Letteratura

… e cristianesimo

Riflettendo sulla natura dell'attività letteraria, della poesia e del dramma in particolare, il filosofo greco Platone ( 427-347 a.C. ) per primo la definì come "mimesi", come imitazione della realtà ( della natura, dei sentimenti e dei comportamenti dell'uomo ), rappresentazione che illude, poiché sostituisce il reale, al fine di meglio rilevarne, esaltarne, deprecarne i vari aspetti, e indurre così l'ascoltatore/lettore all'adesione o al rifiuto.

Perciò sotto il profilo morale l'attività artistica in genere gli appariva pericolosa, perché poteva indurre tanto al bene quanto al male, e forse più spesso al male che al bene.

Di qui la condanna pronunciata nei suoi confronti nel libro III e, in modo ancora più deciso, nel libro X della Repubblica.

Nell'educazione del cittadino, e specialmente dei capi, le opere letterarie dovevano essere per lo più bandite, a meno che non mettessero la loro forza di suggestione al servizio della virtù.

Suggestione, infatti, può significare seduzione, come già nell'Odissea si raccontava che fosse il canto delle sirene per Ulisse: di qui - sono ancora parole di Platone ( Repubblica 607b ) - l' "antico contrasto tra filosofia e poesia", riflesso del conflitto tra la parte fantastico-emotiva e la parte razionale, eticamente consapevole, dell'uomo.

Un lungo conflitto

Tale ineliminabile conflitto non poteva non riesplodere in tutta la sua acutezza con l'affermarsi del cristianesimo ( e tornerà a risvegliarsi in coincidenza con il breve trionfo delle ideologie totalitarie contemporanee, esigenti, come nuove religioni, un'arte obbediente a una ben definita scala di valori ).

In particolare, una letteratura aristocratica, intrisa spesso di orgogliosa autosufficienza e autocontemplazione, di edonismo e di sensualità, nonché di mitologia, qual era quella greco- latina, non poteva non provocare il rifiuto, o quanto meno la forte diffidenza, dei lettori divenuti cristiani, e spesso proprio in misura dell'avvertita forza di seduzione che da essa scaturiva.

Ma quel meraviglioso caleidoscopio di pensieri, di sentimenti e di ideali che in essa si esprimeva, non era anche la rivelazione delle potenzialità inesauribili dello spirito umano, e il fascino struggente delle sue forme non era una creazione ammirevole?

Si assistette cosi per lungo tempo nel mondo cristiano, e in primo luogo tra i suoi grandi intellettuali ( Tertulliano, Agostino, Gerolamo ), a un tormentoso alternarsi di atteggiamenti di rottura - che non di rado tradiscono la paura nei confronti di un vecchio incantesimo - e di ripensamenti, di parziali aperture venate di nostalgia.

Un armistizio provvisorio

Col definitivo affermarsi della civiltà cristiana, il potere suggestivo dell'arte, della musica e della letteratura fu posto al servizio dell'illustrazione e della celebrazione dei contenuti di fede e del nuovo ideale di vita ( "I chiostri antichi sulle loro grandi mura/dispiegavano in affreschi la Santa Verità", osserverà ironicamente Baudelaire, nei Fiori del Male ).

Si inaugurò allora una letteratura propriamente religiosa, cristiana e, dopo il Mille, una letteratura che, pur riaccostandosi con rinnovato interesse e ammirazione ai modelli classici, rimase per molto tempo ancora permeata di ideali cristiani.

Il rinnovarsi di un tormento

Si potrebbe dire che nel mondo cristiano - ma non solo in esso - è accaduto alla letteratura un po' come alla passione d'amore: considerate l'una e l'altra come ambivalenti, capaci di innalzare l'uomo sopra se stesso e di condurlo fino alla presenza di Dio, ma anche, se pervertite, di abbassarlo fino al fango degli abissi infernali.

Basterà ricordare, per un verso, l'episodio rivelatore di Paolo e Francesca, nel canto V dell'Inferno dantesco e, per l'altro, il sofferto amore per l'arte di Petrarca e Boccaccio.

Proprio quest'ultimo, del resto, iniziò la serie dei grandi scrittori pentiti, che per un soprassalto di rigore religioso e morale finirono per rinnegare la loro stessa opera di artisti: così faranno Tasso, e in tempi a noi più vicini, Manzoni e Tolstoj.

Particolarmente significativo il caso degli ultimi due, in un'epoca in cui, ormai da più di un secolo, la riflessione filosofica aveva teorizzato l'autonomia dell'arte, della poesia, della letteratura, da ogni preoccupazione e finalità morale e religiosa, il regno del bello indipendente dal regno del vero e del bene.

Il Manzoni, nel discorso Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d'invenzione ( 1845 ), prese le distanze dal romanzo storico, proprio lui che aveva scritto I Promessi Sposi, ravvisando un maggior rispetto per la verità da parte della storia come scienza.

E già nel 1829 ( nel pieno della crisi succeduta alla composizione del romanzo, in una lettera al conte
Guicciardini ) si era dichiarato propenso all' "anarchia, per non dire alla distruzione dell'arte medesima".

