debba limitarsi ad assumere come punto di riferimento il "manuale" che attorno agli anni 1920-1930 cominciò appunto a presentarsi come manuale di "teologia spirituale".

Tale prospettiva, infatti, risulterebbe doppiamente angusta: sia in rapporto agli antecedenti dell'episodio, interessanti e complessi; sia in rapporto alla discussione critica che ha accompagnato il sorgere ed il collocarsi del manuale in questione, e che in definitiva ci si rivela come aspetto di una discussione più vasta sulla natura stessa della teologia.

Così il luogo proprio per comprendere anche una vicenda come quella del sorgere di una "nuova" branca teologica e del relativo manuale, è l'insieme stesso della storia della teologia: propriamente a partire da quando, staccandosi dal quadro della cosiddetta teologia monastica, essa si è venuta costituendo come momento di comprensione critica, e non propriamente contemplativa, della fede rivelata od oggettiva, cioè in sostanza della "pagina" biblica.

Siamo appunto nei sec. XII-XIII.

Il problema del rapporto tra fede e comprensione critica della fede da parte di un credente era nuovo rispetto ad un modello epistemologico che si poneva di fronte alle scritture per penetrarle o per leggerle secondo i "quattro sensi" collocati in successione gerarchica: dal senso letterale ( = littera ), al senso analogico ( = analogia: l'unità e l'analogia dei due Testamenti rende possibile una reciproca comprensione-illuminazione della realtà indicata dalla littera ), al senso tropologico ( la normatività della storia salvifica, compresa secondo analogia, permette l'applicazione morale al comportamento del cristiano ), al senso anagogico ( la storia della salvezza come storia di comunione con Dio deve divenire storia della singola anima che vivendo la comunione con Dio quaggiù realizza veramente la tensione verso la vita eterna.

È il ritorno all' "immagine" ).

Problema nuovo quello della comprensione critica o della "quaestio": che rivelava un atteggiamento spirituale il quale andava in se stesso giustificato, chiedendogli di mostrare come esso fosse compatibile con la fede e non si riducesse ad una "curiositas" razionalistica o ad una "vana exquisitio", ad una "vana scientia".

Nasceva così una prima fondamentale tensione, che deve essere colta come tensione propria della "scienza della fede" e che, se in un primo tempo contrappone i monaci ai "magistri", in un tempo successivo pone in dialettica gli stessi nuovi "maestri" ( si pensi anche solo a Bonaventura ed a Tommaso come ad espressioni-vertice di un confronto e di un discorso ) e comincia a prendere voce e forma anche in una letteratura che o contesta la teologia delle scuole, o si pone volutamente al di fuori, ai margini di essa, preferendole quella "scientia" che è una "experientia" e che in ogni caso non è "vana", cioè non è senza rapporto con l'appropriazione reale e personale della verità, quindi con l'appropriazione della salvezza.

Il discorso si rivela profondo e incidente, ben al di là di un semplice alterco accademico: così che, a nostro avviso, esso diviene uno dei punti nodali per la comprensione della stessa storia spirituale del mondo cristiano fino a tutto il sec. XVII compreso.

È in gioco, infatti, sotto un'angolatura particolare, il problema della natura della fede, o di quel "sapere" proprio, assolutamente tipico e complesso, che è il "sapere" della fede.

Sapere non certamente riducibile ad una "inquisitio", e proprio per questo aperto alla domanda se ed in che misura vi sia spazio per una ricerca, per una domanda critica, per la "ratio", insomma, all'interno di esso.

La storia del progressivo impoverimento-inaridimento della teologia propriamente detta attraverso il nominalismo prima e l'illuminismo poi; e la storia del progressivo "psicologizzarsi" di quella che, senza impegno, possiamo qui chiamare una mentalità e una letteratura "spirituale" ( al di qua di grandi fenomeni di rottura con l'ortodossia cattolica quali i movimenti di "libertà" dei sec. XIII-XIV, la riforma, il giansenismo ), è stata frequentemente descritta e interpretata.

Meno invece ( a nostro avviso ) viene sottolineato, in tutta questa vicenda, che, movendo effettivamente nel senso di una "inquisitio" variamente sradicata dall'esplicito riferimento alla rivelazione biblica, la "teologia" delimita in concreto il proprio ambito all'oggettività cristiana, cioè alla fede ( ed a ciò che vi si connette sul piano operativo, giuridico ecc. ) nel suo versante aggettivo, non prestando invece attenzione alla medesima realtà della fede anche precisamente in quanto essa vive e si appropria l'insieme dei valori cristiani.

Ciò non è sempre vero nel caso di tutti i singoli teologi; come, del resto, non sarebbe vero in assoluto per tutti e singoli i cosiddetti autori spirituali, tra i quali certo non mancano coloro che hanno cercato un raccordo tra il vissuto, lo sperimentato, e la "teologia scolastica" ( si pensi a Ruusbroec o a Giovanni della Croce ).

