Carità

IndiceA

Sommario

I. Premessa.
II. La carità nel mondo precristiano e non cristiano:
1. Presso gli egizi e nel mondo greco-romano;
2. Nelle grandi religioni non cristiane.
III. La carità nell'AT:
1. Amore di Dio per l'uomo;
2. Amore dell'uomo per Dio;
3. Amore dell'uomo per il prossimo.
IV. La carità nel NT:
1. I verbi usati nel greco prebiblico per esprimere il concetto di amore;
2. La terminologia biblica;
3. Cristo Gesù rivelazione storica della carità di Dio;
4. La carità nei vangeli sinottici;
5. La carità negli scritti giovannei;
6. La carità nelle epistole neotestamentarie;
7. L'inno alla carità di s. Paolo.
V. Caratteristiche cristiane della carità:
1. La carità in rapporto alle altre virtù teologali;
2. Carattere universale della carità;
3. La carità mezzo di conoscenza;
4. La carità come realtà creatrice.
VI. La carità principio attivo di vita spirituale:
1. Carità e azione caritativa;
2. La carità superamento dell'antitesi fede-opere;
3. Carità e azione dello Spirito santo;
4. Carità e perfezione cristiana.
VII. La carità nella acculturazione ecclesiale odierna:
1. La carità segno di credibilità del messaggio cristiano;
2. La carità nel contesto sociologico del nostro tempo;
3. La carità elemento primario per il dialogo.

I - Premessa

Il discorso sulla carità è continuo ed insistente nell'assemblea cristiana: se ne sottolinea l'essenzialità, così da affermare come non si possa essere cristiani autentici se non si vive la carità, ne si possa testimoniare alcun ( v. ) apostolato ecclesiale senza una personale vita caritativa.

Eppure sembra che i fedeli conoscano assai poco la carità nella sua specificità rivelata e teologica, nonostante essa venga richiamata con insistenza; che essi ne posseggano un'idea vaga, generica; che la considerino per lo più, in concreto, come gesto di elemosina o di soccorso misericordioso verso il fratello bisognoso.

Anche come prassi, la carità non appare esemplarmente praticata.

Forse se ne parla molto, anche perché tutti ne percepiscono la necessità mentre ne costatano l'assenza concreta.

Spesso il cristiano lamenta come la carità non venga attuata dagli altri, come sia trascurata nella stessa comunità ecclesiale, e poi non se ne preoccupa di viverla con l'esempio.

Tutto questo suggerisce l'opportunità di una riflessione teologica spirituale sulla carità in vista di una migliore prassi ecclesiale.

II - La carità nel mondo precristiano e non cristiano

È perlomeno superficiale il giudizio secondo il quale le civiltà precristiane conoscano soltanto la violenza e la crudeltà.

Anche in esse emergono, sia pure a sprazzi, scintille di quella esigenza della carità che testimoniano della legge interiore che l'azione divina suscita in tutti gli uomini.

L'apostolo Paolo ce lo conferma affermando: « Quando i pagani, che non hanno la legge [ legge mosaica ], adempiono per natura le cose della legge, son legge a se stessi; essi mostrano che quel che la legge comanda è scritto nei loro cuori per la testimonianza che rende loro la coscienza, e perché i loro pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda.

Tutto ciò si vedrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo» ( Rm 2,14-16 ).

1. Presso gli egizi e nel mondo greco-romano

Tra le antiche civiltà è senza dubbio quella egiziana che ha avuto una più alta idea umanitaria: uguaglianza nella giustizia, diritti alle donne e ai bambini, diritti agli schiavi, assistenza dovuta ai miseri.

Soprattutto il culto della divinità era legato alla assistenza ai poveri, quasi preannunzio della carità di Cristo.

In una iscrizione della V dinastia ( 2563-2422 a. C. ) un funzionario dichiara: « Ho distribuito il pane a tutti gli affamati del monte Arato, ho vestito colui che era ignudo ».

Più di mille anni dopo, cioè ai tempi in cui Davide regnava in Israele, sotto la XXI dinastia ( 1085-950 a. C. ), nell'iscrizione del gran sacerdote di Amon, Bakenkhonsua, troviamo un linguaggio che riflette la rivelazione biblica del Pentateuco: « Fui un padre per i miei subordinati, perché ho istruito i loro giovani, ho porto la mano agli infelici, ho assicurato l'esistenza di coloro che sono nel bisogno.

Io non ho generato terrore nei miei servi, ma fui per essi un padre; ho assicurato i funerali a chi non aveva eredi, un feretro a chi non possedeva nulla.

Ho protetto l'orfano che mi implorava ed ho preso nelle mie mani gli interessi della vedova ».

Questo spirito di carità si ispirava al pensiero della divinità che mette nel cuore degli uomini la conoscenza della sua legge ed all'idea di una risurrezione dopo la morte nella quale chi avrà agito bene riceverà il suo premio.

Se nel mondo greco-romano non mancano esempi di carità, dobbiamo osservare che si tratta quasi sempre di uno scambio di interessi, di una filantropia nella quale il singolo o la comunità ricercano il proprio vantaggio.

Senofonte, esortando Eracle, pone in bocca alla Virtù queste affermazioni: « Chi desidera la protezione degli dei, deve essere pio nei loro riguardi; chi vuole essere amato dagli amici, deve far loro del bene, chi vuole essere onorato dalla città, deve servirla; chi vuole essere ammirato da tutta la Grecia, deve beneficarla; chi vuole raccogliere frutti abbondanti da un terreno, deve coltivarlo ».1

Lo stesso Senofonte fa dire da Iscomaco alla sua giovane moglie: « Se Dio ci darà dei figli, dobbiamo educarli meglio che sia possibile.

