Umiltà

IndiceA

Sommario

I. Problematica.
II. La rivelazione neo-testamentaria:
1. Il vocabolario;
2. La diade mite-umile;
3. Nell'umiltà di Gesù Cristo.
III. L'uomo umile:
1. L'umiltà fondamentale;
2. La ricostruzione dell'unità.

I - Problematica

Umiltà è uno dei termini più ambigui, direi più denso di equivoci del linguaggio spirituale e religioso.

Menzognere abdicazioni sono state legittimate col pretesto di salvaguardarne le esigenze; la sua crescita è connessa ad ogni maturazione della personalità morale e religiosa.

Il suo sviluppo accompagna e stimola la liberazione della libertà dalle espressioni iniziali alle mete supreme; la sua falsificazione avalla gli arbitri dei potenti e i servilismi dei tapini.

Considero l'umiltà come prerogativa che qualifica l'uomo in sé e nei rapporti che costruisce; che scaturisce dall'amore e dimensiona la concezione della realtà e della vita.

È stile di vita che si esprime nel riconoscimento della dignità umana in sé e negli altri, cresce in comunione con Gesù Cristo, nel rispetto del Padre e nella laboriosa costruzione di rapporti tra gli uomini; è atteggiamento articolato che si nutre di povertà e dignità, è cammino di identità, non rivendicazione di autonomie; riconoscimento di derivazione, non proclamazione di anonimato o di nullità; affermazione di talenti da trafficare, non da sotterrare; solidarietà da costruire nel cammino lungo e paziente della convinzione senza assecondare tentazioni di costrizione manipolante.

L'umiltà aborre il formalismo farisaico e le autosufficienze orgogliose, il servilismo pitocco, snobistico, simbiotico, attaccaticcio e le esaltazioni dispotiche e oltraggiose; rifugge la rassegnazione disperata, abdicataria che fa della pigrizia parassita l'arbitra del limite delle possibilità umane e la presunzione temeraria che induce a manipolare la realtà e osare l'assurdo.

L'umiltà cresce nel rischio delle realizzazioni e delle scelte; non misconosce il limite e la precarietà; libera le aspirazioni; contrasta il fatalismo che fa pensare spontanea la trasformazione delle situazioni e l'eliminazione dei disordini che ritardano e deviano la crescita dell'umanità; riequilibra i desideri, modera le pretese ambiziose e idolatriche che affondano le radici nel terreno fecondo delle bramosie avide ( Col 3,5 ).

Prima che atteggiamenti da assumere, l'umiltà è modo di essere e di relazionarsi; caratterizza l'uomo nel modo di valutare e accogliere sé e nella posizione che assume nel mondo e di fronte a Dio.

È dimensione antropologica e si configura secondo l'orientamento di chi ne vive e il contesto in cui è inserito.

Le sue rappresentazioni variano sulla base del giudizio con cui l'uomo valuta se stesso, la propria posizione nel mondo e verso Dio, situazioni e stili di esistenza.

Come qualificativo dell'uomo nelle sue relazioni sociali è stile di partecipazione e di ubbidienza, varia secondo il modo di pensarle.

In relazione a se stessi è considerata o come moderazione della presunzione di sé, dell'orgoglio e delle complesse situazioni in cui l'una e l'altro si esprimono, abnegazione, rinunzia che l'uomo si infligge o accetta; o quale qualificativo della libertà che matura nel modo di vivere le tensioni e i conflitti.

Nei confronti di Dio è liberazione del riconoscimento e della lode, del timore filiale; sradica le tendenze all'autosufficienza idolatrica che impediscono di riconoscerlo in solidarietà con gli altri, in servizio liberato e liberante nel mondo.

Queste posizioni si differenziano in una gamma minuta e vanno dall'enfasi posta sugli atteggiamenti verso i condizionamenti esterni, all'attenzione alle disposizioni di fiducioso abbandono a Dio, di docilità allo Spirito, di equilibrato sentire di sé.

Una rassegna delle ottiche in cui è stata letta l'umiltà, rischia di essere riduttiva.

Mi limito a qualche riferimento esemplificativo.

L'interpretazione etico-moralista oscilla tra la tendenza alla descrizione minuziosa dei comportamenti che dovrebbero caratterizzarla e quella che ne fa un generico e astratto orientamento privo di concretezza.

Più precisa la lettura teologica, che la considera articolata alla carità, stile: di libertà, espressione di filiale timore di Dio, capacità di restare inseriti nei conflitti della storia per promuoverne le soluzioni.

Ancora più pregnanti le analisi che la situano in contesto storico salvifico e le riconoscono una connotazione prevalentemente cristologica.

Il riferimento principale è a Mt 11,29: « Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime ».

II - La rivelazione neo-testamentaria

1. Il vocabolario

Non sono molti i contesti nei quali compaiono parole apparentate a tapeinos, l'equivalente neo-testamentario di umile.

Non si riscontra in Marco e nel corpus giovanneo e, la maggior parte delle volte, si trova in un logion strutturato sull'opposizione tra umili e orgogliosi, tra abbassare-elevare: chi si abbassa sarà elevato e viceversa ( Mt 23,12; Lc 1,52; Lc 14,11; Lc 18,14; 2 Cor 11,7; Gc 1,9; Gc 4,10; 1 Pt 5,6 ).