Ma ciò, nondimeno, rimane vero a livello tendenziale: e si fa particolarmente evidente quando, dal clima controversistico, la teologia emerge come "dogmatica"; e - sotto una spinta culturale effettivamente razionalistica e illuministica - ritiene consapevolmente compito estraneo a sé quello di occuparsi della esperienza o della fede in quanto vissuta, a meno di operare la riduzione "ai principi", cioè appunto al dato dogmatico.

A questo punto la separazione o il "divorzio" tra teologia e spiritualità si rivela paurosamente consacrato: ma non perché la teologia si sia posta come intelligenza critica della fede e la cosiddetta spiritualità no; bensì perché la teologia ha indebitamente ristretto il campo della fede-da-comprendere al solo versante obiettivo, trascurando che l'intero della fede è invece l'obiettività cristiana vissuta.

Se dunque si deve dire che la contestazione monastica e dei suoi succedanei "spirituali" alla teologia critica è ingiustificata perché incomprensiva della sua legittimità e del suo valore proprio, ultimamente radicato nella natura stessa della fede, bisogna però aggiungere che - dal nostro preciso punto di vista - il torto della teologia si è rivelato storicamente essere quello di non aver assunto integralmente il dato da comprendere.

Sicché, ciò che alla teologia scientifica ( sempre come si è venuta storicamente configurando ) si dovrebbe rimproverare non è tanto l'abbandono materiale della figura cosiddetta monastica del "sapere" della fede, quanto il non aver compreso che in sostanza quella figura intendeva forse anzitutto proporre o quantomeno tenere in unità l'oggetto da comprendere: almeno nella misura in cui il plesso "littera-analogia-tropologia" poteva essere finalizzato ed assunto nell'anagogia.

Ci sembra questo ( schematizzando, certo ) il quadro generale che, se non determina immediatamente, quanto meno fa da sfondo al sorgere dell'interesse teologico per una "teologia spirituale" negli ultimi anni del sec. XIX e nel primo cinquantennio del XX.

Crediamo che soltanto avendolo presente come situazione obiettiva, profonda, reale della teologia al di qua dell'esplicita presa di coscienza dimostrata dai teologi - e non come pura situazione settoriale e occasionale -, si può comprendere l'andamento della "curva" non solamente del manuale, ma della stessa proposta di una specifica teologia spirituale.

Ci sembra indubbio, infatti, che tale curva porti non nel senso di giustificare una "nuova teologia" o la presenza di un capitolo in più da aggiungere alla teologia dogmatico-morale, bensì nel senso di una visione sintetica dell'oggetto da comprendere e del metodo di comprensione di esso, visione e metodo che la teologia, come intelligenza critica della fede, è chiamata a ritrovare.

II - L'episodio recente della teologia spirituale

La descrizione sia del fatto che delle spinte storiche che lo hanno determinato è già stata compiuta.

La spinta fondamentale va senza dubbio individuata in quel fenomeno di vivacità interiore del mondo cattolico di fine '800 che viene denominato "movimento mistico", caratterizzato, da un lato, dall'esigenza di ritrovare i fondamenti, gli orizzonti dogmatici ( grazia santificante/inabitazione prima; corpo mistico/chiesa, sacramenti/liturgia poi ) alla vita "interiore" o "spirituale"; e, dall'altro, dall'attenzione all'esperienza contemplativo-mistica come figura concreta e test della perfezione cristiana da raggiungere e raggiunta.

Questo "movimento" - che meriterebbe certo di essere meglio conosciuto e studiato dagli storici della chiesa del sec. XIX -, se non è certamente nato dalla teologia, ha però senza alcun dubbio raccolto l'interesse dei teologi, e più sul piano della produzione monografico-divulgativa che non su quello della trattatistica formalmente accademica o istituzionale.

Sembra infatti sicuro che, senza questo apporto, il "movimento" non avrebbe assimilato ne quei determinati orizzonti teologici ne soprattutto la formulazione del problema della perfezione in termini di "contemplazione" o di "mistica".

Si sa anzi che, dal punto di vista contenutistico, proprio questo fu il terreno classico di discussione tra i diversi teologi e le diverse "scuole": con il risultato, certamente di rilievo, di far ricuperare da una parte il senso dell'unità teologale ( nella fede, nella speranza e nella carità ) del cammino spirituale o di perfezione; e dall'altra parte di far cogliere sì l'omogeneità possibile tra un'esperienza mistica cristiana e la vita teologale, ma senza con questo identificare nella presenza dell'esperienza mistica il test necessario o almeno di diritto normale della perfezione cristiana.

Accanto alla spinta dovuta al movimento mistico, con la spontanea convergenza ritrovata e vissuta tra esigenza-esperienza interiore e teologia, non si dovrà neppure trascurare la presenza e l'incidenza di una spinta propriamente istituzionale, rappresentata appunto dall'istituzione ( Pio XI, Cost. Deus scientiarum Dominus, 24-5-1931 ), nelle facoltà teologiche, di una cattedra apposita: che, con terminologia non tecnicamente adeguata rispetto alla riflessione critica in corso, doveva comprendere la trattazione dell'ascetica come "disciplina ausiliaria" e la trattazione della mistica tra le discipline "speciali".