È nostro interesse, di tutti e due, assicurarci dei compagni di lavoro, sostegno della nostra vecchiaia, che siano i migliori possibili ».2

Inoltre, nel mondo greco-romano, il significato cristiano della carità verso i poveri è completamente assente.

Il povero è considerato un danno per la città e per l'umanità.

Aristotele affermava che la povertà è « la sorgente delle sedizioni e dei crimini ».

Se il povero viene soccorso non è per amore ma per neutralizzare il pericolo che esso costituisce nel vivere associato.

Scrive uno studioso nei confronti della beneficenza e dell'assistenza ai poveri nell'antichità precristiana: « C'erano in Grecia molte antiche fondazioni che avevano per fine di soccorrere alcuni gruppi di abitanti di una città; ma i poveri, in quanto tali, non sono mai oggetto di questa beneficenza ».3

2. Nelle grandi religioni non cristiane

Nei brevi cenni che seguiranno, non si terrà conto, naturalmente, dell'ebraismo la cui trattazione coinciderà con quella dell'AT. [ Tuttavia v. Ebraica ( spiritualità ) ] .

a. Il ( v. ) Buddhismo

Per quel che concerne il concetto di carità il buddhismo, con le sue dottrine del Grande Veicolo ( Mahàyàna ) e con la sua concezione attiva di benevolenza ( maitrì ), ha un posto tutto particolare fra le grandi religioni non cristiane.

Basti questa sola citazione: « Non c'è nulla di più potente della maitrì.

Mai l'odio ha estinto l'odio. La benevolenza ha estinto l'odio.

Questa è la legge eterna ».4

I motivi ispiratori che animano il buddhismo si differenziano però da quelli della carità cristiana in quanto, pur affermando entrambi l'esigenza dell'amare l'altro come noi stessi, l' "io" buddhista è in un'ultima analisi un "io" illusorio che si cerca di annientare e di liberare dalla propria individualità: « La nessuna importanza dell'individuo è per il buddhismo un assioma fondamentale, come per il cristiano il valore infinito dell'anima umana ».5

Il valore positivo che il buddhismo annette all'amore si deve al fatto che esso è una redenzione del cuore più che una sorgente di azione.

Gli atti caritativi sono una tecnica che permette all'uomo di soggiogare il proprio "io" individuale.

Il che non toglie che il concetto di amore raggiunga nella spiritualità del buddhismo vette molto alte come nella poesia religiosa: « Egli mi ha fatto oltraggio e mi ha percosso, / mi ha spogliato di tutto e mi ha sconfitto: / in chi scaccia da sé questo pensiero, / scomparirà lo spirito dell'odio. /

Poiché nel mondo mai l'inimicizia / sarà scacciata con l'inimicizia. / Solo l'amore può spegnere l'odio, / e questa legge vigerà in eterno ».6

È giusto anche ricordare che le filosofie religiose di Confucio e Lao-Tse, sia pure con diverse motivazioni, hanno proclamato il principio della benevolenza universale e del disinteresse completo.

b. ( v. ) Induismo

L'etica, nell'induismo, è strettamente legata alle nozioni di dharma e di karman, dalle quali dipende il destino dell'uomo: « La condotta buona e giusta è il dharma.

Chiunque si comporta antidharmicamente si perde in questo mondo e nell'altro; ne l'ascesi ne il sacrificio possono salvarlo ».7

È il dharma a provocare un karman positivo o negativo, buono o cattivo, favorevole o nefasto.

Il che pone l'uomo di fronte alle proprie responsabilità personalima anche alla solitudine del proprio impegno: « L'essere viene al mondo solo, solo sparisce, solo riceve il frutto dei suoi atti buoni o dei suoi atti cattivi.

Quando egli abbandona al suolo il corpo senza vita, come una particela di legno o di terra, i suoi prossimi se ne vanno, voltando la testa; solo il merito lo segue ».8

Il "non-attaccamento" è quindi uno dei motivi fondamentali dell'etica induista.

E l'idea del merito deriva principalmente dall'evitare il "male-impurità" e dalla legalistica sanatoria dell'atto peccaminoso compiuto.

Non mancano però correnti più moderne per le quali il merito nasce da un impegno dell'uomo verso altri uomini e verso il mondo.

L'azione moralmente valida si apre così ad una benevolenza attiva ( maitrì ), ad una capacità di tolleranza verso tutto e verso tutti, ad un impulso di altruismo e di compassione ( karunà ) che si ispira ad idee religiose del buddhismo e dischiude spiragli di carità.

c. ( v. ) Islamismo

Fra i cinque pilastri sui quali si fonda la dottrina dell'Islam troviamo l'elemosina ( zakàt ) al secondo posto.

La zakàt, etimologicamente "purità", è la carità intesa dal Corano come un atto che purifica le ricchezze dalla gloria mondana e propizia il premio eterno.

La zakàt, come la decima giudeo-cristiana, è una contribuzione obbligatoria, ma con fini diversi.

È destinata ad aiutare i poveri, gli schiavi che cercano di affrancarsi, i viaggiatori privi di mezzi, i volontari della guerra santa, nonché ad incoraggiare la conversione dei poveri all' Isiam.

Questa contribuzione obbligatoria non esclude però le forme spontanee di elemosina e di beneficenza.

Il testo coranico promette la "Dimora Finale" acoloro che « elargiscono di qualche loro la Nostra Provvidenza provvede, in segreto e in modo palese » ( XII, 22), « che dei loro beni han fissato debita parte per il povero e il mendicante » ( LXX, 24 ) e « ciberanno per amor suo [di Allah] il meschino, il prigioniero, l'orfano » ( LXXVI, 8 ).

