Esposizione incompleta della lettera ai Romani

1 Nella Lettera che indirizza ai Romani l'apostolo Paolo, a quanto è dato di ricavare dal testo, affronta il problema dei destinatari del Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo.

Espone cioè se esso riguardi i soli giudei, che l'avrebbero meritato con l'osservanza della legge, o non piuttosto l'universalità delle genti, le quali, senza alcun merito precedente, giunsero alla giustificazione mediante la fede in Cristo Gesù.

Ciò significa pertanto che gli uomini non giunsero alla fede perché erano giusti ma, diventati giusti credendo, da un tale principio cominciarono a vivere nella giustizia.

L'Apostolo si propone quindi di mostrare come la grazia del Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo sia venuta per tutta l'umanità, e si chiama appunto grazia perché non è un compenso col quale si salda un debito di giustizia ma un dono elargito gratuitamente.

C'erano stati infatti alcuni cristiani provenienti dal giudaismo che avevano sollevato rimostranze contro i pagani e soprattutto contro l'apostolo Paolo che li accettava nella grazia del Vangelo senza farli circoncidere e lasciandoli liberi dai legami dell'antica legge; predicava loro di credere in Cristo e non imponeva loro alcun giogo di circoncisione carnale.

Quanto alla Lettera, notiamo come essa sia scritta con estremo equilibrio: non si permette ai giudei di vantarsi dei meriti che avrebbero acquistato con le opere della legge, né si consente ai pagani d'andare orgogliosi per il merito di avere creduto, al contrario di quanto avevano fatto i giudei crocifiggendo quel Cristo che loro, i pagani, invece accolsero.

La stessa idea ritorna press'a poco in quell'altro brano dove l'Apostolo si presenta come un ambasciatore di Cristo, ( 2 Cor 5,20 ) cioè di quella pietra angolare che è Cristo, il quale cementa i due popoli, quello dei giudei e quello dei gentili, ( Ef 2,20 ) a entrambi togliendo mediante il vincolo della grazia ogni superbia basata sui meriti, entrambi associando nella severa scuola dell'umiltà perché conseguano la giustificazione.

2 Ecco ora l'inizio della Lettera: Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato apostolo, segregato per il Vangelo di Dio.

Con i due verbi che usa, sottolinea in breve la divergenza che c'è tra la Chiesa con la sua eccelsa dignità e la Sinagoga con il suo vecchiume.

La Chiesa infatti porta questo nome perché chiamata, la Sinagoga deriva il suo nome dall'essere aggregata; e l'essere chiamati si addice piuttosto agli uomini, mentre l'essere aggregati si dice meglio degli animali, come indica il nome " gregge " che nel linguaggio proprio di solito è adoperato per le bestie.

È sì vero che in numerosi passi della Scrittura la Chiesa viene anch'essa chiamata " gregge di Dio ", " armento di Dio ", " ovile di Dio ", tuttavia se là dove si vuole stabilire un raffronto si dà agli uomini l'appellativo di animali, è perché essi sono partecipi della vita vecchia.

E si può constatare come tali persone non si saziano con il cibo dell'eterna verità ma si contentano delle promesse temporali che sono come un nutrimento terrestre.

Orbene Paolo, servo di Cristo Gesù, fu chiamato apostolo: vocazione che lo inserì nella Chiesa.

Fu inoltre segregato per il Vangelo. Segregato da chi, se non da quel gregge che era la Sinagoga?

Se almeno il senso dei vocaboli latini è sotto ogni aspetto identico con quello della lezione greca.

3 Doverosamente, volendo inculcare la dignità del Vangelo di Dio, in vista del quale egli si dice segregato, ricorre all'autorità dei Profeti.

È un nuovo invito a non insuperbire rivolto ai pagani che avevano creduto in Cristo e dei quali l'Apostolo si dice chiamato a far parte: pagani che egli aveva anteposto ai giudei, dai quali si diceva invece segregato.

In realtà i Profeti sorsero nel popolo giudaico, quei Profeti - dichiara Paolo - per bocca dei quali fu in antecedenza promesso il Vangelo nella cui fede ottengono la giustificazione i credenti.

Egli continua precisando: Segregato per il Vangelo di Dio, che era stato da lui promesso in antecedenza per bocca dei suoi Profeti.

C'erano stati infatti Profeti non di Dio, negli scritti dei quali si trovano cantate cose riguardanti Cristo secondo ciò che essi avevano a loro volta ascoltato.

