Summa Teologica - III

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Articolo 6 - Se il dolore della passione di Cristo abbia superato tutti gli altri dolori

In 3 Sent., d. 15, q. 2, a. 1, sol. 3; a. 3, sol. 2; De Verit., q. 26, a. 3, ad 1; a. 9; Quodl., 7, q. 2; Comp. Theol., c. 232

Pare che il dolore della passione di Cristo non abbia superato tutti gli altri dolori.

Infatti:

1. Il dolore cresce in proporzione alla gravità e alla durata del supplizio.

Ora, certi martiri soffrirono supplizi più gravi e prolungati di quello di Cristo: S. Lorenzo, p. es., fu arrostito su una graticola, e S. Vincenzo ebbe le carni dilaniate da unghie di ferro.

Pare quindi che il dolore di Cristo sofferente non sia stato il massimo.

2. La forza dello spirito mitiga il dolore: tanto che gli Stoici ritenevano che la tristezza non potesse invadere l'animo del sapiente [ Agost., De civ. Dei 4,8s ].

E Aristotele [ Ethic. 2,6] afferma che la virtù morale conserva il giusto mezzo nelle passioni.

Ma in Cristo la virtù dello spirito era perfettissima.

Quindi in lui dovette essere minimo il dolore.

3. Più il paziente è sensibile e più grave è il dolore che egli prova nella sofferenza.

Ora, l'anima è più sensibile del corpo, poiché questo è reso sensibile dall'anima.

Inoltre Adamo nello stato di innocenza dovette avere un corpo più sensibile di quello di Cristo, il quale invece assunse un corpo umano soggetto ai limiti naturali.

Perciò il dolore delle anime che soffrono nel purgatorio o nell'inferno, e lo stesso dolore di Adamo, qualora avesse dovuto subirlo, paiono superiori alla sofferenza di Cristo.

4. La perdita di un bene più grande causa un dolore più grande.

Ora, chi pecca perde un bene più grande di quello sottratto a Cristo dalla sofferenza, poiché la vita della grazia è superiore alla vita naturale.

Inoltre Cristo, perdendo la vita per poi risorgere dopo tre giorni, perse meno di coloro che perdono la vita per restare poi preda della morte.

Pare quindi che il dolore di Cristo non sia stato quello più grande.

5. L'innocenza di chi soffre ne diminuisce il dolore.

Ma Cristo soffrì da innocente, secondo le parole di Geremia [ Ger 11,19 ]: « Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello ».

Perciò il dolore della passione di Cristo non fu il più grande.

6. In tutto ciò che riguarda Cristo non vi fu nulla di superfluo.

Ma il più piccolo dei suoi dolori sarebbe bastato per la redenzione umana, poiché avrebbe avuto una virtù infinita in forza della sua persona divina.

Quindi sarebbe stato superfluo sottoporsi al massimo dei dolori.

In contrario:

Così si esprime Geremia [ Lam 1,12 ], parlando a nome di Cristo: « Considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore ».

Dimostrazione:

Come si è già spiegato nel trattare dei limiti assunti da Cristo [ q. 15, aa. 5,6 ], in lui ci fu veramente il dolore: il dolore sensibile causato da agenti fisici nocivi, e il dolore interno, o tristezza, causato dalla percezione di cose nocive.

E l'uno e l'altro furono in Cristo i più intensi fra tutti i dolori della vita presente.

E ciò per quattro motivi.

Primo, per le cause che li produssero.

Infatti la causa del suo dolore sensibile furono le lesioni corporali.

Ora, questa causa fu acerbissima, sia per la totalità delle sofferenze, di cui abbiamo parlato sopra [ a. prec. ], sia per il loro genere.

Poiché la morte dei crocifissi è dolorosissima, essendo essi trafitti in parti nervose e sommamente sensibili, come sono le mani e i piedi; inoltre il peso stesso del corpo aumenta il dolore; e a ciò va aggiunta la durata del supplizio, poiché essi non muoiono subito, come quelli che sono uccisi di spada.

- La causa poi del suo dolore interno furono in primo luogo tutti i peccati del genere umano, che egli espiava con la sua sofferenza, e che in qualche modo volle attribuire a se stesso, secondo le parole del Salmo [ Sal 22,2 ]: « Il grido dei miei delitti ».

In secondo luogo egli era afflitto in particolare dal peccato dei Giudei e di quanti peccarono in occasione della sua morte; e specialmente da quello dei discepoli, i quali si scandalizzarono della sua passione.

In terzo luogo poi lo affliggeva la perdita della vita corporale, che incute naturalmente orrore alla natura umana.

Secondo, la grandezza del suo dolore viene desunta dalla sensibilità del Cristo sofferente.

Egli infatti aveva un corpo di ottima complessione, essendo stato formato miracolosamente per opera dello Spirito Santo: e le cose fatte per miracolo sono superiori alle altre, come nota il Crisostomo [ In Ioh. hom. 22 ] a proposito del vino procurato da Cristo alle nozze di Cana.

Perciò in lui era acutissimo il senso del tatto, e quindi la percezione del dolore.

- Inoltre l'anima con le sue facoltà interiori conosceva in maniera efficacissima tutte le cause delle sue sofferenze.

Terzo, la grandezza del dolore di Cristo può essere considerata in base alla purezza stessa del suo dolore.

Infatti negli altri suppliziati la tristezza interna e lo stesso dolore esterno vengono mitigati da qualche considerazione di ordine razionale, mediante un influsso o ridondanza delle facoltà superiori in quelle inferiori.