Tolstoj, in una delle sue accensioni etico-mistiche, arrivò a scrivere nella Confessione del 1892: "L'arte, la poesia? Per molto tempo, sotto l'influsso del successo, della lode della gente, io m'ero persuaso che questa era l'attività che dovevo svolgere, senza considerare che poi sopraggiunge la morte che annienta tutto: le mie opere e il ricordo di esse.

Ma ormai m'ero accorto che anche l'arte è un inganno.

M'era chiaro che l'arte è un abbellimento della vita, un allettamento a vivere…

Ogni aspetto della vita, riflettendosi nella poesia e nelle arti, mi aveva procurato gioia.

Mi rallegrava osservare la vita nello specchio dell'arte; ma quando cominciai a ricercare il senso della
vita, questo specchio divenne inutile, superfluo e grottesco, o addirittura tormentoso".

Il valore umano della creazione letteraria

Dunque ancora una volta l'arte come specchio, come mimesi, quindi come illusione e possibile inganno; in nome della serietà del vivere e dell'istanza morale ritorna la riserva di Platone, che pure già confessava, da quel grande artista che era, di subire egli stesso il suo fascino ( Repubblica 60 Xc ).

Ma lo specchio, in quanto fa conoscere l'uomo a se stesso, con la sua grandezza e miseria, come direbbe Pascal, in quanto tiene vivo in lui, per opera dei grandi artisti, il senso dello stupore, come della propria segreta indigenza, può anche risvegliarlo al mistero, accompagnarlo alle soglie dell'infinito e della trascendenza, e diventare perciò stesso uno di quei segni che i medievali chiamavano "preamboli della fede".

Anche l'arte di un Leopardi o di un Baudelaire, che nella sua disperata negazione grida con singolare intensità l'umano bisogno di luce e di salvezza.

La posizione del cristiano di fronte al complesso problema del rapporto tra letteratura e cristianesimo sembra pertanto non doversi discostare troppo da quello del mitico Ulisse di fronte al canto delle sirene…: chiedere a Dio di non lasciarlo separare da lui, ma ascoltare comunque.

Ascoltare perché ciò che è bello ha un valore di per sé e rimanda implicitamente al mistero dell'essere; ascoltare per non lasciar impoverire se stesso e il proprio modo di guardare al mondo, come potrebbe accadere a chi cercasse di restringere la vita a misura delle proprie paure.

La ricerca di Dio nella letteratura

Diceva Alberto Moravia che, per quanto disperato e pessimista fosse il contenuto di un romanzo o di una poesia, il fatto di essere scritto implicava un atteggiamento ottimistico.

La letteratura dunque, come l'arte in generale, sarebbe il segno di una fiducia, un'apertura originaria nei confronti dell'essere, con cui si accetta di dialogare, in termini aspri e desolati a volte, ma senza stancarsi di interrogarlo: "Perché per scrivere un verso/quanto credito, in ogni modo,/devi dare alla vita e quanto più forte/è la vertigine della crollata di spalle" ( Pier Massimo Forni, Stemmi).

Per questo si può dire che l'intero universo letterario si inscriva, da sempre e non solo per motivi storici, nel gesto religioso, come espressione di una pietas che ha cura delle cose del mondo, facendosi memoria fragile e incompleta di tutte le cose del mondo, piccole e grandi, reali e possibili.

Così, e solo così, è possibile parlare di ricerca di Dio nella letteratura, senza inutili e assurde esclusioni, o l'onere di altrettanto assurde giustificazioni ( anche in letteratura esistono i sepolcri imbiancati, i professionisti dell'impegno, gli scrittori di cose religiose per contratto ).

Letteratura come cifra

Per tutto quello che abbiamo detto, ricerca di Dio non può significare ( non necessariamente almeno ) il cammino cosciente, la riflessione sistematica in merito al problema teologico e ai suoi riflessi esistenziali.

Anche là dove più forte sembra essere la consapevolezza dello scrittore, il suo destino lo induce ad accennare, rimanendo costantemente al di qua di ogni tentazione declamatoria, in uno spazio che possiamo anche ritenere ambiguo, nel senso in cui K. Jaspers definiva la "cifra": un segno della trascendenza che non s'impone ( come i segni della scienza o del potere ), ma che invita ciascuno a riconoscerlo, a entrare nella sua temibile confidenza.

Così Enea, smarrito sulla spiaggia africana, conversa a lungo con la madre, credendo di rivolgersi a una giovane donna, ma quando questa si allontana, dopo aver finito di parlare: Dixit et avertens rosea cervice refulsit ( Disse e voltandosi il collo lasciò tralucere roseo ).

Solo allora, all'improvviso bagliore di quel collo, Enea riconosce la divinità e in un attimo tardivo capisce di averla avuta accanto a sé e di averla persa.

L'esplicita immagine di Virgilio potrebbe essere l'emblema di come il discorso letterario sappia accostarsi al suo cuore segreto, come ne canti con discrezione la mancanza e la nostalgia.

Se ha senso parlare di una "via letteraria " a Dio, o addirittura della letteratura come "cifra" di Dio stesso, ciò potrebbe trovare conferma nelle parole che in un vecchio apologo ebraico il rabbino rivolge al giovane discepolo: "Quando avevo tredici anni, passi più difficili di questo mi erano chiari in un attimo, quando ne avevo diciotto ero considerato un grande nella Torà.