L'islamismo, pur essendo radicato sul terreno religioso ebraico, non ne ha percepito la predisposizione alla storicizzazione del rapporto dell'uomo con Dio, cioè degli interventi di Dio nel tempo.

l rapporto uomo-Allah è quindi in termini di infinita distanza.

La creatura, dinanzi ad Allah, è come nulla.

Fra l'uomo ed Allah vi è un abisso che anche la contemplazione mistica non riesce a colmare.

L'idea cristiana dell'Iddio fonte di amore è quindi completamente assente.

III - La carità nell'AT

L'AT per esprimere il concetto di "amore" si serve soprattutto della radice 'hb e del suo derivato 'ahabah.

Questo sostantivo, come il verbo 'aheb, sono utilizzati per esprimere in senso positivo sia le relazioni familiari e di amicizia, come anche le relazioni fra uomo e donna.

Possono avere anche un significato altamente religioso come ad es. nell'immagine del matrimonio fra Jahve ed Israele.

Altra radice usata è rhm, comune a tutte le lingue semitiche, dalla quale deriva l'appellativo rahùm che significa "misericordioso", riservato quasi esclusivamente a Dio.

L'AT conosce sia l'idea dell'amore di Dio per l'uomo, come quella dell'amore dell'uomo per Dio e dell'uomo per il prossimo.

1. Amore di Dio per l'uomo

Nell'AT l'amore di Dio non è un sentimento ne un semplice comportamento, ma l'azione di Jahve che si ricorda del suo popolo prigioniero in terra straniera e interviene storicamente in suo favore.

Salva Mosè per dare un condottiero al suo popolo, lo fa uscire dall'Egitto, lo difende dagli attacchi degli eserciti egiziani, lo fa scampare dalle acque del Mar Rosso, lo conduce attraverso il Giordano nella terra promessa ai suoi padri.

L'affermazione che l'azione di Jahve nei confronti di Israele è quella del suo amore trova in Osea la sua chiara espli citazione: « Quando Israele era fanciullo, io l'amai, e fin dall'Egitto richiamai il mio figliuolo » ( Os 11,1 ).

È quindi un amore attivo rivolto verso una collettività ( Ger 31,3; Dt 4,37; Dt 10,15; Sal 41,12 ).

Può anche prendere l'aspetto di un giudizio severo, ma si risolve sempre con una tonalità positiva, di cui è esempio lo stupefacente monologo di Jahve con se stesso: « Éfraim è egli dunque per me un figliuolo sì caro?

Dacché io parlo contro di lui, è più vivo e continuo il ricordo che ho di esso; perciò le mie viscere si commuovono per lui, ed io certo ne avrò pietà, dice l'Eterno » ( Ger 31,20 ).

Questo amore che si rinnova di generazione in generazione ha un suo piano ed un suo disegno eterno.

È inoltre un amore elettivo e creatore.

Jahve crea il popolo che intende amare e salvare liberamente: « L'Eterno, l'Iddio tuo, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra… non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli… ma perché l'Eterno vi ama » ( Dt 7,6-8 ).

Questo concetto ribadito in Dt ( Dt 4,37; Dt 8,13; Dt 10,15; ecc. ) si ritrova spesso anche nei profeti ( Is 41,8; Is 54,5-8; Os 11,1; Ml 1,2; ecc.).

Si tratta però soprattutto di un amore misericordioso, che salva, soccorre e perdona: « Tu sei un Dio pronto a perdonare, misericordioso, pieno di compassione, lento all'ira e di gran benignità » ( Ne 9,17; anche: Dt 23,5; Sal 86,5; Is 43,25; Is 54,10; Is 63,9; Os 11,7-9; Os 14,4; ecc.).

Questo amore, rivolto innanzitutto al popolo eletto, raggiunge individualmente questo o quello dei suoi membri ( Is 41,8; Ml 1,2; Sal 41,12; Pr 3,12; ecc.), e si manifesta col suo carattere di universalità attraverso l'azione di Dio in favore del suo popolo ( Is 42,1; Is 49,7; ecc. ).

Notiamo infine che mentre nel Dt l'amore di Dio viene testimoniato soprattutto in rapporto al passato ( Dt 4,37; Dt 7,8; Dt 10,15; ecc. ), nei profeti è annunciato essenzialmente in funzione dell'avvenire e assume quindi la sua dimensione messianica ( Is 9,1-6; Is 11,1-9; Ger 33,10-11; Ger 14-16; ecc. ).

2. Amore dell'uomo per Dio

In tutto l'AT troviamo traccia della risposta dell'uomo all'amore elettivo e misericordioso di Dio.

Dio è amato come liberatore e soccorritore ( Sal 18,2-4 ), perché ascolta la supplicazione del suo servitore ( Sal 116,1 ).

Questo amore si esprime nel servizio e nell'obbedienza ( Dt 10,12ss ), osservando i suoi comandamenti ( Es 20,6; Dt 5,10; Dt 7,9; Dt 11,1; Dn 9,4; Ne 1,5 ) e seguendo le sue vie ( Dt 10,12; Dt 11,22; Dt 19,9; ecc. ).

Si tratta di un amore che implica un'obbedienza personale e totale, che impegna tutte le facoltà dell'uomo in un servizio che fa la sua felicità e la sua gioia ( Dt 6,5 ).

E infine un amore che viene messo continuamente alla prova: « L'Eterno, il vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate l'Eterno, il vostro Dio, con tutto il vostro cuore e con tutta l'anima vostra » ( Dt 13,4 ) e che sarà senza difetto soltanto per l'azione stessa di Dio: « L'Eterno, il tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua progenie affinché tu ami l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua; e così tu viva » ( Dt 30,6 ).