Da altri testi si desume che via "umile" è il cammino che Dio ha scelto e predilige e nel quale introduce i poveri e i piccoli, coloro che privilegia a scapito dei ricchi e dei potenti ( Lc 1,52; Sof 2,3; Mt 5,3; Lc 6,20 ); coloro che consola ( 2 Cor 7,6 ) e ai quali, come già era detto in Pr 3,34, da la grazia che sottrae ai beffardi ( 1 Pt 5,5; Gc 4,6 ); è l'atteggiamento col quale viene caratterizzato Gesù ( Mt 11,29; Mt 21,5 ) e la via che egli ha percorso fino alla meta suprema ( Fil 2,8 ); che qualifica la condizione della figlia di Sion, del popolo di Dio, di Maria ( Lc 1,48 ); che Paolo ha seguito nel servizio reso al Signore ( At 20,19 ); che Gesù inculca ( Mt 18,4 ) e che gli apostoli chiedono di fomentare ( Rm 12,16; Ef 4,2; Fil 2,3; Col 3,12; Gc 4,10; 1 Pt 5,5.6 ).

In Ef 4,2 e Col 3,12 si trova l'abbinamento mite-umile ma nella forma astratta mitezza-umiltà e, in entrambi i casi, l'umiltà è unita alla macrothymia, alla pazienza e alla sopportazione.

In Col 3,12 l'umiltà è saldata anche a splanchma, compassione, all'atteggiamento da cui scaturisce, come da sorgente, l'azione di Gesù.

Nella luce di questa mediazione si percepisce come il cuore umile, che nel logion di Mt 11,29 solleva e porta i pesi che opprimono, è ricco di misericordia e di compassione per la miseria umana.

Una volta il termine esprime anche la condizione del corpo destinato ad essere trasfigurato da Gesù Cristo ( Fil 3,21 ).

C'è infine il contesto molto discusso di Col 2,18.23 nel quale tapeinofrosyne, abbinata con altri atteggiamenti, sembra abbia un significato peggiorativo ed esprime piuttosto quella mentalità falsata che imprigiona nelle meschinità, che vincola al compimento di pratiche di poco conto e ai comportamenti affettati e bugiardi.

Soprattutto, nel vocabolario paolino, c'è anche il verbo cauchaomai che, e come sinonimo e come contrario, designa la dignità fiera della persona umile e connota le falsificazioni cui conduce la puerile autosufficienza che vorrebbe farsi valere anche nei confronti di Dio.

Le versioni moderne ricorrono alle espressioni più diverse per tradurre i derivati di questo verbo che designa le realtà più disparate.

E, infatti, esprime la pretesa sicurezza dell'uomo autosufficiente che è soddisfatto e si vanta o della giustizia delle opere ( i giudaizzanti, Rm 2,17-23 ) o della sottigliezza e perspicacia delle intuizioni ( gli ellenizzanti, Rm 1,18ss ) e che non vede, o dimentica, che tutto ciò che l'uomo è o ha, è dono di grazia di Dio ( Rm 3,27; Rm 11,18; 1 Cor 1,29.31; 1 Cor 4,7; Gal 6,13 ).

Lo stesso verbo, però, esprime anche la dignitosa, serena, in un certo senso forte fiducia in Dio ( Rm 5,11; Rm 15,17 ) che Gesù Cristo conferisce come suo dono a coloro che, nella fede, si aprono alla sua azione ( Rm 5,2.3.11; 2 Cor 10,17s; 2 Cor 12,9-10; Gc 1,9-10 ).

Essa non ha nulla in comune con l'arroganza pretenziosa ( Gc 4,16 ), tiene viva la gioia della comunione e sostiene nel lavoro, nelle tribolazioni ( Rm 5,3 ), nelle responsabilità del ministero ( Fil 1,26; Fil 2,16; 2 Cor 1,12.14; 2 Cor 5,12; 2 Cor 10,8ss; 2 Cor 12,1ss; 1 Ts 2,19 ).

Nel corpus paolino si riscontrano anche alcuni altri vocaboli che caratterizzano le deformazioni dell'orgogliosa esaltazione che si manifesta in atteggiamenti di vana gloria, autoesaltazione, arroganza, ostinata cecità, ecc., che proliferano in abbondanza nell'uomo che falsa la sua dignità di creatura e di figlio di Dio.

L'analisi non può fermarsi qui.

I qualificativi cui ho accennato, generalmente, sono menzionati in gruppi di termini, accanto ad altri ai quali sono strettamente uniti o opposti e dai quali non si può prescindere quando si tenta di precisarne il significato.1

2. La diade mite-umile

Nel momento stesso, però, in cui si sottolinea l'esigenza del superamento di un'analisi atomistica e lessicografica, ci si imbatte nella difficoltà delle molte liste di vizi e virtù che esistono nel NT, le quali sono molto diverse l'una dall'altra e non permettono alcuna riduzione omogenea.2

Per limitarci alla coppia mite-umile di Mt 11,29, A. Resch pensò a un vero e proprio topos letterario di tre termini e del quale, in Mt 11,29, mancherebbe il primo: epieiches.3

A lui fa eco. A. von Harnack,4 che, nel 1920, avanzava l'ipotesi secondo cui nel cristianesimo ci sarebbero due schemi ternari, l'uno: fede-speranza-carità, per caratterizzare l'atteggiamento religioso, e l'altro: modestia ( epieicheia ) -mitezza-umiltà, per sintetizzare l'atteggiamento etico.

Quest'ipotesi, per quanto suggestiva, non è corroborata dai testi.

Essi, mentre convalidano l'accostamento mite e umile sia nell'AT ( Is 26,6 e Sof 3,12 ) sia nel NT ( Ef 4,2 e Col 3,12, ma sotto la forma astratta di umiltà-mitezza ), non presentano mai insieme epieiclieia-mitezza-umiltà.