Il modello si è rivelato subito di valore relativo e di portata contingente; restava invece l'aspetto sostanziale, cioè l'insegnamento istituzionalizzato di una "teologia" che doveva prendere a carico la realtà, i fermenti, le discussioni emergenti dal "movimento mistico".

Da ciò non poteva non venire incoraggiata la produzione didattica che evidentemente avrebbe assunto, nel contesto concreto dell'insegnamento teologico, la forma del manuale scolastico; ma nel contempo non poteva non venirne sollecitato il discorso propriamente metodologico: sia in se stesso ( qual è, quale deve essere il metodo proprio di questa "teologia"? ), sia per confronto con le altre discipline teologiche: immediatamente con la teologia morale.

III - I problemi ed i contenuti fondamentali del "nuovo" insegnamento e del nuovo manuale

a. Come già si è accennato, il primo e più dibattuto problema di tipo contenutistico è stato quello della "mistica": non solo e non tanto in se stessa, quanto nel suo riferimento all'itinerario interiore o spirituale, e quindi al problema della perfezione.

Tecnicamente questo discorso si poteva formulare e veniva effettivamente formulato anche in termini di rapporto tra "ascetica" e "mistica".

Rapporto di evoluzione normale o rapporto "spezzato", supponente un salto qualitativo?

E in quest'ultimo caso si deve ipotizzare non solo la straordinarietà della mistica, ma una certa eterogeneità tra il momento ascetico e il momento mistico?

Il ricupero, di cui si è detto, del senso dell'omogeneità non-necessaria dell'esperienza mistica con l'itinerario spirituale cristiano, essenzialmente esprimibile in termini teologali, rendeva problematico il costituirsi di due manuali distinti ( e prima, forse, di due cattedre distinte ), uno per l'ascetica e uno per la mistica.

D'altra parte la riunificazione puramente materiale non rispondeva allo stato reale della riflessione.

Si comprende così il favore dato alla proposta di un termine che non solo sembrava più tradizionalmente cristiano ( biblico ), ma apriva su una prospettiva più profonda e andava al di là dello "status quaetionis" storicamente e contingentemente determinato.

Il termine è appunto quello di Teologia Spirituale: ad indicare che "l'oggetto" è la vita del cristiano in quanto "vita spirituale", nella quale trovano collocazione e unificazione sia il discorso "ascetico", sia il discorso "mistico".

Naturalmente così facendo il discorso veniva chiarito soltanto all'interno: prima o poi, infatti, sarebbe divenuto inevitabile chiedersi in che cosa codesto discorso sulla "vita spirituale", come "vita secondo lo Spirito", che è positivamente aperta alla perfezione della carità, non coincidesse da un lato con il discorso dogmatico dell'antropologia teologica e dall'altro con quello morale, evidentemente di una morale della perfezione, del fine assolutamente cercato, della carità.

Che cosa poteva significare una "teologia" che, restando tale, studiasse la "vita" spirituale in progresso verso la perfezione?

Che cosa poteva essere l'oggetto proprio di questa "teologia", e quale poteva essere il suo metodo?

Si è aperto in tal modo il cammino critico: complessivamente stentato, anche se non privo di momenti significativi sotto il profilo teoretico.

b. La descrizione di questo cammino esige che in partenza vengano considerate le posizioni presenti ed operanti nel campo stesso degli studi relativi alla nuova disciplina.

Un accordo di fondo vi era nel ritenere che si trattasse di una disciplina di ordine pratico, direttivo: finalizzata cioè a dirigere la pratica del cammino spirituale.

Una dialettica invece esisteva tra l'orientamento domenicano ( rappresentato ed espresso dalla rivista La Vie Spirituelle, iniziata nel 1919 ) e l'orientamento di cui si era resa espressione l'altra importante rivista, iniziata nel 1920, la Revue d'Ascétique et de Mystique.

La prima posizione si caratterizzava per il suo forte orientamento speculative-deduttivo: la struttura formale dell'itinerario spirituale, nelle sue varie fasi, è teologicamente e a priori dedotta dai princìpi stessi della vita cristiana (grazia santificante, virtù infuse, doni dello Spirito santo, teologia dei rapporti tra queste entità soprannaturali; teologia del rapporto tra sviluppo della vita di fede e visione beatifica ).

Il riferimento alla storia ed all'esperienza è propriamente estraneo all'operazione teologica come tale: rappresenta una circostanza o un fenomeno dell'ontologia; può stimolare il teologo a non disattendere un aspetto della sua riflessione; gli serve per mediare la prospettiva teologica in una pedagogia e in una direzione adeguata, facendo maturare in lui il senso del discernimento nel concreto.