Ma mi convinsi che l'uomo non può arrivare alla perfezione con lo studio.

Compresi ciò che si racconta del nostro padre Abramo: come egli scrutasse sole, luna e stelle e non trovasse in alcun luogo Dio, e come nel non trovare gli si manifestasse la presenza di Dio.

Per tre mesi covai in me questo riconoscimento.

Poi scrutai tanto che giunsi alla verità del non trovare".

Finzione e solitudine

Se il discorso letterario si tiene all'infinita povertà dell'uomo, e proprio e solo nel rappresentarla ne evoca un superiore compimento, è comprensibile che l'uomo religioso possa diffidare di quello che ai suoi occhi appare come un sortilegio o una sfida: "Niente è più triste di un miserabile che non si commisera e piange la morte di Didone per l'amore di Enea, e non piange la sua propria morte per il disamore di tè, Dio " ( Agostino, Confessioni ).

Ma anche nell'animo laico lo stesso dubbio, la stessa incertezza: "Chi era Ecuba per lui o lui per Ecuba?" ( Shakespeare, Amleto ).

Eppure le lacrime versate per Didone e per Ecuba sono lacrime vere.

La complicità che il testo letterario chiede al lettore non è un trucco, un po' facile e volgare, piuttosto l'invito a guardare in modo diverso la realtà, cioè a guardarla davvero, con intensità e commozione, è un atto di umiltà dove, dimenticando se stessi, possiamo aprirci all'Altro.

Ha scritto Maurice Blanchot riguardo alla scrittura: "Scrivere è entrare nell'affermazione della solitudine, dove incombe la fascinazione.

È consegnarsi al rischio dell'assenza di tempo, dove regna l'eterno ricominciamento" ( Lo spazio letterario ).

La solitudine connaturata alla letteratura, la distanza da ogni altra cosa di cui la pagina ha bisogno come del suo paesaggio naturale, sono prossime alle condizioni della preghiera, condividono con essa
l'assoluta indifferenza per quanto preme, minaccioso e disordinato, alle soglie dell'interiorità.

In questo senso la vera differenza non e tra chi legge un romanzo sentimentale di Barbara Cartiand o Guerra e pace di Tolstoj, ma tra chi legge e chi non legge, tra chi sa ricreare in sé il molteplice di una realtà diversa dalla propria, e chi rimane chiuso nella propria individualità.

Chi legge, come chi prega, ha bisogno della solitudine, ma non è solo. Da qui il carattere quasi sacrale e fisico del rapporto tra uomini e libri, la meraviglia, riprodotta con grande sottigliezza, con cui Rilke ha descritto la condizione ideale di una biblioteca: "Io siedo qui e leggo un poeta.

Ci sono molte persone nella sala, ma uno non se ne accorge.

Sono nei libri. Talvolta si muovono nei fogli, come uomini che dormono e si rigirano tra un sogno e l'altro.

Oh, ma come si sta bene fra uomini che leggono! Perché non sono sempre così?" ( I quaderni di Malte Laurids Brigge ).

Verbo e parola

La letteratura, dunque, come luogo privilegiato, come segno di un'epifania in cui l'Altro indossa maschere mutevoli, sempre sul punto di ritrarsi a ogni pretesa di fissarne i tratti definitivi.

Ma tra letteratura e ricerca di Dio non vi sono soltanto legami, per così dire, metaforici ( e la metafora, con il suo dire che una cosa è un'altra, è un forte strumento teologico ).

Scrittura e Verbo stanno al centro della religiosità ebraico-cristiana, sia dal punto di vista concettuale che da quello storico.

Ed è anche troppo evidente come tra testi sacri e testi profani vi sia una profonda corrispondenza, quasi una fratellanza invincibile e una complicità.

Se ne può fare un esempio curioso.

In uno dei suoi racconti più famosi lo scrittore argentino Jorge Luis Borges immagina una sterminata biblioteca ( il titolo del racconto, significativamente, è La biblioteca di Babele ) che satura di sé l'intero universo, o che forse è l'universo stesso.

Tema fantastico, paradossale, che può essere variamente interpretato ma che allude, in qualche misura, alla pretesa ( o alla vocazione ) da parte del cosmo letterario di riprodurre la proliferante virtualità della storia.

Forse non ci aspetteremmo, o non ricordiamo, che gli ultimi versetti ( Gv 21,24-25 ) del Vangelo di Giovanni si spingono ben oltre la fantastica intuizione di Borges, perché in essi addirittura l'intero universo sembra insufficiente a contenere un'unica, esorbitante biografia: "Questo è il discepolo che rende testimonianza di questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovranno scrivere".

Le maschere del divino

Certo, le stagioni della letteratura, nella loro variegata complessità e nel loro condividere la sorte del proprio tempo, si sono più o meno accostate ai contenuti religiosi, o meglio li hanno rappresentati informe diverse.

Non sembra possibile fissare una scala di valori, una gradazione nell'intensità dell'invocazione letteraria.

C'è la sapiente e sfarzosa retorica con cui s. Giovanni della Croce invoca Dio, ricca di immagini cortesi e reminiscenze bibliche: "O boschi e folte selve, /piantati dalla mano dell'Amato,/o prato che smaltato/sei di fiori e di verde,/svelami se qui egli è passato" ( Cantico spirituale ).