Un accostamento con l'epieicheia avviene attraverso la mitezza che ad essa è abbinata in 2 Cor 10,1 e in Tt 2,3 mentre in Col 3,12 è unita a pazienza, bontà, e sembra che tutte insieme derivino e specifichino i sentimenti ( la volgata traduce "viscera" ) di misericordia di cui gli eletti di Dio, i santi e i diletti, debbono rivestirsi.

In Ef 4,2 si trova lo schema ternario umiltà-mitezza-pazienza, che è collegato all'esortazione a comportarsi in modo degno della vocazione ricevuta e a conservare l'unità dello Spirito nella radicalità delle sue dimensioni.

Anche se si segue l'ipotesi più comune che unisce solo mite e umile, resta aperto il problema del significato dei termini considerati isolatamente e nell'insieme.

E poiché l'aggettivo mite, in due delle tre volte in cui è usato in Matteo, è applicato a Gesù Cristo che è mite e umile di cuore ( Mt 11,29 ) e che viene a Gerusalemme come un re mite ( Mt 21,5 ), e una sola volta è applicato ai miti, nelle beatitudini ( Mt 5,5 ), c'è da vedere se l'interpretazione primaria di questi qualificativi si debba cercare nel contesto cristologico o in quello parenetico.

Molti ritengono che umile di Mt 11,29 sia sinonimo del povero di spirito della beatitudine di Mt 5,3 e, riducendo umiltà a povertà, assumono, per la spiegazione di questa, tutta la problematica dell'interpretazione o esclusivamente sociale, o spirituale, o spirituale e sociologica insieme, della povertà nell'AT e nel NT.

Le origini di codesto accostamento sono molto lontane.

Già i padri della chiesa hanno identificato gli umili con i poveri di spirito.5

Questa interpretazione è stata ripresa da molti esegeti contemporanei e rivalorizzata in seguito dalle scoperte di Qumràn.6

« L'umiltà di cui abbiamo parlato per definire l'atteggiamento inferiore dei poveri di spirito - conclude Dupont - ha il vantaggio di farci raggiungere e l'interpretazione corrente dei primi secoli cristiani e una preoccupazione che si manifesta in altri contesti dello stesso vangelo.

Nonostante ciò il termine è "un peu gros" per rendere esattamente la "nuance" dell'espressione che ci interessa.

Per dire "umile di cuore", Mt 11,29 scrive tapeinos tèi kardiai e si può pensare che l'atteggiamento dei "poveri di spirito" non corrisponda perfettamente con quello di uno sphephai ruah.

Il "povero di spirito" non è precisamente colui che "abbassa se stesso" ( Mt 18,4; Mt 23,12 )…

La povertà spirituale può essere chiamata umiltà, ma non quella che porta a farsi piccoli, come coloro che non valgono nulla… il povero di spirito sopporta tutto con pazienza ».7

Gli esegeti che ritengono che i poveri di spirito della 1a e i miti della 3a beatitudine si equivalgono e indicano le medesime persone,8 avendo interpretato come umili i primi, prendono nello stesso senso i secondi e considerano quasi come simili i miti, gli umili e i poveri di spirito.

Anche in relazione ai miti gli esegeti si domandano se si tratta di un atteggiamento che si limita ai rapporti interumani o investe anche quelli con Dio o i due insieme e se si tratta di una disposizione prevalentemente psicologica e interna o di un modo di esistere connesso prima di tutto alla situazione sociologica di oppressione e di alienazione in cui le persone vivono.

Molti considerano sinonimi anche i qualificativi con cui in Mt 11,29 è connotato Gesù Cristo.

Dupont, dopo aver notato che « la tradizione parenetica dei primi cristiani di lingua greca è sensibile al legame stretto che unisce dolcezza e umiltà », ritiene, però, che questo abbinamento non sia originario del pensiero greco, derivi invece come eredità dalla lingua e dal pensiero semitico, nel quale umiltà e dolcezza costituiscono due aspetti della medesima attitudine di spirito.

Egli pensa anche che nella tradizione greca, del tutto diversa in questo da quella ebraica, "mite" sia l'uomo tranquillo, pacifico, colui che sopporta le contraddizioni, che non è violento, aggressivo; la mitezza è una prerogativa di coloro che detengono il potere ma non è abbinata all'umiltà.

È la tradizione ebraica invece a pensare che non ci sia vera dolcezza se non radicata nell'umiltà e a ritenere entrambe come aspetti inseparabili dell'unica anàwàh, l'umile, dolce, paziente povertà del vero israelita.9

La mitezza sottolinea il carattere sereno, forte e paziente dell'umiltà che si manifesta soprattutto nei rapporti con gli altri e che induce a elaborare le situazioni contrastanti e ciò quale riflesso dell'abbandono a Dio, della pace che consegue la consapevolezza di essere nel suo amore.

L'analisi letteraria porta a riconoscere una stretta analogia tra umiltà-mitezza-povertà di spirito e tende a spiegarla nell'ambito della vasta e complessa categoria biblica della povertà dello spirito.

Per non restare imprigionati nelle secche delle discussioni che oppongono coloro che la interpretano in prospettiva psico-individuale e quelli che la considerano prevalentemente in ottica socio-politica; coloro che ne fanno una prerogativa dei rapporti interpersonali e quelli che ne difendono il carattere prevalentemente religioso e teologale, è opportuno considerarla come dimensione totalizzante dell'atteggiamento del convertito.

È il dignitoso comportamento che matura tra i membri del popolo che Dio ha voluto alleato.

La riflessione può essere impostata anche nella prospettiva che colgo nel contesto cristologico del logion di Mt 11,29.

3. Nell'umiltà di Gesù Cristo

L'ultima parte di Mt 11, in cui si trova l'accenno a Gesù mite e umile di cuore, ha una struttura discussa e complessa.