La seconda posizione era invece attenta a cogliere la realtà della vita spirituale cristiana come un fenomeno vissuto, storico, in se stesso indeducibile; e ad ipotizzare la sua comprensione come una interpretazione del dato, quasi per una convergenza di metodi, e quindi proponendo ( in maniera più empirica che rigorosa ) una sorta di metodo composito, dove cioè il metodo teologico si trovava abbinato al metodo delle scienze storico-empiriche, particolarmente alla psicologia.

c. Precisamente in quanto si voleva orientata a dirigere la prassi del cammino spirituale verso la perfezione, la "nuova" teologia si situava nella zona della teologia pratica, e quindi sul versante della morale.

Ma se era relativamente facile distinguersi da una morale di tipo casuistico e "de licitis et de illicitis", non poteva esserlo altrettanto nei confronti di una morale che andava ricuperando come proprio il discorso della perfezione.

Ebbe così un certo avallo, in un primo tempo, l'idea proposta da Vermeersch e accettata anche da De Guibert, di considerare il rapporto tra teologia morale e teologia spirituale nel senso di ritenere quest'ultima non tanto come una scienza, quanto come un' "arte" ( cioè al livello della tecnica, della didattica e simili ) della perfezione cristiana.

Il noto tentativo di L Maritain di ristrutturare il "sapere pratico", distinguendo un livello propriamente speculativo ( teoria della prassi ) e un livello praticamente pratico, in-cludente sia la casuistica dei moralisti ( s. Alfonso ), sia la casuistica degli autori spirituali ( s. Giovanni della Croce ) e perciò la teologia spirituale, si pone obiettivamente in connessione con questo genere di problematica.

Ma evidentemente si trattava di soluzioni in se stesse fragili e comunque insoddisfacenti per i cultori della "nuova" disciplina, i quali, se intendevano muoversi sul terreno pratico, non intendevano studiare le tecniche della vita cristiana e neppure intendevano occuparsene "casuisticamente".

d. L'occasione, di fatto non utilizzata, per uscire dalla sterilità dell'impostazione, avrebbe potuto essere fornita dall'intervento critico di A. Stolz: la sua Teologia della mistica infatti aveva in sé la forza di costringere gli studiosi di teologia spirituale a rigorizzare il loro discorso sia quanto al contenuto sia quanto al metodo, ponendo come termine di confronto non la teologia morale bensì l'antropologia teologica.

È possibile porre un discorso teologico sulla "vita spirituale" del cristiano altrimenti che come puro e semplice discorso di antropologia cristiana?

E in questo caso tale discorso lo si può svolgere, secondo corretta metodologia, senza renderlo totalmente obiettivo, cioè al di là o previamente ad ogni fenomenologismo e psicologismo?

Che senso può avere dunque la figura di un metodo teologico composito, cioè convergente con l'attenzione al fenomeno ed alla psicologia?

La risposta a Stolz praticamente è venuta solo da Gabriele di s. M. Maddalena, presso il quale però la difesa dell'empirico o del fenomenico spirituale ( lo psicologico, per esprimerci con terminologia vicina alla sua ), come oggetto a cui legittimamente il teologo presta attenzione, è tutt'altro che priva di ambiguità.

Si tratta infatti di una specie di "psicologico-tipo", deducibile o dedotto dalla vita di grazia, in forza delle leggi stesse della sua evoluzione.

Il discorso andava invece portato coraggiosamente fino a mostrare l'unilateralità della posizione di Stolz, e a chiedersi se ed a quali condizioni la teologia potesse mettersi in grado di comprendere il vissuto cristiano come emerge dalla storia: con quali criteri lo individua, lo discerne, lo valuta come un dato solo "a posteriori", e perché lo deve individuare, discernere e valutare come proprio oggetto.

Non sarebbe precisamente la struttura particolare di questo vissuto ad esigere che la teologia si diriga ad esso per "comprenderlo"?

e. Ci sembra che appunto in questa direzione si siano orientati ed abbiano voluto orientare la riflessione teologica J. Mouroux e H. U. von Balthasar.

Il primo - noto autore dell'opera L'expérience chrétienne - ha certamente il duplice merito di aver cercato di definire l'esperienza cristiana come un particolare "esperienziale" religioso avente una propria tipologia, e di aver dimostrato la legittimità teologica di una teologia dell'esperienza cristiana.

Il secondo, comprendendo la santità come "teologia vissuta" ( cioè la totalità concreta del mistero, che è la singolarità assoluta di Gesù, espressa nel "fenomeno" della santità realizzata nella chiesa ), propone vigorosamente un progetto di "fenomenologia teologica" che ritrovi l'intero o l'universale ( di cui si è detto ) nel "fenomeno" concreto dei santi: parta dunque da esso, e lo legga in esso.

Sono due progetti che la manualistica ufficiale di teologia spirituale non ha raccolto, anche perché, a partire dagli anni 50, si va accentuando un declino di interesse per i problemi metodologici della teologia spirituale.