È soprattutto con Amos ( verso il 750 a. C. ) e con Osea ( verso il 730 a. C. ) che il precetto di amare Dio appare chiaramente, preparando così il clima alla formulazione esplicita del comandamento: « Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze » ( Dt 6,5; Dt 10,12; Dt 11,1.22; Dt 19,8; ecc. ).

Essi infatti predicano ad Israele che Dio lo ama come "padre" e come "sposo" ed è quindi ingiusto non rispondere a questo amore ( Os 2 e 11, Am 9,11-15 ).

3. Amore dell'uomo per il prossimo

Il precetto dell'amore verso il prossimo appare esplicitamente, nell'AT, in periodo piuttosto tardivo, cioè nel Lv: « Amerai il tuo prossimo come tè stesso » ( Lv 19,18 ).

Questa formulazione è però il risultato di una tradizione che si era venuta formando e ampliando sin dai tempi dell'Esodo.

Comunque, l'AT conosce tutte le sfumature dell'amore verso il prossimo.

Innanzitutto l'amore verso i poveri ed i bisognosi che debbono essere oggetto di caritatevole trattamento ( Es 23,6; Lv 19,10.15; Lv 25,5-6.35; Dt 15,7-8; Dt 24,10-13; ecc. ).

Le prescrizioni relative agli anni giubilari e sabbatici ( Es 23,10-11; Lv 25,23-34 ) mettono in particolare risalto la posizione dei poveri come soggetto di carità che raggiunge anche gli schiavi con il diritto al riscatto.

Lo straniero che aveva fissato la sua residenza nel paese, godeva non soltanto l'eguaglianza dinanzi alla legge, ma aveva diritto all'amore fraterno dell'israelita ( Es 22,21; Es 23,9; Lv 19,33-34; Nm 19,20; ecc. ).

La motivazione di questo amore era costante: « poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto » ( Dt 10,19; ecc. ).

Questo soccorso dovuto allo straniero viene quasi sempre accomunato al soccorso caritatevole dovuto agli orfani e alle vedove ( Es 22,21-27; Dt 10,18; Dt 15,7; Dt 16,11; ecc. ).

Alle persone anziane è dovuto onore e rispetto ( Lv 19,32 ) e nei confronti dei menomati fisicamente è richiesto un atteggiamento di riguardo ( Lv 19,14; Dt 27,18 ).

L'atteggiamento verso i nemici, se si fa eccezione per Es 23,4-5, è invece di odio e di vendetta ( Es 15,6; Nm 23,11; Sal 7,6; Sal 69,23-29; Sal 109,6-16; ecc. ).

Queste invettive però spesso sono dettate per far appello alla liberazione che viene da Dio ( Sal 18,46-48; Sal 22,19; ecc. ) e, nella maggior parte dei casi, scaturiscono dalla concezione giudaica per la quale chi offende e calpesta il popolo di Dio o il servitore dell'Eterno si fa nemico di Dio stesso ( Nm 10,35; Gdc 5,31; Sal 92,9; ecc. ).

L'amore dei genitori verso i figli ( Gen 37,3 ) e dei figli verso i genitori ( Es 20,12 ), anche se non ribadito, è implicito in tutta l'etica veterotestamentaria.

L'amore coniugale è visto alla luce della concezione genesiaca ( Gen 2,18-25 ) per la quale la coppia forma una unità che si realizza nella reciprocità dell'offerta.

Questo vincolo, che coinvolge anche la sfera della sessualità, viene esaltato dal Cantico dei Cantici il quale, allegoricamente, esprime anche l'amore di Dio per il suo popolo.

Le espressioni d'amore in questo campo sono spesso intrecciate l'una all'altra, senza distinzione fra il profano ed il religioso.

IV - La carità nel NT

1. Verbi usati nel greco prebiblico per esprimere il concetto di amore

I greci usavano tre verbi per esprimere il concetto di amore: éran, philéin e agapan.

a. Éran - Da esso deriva il sostantivo "eros" e indicava essenzialmente l'amore passionale, l'amore-desiderio.

Non solo desiderio della donna da parte dell'uomo, ma desiderio di tutto quanto era degno di essere posseduto.

Questo amore possessivo fu, nel mondo greco-romano, il motore principale della vita morale ( amore delle virtù ), della vita artistica ( amore del bello ), della vita filosofica ( amore del vero ), della vita religiosa ( amore della divinità, dell'immortalità, ecc. ).

b. Philéin - Il suo sostantivo "philìa" ha dato luogo al termine "filantropico".

Esprimeva il concetto di amicizia e designava l'amore disinteressato che prende cura dell'uomo, di un amico, della patria, ecc.

Il pensiero greco se ne serviva soprattutto per indicare uomini nei quali la volontà e la nobiltà del cuore aveva signoreggiato le passioni umane ( ad es. Antigone ).

e. Agapan - È usato con significati piuttosto vaghi fra i quali, il più caratteristico, è quello di prediligere, preferire, tenere qualcuno in maggiore considerazione di un altro.

Può quindi anche essere tradotto con "dimostrare affetto".

Piotino lo ha utilizzato per indicare l'amore che si irradia da Dio, l'amore del potente che solleva l'umile e lo innalza al di sopra degli altri.9

È questo il verbo che i traduttori in greco dell'AT hanno preferito per esprimere il concetto contenuto nel corrispondente 'aheb ebraico.