I suoi elementi fondamentali sono: un logion relativo all'avvento del regno, di carattere apocalittico: l'azione di grazie al Padre, Signore del cielo e della terra, per la rivelazione rifiutata ai sapienti e agli intelligenti e accordata ai piccoli ( nepiois ) ( Mt 11,25-26 = Lc 10,21 ); un logion sulla conoscenza del Padre da parte del Figlio, sulle relazioni misteriose che uniscono Padre e Figlio ( Mt 11,27 = Lc 10,22 ); per le affinità profonde con il quarto vangelo è denominato giovanneo;10 un terzo logion, assente in Luca e presente solo in Matteo ( Mt 11,28-30 ), è di carattere sapienziale e presenta Gesù, sapienza del Padre, che invita gli uomini a venire a sé ( Pr 9,5; Sir 24,19; Sir 6,9-18; Sir 51,23-27 ), ed è costruito sul parallelismo, messo in rilievo da alcuni studiosi, tra il v 28 e 29:

invito: venite a me ( 28 ) invito: prendete il mio giogo sopra (mettetevi alla mia scuola, seguite l'insegnamento che vi dò (29)
qualificativo di chi invita: io sono mite e umile di cuore.
i chiamati: voi tutti che siete affaticati e oppressi i chiamati: sono indicati solo dal "voi" e sono gli stessi del v. 28
promessa: io vi ristorerò promessa: troverete ristoro alle vostre anime
legit. della promessa: il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero (30)

Tra l'invito e la promessa nel v 28 c'è l'indicazione dei chiamati, qualificati con due participi kopiontes e pefortismenoi ) che evidenziano la loro situazione penosa.

Nel v 29 colui che invita è qualificato con due aggettivi, i quali esprimono il suo atteggiamento e la sua disponibilità a soddisfare le aspirazioni dei chiamati, a costituire una situazione contrastante con quella di disagio e di fatica dalla quale essi sono oppressi.

Questo "riposo" non deriva dalla deresponsabilizzazione dei chiamati, ma dalla loro adesione alla richiesta di mettersi alla sua scuola, di assumere il peso del suo insegnamento,11 di sostituire il giogo che vincola a fare cose, a portare pesi, con la comunione di sequela, di ascolto, di dialogo, con la persona che prende su di sé il loro peso e perciò rende libera la loro vita.

Gli studiosi non sono concordi nell'individuazione dei destinatari indicati nel logion, del tipo di disagio dal quale sono oppressi ( probabilmente dal peso delle osservanze farisaiche ) e, conseguentemente, del suo carattere antifarisaico o meno.

Il testo attuale di Matteo rivela un legame tra i vari elementi di questa pericope, in particolare tra gli oppressi del v 28 e i piccoli del v 25.

Andare a Gesù, accogliere l'invito alla sua sequela, significa instaurare con lui un rapporto intimo e profondo, sottoporsi allo stesso giogo che egli continua a portare, a portarlo con lui che invita alla condivisione non alla sostituzione.

Lo si assume nella sua persona, in lui che, volontariamente, realizza il beneplacito del Padre che vuole nuova l'alleanza con l'uomo.

La comunione con lui è partecipazione alla sua esistenza, al suo pensare, vedere, operare; è adesione totale di conoscenza e di compiacimento al Padre e di amore vivificante per l'uomo; significa accettare di essere innervati nella sorgente stessa dei suoi orientamenti e comportamenti, nel suo "cuore" mite, umile, povero, nella radice del suo essere, per trovare ristoro e pace e portare frutti per la vita del mondo.

La comunione con lui non accoglie in un terreno neutro: chiede di agire insieme, immette nell'intimità del sé dove germina l'adorazione del Padre e la misericordia per l'umanità; stimola a lasciare la condizione di vita che rende affaticati e oppressi per condividere la pace nell'ubbidienza al Padre che lo ha mandato ad annunziare il vangelo di salvezza ai poveri ( Lc 4,18s ) e agli smarriti ( Mc 2,17 ); a riconciliare, nel proprio amore, la superbia che rendeva gli uomini estranei a Dio e nemici gli uni degli altri.

Gesù non è un legislatore o un maestro più indulgente di altri, un sovrano dalle pretese meno dispotiche o dalle lusinghe facili e menzognere.

È il vincitore-vinto; ha sperimentato l'abbandono del Padre, ha percorso da solo il cammino di croce ( Mt 27,46; Mc 15,34 ), ha bevuto il calice fino all'ultima goccia.

In lui l'umiltà è espressione della radicale esigenza dell'amore che unisce nello Spirito il Padre e l'umanità; nell'umiliazione e nella gloria della croce egli ha rivelato il significato e la meta ultima dell'invito a condividere il giogo e cioè lo stile di amore del Padre, fonte di ogni amore, sorgente e via di alleanza indissociabile e definitiva.

Dio, che l'uomo accoglie e ama in Gesù Cristo, è Dio fatto uomo; Dio amore, sacrificio, dono, kenosi.

Dio che si limita per sollevare l'uomo dalla sua miseria, renderlo figlio nel Figlio, ambiente, soggetto, termine della sua rivelazione.

La condizione di Dio in Gesù Cristo è la follia ( 1 Cor 1,18ss.25 ) che mette a prova la fede dell'uomo.

Per credere nell' "umile e mite" è necessario essere trasformati dall'umiltà di Dio.