Ma la domanda che Mouroux e v. Balthasar ponevano era in realtà diretta alla teologia come tale: in una maniera per sé più parziale da parte di Mouroux ( la teologia, legittimamente e doverosamente, può e deve interessarsi anche dell'esperienza cristiana ); in maniera più energica e radicale da parte di v. Balthasar ( se la teologia deve concepirsi come una sorta di "fenomenologia teologica", il fenomeno della santità è suo "luogo", e suo oggetto ).

Si operava così obiettivamente la risposta a Stolz; ma si riproponeva alla teologia come tale una domanda critica molto importante e profonda, per quanto tutt'ora insufficientemente accolta.

Era la teologia, quale Stolz e i teologi ( particolarmente i dogmatici ) la intendevano, che veniva problematizzata.

Ma nel contempo diveniva inevitabile chiedersi se la "teologia spirituale" potesse ancora avere una funzione.

In ogni caso non avrebbe potuto essere quella che avevano tentato di assegnarle i manualisti.

IV - Conclusione: la "teologia spirituale" come problema della teologia

Se la lettura che abbiamo proposto della vicenda del manuale di teologia spirituale è corretta, si vede bene come essa ci conduca nella direzione che abbiamo già visto emergere dalla storia della teologia.

Certamente, dunque, la teologia spirituale si ripropone come un compito della teologia: quello di non rinchiudersi arbitrariamente nell'ambito che abbiamo denominato dell'oggettività cristiana, ma di restare aperta anche alla comprensione del "vissuto", cioè dell'oggettività "appropriata", o dell'appropriazione di questa oggettività.

Ciò per la struttura stessa della fede di cui la teologia cerca l'intelligenza, struttura dalla quale è ineliminabile la tensione o la correlatività tra una "fides quae" ed una "fides qua"; così che da un lato il "dato" cristiano è per la sua personale appropriazione cristiana, mentre dall'altro lato l'appropriazione non è emergenza comunque di una interiorità religiosa, ma è appunto appropriazione di quel dato.

Se si dà come legittimo un "comprendere secondo la fede" il fatto cristiano, e perciò si dà come legittima la teologia, tale "comprendere" dovrà includere tutto il dato, quindi anche le due dimensioni ricordate, e nella loro tensione reciproca.

Ma nell'atto stesso in cui si prenderà coscienza e si svolgerà codesto compito sorgerà inevitabile la questione da noi formulata: se, cioè, non ci troviamo qui in presenza dell'oggetto reale sintetico della teologia, e se pertanto, svolgendo ciò che si chiama "teologia spirituale", di fatto non si ponga in essere la sintesi finale dell'intera operazione teologica.

V - Nell'ambito della teologia spirituale: i gradi o le vie; gli stati di vita; le "spiritualità"

Il discorso fin qui svolto ha volutamente privilegiato la linea metodologica rispetto alla linea contenutistica o a ciò che, dopo L Heerinckx ( Introducilo in Theologiam Spiritualem, Taurini-Romae 1931 ) si è chiamato anche "teologia spirituale speciale".

Effettivamente un manuale di teologia spirituale non esauriva la sua proposta entro l'ambito delle dimensioni di metodo: svolgeva invece la presentazione del cammino verso la perfezione utilizzando lo schema, di derivazione dionisiana, delle tre "vie" o dei tre "gradi" ( purificazione-illuminazione-unione ); ed eventualmente si apriva al discorso sul rapporto tra alcuni "stati di vita" e la perfezione cristiana.

In ogni caso quest'ultimo genere di tematica è venuto via via acquisendo una propria enfasi ed autonomia più o meno recepita dai manuali e certamente documentabile a livello della letteratura.

La stessa cosa riterremmo di affermare anche in riferimento alla problematica delle "spiritualità".

Riteniamo così giustificato dedicare ai tre capitoli appena richiamati un cenno espositivo rapido: più per cercare di coglierne il senso ed inquadrarne criticamente la portata che per esaurirne la presentazione.

1. I "gradi" o le "vie"

La panoramica più semplice da presentare è quella offerta dal capitolo sui "gradi" o sulle "vie" dell' itinerario alla perfezione.

Le acquisizioni via via raggiunte ci sembrano - in proposito - due: l'importanza che, con o senza un determinato schema architettonico od organizzativo, si mantenga il senso di una progressività della vita cristiana; il valore sostanzialmente orientativo degli schemi classici di interpretazione del cammino spirituale.

Ora, a proposito della progressività dell' ( v. ) itinerario spirituale cristiano, va senza dubbio detto che se l'affermazione, nei suoi termini generalissimi o di principio, appartiene all'antropologia teologica ( basterebbe anche solo richiamarsi alla dottrina cattolica del merito ), non si potrà dire immediatamente altrettanto qualora si intenda farne un problema di descrizione.

Tale problema infatti non potrebbe essere risolto senza far ritrovare gli stessi interrogativi emersi nella polemica Stolz-Gabriele.

È dunque teologicamente individuabile uno schema-tipo di descrizione dell'evolversi della vita spirituale nel senso della maturità?