Ma chi potrebbe veramente dire che la scarna annotazione dei Diari di Franz Kafka, nella sua gelida volontà di essere un semplice regesto di cronaca, sia un grido meno intenso anche se quasi inarticolato ( come il celebre dipinto di Munch ): "Domenica, i 9 giugno 1910, dormito, destato, dormito, destato, vita miserabile"?

In fondo, solo la letteratura tra le forme del sapere laico tiene acceso in epoca moderna il senso del sacro nel riflettere le eterne preoccupazioni dell'uomo, ma come se, invece di nominare direttamente il cuore di queste preoccupazioni, esasperandole volesse far risuonare il vuoto che le circonda.

Il rimpianto di Holderlin per la scomparsa del divino costituisce l'orizzonte del moderno, all'interno del quale non solo le tracce, ma la memoria del divino stesso sembra definitivamente perduta: "Ma tardi, amico, giungiamo. Vivono certo gli Dei,/ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo./Operano senza fine e poco sembra si curino/se noi viviamo: così i celesti ci risparmiano. /Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli/e per breve tempo l'uomo sopporta la pienezza divina./La vita, dopo, è sogno di loro. Ma aiuta vagare./come un assopimento" ( Pane e vino ).

Il senso e il nulla

Eppure proprio l'assenza, il vuoto, l'insensatezza che stanno al centro di tante pagine della letteratura tra '800 e '900 disegnano gli orli estremi di un male che non ha più nome perché non viene più riconosciuto come tale.

L'eroe dei grandi poemi si è frantumato in una galleria di personaggi che sembrano muoversi a caso, sospinti dal vento della follia.

Il Raskolnikov di Dostoevskij come l'Antonio Roquentin di Sartre guardano alla propria vita da fuori, dando sempre più spesso forma a mascheroni impietriti da cui escono parole che non esprimono alcuna coerenza; anzi la parola, come nei deliri verbali di Becket e Bernhard, è diventata un labirinto inestricabile.

Come ha scritto in una pagina acuta M. Cacciari, riferendosi alla desolata narrativa yiddish ( la lingua delle comunità ebraiche dell'Europa orientale ), che, per definizione, dovrebbe parlare di Dio, ma assume al contrario tutta la forza simbolica della sua negazione: "Anche se questa fede non manca, nella letteratura yiddish il racconto si costruisce per negativo rispetto ad essa.

Il racconto è la narrazione della sua perdita e della sua assenza.

Ma anche l'estremo silenzio è il silenzio di questa fede; l'estremo deserto non è che il nulla della speranza che la fondava " ( Dallo Steinhof ).

Anche la metafora letteraria sembra appiattirsi in un gioco di rimandi che rimbalzano, che tornano inerti nelle mani del giocatore.

Fino a questo apologo ultimo di Eugène Ionesco: "Una guida conduce alcuni visitatori, turisti, nella sala del Trono o presso un monumento funerario bianco.

La guida: Signore, signori, signorine, scolari, bambini miei, dieci minuti fa viveva, qui, il nostro gran re Bérenger…

Cento anni fa viveva, qui, il nostro gran rè Bérenger… Mille anni fa viveva, qui, circondato dalla sua corte, il gran rè Bérenger…

Pare che ventimila anni fa gli uomini fossero già civilizzati e fossero governati da un re il cui nome, si dice, era Bérenger…

Signori e signore, la leggenda racconta che qui c'era un palazzo in cui viveva un re.

Sono stati fatti degli scavi. In realtà non c'è mai stato nessuno.

Questi luoghi sono sempre stati deserti" ( Briciole di diario ).

Ma come nella poesia di Brecht La scritta invincibile i secondini non riescono a cancellare la frase di protesta scritta dal prigioniero sulla parete della cella, fino a quando, per toglierla, si deve abbattere il muro, cosi, forse, anche la parola dei poeti, con il suo carico di mistero, per essere cancellata richiederà l'abbattimento dei muri dietro cui sono rinchiusi i sogni degli uomini.

… cristiana antica

Appartengono alla letteratura cristiana antica opere redatte in greco ( a partire dal I sec. d.C. ), in latino ( dalla fine del II sec. ) e poi in diverse lingue orientali, in parallelo al definirsi di singole identità nazionali ( copto, siriaco ecc. ).

La letteratura cristiana antica è mirata a una fruizione più ampia e differenziata di quella della letteratura classica, destinata a un pubblico alfabetizzato, elitario e colto.

Suo tratto unificante è nel dato di partenza, l'annuncio e la definizione di un contenuto religioso, il cristianesimo.

Si chiariscono così i termini cronologici entro cui ha senso parlare di letteratura cristiana antica.

Se la produzione letteraria cristiana antica trascorre senza alcuna soluzione di continuità al Medioevo latino e a quello bizantino, la letteratura cristiana antica termina nel momento in cui il cristianesimo giunge a prevalere nel contesto culturale.

La periodizzazione tradizionale prevede una bipartizione.