Questo si dice, ad esempio, della Sibilla. Né io crederei facilmente a tale affermazione se non la ripetesse anche il poeta più illustre fra quanti scrissero in lingua latina.

Costui, prima di narrare, sulla palingenesi del creato, cose che diresti consone e appropriate anche al Regno del nostro Signore Gesù Cristo, scrive un verso che suona così: È ormai giunta l'ultima delle ere descritte dal Carme cumano,1 cioè, come tutti sanno, del Carme della Sibilla.

Ora l'Apostolo, sapendo che tali testimonianze in favore della verità si trovano anche nei libri pagani, com'egli dimostra in maniera più che esplicita negli Atti degli Apostoli quando parla agli Ateniesi, ( At 17,28 ) non si contenta di dire: Per bocca dei suoi Profeti.

Perché nessuno si lasciasse traviare dai falsi profeti, per quella parvenza di verità che contengono e fosse indotto a qualche forma di empietà, volle aggiungere: Nelle sacre Scritture.

Con ciò intende affermare che gli scritti dei pagani, stracolmi di superstizioni idolatriche, non si possono in alcun modo qualificare come " santi " per il fatto che in essi si trova una qualche testimonianza riguardante Cristo.

4 Qualcuno forse avrebbe potuto accordare indebite preferenze a certi profeti nati fuori dal giudaismo e alieni dalla religione giudaica, in quanto in essi non v'era cenno ai culti idolatrici.

Dico del culto delle statue composte dalla mano dell'uomo, poiché riguardo agli idoli come sede di esseri immaginari ogni errore ha i suoi profeti e con essi inganna i propri adepti.

Poteva, dunque, accadere che qualche devoto, trovando in tali scritti religiosi il nome di Cristo, desse loro la preferenza e li ritenesse " Scritture sante " invece dei libri divinamente consegnati al popolo ebraico.

Per ovviare a questo inconveniente Paolo, nominate le " Scritture sante ", molto opportunamente, secondo me, aggiunge: Riguardanti il suo Figlio, che fu fatto a lui dalla stirpe di Davide secondo la carne.

È noto che Davide fu re dei giudei. Ora i Profeti, che preconizzavano il Cristo, dovevano nascere necessariamente da quel popolo in cui si sarebbe incarnato colui che essi annunziavano.

Si doveva inoltre porre un riparo all'empietà di quanti ammettono nel nostro Signore Gesù Cristo solo l'umanità che assunse e ne escludono la divinità, per la quale è al di fuori di ogni creatura né in qualche maniera comunica con essa.

Tale l'opinione dei giudei, che ritengono essere il Cristo figlio di Davide e nulla più; rigettano la sublime dignità per la quale, essendo Figlio di Dio, è anche Signore di Davide.

Di tale errore li rimprovera nel Vangelo Gesù citando la profezia che era stata proferita dallo stesso Davide.

Chiede loro come possa essere figlio di Davide ( Mt 22,42-45 ) colui che Davide chiama suo Signore; e a tale domanda avrebbero dovuto, per l'esattezza, rispondere che, se egli secondo la carne era figlio di Davide, secondo la natura divina era Figlio di Dio e Signore di Davide.

Ora Paolo sapeva benissimo tutte queste cose e ci tiene ad impedire che di Cristo si pensi che sia solamente ed esclusivamente ciò che è diventato nella sua umanità.

Ricordando quindi che ha già detto: Per il Vangelo di Dio che era stato da lui promesso in antecedenza per bocca dei suoi Profeti nelle sacre Scritture riguardanti il suo Figlio, fatto a lui della stirpe di Davide, aggiunge: Secondo la carne.

Con questa aggiunta: Secondo la carne, intende lasciare alla divinità tutti i suoi privilegi, sottolineare che essi non possono attribuirsi né alla stirpe di Davide né alla generazione di qualsiasi creatura o angelica o di altro ordine, anche il più eccelso.

Si tratta infatti della persona stessa del Verbo di Dio, ad opera del quale sono state create tutte le cose. ( Gv 1,1 )

Che se il Verbo si fece carne dalla stirpe di Davide e venne ad abitare in mezzo a noi, ( Gv 1,14 ) non si mutò né trasformò in carne ma si rivestì della carne per apparire in una maniera adeguata all'uomo che è carne.

L'Apostolo distingue bene pertanto l'umanità dalla divinità, e a ciò mirano le parole: Secondo la carne, e più ancora: Fu fatto.