Dall'AT questo verbo greco, con il suo corrispondente sostantivo "agape", è passato nel linguaggio neotestamentario, dando ad esso un significato nuovo ed immensamente ricco, che esprime tutta la pienezza del rapporto tra Dio e l'uomo e del rapporto nuovo che il messaggio cristiano ha instaurato fra uomo e uomo.

L'amore per Dio e per il prossimo sono infatti, nel messaggio cristiano, due aspetti della medesima agape.

2. La terminologia biblica

Nella sua traduzione in latino del NT, detta "Vulgata", s. Girolamo traduce il greco agape ( amore ) con i termini dilectio e charitas.

Generalmente dilectio viene usato quando prevale il senso di un rapporto affettuoso e viene indicata la persona alla quale si riferisce: amore verso Dio ( Gv 5,42 ), amore di Dio Padre verso il Figlio ( Gv 17,26 ), amore tra Dio, Cristo e i discepoli ( Gv 13,17 ), amore del prossimo ( Rm 12,9; Rm 13,10; ecc. ).

Il termine charitas, nella maggior parte dei casi, viene utilizzato quando agape non ha un oggetto determinato e acquista, in qualche modo, un senso tecnico cristiano: « Dio è amore » ( 1 Gv 4,16 ), « l'amore di Cristo ci costringe » ( 2 Cor 5,14 ), ecc., così come nel paolino "inno alla carità" ( 1 Cor 13 ).

Quando l'amore fraterno è espresso nel greco col termine philadelphia, i traduttori utilizzano il quasi sinonimo agape traducendolo con "carità".

Il termine greco éleos ( compassione, pietà ), nei LXX è normalmente la traduzione dell'ebraico hered che sta ad indicare un rapporto di reciprocità, il comportamento che uno può attendersi da un altro, il gesto soccorrevole suggerito dalla fedeltà.

Nel NT invece éleos indica per lo più il rapporto che Dio vuole intercorra fra uomo e uomo: bontà, pietà, compassione.

Nella parabola del "buon samaritano" è utilizzato per esprimere un sentimento di misericordia ( Lc 10,37; Lc 6,36; Ef 4,32, Gc 2,13, ecc. ).

Riferito a Dio l'éleos ne esprime la fedeltà misericordiosa ( Lc 1,58.72.78; 1 Pt 1,13 ), l'azione storico salvifica ( Rm 11,30.32; Gal 6,15, ecc.), nonché l'opera escatologica in Cristo che trova la sua formulazione dogmatica in Tt 3,5;

« Egli ci ha salvati non per opere giuste che noi avessimo fatte, ma secondo la sua misericordia ».

Nel lignaggio biblico, quindi, il termine "carità" esprime al livello più alto quello di "amore" ed è comprensivo di quello di "misericordia", sia che si tratti del rapporto di Dio con gli uomini come di quello degli uomini con Dio e degli uomini fra loro.

L'amore è la fonte della carità e la misericordia ne è la manifestazione.

È bene inoltre sottolineare che nella spiritualità cristiana il termine "carità" non ha il significato superficiale che riveste nel linguaggio corrente per indicare la pratica della beneficenza, pur essendone uno dei frutti, ma vuole esprimere la forma cristiana della misericordia e dell'amore.

3. Cristo Gesù, rivelazione storica della carità di Dio

Rivelatore della carità di Dio è Cristo Gesù: « In questo si è manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il suo unigenito Figliuolo nel mondo, affinché per mezzo di lui vivessimo » ( 1 Gv 4,9 ).

Questo amore, iniziativa di Dio, si è manifestato nel dono di Cristo per noi peccatori ed ha avuto il suo compimento sulla croce: « In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Iddio, ma che egli ha amato noi e ha mandato il suo Figliuolo per essere la propiziazione per i nostri peccati » ( 1 Gv 4,10 ).

Scrive un esegeta: « La parola amore abbisogna sempre di un dizionario e per i cristiani il dizionario è Cristo Gesù ».10

Questa carità di Dio si è rivelata in un evento storico: il fatto di Gesù Cristo che inaugura il tempo della misericordia divina.

Questo evento storico, rivelazione unica e sufficiente dell'amore di Dio ( Rm 5,8; Rm 8,28.31ss; Gv 3,16; 1 Gv 4,9; ecc. ), manifesta anche che Dio non ha soltanto amato ( passato ), ama ( presente ), ma che egli « è amore » ( 1 Gv 4,8 ) e quindi la sua azione è nel tempo.

Questo evento storico ha un carattere elettivo in quanto il suo Figlio unigenito è stato messo a parte per una missione particolare ( Mc 12,6 ) e si fonda su una perfetta corrispondenza d'amore fra quel che Dio pensa e decide e quello che Gesù attua al servizio degli uomini ( Gv 3,35; Gv 5,20; Gv 10,17; Gv 14,31; Gv 17,23-36 ).

La carità di Cristo è infatti riassunta nella sua persona e nella sua opera.

Essa ci rivela il segreto della sua unione con Dio e della sua unione con gli uomini; è lo strumento della sua iniziativa salvifica che fa di lui, anche storicamente, il salvatore del mondo.

4. La carità nei vangeli sinottici

Nei sinottici, i passi nei quali si parla dell'amore di Dio e del rapporto fra Dio e l'uomo e fra uomo e uomo, culminano sempre nell'esortazione alla misericordia e allo spirito di riconciliazione.

Questa misericordia di Dio si esprime nel perdono dei peccati che deve suscitare da parte dell'uomo un medesimo atteggiamento verso il prossimo ( Mt 6,12.14-15; Mt 18,35; Lc 6,37; ecc. ).