E più in generale: si possono individuare dei criteri teologicamente validi per la descrizione della maturazione e quindi del progresso della vita spirituale?

Non a questo livello, tuttavia, è prevalentemente giunta la riflessione critica: nel complesso, essa si è fermata a mettere in rilievo l'opinabilità dei due schemi classici delle "vie" e dei "gradi" e la difficoltà di organizzare in maniera sistematica generale il procedere dell'itinerario spirituale.

Lo schema delle "tre vie" si è infatti facilmente rivelato come il più compromesso e quindi - nonostante la sua venerabilità - come il più discutibile in quanto suppone una matrice antropologica ( antropologia-della-contemplazione, di stampo neo-platonico ed origenistico ) che non è precisamente quella dell'alleanza.

Inoltre esso pregiudica la soluzione del problema mistico nel senso della sua normalità o della sua equivalenza con la perfezione cristiana.

Infine questo schema può indurre a confinare la purificazione, la conversione, il distacco dal peccato, ecc. al solo momento iniziale della vita cristiana: senza considerarle, invece, come sua dimensione.

Se, dunque, da un lato non si intende rinunciare alla descrivibilità del cammino verso la perfezione, e dall'altro si vogliono superare gli schemi tradizionali di descrizione, bisognerebbe procedere per altre direzioni, individuando altri criteri.

Ma per questo esistono solo, finora, degli abbozzi fugaci.

2. Gli "stati di vita"

Passando ora al capitolo sugli "stati di vita", il nostro tentativo di delineare il movimento della riflessione sarà necessariamente schematico e perciò anche artificiale: in proporzione alla vastità stessa che il discorso è venuto assumendo fino al Vat II e nel post-concilio.

Un primo fatto da recensire e da descrivere, per quanto apparentemente esteriore, sarebbe senza dubbio il progressivo ampliamento del numero degli "stati di vita" via via messi in rapporto con la perfezione: dalla riscoperta dell'episcopato ( o dello stato "sacerdotale" ) come stato di perfezione accanto o superiore allo stato religioso ( v. le discussioni sulla "spiritualità"; del clero diocesano [ v. Ministero pastorale ] ), alla sempre più convinta messa in evidenza dello stato laicale [ v. Laico ] come via di perfezione ( per questo si pensi, in partenza, all'apporto, a nostro avviso non del tutto univoco, del magistero pastorale di Pio XI ) e - infine - all'affermazione senza più riserve del rapporto positivo tra matrimonio e perfezione cristiana [ v. Famiglia ].

L'intenzione di questo discorso era evidentemente di tradurre, a suo modo, la coscienza sempre più diffusa della universale vocazione atta percezione è [ v. Santo ].

Ma proprio questa sua spinta interna doveva operare nel senso dell'allargamento del discorso sugli "stati" fino a tentare di includervi le diverse situazioni dell'esistenza ( lavoro, professione [ v. Lavoratore ], malattia [ v. Sofferente/Malato ], ecc. ), per rapportarle egualmente alla perfezione cristiana.

Di qui, per riflesso, l'istanza di precisare che cosa fosse uno "stato", onde ritrovarne anzitutto, anche se con mentalità - forse - più settoriale che globale, la portata ecclesiologica.

Ma, evidentemente, non era questo l'unico problema che il discorso sugli "stati" di vita poneva alla teologia.

Rapportando, entro un quadro ecclesiologico, i diversi stati alla perfezione cristiana, diveniva ancor più urgente porsi il problema del significato dell'affermazione di stati tipici di perfezione; e in particolare riflettere sul significato della "definizione" tridentina circa la "più grande perfezione" dello stato di verginità o di celibato [ v. Celibato e verginità ], nei confronti dello stato coniugale.

Inoltre, un fatto come l'approvazione degli ( v. ) Istituti Secolari ( 1947-1948 ), doveva necessariamente portare ad interrogarsi sull'adeguatezza della distinzione giuridico-teologica degli stati ecclesiali ( chierici-laici; religiosi ).

Non si doveva piuttosto rivedere lo schema, o ricercare un nuovo schema interpretativo e, prima ancora, un nuovo criterio di organizzazione?

Che precisamente anche interrogativi di questo genere fossero presenti al Vat II è fuori dubbio, anche se dal dettato conciliare non scaturisce immediatamente alcuna visione sistematica alternativa ne alcuna soluzione perentoria, bensì solo un complesso di criteri ecclesiologici per il ripensamento dei diversi problemi.

Non bisognerà però dimenticare che la teologia degli stati di vita, nella complessità del suo movimento, rappresenta solo la premessa al discorso che la teologia spirituale "speciale" intendeva dedicarvi.

Qui il problema diventava quello della "spiritualità" degli stati di vita: cioè quello di individuare il tipico rapporto dei diversi stati con la perfezione cristiana, per orientare - secondo vie proprie - al suo conseguimento.

Ma l'impresa, certo coerente con una visione "speculativa" e direttiva della teologia spirituale, non doveva apparire più altrettanto valida e giustificata, qualora si mutasse o si ponesse in crisi quella prospettiva di fondo.