Egli certamente non è stato fatto in quanto è Verbo di Dio.

Anzi, ad opera sua, furono fatte tutte le cose e lui non poté essere fatto insieme con le altre cose, se tutte le cose furono fatte per opera sua.

Né fu fatto prima delle altre cose, che poi per mezzo di lui sarebbero state tutte create.

Se infatti si esclude il Verbo, nell'ipotesi fatto prima delle cose, non tutte le cose sarebbero state fatte ad opera di lui, né si potrebbe dire che tutte le cose furono fatte ad opera del Verbo se fra esse non fosse compreso il Verbo stesso nell'ipotesi che anche il Verbo sia stato fatto.

In vista di ciò l'Apostolo, affermando che Cristo fu fatto, aggiunge: Secondo la carne.

Con tale espressione mostra chiaramente che Cristo secondo che è Verbo, cioè Figlio di Dio, non è stato fatto da Dio ma è nato da Dio.

5 Di questo Cristo che secondo la carne è stato fatto a lui dalla stirpe di Davide, dice ora che è Figlio di Dio in potenza, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, né uno spirito qualunque ma lo Spirito di santificazione dalla resurrezione dei morti.

È infatti nella resurrezione che appare la potenza di colui che era morto, e per questo si dice: Predestinato in potenza secondo lo Spirito della santificazione dalla resurrezione dei morti.

In un secondo momento la santificazione produsse la vita nuova, suggellata dalla resurrezione di nostro Signore, per cui l'Apostolo in un altro testo dice: Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dov'è Cristo, assiso alla destra di Dio. ( Col 3,1 )

La successione delle parole potrebbe, fuori dubbio, essere diversa, e cioè quel dalla resurrezione dei morti potrebbe collegarsi non con Spirito della santificazione, ma con fu predestinato.

Ne seguirebbe quest'ordine: Egli fu predestinato dalla resurrezione dei morti, mentre sarebbero un inserto le parole: Figlio di Dio in potenza, secondo lo Spirito della santificazione.

Secondo noi questa successione è da ritenersi più valida e quindi preferibile, per cui Cristo secondo la carne è figlio di Davide nella debolezza, mentre secondo lo Spirito della santità è Figlio di Dio in potenza.

Egli dunque fu fatto dalla stirpe di Davide: era cioè figlio di Davide per il corpo mortale con cui morì, mentre dalla resurrezione dei morti fu predestinato [ ad essere ] Figlio di Dio e Signore di Davide.

L'essere cioè egli morto è in rapporto con la sua condizione di figlio di Davide, l'essere risuscitato dai morti, alla sua dignità di Figlio di Dio e Signore di Davide.

È quanto dice altrove l'Apostolo: Per la sua debolezza egli morì, ma per la potenza di Dio egli è vivo. ( 2 Cor 13,4 )

La debolezza umana dipende da Davide, il vivere eternamente dalla potenza di Dio.

Per questo, parlando di lui Davide lo presenta come suo Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi. ( Sal 110,1 )

Ora egli siede alla destra del Padre dopo che è risuscitato dai morti.

Vedendo seduto alla destra del Padre questo Predestinato dalla resurrezione dei morti, Davide mosso dallo Spirito non osa chiamarlo suo figlio ma suo Signore, e l'Apostolo, sul filo della stessa logica, aggiunge: Di Gesù Cristo nostro Signore.

Con tale denominazione, posta dopo che ha affermato: Dalla resurrezione dei morti, vuole richiamarci alla mente perché Davide di lui attesti che è suo Signore e non suo figlio.

Notare poi che non dice: Predestinato dalla resurrezione " dai morti ", ma dalla resurrezione dei morti.

In effetti non è dalla sua propria resurrezione che Cristo si palesa come Figlio di Dio in quella dignità eccellentissima e a lui esclusiva per la quale è anche Capo della Chiesa.

Infatti, quanto al risorgere in sé e per sé, anche gli altri morti risorgeranno.

Egli è stato predestinato Figlio di Dio per una certa priorità nella resurrezione: è stato cioè predestinato dalla resurrezione di tutti i morti o, in altre parole, è stato designato a risorgere diversamente da tutti gli altri morti e avanti a tutti.

Le parole: Figlio di Dio poste dopo l'affermazione: Egli è stato predestinato sono la conferma di tanta sublimità.