Il perdono verso i nostri simili è quindi un aspetto della carità attiva in riconoscente risposta al perdono ricevuto: « Se è vero che la vita cristiana è la continuazione della vita del Cristo nei cristiani, la nostra carità non è soltanto l'imitazione della sua carità ma, più profondamente, essa è la partecipazione a questa carità e il suo prolungamento; non possiamo amare cristianamente se non per mezzo di Gesù e in Gesù ».11

È da rilevare la parte preponderante che, nel vangelo di Luca, hanno i poveri, i diseredati, gli umili.

Essi sono l'oggetto principale delle cure amorevoli di Gesù, nato poveramente in una stalla, nella cerchia di israeliti di modesta condizione.

La sua missione è di "evangelizzare" i poveri ( Lc 4,18; Lc 7,22 ); la prima beatitudine è per i poveri ( Lc 6,20 ), mentre un severo giudizio è pronunciato contro i ricchi ( Lc 6,24-25 ).

Varie parabole ed insegnamenti mettono in guardia contro il pericolo delle ricchezze non condivise, esprimono il dovere di beneficare i poveri e li indicano come privilegiati nella vita futura ( Lc 12,13-21; Lc 16,19-31; Lc 19,2-10 ).

Inoltre è Luca a tramandarci la parabola nella quale un samaritano è additato come modello di amore del prossimo ( Lc 10,30-37 ).

5. La carità negli scritti giovannei

Negli scritti giovannei « l'amore è concepito come un'energia primordiale della vita, un modo di essere, una realizzazione di Dio in questo mondo ».12

Essi presentano l'amore nel suo senso assoluto ( 1 Gv 3,14.18; 1 Gv 4,7-8.19 ) e nel suo aspetto di amore fraterno ( 1 Gv 2,10; 1 Gv 3,10; 1 Gv 4,20; ecc. ) come il compimento ed il marchio di autenticità di tutta la vita cristiana.

Per Giovanni l'amore è la pietra angolare del regno di Cristo che si va realizzando nella crisi del mondo ( Gv 3,16 ).

Egli pone l'accento sull'amore del Padre verso il Figlio ( Gv 3,35; Gv 10,17 ) il quale è in tutto e per tutto il mediatore dell'amore divino ( Gv 17,23ss; Gv 14,21ss ) e sottolinea l'amore del Figlio verso coloro che il Padre gli ha dato come "amici" ( Gv 15,14-15 ).

Coronamento e sorgente di questo amore è il sacrificio del Figlio per mezzo del quale Dio attua la salvezza del mondo ( Gv 13,1 ).

Sottolineando il carattere attivo, in Cristo, dell'amore di Dio, Giovanni insiste sull'amore verso i fratelli che ha in Cristo il suo modello e la sua fonte ( Gv 13,34; Gv 14,15; Gv 21,15ss ).

Esorta quindi i fratelli all'amore reciproco ( 2 Gv 5-6 ) ed alla carità anche verso gli stranieri ( 3 Gv 5-6 ).

Questa sublimazione dell'amore ai propri fratelli, per la quale la dedizione al prossimo è indispensabile per vivere nella carità di Dio ( 1 Gv 4,20-21 ), è stata messa in luce dall'apostolo Giovanni come una eco di quanto Gesù aveva espresso nel suo discorso sul "giudizio finale" ( Mt 25,31-36 ).

È anche viva la preoccupazione per una concreta vita comunitaria che si esprima in un servizio fraterno ( 1 Gv 4,21 ).

L'Apocalisse giovannea, che si apre con un inno innalzato dal fedele testimone di Cristo a colui « che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati », vede l'amore soprattutto alla luce della teologia del martirio ( Ap 12,11 ).

6. La carità nelle epistole neotestamentarie

Per S. Paolo la carità è il fondamento della realtà futura.

Egli descrive la situazione nuova creata dall'atto dell'amore di Dio svolgendo il tema della nuova epoca della storia del mondo iniziatasi con Cristo ( Rm 8,28.31ss ).

« L'eterno amore di Dio attraverso l'amore e il sacrificio di Cristo diventa il fatto centrale della storia del mondo ».13

Questo amore che mira a creare l'uomo nuovo è capace di operare secondo il volere divino ( Fil 2,13 ) che è volere d'amore verso tutti ( Gal 6,10; 1 Ts 4,9; Col 1,4 ).

Paolo infatti coglie l'essenziale della vita di carità in un amore che si ispira a quello di Cristo « morto per il fratello » ( 1 Cor 8,11-12; 1 Cor 11,20-34; ecc. ).

Questo amore si estende ai nemici in quanto ha come presupposto l'amore che Dio ha manifestato per noi che eravamo suoi nemici ( Rm 5,10 ).

Manifestazione che il mondo chiama pazzia e di cui la croce è la suprema testimonianza ( 1 Cor 1,18-21 ).

Il dono amorevole di Dio Padre, in Cristo Gesù morto e risorto per noi, supera e adempie tutti i doni precedenti e costituisce l'unica salvezza, l'unica via ad una vita di comunione con Dio, quindi ad una vita autenticamente umana ( Rm 5,12-21; Gal 3,25-29; Fil 3,2-11 ).

Paolo evidenzia anche l'aspetto della carità, che consiste nel « non fare male alcuno al prossimo» ( Rm 13,10 ) e ribadisce come l'amore sia l'adempimento della legge ( Rm 13,8-9 ).

Anche Giacomo mette in luce come l'amore sia la legge del nuovo regno ( Gc 2,8 ) e ne deduce tutta una serie di doveri pratici: non sprezzare il povero ( Gc 2,5-6 ), vestire gli ignudi e dar cibo a coloro che non ne hanno ( Gc 2,15-16 ), dare all'operaio la giusta mercede ( Gc 5,1ss, ecc. ).