Dio è glorioso e potente, ma la sua non è la gloria e la potenza di cui è avido l'uomo che fugge la sua umanità, è dello stile dell'amore di Gesù Cristo che ha manifestato la sua suprema potenza e gloria nell'impotenza e nel disonore della croce; che si interdice ogni ripiegamento su sé e rivela la sua maestà nella disponibilità all'altro, nella discrezione e nella tenerezza con cui lo associa a sé per prendere su di sé la sofferenza che lo blocca e lo paralizza nel cammino; per colmarlo di pace.

La sofferenza è la miseria più comune, espressione inequivocabile di finitudine e limite.

Gesù ne ha avuto compassione, l'ha presa, l'ha sofferta, l'ha eliminata e svuotata nella radice, ha indicato nell'amore la via e la condizione dell'umanità rinnovata.

La vulnerabilità alla sofferenza altrui è via di pace, è perfezione, quando alimenta la sollecitudine dell'amore che lotta per superarla.

Gesù Cristo ne ha vinto la radice, il maligno, che è fonte di egoismo, autogaranzia, affermazione di sé, volontà di potenza che domina e rende schiavi, seduce e manipola; e ha liberato l'amore che rispetta ed è impaziente, che è attento e violento, che si dona e esige, che comunica disponibilità di sé e apertura al mistero.

Chi non sta eliminando la sofferenza dell'uomo non cammina per la via umile, non porta il giogo di Gesù Cristo.

III - L'uomo umile

1. L'umiltà fondamentale

Il Contesto dell'umiltà nel cristianesimo è storico-salvifico.

Da un lato si connette con la complessa situazione in forza della quale l'uomo, all'origine stessa della sua storia, si ribellò al disegno di Dio, dall'altro alla liberazione della situazione umana avvenuta in Gesù Cristo.

La rivelazione neo-testamentaria sottolinea a più riprese come la via per la quale l'uomo ora deve camminare è una via di umiliazione e che è conseguenza di una decisione di Dio.

« Poiché… nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio12 di salvare i credenti con la follia,13 la stoltezza della predicazione » ( 1 Cor 1,21 ).

Il pensiero ha riscontro in Rm 1,28: « Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia di una intelligenza depravata… ».

La percezione del divario tra la condizione in cui l'uomo vive e quella delle aspirazioni alimenta permanentemente la tentazione di frustrazione, di ribellione, di rifiuto.

Riconoscere la realtà quale è, accogliere la spiegazione che ne viene data, seguire il rimedio proposto, è un insieme che sottopone l'uomo a prova radicale.

In questo contesto l'umiltà nasce o muore.

La sua radice ultima, il criterio di valutazione delle sue esigenze, non è un astratto senso di moderazione e di razionalità.

L'umiltà è la "via", la pedagogia, scelta da Dio, ad essa l'uomo deve conformarsi nel suo cammino.

Gli eventi, le conflittualità che lo mettono a prova, rientrano in un piano misterioso nel quale egli deve accogliersi, farsi prendere, affidarsi senza limiti e riserve, in libertà e amore.

È vita umile rinnegare la visione della vita, qualificata come « stolta sapienza di questo mondo » ( 1 Cor 1,20 ); aprirsi a quella rivelata in Gesù Cristo e descritta con viva immediatezza in 1 Cor 1,17-31.

Non si tratta del semplice passaggio da un modo di essere ad un altro, più razionale, più umano o più rigoroso, ma della conversione dal riconoscimento degli "idoli" all'accoglimento della rivelazione del Padre in Gesù Cristo.

L'umiltà è condizione radicale nella quale matura il "sì" a Dio che chiede di "rinunziare al maligno" per aderire a Gesù Cristo nella via dell'incarnazione ( Ordo del battesimo ).

È l'anti-peccato, l'anti-superbia, lo svuotamento della situazione, di oggi e di sempre, che induce l'uomo a non riconoscere Dio- uomo, a ribellarsi e sostituirsi a lui, a contrastare il suo disegno sull'uomo; è adesione alla via che Gesù Cristo ha costruito nell'ubbidienza della sua carne ( Col 1,22; Ef 2,14-16 ).

L'umiltà è rapporto personale, è scelta di Dio in Gesù Cristo e rifiuto del Maligno e delle sue opere.

Quando da questa dimensione radicale si passa alla determinazione degli atteggiamenti, dei modi di pensare in cui l'umile si esprime a livello individuale e sociale, si verifica uno slittamento di piani nel quale le situazioni, quando vengono assolutizzate e univocizzate, diventano false.

L'umiltà fondamentale si concretizza e cresce nelle visibilizzazioni storiche, ma non si riduce a nessuna delle sue manifestazioni: le esige, le vivifica e le trascende.

Quando l'uomo cessa di trarre ispirazione dalla comunione di vita con lo Spirito e comincia a ispirare la sua vita e la sua condotta sulle prescrizioni, le norme, i modi di fare, si verifica un capovolgimento di piani e l'uomo, da servo dello Spirito, diventa servo dell'istituzione; l'umiltà, dal riconoscimento di lode del piano di Dio in Gesù Cristo, passa all'osservanza del galateo, delle regole di ben vivere, di prudente e dignitosa impostazione di rapporti.

L'umile di cuore vive e cresce in Gesù Cristo, si lascia condurre dal suo Spirito nel valutare situazioni e persone, in verità e rettitudine.

Lo Spirito di Dio in Gesù Cristo è fonte unica, suprema, alla quale il credente si ispira e dalla quale si fa vivificare nell'assumere, in totale libertà interiore, istituzioni e norme; non le falsa, non le idolatra, le prende per quello che sono, resiste alla loro pretesa di imporsi come assoluto, come fonte primaria di ispirazione e valutazione.