1) Dalla stesura del Nuovo Testamento al concilio di Nicea ( 325 d.C. ): la letteratura cristiana antica è impegnata prevalentemente su due versanti, il confronto con l'alterila - giudaica e pagana - e l'autodefinizione del cristianesimo; quest'ultima dal II sec. circa si sviluppa in rapporto a realtà religiose affini e concorrenti, genericamente definite eresie.

2) Dopo il concilio di Nicea, all'indomani della pax costantiniana: in un contesto sempre più cristianizzato, in cui risultano rovesciate le posizioni di forza col paganesimo, divengono centrali le preoccupazioni di ordine dogmatico e disciplinare, connesse a un apparato ecclesiastico sempre più strutturato.

L'esposizione perverrà qui alla prima parte del V sec., quando, con le figure di Agostino ( m. 430 ) e di Giovanni Crisostomo ( m. 407 ) la letteratura cristiana antica raggiunge il suo culmine, in termini contenutistici ed espressivi.

Il periodo anteriore al concilio di Nicea.

La letteratura cristiana antica, tra la fine del I sec. e la metà del II, risente dell'influsso diretto del Nuovo Testamento e più in generale della Bibbia nella traduzione dei Settanta ( v. ).

Tale fase è quella dei Padri apostolici ( v. ), autori della seconda generazione cristiana formatisi a diretto contatto con la predicazione apostolica.

I loro scritti sono stati ritenuti per qualche tempo ispirati.

Tali scritti hanno intenti pratico-pastorali, e si avvalgono di forme differenti, tra cui prevale ancora la forma epistolare ( Clemente di Roma, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne ).

È definito Lettera anche uno scritto giuntoci sotto il nome di Barnaba, il compagno di Paolo: opera composita, redatta in forma tutt'altro che brillante, riveste una certa importanza, perché mostra uno dei primi usi dei testimonia scritturistici, raccolte tematiche di passi dell'Antico Testamento.

La sezione morale ricalca uno schema giudaico comune con la Didaché o insegnamento ( dei dodici apostoli ), di origine e datazione discussa.

Più marcato dall'influsso letterario del giudaismo è il Pastore di Erma, che raccoglie visioni, comandamenti e allegorie.

All'epoca dei Padri apostolici risalgono le prime testimonianze dell'omiletica cristiana, la cosiddetta Seconda lettera di Clemente, un'omelia composta intorno al 150 e trasmessa dai manoscritti insieme all'epistola autentica, l'Omelia pasquale di Melitene vescovo di Sardi, scoperta in questo secolo grazie a un papiro, e quella Per la santa Pasqua dello Pseudo Ippolito.

La produzione martirologica e autografica

Destinata a conoscere nei secoli un successo straordinario è la produzione martirologica e agiografica.

Essa nasce dalle persecuzioni pubbliche dei cristiani; la forma in cui circolano i primi testi è ancora una volta epistolare: le comunità che hanno avuto martiri insigni offrono alle Chiese sorelle il resoconto del processo e dell'esecuzione; le prime stesure sono basate su di un nucleo che segue l'andamento processuale e descrive sinteticamente l'esecuzione ( Acta ), come nel caso di Giustino, dei Martiri scillitani e di Cipriano ( gli ultimi due sono in latino ); il resoconto giudiziario può venire ampliato in forma narrativa, come nel Martirio di Policarpo, nel Martirio dei cristiani di Lione e di Vienne, nel Martirio di Pionio ( in greco ), addirittura con l'inserzione di scritti del martire, rielaborati da un redattore, come nella Passione di Perpetua e di Felicita ( in latino ).

Col passare del tempo, la produzione martirologica e agiografica tende ad arricchirsi di elementi dottrinali, parenetici e miracolistici, che sovrastano l'autenticità storica, per rispondere a esigenze devozionali.

La letteratura apologetica

Il confronto con la cultura pagana viene intrapreso nel II sec. dalla letteratura apologetica ( apologià: discorso di difesa ) in lingua greca.

Gli apologisti cristiani sono convertiti colti, di buona formazione retorica e filosofica, che affrontano e ribattono le accuse di parte pagana, dalle più infamanti dicerie popolari alle contestazioni speculative, al tempo stesso cercando di formulare i contenuti del messaggio cristiano in maniera comprensibile al potere politico e all'establishment culturale.

Da un punto di vista contenutistico il più efficace risulta Giustino ( v. ), di buona formazione platonica, le cui soluzioni teologiche resteranno le più avanzate sino alla elaborazione alessandrina.

Dal punto di vista retorico, invece, le pagine migliori sono quelle dell'anonimo scritto A Diogneto e di Taziano, col suo Discorso ai greci.

La più antica apologia pervenutaci è quella di Aristide di Atene.

Della vasta produzione antiereticale della seconda metà del II sec. restano soltanto due nomi.

Ireneo di Lione ( v. ) scrisse in greco un'opera Contro le eresie che è sopravvissuta integralmente solo in traduzione latina.

A Ireneo viene generalmente associato Ippolito, dietro il cui nome si cela però un complesso problema critico; in forma sintetica si possono distinguere due gruppi di scritti, probabilmente di autori differenti: una serie di opere esegetiche e due trattati; uno scritto in dieci libri ( ma manca la sezione II-III ) a Confutazione di tutte le eresie, la cui attribuzione al medesimo autore del precedente gruppo è tutt'altro che scontata, e che potrebbe risalire al primo quarto del III sec.