Nelle epistole di Pietro l'esortazione alla carità fraterna trova applicazione soprattutto in relazione agli oltraggi, cui il credente può essere sottoposto per la sua fedeltà a Cristo ( 1 Pt 3,8-9 ).

7. L'inno alla carità di S. Paolo

La dinamica della carità, la quale assume aspetti diversi a seconda delle circostanze nelle quali opera e delle situazioni nelle quali siamo chiamati a vivere, viene espressa con forza e lirismo da s. Paolo in 1 Cor 13.

In questo inno si afferma che senza la carità anche i più alti valori della vita cristiana perdono il loro mordente e sono privi di autenticità ( 1 Cor 13,1-3 ).

Affrontando l'aspetto della carità nelle sue concrete applicazioni, sottolinea come essa non sia soltanto un modo attivo di essere ( 1 Cor 13,4-7 ), ma anche un modo attivo di non essere ( 1 Cor 13,5-6 ).

Proclamandone il carattere permanente ed il trionfo, anche nei confronti di quei doni carismatici che costituiscono tanto spesso l'orgoglio della chiesa e dei credenti ( 1 Cor 13,8-10 ), oppone, alla nostra imperfetta visione di Dio, la conoscenza che è appunto conoscenza d'amore ( 1 Cor 13,11-13 ).

Barth ha scritto che il modo migliore per comprendere la nozione di carità espressa in questo inno paolinico, è quello di sostituire al termine "carità" il nome di Gesù Cristo.14

Dobbiamo però osservare che l'apostolo, facendo precedere il suo inno dalle parole: « ed ora vi mostrerò una via che è la via per eccellenza » ( 1 Cor 12,31 ), ha voluto indicarci un cammino da percorrere, proprio ad imitazione di Cristo.

V - Caratteristiche cristiane della caritrà

Se volessimo esprimere con una sola idea quel che distingue profondamente la carità cristiana dalla filantropia dell'umanesimo pagano o dalla benevolenza delle grandi religioni non cristiane, soprattutto dal buddhismo che fra esse si distingue per i suoi elevati insegnamenti sull'amore, potremmo dire che la caratteristica distintiva è Cristo.

Egli ne è la fonte, il centro ed il fine: « È attraverso la sua fede in Cristo e la sua vivente comunione con lui che il cristiano è in grado di amare gli uomini come Cristo stesso li amò e li ama ancora ».15

Ma proprio dalla ricchezza della carità che è Cristo e che è in Cristo scaturiscono peculiarità proprie della carità cristiana.

Ci limiteremo ad enuclearne alcune.

1. La carità in rapporto alle altre virtù teologali

È proprio del messaggio neotestamentario aver indicato, nella loro indissolubile unità, la fede, la speranza e la carità come le realtà fondamentali della vita cristiana.

Se la speranza è un aprirsi a Dio ( 1 Pt 1,3 ) e la fede un appropriarsi delle cose sperate ( Eb 11,1 ), la carità è un vivere sia le realtà della speranza come quelle della fede: « la carità… crede ogni cosa, spera ogni cosa» ( 1 Cor 13,7 ).

Se la vita cristiana forma un tutto indissolubile ed originale, è perché ciascuna di queste virtù si completa a vicenda e l'una non può sussistere senza l'altra.

Potremmo dire che se la carità è il punto culminante della vita cristiana, la fede il supporto indispensabile, la speranza ne è l'anticipazione.

Prima delle certezze della fede e delle armonie dell'amore, la speranza è il dischiudersi alla possibilità di credere e di amare.

Ma la speranza cristiana, a differenza delle speranze umane, ha nella sua realizzazione non una conclusione ma un inizio: è l'aurora di una pienezza che si realizzerà.

Se la fede è « operante per mezzo dell'amore » ( Gal 5,6 ), la speranza nella sfera cristiana non può mai essere egoistica in quanto quel che si spera lo si spera anche per gli altri ( 2 Cor 1,7 ).

La speranza è operante per mezzo della carità perché non è possibile amare il prossimo senza sperare con lui e per lui.

E non possiamo veramente amare se la fede non ci anima.

Ma fede e speranza, strettamente legate alla nostra vita terrena, entrano nell'eternità assumendo la forma della carità.

Il compimento di tutte le cose è la carità ( 1 Cor 13,13 ).

« In Dio stesso… non c'è fede ne speranza ma soltanto amore.

Fede e speranza sono maggiori degli altri doni spirituali…, ma sopra di esse sta l'amore come espressione dell'eterna e perfetta comunione di Dio ».16

2. Carattere universale della carità

La carità si rivolge a tutti gli uomini.

Essa respinge come una tentazione di parzialità l'idea stessa di una scelta, una preferenza e, tantomeno, una esclusione.

È per tutti come per tutti è la luce del sole che Dio, come riflesso del suo amore, fa levare « sopra i malvagi e sopra i buoni » così come « fa piovere sui giusti e sugli ingiusti » ( Mt 5,45 ).

La carità è per sua natura universale in quanto Dio ama tutti e, nel suo amore paterno, ci fa uno in Lui: « voi siete tutti fratelli » ( Mt 23,8 ).

Si distingue dall'amore umanamente inteso perché esso è per sua natura limitativo e possessivo, mentre la carità ha per sua caratteristica l'universalità: Gesù « abolisce per sempre la ristrettezza dell'amore per il prossimo limitato ai connazionali e lo concentra sugli umili e sui bisognosi; fa di una controversa questione giuridica ( chi è il mio prossimo? ) una questione di cuore, ed in modo così categorico da escludere riserve ed eccezioni ».17

Questa universalità, perfetta in Dio, può diventare per l'uomo astuzia sottile, evasione, generalizzazione, per le quali, asserendo di voler amare tutti, non si ama concretamente nessuno.