In questa maniera infatti non doveva essere predestinato se non il Figlio di Dio in quanto è anche Capo della Chiesa o, come lo chiama altrove [ l'Apostolo ]: Primogenito fra i morti. ( Col 1,18 )

Ed era conveniente che a giudicare i risorti venisse colui che li aveva preceduti come modello: modello, dico, non di tutti coloro che risorgono ma di coloro che risorgono per vivere e regnare eternamente con lui e dei quali egli è il Capo mentre loro sono il suo corpo.

Dalla resurrezione di questi morti egli è stato anche predestinato ad essere il loro antesignano; degli altri invece, che risorgono nella loro condizione [ di non rigenerati ], egli è solo giudice, non antesignano.

Pertanto egli non è stato predestinato dalla resurrezione di quei morti che da lui saranno condannati.

E se l'Apostolo dice di lui che è stato predestinato dalla resurrezione dei morti, lo dice nel senso che ha anticipato la resurrezione dei morti.

Ora egli ha preceduto la resurrezione di coloro che lo seguiranno nel Regno dei cieli dov'egli li ha preceduti.

Per questo motivo non dice: " Egli è stato predestinato Figlio di Dio dalla resurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore ", ma: Dalla resurrezione dei morti di Gesù Cristo nostro Signore.

Come per dire: Egli è stato predestinato Figlio di Dio dalla resurrezione dei suoi morti, cioè di quei morti che appartengono a lui per la vita eterna.

Supponendo quindi la domanda: Di quali morti?, l'Apostolo risponde: Quelli di Gesù Cristo nostro Signore.

Dalla resurrezione degli altri morti egli non è stato predestinato in quanto costoro non sono stati da lui preceduti nella gloria della vita eterna; risorgendo gli empi per andare al castigo meritato, non seguiranno Cristo.

Concludendo, colui che, in quanto Figlio di Dio era unigenito, dalla resurrezione dei morti è stato predestinato [ ad essere ] Primogenito fra i morti.

Quali morti, se non quelli [ che sono ] di Gesù Cristo nostro Signore?

6 Ad opera di lui, continua, noi abbiamo ricevuto la grazia e il ministero apostolico: la grazia è in comune con gli altri fedeli, il ministero apostolico no.

Se avesse detto d'aver ricevuto soltanto il ministero apostolico, non sarebbe stato riconoscente verso la grazia per la quale gli erano stati rimessi i peccati, e avrebbe fatto capire che il ministero apostolico l'aveva ricevuto per i meriti di opere precedenti.

Ma egli con perfetta logicità si attiene al processo effettivo delle cose, insegnando così che nessuno può osare di dirsi chiamato al Vangelo per meriti acquisiti nella vita anteriore, se nemmeno gli Apostoli, certamente superiori a tutte le membra escluso il capo, poterono ricevere l'incarico dell'apostolato senza aver prima ricevuto, insieme con tutti gli altri credenti, la grazia che risana e giustifica il peccatore.

Poi aggiunge: Perché fra tutte le genti si obbedisca alla fede nel suo nome.

Con queste parole vuol dire d'aver ricevuto il ministero apostolico affinché si obbedisca alla fede nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, affinché cioè tutti gli uomini credano in Cristo e siano segnati del suo nome quanti vogliono conseguire la salvezza.

Riguardo alla salvezza, egli ha già mostrato che non è venuta per i soli giudei, come pensavano alcuni di loro che erano diventati credenti, ma, come dice: Fra tutte le genti, in mezzo alle quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo.

E vuol dire: Affinché anche voi siate di quel Gesù Cristo che è la salvezza di tutte le genti, sebbene non siate compresi nel numero dei giudei ma facciate parte degli altri popoli.

7 Ecco dunque quanto affermato fin qui: primo, si dice chi scrive la Lettera, e costui è Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato apostolo, segregato per il Vangelo di Dio.

Siccome veniva spontaneo chiedere: " Ma quale Vangelo? ", risponde: Quel Vangelo che aveva antecedentemente promesso per bocca dei Profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo.

Alla conseguente domanda: " Chi è questo suo Figlio? ", risponde: Che è stato fatto a lui dalla stirpe di Davide secondo la carne, che è stato predestinato [ ad essere ] Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito della santificazione dalla resurrezione dei morti di Gesù Cristo nostro Signore.

Qui suppone che gli venga chiesto: "Che rapporto hai tu con lui? ". E risponde: Ad opera di lui noi abbiamo ricevuto la grazia e il ministero apostolico perché si obbedisca alla fede da tutte le genti nel suo nome.