L'eredità dell'apologetica è sviluppata ad Alessandria da Clemente e Origene, a partire da tre presupposti: l'interpretazione allegorica della Scrittura, l'opposizione tra sensibile e intelligibile, l'opera pedagogica di Dio culminata nell'Incarnazione.

Viene così assorbita all'interno del cristianesimo la tradizione filosofica e letteraria profana, utilizzata per la speculazione teologica e l'ascesi etica.

Nel Protrettico Clemente ( v. ) mostra una notevole conoscenza della letteratura greca e spiccate capacità retoriche.

Nei tre libri de Il pedagogo Clemente tratteggia un modello etico per i credenti.

Con l'opera più teologicamente impegnata di Clemente, gli otto libri degli Stremati ( Tappezzerie ), compare nella letteratura cristiana antica la prima miscellanea, secondo un uso letterario comune nell'epoca imperiale ( Apuleio, Gellio ecc. ).

Gli scritti di Clemente testimoniano la penetrazione del cristianesimo all'interno delle classi colte e il conseguente adeguamento anche formale della produzione letteraria cristiana, di cui Clemente resta una delle figure più affascinanti.

Minor talento retorico e ben maggiore profondità speculativa presenta Origene ( v. ), il più geniale pensatore del cristianesimo anteniceno, Origene fu anche uno tra i più grandi filologi dell'antichità.

Egli applicò le regole messe a punto dalla tradizione filologica alessandrina alla Bibbia nella redazione dei monumentali Esapla, sei colonne in cui venivano affiancati il testo ebraico dell'Antico Testamento, la traslitterazione in caratteri greci e quattro versioni greche, tra cui quella dei Settanta, corredate di segni diacritici.

L'esegesi in senso stretto venne sviluppata da Origene in tre distinte tipologie letterarie: gli Scoli, brevi annotazioni di vario contenuto, pervenutici frammentariamente; le Omelie, prodotto dell'attività di predicazione; e i Commentari, opere più impegnate in cui si realizza una puntuale esegesi, versetto per versetto, di singoli libri dell'Antico e del Nuovo Testamento.

Se la forma stilistica può apparire a volte frettolosa o dimessa, per esempio nelle Omelie e nel Commentario sul Cantico dei cantici, il tono assume accenti di viva partecipazione dello scrittore al mistero religioso, che raggiungono a volte livelli di pathos che saranno poi propri della grande tradizione mistica.

Origene aveva inaugurato la sua attività di scrittore con un impegnativo trattato di teologia speculativa, I principi, in quattro libri, giuntoci nella traduzione latina di Rufino, il capolavoro della trattatistica teologica antenicena.

Verso la fine della vita ( 246 ), invece, si colloca l'opera apologetica Contro Celso, in cui Origene ribatte le critiche da questi avanzate al cristianesimo ne Il discorso vero, opera ricostruibile in larga misura proprio grazie allo scritto origeniano e che costituisce di fatto il modello di tutte le opere apologetiche a venire.

La letteratura cristiana in latino

Il greco rimase a lungo la lingua del cristianesimo anche per le comunità occidentali.

Dopo le prime traduzioni dell'Antico e del Nuovo Testamento, assommate nella cosiddetta Vetus latina, la letteratura cristiana antica in latino si apre in Africa con Tertulliano ( v. ), figura dotata di notevoli risorse retoriche e di buona conoscenza del greco; le sue prime opere sono nel segno di un'apologetica efficace e aggressiva, che conosce il suo capolavoro nell'Apologetico ( 197 ).

Tertulliano intraprese anche una vasta opera di polemista antieretico, prima di cedere al fascino del montanismo.

Un terzo ambito della sua produzione è rappresentato da un cospicuo numero di monografie etico-disciplinari, in cui la rigidità dell'approccio morale raggiunge punte estreme.

In Tertulliano lessico e sintassi spesso vengono piegati in costrutti innovativi, tanto che si è voluto vedere in lui il creatore di un "latino cristiano" distinto dalla lingua classica.

Indubbiamente Tertulliano, specie nella sua fase montanista, presenta i tratti di un cristianesimo intransigente; ma il suo contributo alla creazione del lessico teologico latino e l'aver posto in primo piano, sia pure senza eccessiva originalità, problematiche mai prima risuonate in Occidente ne fanno una figura di straordinaria importanza; tale è anche sul piano strettamente letterario, ponendosi Tertulliano accanto a scrittori quali Apuleio e Tacito.

Al nome di Tertulliano si associa quello di Minucio Felice, egli pure nativo dell'Africa, autore di un dialogo, l'Ottavio ( dal nome del protagonista ), che segna l'appropriazione da parte cristiana della tradizione dialogica classico-ciceroniana.

Cartaginese come Tertulliano, Cipriano di Cartagine ( v. ) fu vescovo della città e martire.

I suoi interessi sono prevalentemente di natura apologetica e pastorale, risultando pressoché assente dalle sue numerose opere ogni interesse teologico e speculativo.

Straordinariamente ricco e interessante è il suo Epistolario, primo di una lunga serie che comprenderà i nomi di Ambrogio, Girolamo, Agostino tra gli altri.