Questo processo di riconoscimento delle gerarchie, che porta a dare e a conservare il primo posto a ciò che è primario, inizia con la conversione e dura per l'esistenza; implica lo sconvolgimento e la ristrutturazione di tutta la vita.

Non si consegue con correzioni superficiali di ottiche, attuate con oculati accorgimenti psico-pedagogici e maturate sotto l'influsso di ragionamenti rigorosamente dialettici.

Al riconoscimento di Dio in Gesù Cristo si arriva solo per la via della conversione e in essa si radica e prende vita l'umiltà fondamentale che è componente prima di quel misterioso processo che Giovanni chiama nuova generazione, nascita da Dio.

In e da Gesù Cristo l'uomo nasce al cuore mite e umile, impara ad essere mite e umile di cuore.

Gesù Cristo, che è la sorgente dell'umiltà, ne costituisce anche il paradosso e lo scandalo, Egli per l'uomo superbo è pietra riprovata ( Mt 21,42 e par. ), segno di contraddizione ( Lc 2,34 ), banco di prova.

Chi lo accoglie, nell'unione con lui trova redenzione e libertà, chi lo rifiuta vive l'angustia del rigetto ( At 26,14 ).

Gesù Cristo è la prova suprema che l'uomo deve superare per diventare e mantenersi umile.

Imparare a vivere da uomo salvato significa ascoltare lui, mettersi alla sua scuola.

Gesù che rivela all'uomo la via dell'uomo si presenta in modo sconvolgente.

La sua via e i suoi giudizi non sono quelli che l'uomo vorrebbe ( Is 55,8; Rm 11,33 ).

La sua è via di povertà, di vigore, di mitezza, contrasta l'aspirazione alla forza, alla potenza, al risultato garantito, ecc.

Ispirarsi a un crocifisso, a un vincitore che vince nella sconfitta, è stoltezza per chi non crede, è potenza di Dio per chi crede ( 1 Cor 1,18ss ), ma è potenza di mistero, di abnegazione totale, senza riserve ( Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23 ).

La sua via si manifesta e cresce nell'umiliazione, nella contrarietà permanente del dover vivere lo « scandalo e la stoltezza della croce » ( 1 Cor 1,24 ) che cessa di essere tale quando il residuo di giudeo e gentile, che rimane anche nel convertito, viene vinto e superato.

La "stoltezza" suprema, la crisi più radicale di codesto cammino è la morte, l'irragionevolezza del dover morire e delle condizioni in cui si verifica.

La morte è lo scacco, l'insidia di tutti i progetti e di tutte le iniziative "razionali".

Nessuno riesce a garantire la persona che le prende e le realizza.

Per quanto l'uomo cerchi di ragionarci su, quest'estrema manifestazione del non razionale, limita e contrasta.

Gesù Cristo si presenta come colui che ha vinto la morte ( 2 Tm 1,10 ), ma dopo che si è sottomesso ad essa.

L'uomo che vorrebbe vincerla prima si sente ripetere che « …se il grano di frumento non muore… » ( Gv 12,24 ), « Chi ama la sua vita la perde… » ( Gv 12,25 ).

Dio ha sottoposto l'uomo all'umiliazione del morire in un mondo di liberazione redentiva non preservativa: sarà liberato dal peccato, dall'odio, dall'inimicizia, dall'ingiustizia, dallo smacco, dall'insuccesso, dal fallimento, ma dopo che li avrà subiti e quando avrà vissuto la sofferenza del divario tra desideri e realizzazioni, aspirazioni e risultati.

Il piano di Dio, i suoi silenzi, le sue preferenze, le sue vie, costituiscono uno scandalo permanente per l'uomo che vorrebbe razionalizzare, programmare, ordinare ogni cosa.

Trova la pace non nello svuotamento delle contrarietà e dei conflitti, ma quando li vive fino in fondo, quando non cessa di interrogarsi e di farsi interpellare dalla vita, non pretende di eliminare le contraddizioni, le vive e s'impegna per risolverle.

L'umiltà non è un modo di comportarsi, di pensare, deciso sulla base di una valutazione fallimentare delle proprie prerogative e possibilità confrontate in modo menzognero con quelle degli altri; è verità, riconoscimento di Dio, è "sì" al Padre in Gesù Cristo vivente nella sua chiesa.

Il superbo non riconosce Dio e non si riconosce uomo, falsa i rapporti, non accetta la sovranità di Dio e la propria creaturalità.

La fuga da Dio è fuga dall'uomo e dalle proprie responsabilità.

Da questa situazione egli viene fuori quando comincia ad accettarsi uomo, a compiacersi di ciò di cui Dio si compiace ( Mt 3,17 par. ), e cioè quando non frantuma Gesù Cristo, si accoglie, si vuole, si riconosce in lui.

La consolazione all'umiliazione del vivere è vivere l'umiliazione di convertirsi, diventare "piccolo" come un bambino ( Mt 18,4 ) e cioè "nascere" all'unica condizione nella quale l'ingresso al regno è possibile ( Mt 18,4 ), scegliere di camminare nella via che il Padre ha preferito ( Mt 11,25 ).

L'umiltà non si sprigiona e non matura in astratto: cresce nella prova delle umiliazioni che contrastano i piani, le aspirazioni dell'uomo.

Esse sono indefinite ed è inutile determinarle.

L'esperienza di ognuno porta ad individuarle e discernerle.

La reazione a cedeste situazioni, anche se varia, quando orienta costruttivamente la persona, assume fisionomia inequivocabile.