In ogni caso, ci sembra fuori dubbio che l'immensa letteratura sulla "spiritualità degli stati" abbia conosciuto e vada tuttora conoscendo una crisi: meno immediatamente dovuta, a nostro avviso, alla percezione di eventuale incoerenza metodologica col discorso generale di teologia spirituale ( tipo di esigenza che attorno agli anni 50 perde indubbiamente di vivacità ), e più, invece, alle insufficienze obiettive di quella stessa letteratura, che una sensibilità diffusa ( e non sempre indiscutibile ) rendeva e rende tuttora relativamente facile cogliere.

Ridurremmo schematicamente a quattro titoli maggiori tali suddette insufficienze.

a. Anzitutto il già richiamato "settorialismo" di fondo, che impedisce di cogliere la differenza tra gli "stati" come una differenza nell'unità e dell'unità, cioè impedisce di valorizzare, o non orienta a valorizzare, la dimensione cristiana che si esprime in ogni "stato di vita" ed è quanto di fondamentale e di comune i diversi stati hanno ed esprimono, pur nella rispettiva specificità.

b. Un secondo limite della letteratura sulla spiritualità degli stati di vita ci sembra di ritrovare nella concezione più emotiva che rigorosa della "spiritualità": vale a dire che spesso il discorso si muove in una prospettiva in cui "spiritualità" evoca qualcosa di "profondo", di "più intenso", di "interiore", di "generoso" o di "più generoso", ecc., senza assumere neppure i contenuti abbastanza definiti che la stessa manualistica aveva ritrovato al termine.

c. Altro limite potrebbe qualificarsi come "essenzialismo" o, forse meglio, come "astoricità" di discorso.

Intendiamo dire che yolendo dedurre o comunque far discendere delle indicazioni di perfezione cristiana dallo stato di vita, facilmente questa letteratura trascura il riferimento alle diverse "figurazioni" storiche che questi "stati" assumono, in solidarietà con il diversificarsi stesso delle "figurazioni" storiche della società ecclesiale.

Esistono diverse figure o immagini del laico, del coniugato, del religioso, del presbitero, del vescovo: più o meno omogenee con la natura cristiana di ognuno di questi "stati".

Non si può essenzializzare la "figura" e su questa essenzializzazione costruire un progetto valido di spiritualità o di perfezione per questi laici, per questi preti, per questi coniugi, ecc.

Se si "essenzializza", occorre farlo rigorosamente: ma proprio per questo non si deve essenzializzare alcuna "figura" storica.

In tal caso comunque si farebbe al più un abbozzo di "spiritualità del laicato", o del sacerdozio, o della vita religiosa, ma non propriamente una spiritualità dei laici, dei sacerdoti, dei religiosi, ecc. in un determinato momento storico.

d. Da ultimo, richiameremo il rimprovero di "teoricità" fatto alle diverse proposte di "spiritualità degli stati": vale a dire di essere delle costruzioni "a tavolino", che indicano dal di fuori - quasi a modo di esercitazione teorica - degli itinerari di santità, ma non interpretano propriamente delle esperienze, delle sintesi cristiane effettivamente vissute.

Anche questa critica colpisce, per un aspetto, nel vero: e ripropone, come tale, la discussione sul carattere direttivo a priori della teologia spirituale.

L'obiezione sta o cade, dal punto di vista metodologico, se sta o cade quella concezione della teologia spirituale.

Ma considerata nel terreno storico concreto, in cui la letteratura sulla spiritualità degli stati di vita si è sviluppata, la critica in questione sembra peccare di unilateralità, in quanto non si può negare che in realtà sia esistito un movimento laicale, o coniugale, o sacerdotale di ricerca di "spiritualità" a cui quella letteratura non si sostituisce, ma a cui intende - certo con dei limiti, quali stiamo sottolineando - dare una risposta.

La lettura della realtà storica farebbe insomma individuare piuttosto una dialettica tra la ricerca al livello vissuto e la ricerca al livello di letteratura; e in tal senso andrebbe ridimensionato il rimprovero di teoricità o di apriorismo speculativo.

3. La teologia spirituale e le "spiritualità"

La riflessione circa la "spiritualità" degli stati di vita non è l'unico aspetto del complesso e interessante discorso sulle "spiritualità" cristiane.

Accanto ad esso ne esistono due altri: non meno vivaci sotto il profilo delle discussioni suscitate.

Il primo riguarda le "spiritualità" come in genere vengono fatte emergere dalla storia della spiritualità: particolari maniere di sintetizzare vitalmente i valori cristiani, secondo diversità di punti prospettici o di catalizzazione: e ciò a livello di singole personalità o - più facilmente - a livello di movimenti o correnti spirituali ( che possono partire da questa personalità, ma possono anche precederle ed esprimerle come "interpreti", o "discernitrici" o "promotrici" di sintesi ).