L'ammirazione di Cipriano per Tertulliano emerge dalla ripresa di temi già affrontati da quest'ultimo; il tono è però più misurato e pacato, mancando le punte più estreme della polemica tertullianea contro donne e pagani.

Più o meno coetaneo di Gipriano, e con lui in corrispondenza a nome della Chiesa di Roma, è Novaziano, scrittore brillante e pensatore dotato, autore di un trattato Sulla Trinità.

Forse a questo stesso periodo risale la produzione poetica di Commodiano, 80 brevi poesie di contenuto polemico, e un lungo Carme contro i giudei e i greci, i cui esametri segnano la decisa trasformazione del latino classico.

Nel solco dell'apologetica si muovono ancora i due africani che concludono il panorama della letteratura cristiana latina del III sec.: Arnobio e Lattanzio, entrambi maestri di retorica: del primo sono i sette libri Contro le genti, mentre l'opera principale del secondo sono le Istituzioni divine, in sette libri, che nel titolo richiamano l'enciclopedia retorica di Quintiliano; esse vorrebbero essere una
summa organica del pensiero cristiano; tentativo certamente fallito, ma indicativo della consapevolezza di sé che il cristianesimo latino aveva raggiunto.

Il periodo posteriore al concilio di Nicea

Con la pace costantiniana del 313, si apre una nuova stagione per il cristianesimo: di lì a poco si sarebbe tenuto il concilio di Nicea ( 325 ), primo momento di definizione dogmatica del Credo cristiano.

Dal punto di vista letterario, la produzione si estende in quantità e qualità, rovesciando il rapporto con la produzione pagana; ormai le classi colte e l'aristocrazia aderiscono massicciamente al cristianesimo, sollecitando la produzione di una letteratura adeguata.

Le conseguenze della cosiddetta "svolta costantiniana" sono esemplificate dalle figure di Eusebio di Cesarea ( v. ) e Atanasio di Alessandria ( v. ).

Il primo fu un teorico della nuova situazione politica, piegando la teologia cristiana allo schema che associava l'imperatore al sovrano cosmico, il Logos, in opere di consumata retorica come la Vita di Costantino e il Panegirico di Costantino; il secondo, a causa della controversia sull'arianesimo, subirà
l'ingerenza imperiale in ambito ecclesiastico, con esili e reintegrazioni nella sede episcopale di Alessandria.

Entrambi scrissero opere apologetiche ed Eusebio sviluppò anche un'intensa attività di filologo biblico ed esegeta.

Occorre ricordarli come gli iniziatori di due generi, derivati dalla trasformazione di modelli classici: la storiografia ecclesiastica, con la Storia ecclesiastica, in 10 libri, e la Cronaca, rimastaci in versione armena e parzialmente in latino, in cui Eusebio raccoglie e organizza tutti i materiali utili a dimostrare la diffusione universale del cristianesimo nell'impero; e la letteratura monastica, che con la Vita di Antonio di Atanasio propone ai cristiani l'ideale di vita dell'eremita del deserto, successore del martire.

Quest'ultima riflette la straordinaria fioritura del monachesimo in Oriente, specie in Egitto, ma, conosciuta in Occidente grazie all'esilio di Atanasio, darà uno straordinario impulso alla diffusione degli ideali monastici anche in area latina.

La produzione letteraria di ambiente monastico, greca, latina e nelle lingue orientali è vasta; si possono qui almeno ricordare, oltre alle Vite e ai detti dei Padri del deserto, i nomi di Evagrio Pontico e Macario per l'Oriente, di Cassiano per l'Occidente.

La letteratura cristiana greca nel IV sec. presenta tre importanti figure legate da vincoli di parentela e di amicizia; Basilio il Grande, suo fratello Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno.

Nei Padri cappadoci prosegue la tradizione della grande speculazione teologica, innervata dalla nuova spiritualità monastica e collocata nel nuovo contesto dottrinale: Basilio e Gregorio Nazianzeno composero un florilegio delle opere di Origene, la Filocalia.

A Basilio il Grande ( v. ) si devono la liquidazione dell'arianesimo e la definizione della pneumatologia ( Contro Eunomio, in tre libri, Sullo Spirito Santo ), un'ampia legislazione monastica ( Regole e Precetti morali ), opere esegetiche ( Esamerone, Omelie sui Salmi ) e un corpus epistolare di oltre 300 lettere, da cui emergono le sue qualità di scrittore.

Maggiore profondità speculativa è da riconoscere al fratello Gregorio di Nissa ( v. ), che esercitò l'insegnamento della retorica; sul modello dei Principi di Origene, scrisse il Grande discorso catechetico, mentre i quattro trattati Contro Eunomio chiudono gli ultimi strascichi della polemica ariana.

Di estremo interesse risulta la sintesi di esegesi biblica, tradizione biografica e intento ascetico-mistico nella Vita di Mosè e nella Vita di Macrina.

Più caratterizzato dal punto di vista letterario è Gregorio Nazianzeno ( v. ), non a caso autore prediletto in epoca bizantina, la cui produzione si concentra nei Discorsi.