L'umiltà, perciò, non è un atteggiamento astratto o dai contorni non precisi; è vita in Gesù Cristo; in lui l'uomo matura i comportamenti che caratterizzano i figli di Dio, i cittadini del Regno, la fortezza che modera l'ambizione di risolvere con la violenza il problema umano, la perseveranza nel camminare per la via che egli ha percorso, l'inventiva per non impoverire con calcoli meschini la dignità dell'immagine di Dio.

Quest'affidamento avviene senza garanzie previe.

Egli dà la vita dopo, non prima di, essere stato accolto.

Rende fecondi, ma coloro che accettano la sua vita; ragionevoli, ma nella sua verità.

L'umile non idolatra, non fa calcoli, non gerarchizza ne privilegia, aderisce a Cristo-via e lo segue dove va.

Non ha preclusioni aprioristiche e manichee di stili di esistenza.

Unico suo desiderio è essere in via e, per conseguenza, camminare nella via che è lui e in cui egli incammina, è connaturalizzarsi alle sue preferenze.

L'umiltà è innervata nell'amore; è stile di manifestazione di amore.

Essa viene accolta e matura in contesto di affidamento; sottrae l'uomo alle preoccupazioni di garantire se stesso, lo attrae verso chi lo ama, fonda la pace che consegue la comunione con l'amato, induce a sintonizzare con lui, a prendere su di sé la preoccupazione e la sofferenza dell'altro, ad assumere l'iniziativa di rendere la vita diversa, di moderare la sollecitudine e la preoccupazione di sé, stabilendo per tutti nuove condizioni di esistenza.

Quest'amore non è spontaneo riconoscimento dell'altro: si struttura di povertà e di unicità.

L'uomo vuole autogarantirsi, non accetta di farsi coinvolgere da e con l'altro; vuole essere amato ma non nel rischio della novità, nel rispetto del mistero dell'altro che esige l'abbandono dei modelli "garantiti", delle norme "sperimentate", per aprirsi nella propria irrepetibilità e offrire insperate possibilità di cammino nella condivisione delle responsabilità e della vita.

L'umiltà matura nell'equilibrio e nell'armonia fragile e delicata tra amore di sé e degli altri, vissuti e visti nella prospettiva dell'amore di Dio; è collegata alla realtà della persona, tende a correggere il modo di rappresentarsi i rapporti, a considerarli come sono, non come li si vorrebbe.

Lo scarto tra rappresentazione e realtà è come il limite matematico.

L'uomo è chi è, non chi ritiene di essere, e il sé di ciascuno vive e diviene in osmosi con altri.

E così la via dell'umiltà oscilla tra il già e il non ancora, in un processo senza fine.

La meta è diventare quali si è chiamati ad essere, vincere la falsificazione che si annida nella pretesa di conquistare l'amore, di essere amati, nella rappresentazione che l'uomo si ostina a voler per sé.

L'umiltà si nutre di, e nutre la pace del desiderio, vive dell'equilibrio che scaturisce dall'articolazione tra essere amati, volersi amati, amare.

Le sue scelte diventano autentiche quando l'uomo opera la giustizia, quando è contento di e in Dio e lavora per rendere più umana la condizione di tutti nel mondo e per assecondare chi e ciò che, secondo la valutazione delle situazioni, permette di avanzare in questa direzione.

2. La ricostruzione dell'unità

L'umiltà è pensata e legittimata sulla base del modo di esistere e di comportarsi, della propria posizione nel mondo e delle scelte che l'uomo asseconda; prima che concettualizzata, è vissuta.

Spesso sussiste un divario tra chi l'uomo è e chi pensa di essere e viceversa, tra la rappresentazione di sé incarnata nel modo di essere e quella connessa alle proclamazioni verbali con le quali l'uomo si qualifica.

Quanta menzogna si annida nel fariseismo di molti comportamenti e proclamazioni dimesse!

Il parametro della temperanza e dell'umiltà è la persona; non è la rappresentazione: è l'essere, è l'uomo che pensa nel suo corpo.

Il corpo per non ridursi ad involucro dello spirito deve diventare sintonizzato all'orientamento di esso.

L'uomo dal corpo vero ha un pensiero umile, supera la dissociazione tra vita e pensiero.

L'umiltà è stile di uomo, si esprime nel modo di esistere, di situarsi, di porsi, nella realtà.

La proclamazione di questa possibilità può indurre a pensare che essa sia già avvenuta, realizzata, e a trascurare il fatto che è meta, deve diventare conquista.

Troppo spesso l'orientamento della vita non è gestito dalla mente ma dal corpo che non ha fame quando e quanto sarebbe giusto, non asseconda l'uomo come e quanto potrebbe.

L'uomo che si educa si costruisce un organismo omogeneo al suo orientamento, alla sua tensione alla bellezza, all'armonia, alla salute, e si sviluppa con criteri dettati dall'igiene, dallo sport, dall'estetica, ecc.

Direi che l'uomo non è veramente in pace con Dio finché il corpo non è pacificato.

L'uomo si costruisce la casa.

Il cuore, gli occhi, i movimenti umili, sono riflesso e condizione di un uomo umile.

Il corpo dissociato, diviso dallo spirito, falsa le aspirazioni che strutturano l'uomo, aspira, per es., all'esistere, infinito, tutto, per sempre; ha nostalgia di totalità, di pienezza; diventa soggetto di cupidigia violenta, di brama incontrollata.

L'organismo dissociato ha nostalgia di chi manca all'uomo, vuole tutto per sé, sostituisce ciò che gli manca con una bramosia omogenea alla sua origine, proporzionata alla realtà alla quale l'uomo tende.

L'organismo dell'uomo, strutturato per assecondare la tensione all'infinito, quando l'uomo non cerca l'infinito, non perde la sua struttura, si disintegra dal complesso in cui aveva senso e sviluppa un'energia di infinito per realtà finite.