E poi, come rispondendo alla domanda: " Qual è dunque il motivo per cui scrivi a noi? ", dice: Fra costoro siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo.

A questo punto aggiunge, come si è soliti fare nello stile epistolare, i destinatari della Lettera e scrive: A tutti coloro che sono a Roma, amati da Dio, santi per vocazione, sottolineando la condiscendenza divina, superiore ad ogni loro merito.

Non dice infatti: " A coloro che amano Dio ", ma: A coloro che sono amati da Dio.

Egli infatti ci ha amati per primo, precedendo ogni nostro merito, e appunto perché siamo stati amati da lui siamo in grado di amarlo. ( 1 Gv 4,19 )

E continua: Santi per vocazione. Se infatti potrà esserci qualcuno che attribuisca a sé il fatto d'aver obbedito a colui che lo chiamava, nessuno certamente potrà attribuire a se stesso la chiamata in quanto tale.

Santi per vocazione: da intendersi non nel senso che sono stati chiamati perché erano santi ma, perché chiamati, sono diventati santi.

8 Perché l'esordio della lettera sia completo, secondo l'usanza, non resta che il saluto: chi scrive augura salute a chi riceve la lettera.

Invece della salute Paolo scrive: Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo.

Non ogni grazia infatti proviene da Dio: anche i giudici cattivi elargiscono una grazia quando, adescati nell'avidità o vinti dal timore, favoriscono certe persone.

Né ogni pace è pace di Dio o pace donata da Dio. Lo diceva lo stesso nostro Signore con le parole: Vi dò la mia pace, e volendole precisare aggiungeva che egli dava una pace non identica a quella che dà il mondo. ( Gv 14,27 )

La grazia che ci viene da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo è il dono per il quale ci vengono rimessi i peccati, per cui eravamo in inimicizia con Dio; la pace è il dono della stessa riconciliazione con Dio.

Scomparsa l'inimicizia quando ad opera della grazia ci sono stati rimessi i peccati, ecco che mediante la pace noi siamo in comunione con lui.

Non c'è infatti, fra noi e Dio, altra separazione che quella del peccato, come dice il profeta: Egli non si turerà gli orecchi per non sentire, ma sono i vostri peccati che vi separano da Dio. ( Is 59,1-2 )

Rimessi i peccati mediante la fede nel nostro Signore Gesù Cristo non c'è più alcuna separazione e si ha la pace.

9 Qualcuno forse resterà sorpreso non sapendo come si possa parlare di giustizia di Dio giudice quando egli, perdonando i peccati, concede la grazia.

Ma proprio questa è la giustizia di Dio: è veramente giusto che quanti nel tempo in cui non si è chiaramente manifestata la paura delle pene si pentono dei propri peccati, siano misericordiosamente separati da coloro che, volendo scusare con pertinacia i propri peccati, non si ravvedono né si pentono in alcuna maniera.

Viceversa sarebbe ingiusto che siano con questi ultimi associati nella stessa pena coloro che non restarono sordi dinanzi alla chiamata di Dio ma si rammaricarono d'aver peccato al segno di odiare il proprio peccato così come lo odia Dio. In ultima analisi per l'uomo è esigenza di giustizia non amare, in se stessi, altro che i doni di Dio, odiando ciò che è proprio dell'uomo, non approvare i propri peccati e nel peccato non prendersela con altri ma soltanto con se stesso.

Non si deve credere inoltre che sia sufficiente aver provato una volta dispiacere per i peccati, se in appresso non li si evita con estrema vigilanza.

Occorre infine persuadersi che per evitare ogni peccato nel resto della vita non bastano le risorse umane ma deve intervenire l'aiuto divino.

È pertanto giusto che Dio perdoni questi peccatori pentiti, qualunque colpa abbiano prima commesso, né li si può confondere o collocare insieme con gli altri che non si convertono: cosa che sarebbe sommamente ingiusta.

Se dunque a questi tali non si dà perdono, è giustizia di Dio; se li si perdona è grazia di lui.

Ne segue che, come è giusta in Dio la grazia, così è gratificante la giustizia.

Infatti anche in questi peccatori la grazia precede il merito che permette la conversione, dal momento che nessuno potrebbe pentirsi del peccato se non fosse in qualche modo preavvertito dalla chiamata di Dio.


1 Virg., Eclog. 4, 4