Il tono autobiografico caratterizza l'epistolario e parte dei 17000 versi dei suoi Carmi: il loro vertice espressivo si trova nei trimetri giambici Sulla sua vita, che all'interno della tradizione formale classica lascia presagire una inquietudine interiore anticipatrice delle pagine delle Confessioni di Agostino.

I suoi epigrammi costituiscono l'ottavo libro dell'Antologia palatina.

A conclusione della trattazione della grande letteratura patristica in greco, può essere posto Giovanni Crisostomo ( v. ).

La maestria del suo stile emerge nei numerosi Discorsi, che spaziano da omelie esegetiche a scritti encomiastici e d'occasione, a interventi di carattere pubblico come nel caso delle Omelie sulle statue.

Forse in nessun altro autore dell'antichità cristiana si avverte con la medesima evidenza l'assunzione consapevole, priva delle lacerazioni interiori che caratterizzano per esempio Agostino o Girolamo, della tradizione retorico-letteraria della classicità, piegata all'espressione dei contenuti, ormai saldi e definiti, della teologia e della morale cristiane.

Anche la letteratura cristiana latina del IV sec. è segnata dalle polemiche sull'arianesimo.

Tra gli scritti di Ilario di Poitiers ( v. ), il più acuto teologo occidentale prima di Agostino, si segnalano soprattutto il trattato in 12 libri Sulla Trinità, e i tre Inni, costruiti su metri classici, ma segnati dall'evoluzione del linguaggio parlato.

Ben superiore è il livello della produzione innica di Ambrogio di Milano ( v. ), vescovo di Milano, in dimetri giambici, alla base della successiva musica cristiana.

Nella persona di Ambrogio e nella sua vasta opera convivono armonicamente il funzionario imperiale proveniente dalla grande nobiltà romana e il vescovo, sostenitore dell'ortodossia e dell'autonomia ecclesiastica; tale compresenza è evidente ne I doveri, che, richiamandosi fin dal titolo all'omonimo trattato ciceroniano, propone un modello etico cristiano; è forse questo il momento più alto di integrazione tra la nuova religione e la tradizione latina, anche letteraria, che continuamente affiora nelle pagine ambrosiane, in specie nell'Epistolario e, tra le opere esegetiche, nell'Esamerone.

Tra i poeti cristiani, nella scia di Ambrogio vanno almeno ricordati Prudenzio e Paolino di Noia.

Il conflitto tra cristianesimo e classicità fu drammaticamente avvertito da Gerolamo ( v. ): dopo una prima fase ispirata alla tradizione origeniana, Gerolamo inasprì le sue posizioni in senso rigorista e ascetico.

Al nome di Gerolamo è legata la traduzione dall'ebraico e dal greco di tutta la Bibbia, la Vulgata, che soppiantò le altre traduzioni latine.

La traduzione dall'ebraico dell'Antico Testamento, e l'abbandono della traduzione dei Settanta, segna la frattura tra i due ambiti linguistici e culturali; al contempo, fornisce al cristianesimo latino un essenziale fattore di autoidentificazione.

Gerolamo si avvalse di notevoli competenze filologiche, che emergono anche nei suoi commentari biblici; tralasciando la mole delle sue opere polemiche, ascetiche e dottrinali, vale la pena di ricordare l'Epistolario, in cui la tradizione classica, di Cicerone e Plinio, viene dilatata a dimensioni inusitate, di vero e proprio trattato, di scritto esortatorio, di biografia; la Cronaca, in cui Gerolamo aggiorna e completa dei dati occidentali l'omonima opera di Eusebio, una fonte preziosa sugli autori cristiani e sui classici latini; infine Gli uomini illustri, brevi biografie di scrittori cristiani, ispirata all'opera di Svetonio.

Corona la letteratura cristiana la figura di Agostino d'Ippona ( v. ).

Egli era retore affermato; il peso della sua formazione si avverte in tutti i suoi scritti, in cui il virtuosismo linguistico e la capacità espressiva si combinano con la sottigliezza speculativa, basata sulla rilettura cristiana del neoplatonismo.

Ne deriva una scrittura generalmente chiara, che tocca anche le corde emotive del lettore, rendendolo partecipe dei mirabilia Dei ( le opere mirabili di Dio ) che Agostino illustra.

Nella sua opera più famosa, le Confessioni in 13 libri, l'introspezione è spinta a livelli del tutto sconosciuti al mondo antico, segnando il punto di nascita di una nuova antropologia, e venendo a costituire un modello per ogni riflessione posteriore sulla natura dell'uomo da Petrarca a Lutero a Montaigne e Pascal.

L'opera che maggiormente impegnò Agostino, dal punto di vista letterario e speculativo, è però la Città di Dio, in 22 libri, composta sull'onda del sacco di Roma del 410.

In essa le straordinarie conoscenze storico-letterarie di Agostino sono impiegate a disegnare la più compiuta teologia della storia e della politica del cristianesimo antico.

Vanno infine ricordati i numerosissimi sermoni, riuniti secondo il libro biblico commentato, in cui spiccano le fortunatissime Spiegazioni dei Salmi.

Concilio Ecumenico Vaticano II

Influsso sulla vita religiosa contemporanea Gaudium et spes 7
Grande importanza per la Chiesa Gaudium et spes 62