Si tratta, abbiamo detto, di sintesi vissute; non dunque, immediatamente e per sé, di sintesi di carattere dottrinale, anche se date "spiritualità" possono promuovere, a loro modo, non solo dei tentativi di elaborazione teorica delle spiritualità come tali ( = dottrine spirituali ), ma addirittura dei tipi di teologia coerenti con queste stesse spiritualità.

Neppure si tratta immediatamente o necessariamente di particolari progetti istituzionali, anche se le sintesi vissute di cui discorriamo li possono animare o addirittura generare come un modo connaturale di espressione: così nascono nuove forme di vita cristiana omogenee con la "spiritualità" che le crea, o vengono assunte e nuovamente animate forme ( o elementi strutturali ) già esistenti.

Di fronte a questo fatto, certo non semplice ma indiscutibile, l'attenzione in teologia spirituale è stata attirata soprattutto su problemi quali: la legittimità di principio di diverse "spiritualità"; il significato della loro varietà; i criteri di autenticità e quindi di discernimento; il loro rapporto con l'unica spiritualità cristiana.

Su questi problemi non insisteremo: ci basterà rinviare, per un'introduzione, alle pagine che a tutte queste questioni ha dedicato J. De Guibert, Lecons de Théologie Spirituelle, Tolosa, 1955, 108-122.

In generale rileveremo che lo sfondo di tutta questa ricerca è stato dato, almeno in partenza, da una tendenza a catalogare le diverse "spiritualità" secondo categorie storiografiche semplificatrici e sbrigative ( cristocentrismo-teocentrismo ; ascetismo-misticismo; spiritualità eucaristica, mairiana, ecc. ), talvolta contrapponendole in maniera esclusivistica o polemica.

Il superamento dell'impostazione ha portato - crediamo - a rilevare che gli elementi caratterizzanti le diverse "spiritualità" sono anzitutto elementi strutturanti ogni esperienza cristiana come tale, pur non assumendo nelle diverse "strutture" concrete il medesimo significato catalizzatore o sintetico.

Così la scoperta e la valorizzazione delle distinzioni doveva condurre verso una visione più completa di ciò che costituisce la spiritualità cristiana, giustamente criticando delle visioni troppo ristrette, come quelle esclusivamente legate alla "grazia santificante" o all' "inabitazione trinitaria" emerse dal cosiddetto "movimento mistico".

La stessa interpretazione fondamentale daremmo per un altro capitolo del discorso sulle spiritualità: quello che, in una maniera indubbiamente più dottrinale e direttiva, risponde nella storia recente a ben precise spinte critiche nei confronti di certi modi di proporre la spiritualità cristiana.

Si pensi alla "spiritualità liturgica" o a quella "biblica", o a quella dell'umanesimo cristiano, o della tensione incarnazionismo-escatologismo, ecc.

Non c'è bisogno di richiamare che ognuno di questi modelli di spiritualità ha conosciuto la tentazione di presentarsi come alternativa totale alla spiritualità vigente, e quindi come la spiritualità cristiana senz'altro.

Ma la decantazione che la storia è andata operando nei loro confronti ha fatto via via ricuperare che quelle che essi prospettavano come delle totalità alternative non potevano essere altro che dimensioni della spiritualità cristiana: dimensioni che non apparivano sufficientemente integrate in una determinata configurazione storica della spiritualità, ma che non erano per questo escluse da un discorso adeguato su di essa.

Qui, come nel caso precedente, il discorso primario non era dunque settoriale, ma globale: bisognava domandarsi a quali condizioni una "spiritualità" è cristiana e a quali condizioni tutte le dimensioni che la costituiscono possono - sia pure secondo moduli sintetici diversi - essere adeguatamente e non solo frammentariamente assimilate.

Il problema allora non è tanto quello di una "spiritualità liturgica" contrapposta o contrapponibile ad una "non-liturgica", ecc.

È piuttosto quello di come la celebrazione liturgica può "informare" di sé un'esperienza cristiana, e del perché ciò non avviene, in certi momenti, se non in maniera frammentaria, o solo sul modulo del dovere e dell'ortodossia.

Così si dica per la "spiritualità biblica", e altrettanto, in generale, per il problema periodicamente agitato nella storia della teologia spirituale, della "spiritualità nuova", o "moderna", o "attuale", ecc.

Bisogna riconoscere, infatti, che questo genere di discorso è spesso fatto in maniera superficiale e acritica: più a partire dalle esigenze immediate che non dalla prospettiva globale di che cosa o di come si strutturi o quale tipologia presenti l'esperienza cristiana in quanto tale.

Suo oggetto Teologia I
Conoscenza sperimentale di Dio Storia III,3
Come contemplazione Oriente V
Portavoce del mistero Modelli I
Monastico-mistica Escatologia I
Politica Apostolato III
  Politica I,1
Contemporanea e povertà Povero V,2
Protestante Protestantesimo V

… spirituale

  Spiritualità
  Storia
… di fronte alla crisi odierna Crisi IV
Nei segni dei tempi Segni V,3