Ma in Cristo ciò non avvenne: poiché, come dice il Damasceno [ De fide orth. 3,19 ], « egli permise a ciascuna delle sue potenze di agire per conto proprio ».

Quarto, la grandezza del dolore di Cristo può essere desunta dal fatto che egli accettò volontariamente la sofferenza, per liberare l'uomo dal peccato.

Perciò egli accettò quella quantità di dolore che era proporzionata ai frutti che dovevano seguirne.

Dall'insieme quindi di questi motivi risulta chiaramente che quello di Cristo fu il più grande di tutti i dolori.

Analisi delle obiezioni:

1. L'argomento tiene conto di un elemento soltanto fra quelli ricordati, cioè della causa atta a produrre il dolore sensibile.

Ma il dolore di Cristo fu reso molto più intenso dalle altre cause, come si è spiegato [ nel corpo ].

2. La virtù morale mitiga in un modo la tristezza interiore e in un altro il dolore sensibile.

La tristezza interiore infatti la mitiga direttamente, determinando in essa, quale sua materia, il giusto mezzo.

Poiché, come si è visto nella Seconda Parte [ I-II, q. 64, a. 2; II-II, q. 58, a. 10 ], le virtù morali determinano il giusto mezzo nelle passioni non secondo una grandezza assoluta, ma secondo una grandezza proporzionata, cioè in modo che la passione non ecceda la norma della ragione.

Ora, ritenendo gli Stoici che nessuna tristezza fosse utile, essi pensavano di conseguenza che la tristezza fosse sempre discorde dalla ragione: per cui giudicavano che il sapiente dovesse evitarla del tutto.

In realtà invece, come dimostra S. Agostino [ De civ. Dei 14, cc. 8,9 ], alcune volte la tristezza è lodevole: quando cioè deriva da un amore santo, come quando uno ad es. si rattrista dei peccati propri, o di quelli altrui.

Ed è anche utile per la soddisfazione dei peccati, secondo le parole di S. Paolo [ 2 Cor 7,10 ]: « La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza ».

E così Cristo, al fine di soddisfare per i peccati di tutti gli uomini, volle subire la tristezza più grande in modo assoluto, senza però trasgredire la norma della ragione.

La virtù morale non è invece in grado di moderare direttamente il dolore esterno sensibile: poiché questo dolore non obbedisce alla ragione, ma è legato alla natura del corpo.

Può tuttavia diminuirlo indirettamente per la ridondanza delle potenze superiori in quelle inferiori.

Il che però non avvenne in Cristo, come si è detto [ nel corpo; q. 14, a. 1, ad 2; q. 45, a. 2 ].

3. Il dolore delle anime separate condannate alla sofferenza rientra nello stato della dannazione futura, che supera qualsiasi male della vita presente, come la gloria dei santi supera ogni bene di questa vita.

Perciò quando affermiamo che il dolore di Cristo è il più grande non lo confrontiamo con quello delle anime separate.

Il corpo di Adamo poi non poteva soffrire se non in seguito al peccato, per cui sarebbe divenuto mortale e passibile.

E allora non avrebbe potuto soffrire più del corpo di Cristo, per le ragioni esposte sopra [ nel corpo ].

- Dalle quali si deduce pure che se per impossibile Adamo avesse dovuto soffrire nello stato di innocenza, il suo dolore sarebbe stato inferiore a quello di Cristo.

4. Cristo soffriva non solo per la perdita della sua vita corporale, ma anche per i peccati di tutti.

E il suo dolore superò ogni dolore di qualsiasi penitente: sia perché derivava da una maggiore carità e sapienza, virtù che accrescono direttamente il dolore della contrizione, sia perché egli soffriva simultaneamente per i peccati di tutti, secondo le parole del Profeta [ Is 53,4 ]: « Si è veramente addossato i nostri dolori ».

Inoltre la stessa vita corporale di Cristo era di una così grande nobiltà, specialmente per l'unione ipostatica con la divinità, che per la sua perdita, anche solo momentanea, bisognerebbe dolersi più che per la perdita della vita di qualsiasi altro uomo per un tempo indefinito.

Per cui anche il Filosofo [ Ethic. 3,9 ] scrive che l'uomo virtuoso ama di più la sua vita se la riconosce migliore: e tuttavia egli la espone per il bene della virtù.

Così dunque Cristo espose la sua vita, che sommamente amava, per il bene della carità, secondo l'affermazione di Geremia [ Ger 12,7 Vg ]: « Ho consegnato la mia anima diletta nelle mani dei miei nemici ».

5. L'innocenza del suppliziato diminuisce il numero delle sofferenze, poiché il colpevole che soffre non si addolora solo per la pena, ma anche per la colpa, mentre l'innocente soffre solo per la pena.

Tuttavia quest'ultimo dolore è accresciuto dall'innocenza: poiché l'innocente apprende il danno inflitto come più ingiustificato.

Per cui anche gli altri sono più reprensibili se non lo compiangono, come accenna Isaia [ Is 57,1 ]: « Perisce il giusto, nessuno ci bada ».

6. Cristo volle liberare il genere umano non con la sola potenza, ma anche con la giustizia.

Perciò egli non considerò soltanto l'efficacia che il suo dolore aveva per l'unione con la divinità, ma anche la grandezza che esso doveva avere secondo la natura umana per essere proporzionato a una così grande soddisfazione.

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