Il riaggancio, l'unità nell'uomo, avviene non quando l'uomo decide di realizzarlo, ma quando di fatto lo ricostituisce.

L'umiltà non emargina l'organismo, non lo priva dei suoi dinamismi, non li estirpa; ricostituisce l'unità e riequilibra nel tutto le energie impazzite nello stacco.

La meta non è un corpo che non desidera, ma orientare il desiderio perché l'uomo possa con tutto se stesso realizzare la sua missione umana.

Soggetto non è ne il corpo ne l'anima, è l'uomo; l'uomo è uomo e donna.

Uomo-donna, spirito-corpo, devono diventare uniti e l'unità è da e per Dio.

L'uomo vive questa realtà allo stato di dissociazione, ma essa può essere superata e il superamento si realizza quando l'uomo si costruisce in umiltà nella via della vera Vita.

Superbia
Presupposta alla carità Carità VI
Diventar piccoli Esperienza sp. Bib. II,2
Patologia III,2
… e il vangelo Religiosità IV,1
… sua eccellenza Ascesi III
Nella magnanimità, munificenza Antinomie IV
Nel mondo odierno Ascesi IV
In C. de Foucauld Modelli II

S. G. B. de La Salle

Chi insegna agli altri è la voce che prepara i cuori; ma è solo Dio che - con la sua grazia - li dispone a riceverlo MD 3,1
L'obbedienza dev'essere mossa dalla fede MD 9,1
L'obbedienza ottiene spesso grandi risultati, anche se - in se stessa - sembra ben poca cosa MD 12,2
Sullo spirito di penitenza nel quale dobbiamo entrare ricevendo le ceneri e nel quale dobbiamo vivere durante tutta la Quaresima MD 16,2
Apertura e semplicità di cuore MD 19,2
Con quale spirito dobbiamo ascoltare e ricevere le parole dei Superiori MD 21,2
Amore per la preghiera MD 38,3
Festa della SS.ma Trinità MD 46,1
La cattiva comunione: cause e rimedi MD 52,3
Il disprezzo di se stessi MD 63,2-3
Unione con i Confratelli MD 65,2
Mezzi per guarire dalle infermità spirituali sia volontarie che involontarie MD 71,2
San Francesco Saverio MF 79,2
Sant'Ambrogio arcivescovo di Milano MF 81,1
Ottava dell'Immacolata Concezione MF 83,1
Festa del Santo Natale MF 86
San Giovanni evangelista MF 88,1
Qual'è stato il nostro comportamento verso il prossimo durante quest'anno e quali sono state le nostre colpe MF 91,2
Circoncisione di Nostro Signore Gesù Cristo MF 93,1-2
San Giovanni Crisostomo MF 100,2
San Francesco di Sales MF 101,2
Purificazione della Vergine Maria MF 104,1
San Tommaso d'Aquino MF 108,3
San Gregorio Magno papa MF 109,3
Annunciazione della Beata Vergine Maria MF 112,1
San Francesco da Paola MF 113,1
San Pietro da Verona MF 117,2
S. Pietro Celestino MF 127,2
San Bonaventura MF 142,2-3
Sant'Ignazio MF 148,3
Devozione verso la SS.ma Vergine MF 151,2-3
San Bartolomeo apostolo MF 159,2
San Luigi re di Francia MF 160,2
Sant'Agostino MF 161,3
San Cipriano MF 166,1-2
San Girolamo MF 170,2-3
San Francesco Borgia MF 176,1
Sant'Ilarione MF 180,1
Santa Elisabetta MF 190,3
Ecco cosa occorre fare per cooperare con Gesù a salvare le anime dei ragazzi MR 196,2
Cosa dovete fare per rendere il vostro ministero utile alla Chiesa MR 200,3

1 J. Dupont, Les béatìtudes, t. Ili, Les Evangelistes, Parigi, 2 ed. 1973, 502
2 Ivi, 503 nota 1
3 A. Resch, Aussercanonische Paralleltexte zu den Evangelien.
I. Textkritische und Quetlenkritische Grundlegungen. Paralleltexte zu Matthàus und Marcus, Lipsia 1893-94, 136. Per la questione cf F. d'Agostino, Epieikeia. Il tema dell'equità nell'antichità greca, Milano 1973, 148-167
4 A. von Harnack, Sanftmut, Huid und Demut in der alten Kirche in Festgabe fiir J. Kaftan, Tubinga 1920, 113-129
5 J. Dupont, Les béatitudes, t. Ili, Les Evangelistes, Parigi 1973, 399-419
6 Ivi, 457-469
7 Ivi, 470
8 J. Dupont, o. c., 385, 473, 510
9 Ivi, 506
10 E. Boismard, Synopse des quatres évangiles, II, Parigi 1972, 169
11 G. Lambert, Mon joug est aisé et mon fardeau léger in NRT 77 (1955) 963-969
12 Quest'espressione, nella sua forma verbale e sostanziale, è attribuita a Dio una ventina di volte nel NT. Cf per es. Dio si compiace del Figlio Mt 3,17; Mt 11,26; Mt 12,18; Mt 17,5; Mc 1,11; Mc 3,22; 2 Pt 1,17; Dio si compiace dell'opera che compie Lc 2,14; Lc 10,21; Lc 12,32; 1 Cor 1,21; 1 Cor 10,5; Gal 1,15; Ef 1,5.9; Col 1,19; Eb 10,38
13 Il qualificativo folle si riscontra altre volte nella stessa lettera 1 Cor 1,18.20.23.25.27; 1 Cor 2,14; 1 Cor 3,18.19; 1 Cor 4,10