Il criterio della "prossimità" ha quindi un suo senso pratico.

Nella sovrabbondanza della sua naturale ricchezza, la carità rivolta a tutti si rivolge anche a ciascuno: familiari, concittadini, appartenenti allo stesso nucleo sociale o religioso: « facciamo del bene a tutti ; ma specialmente a quei della famiglia dei credenti » ( Gal 6,10 ).

Perché la carità non è vago sentimento ma impegno concreto.

3. La carità mezzo di conoscenza

La carità, essendo una via che viene da Dio e va a Dio, è il cammino della vera conoscenza ( 1 Gv 4,7-14 ).

Centro focale della conoscenza è l'iniziativa divina per la nostra salvezza, che non è più fondata sul criterio di giustizia ma di giustificazione, cioè di amore e di misericordia ( Ef 2,4-10 ).

Noi non sappiamo afferrarne tutta la pienezza e perfezione, ma Dio ci rende « capaci di abbracciare con tutti i santi qual sia la larghezza e la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché giungiamo ad essere ripieni di tutta la pienezza di Dio» ( Ef 3,17-19 ).

Questa conoscenza è anzitutto un attingere alla verità che è Cristo Gesù: « Io sono la verità » ( Gv 14,6 ) ed un gioire con essa per mezzo della carità: « La carità… gioisce con la verità » ( 1 Cor 13,6 ).

Seguire "verità in carità" significa non lasciarsi portare « qua e là da ogni vento di dottrina » ma crescere « in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo » ( Ef 4,14-15 ).

La carità « è il vincolo della perfezione » ( Col 3,14 ) non soltanto sotto il profilo etico ma anche sotto quello conoscitivo in quanto la carità orienta e giudica la vera conoscenza: « La conoscenza gonfia, ma la carità edifica » ( 1 Cor 8,1 ).

Infatti la conoscenza senza amore rende pieni di sé e può essere anche motivo di scandalo ( 1 Cor 8,11-12 ), mentre la conoscenza orientata dalla carità ci mette nelle condizioni di incontrare il prossimo nella sua effettiva realtà ponendoci in grado di farci tutto a tutti ( 1 Cor 9,19-22 ).

Una conoscenza senza amore, una dottrina senza carità, un'ortodossia glaciale non hanno valore alcuno dinanzi a Dio ( 1 Cor 13,1-2 ).

Poiché nel linguaggio biblico "conoscere" non è soltanto osservare, sapere, ma soprattutto incontrare, partecipare, è evidente che, sul piano dei rapporti umani, amare ha come presupposto conoscere e che una vera conoscenza non è possibile senza amare.

4. La carità come realtà creatrice

La carità, elemento fondamentale di ogni aspetto della vita cristiana, ne è anche la realtà creatrice ed il principio fecondatore.

Dove essa è assente, tutti gli aspetti della vita cristiana si isteriliscono; dove essa suscita il nostro agire ed ispira il nostro parlare, un soffio di autenticità investe quanto diciamo e facciamo.

La carità è potenza creatrice perché promana da Iddio creatore che ha fatto buone tutte le cose ( Gen 1,4.12.18.21.25.31 ) esprimendo sin dal momento creativo un fine amorevole.

Quando « la creazione è stata sottoposta alla vanità » ( Rm 8,20 ) a motivo del peccato, l'intervento di Dio in Cristo Gesù è divenuto il centro di un rinnovamento totale di tutto il cosmo ( Col 1,20 ) ed il punto di partenza di una nuova creazione ( 2 Cor 5,17 ).

In lui, attraverso la croce, si è realizzato per tutto il mondo il piano riconciliatore di Dio ( 2 Cor 5,19 ).

La carità è creatrice in vista della vita eterna ( Mt 10,42; Mc 9,41 ), della vera libertà ( Gal 5,13-14 ); lo è della gioia ( At 20,35 ) in quanto è pienezza di armonia anche in noi stessi ( Gv 16,22 ); lo è nei confronti della giustizia, superandone però il concetto legalistico: la giustizia da a ciascuno il suo, mentre la carità da anche del proprio ( Mt 20,1-16 ).

Se la carità è potenza creatrice di un nuovo ordine nel tessuto sociale, lo è in modo particolare per la comunità dei credenti: « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » ( Gv 13,35 ).

Lo ricordava Paolo VI nel suo discorso ad una parrocchia della periferia romana: « Come si chiama questa forza coesiva atta a tenere insieme il corpo parrocchiale, il corpo ecclesiastico, l'umanità desiderosa di essere unita?

Lo sanno tutti: si chiama la carità. È la grande legge costitutiva della chiesa ».18

VI - La carità principio attivo di vita spirituale

La carità non è un sapiente rapporto di equilibrio fra noi e gli altri.

Ispirandosi alla carità di Cristo ( Gv 13,34-35 ) essa è più esigente e più generosa.

Getta sul nostro cuore tutta la sofferenza del mondo e sotto l'assalto di questa marea dolorosa infrange le resistenze del nostro egoismo rivelandoci che esistiamo per amare come il mondo esiste per essere amato: « L'amore è al di sopra di ogni altro bene…

È generoso; fa intraprendere cose grandi e incita a tutto ciò che vi è di più perfetto e di migliore nei cieli e sulla terra, perché l'amore è nato da Dio e non può che realizzarsi in Dio…

Chiama, corre, vola, è nella gioia, è libero; niente lo arresta, niente gli pesa, niente gli costa; tenta più che non può; non ritiene nulla impossibile, perché crede tutto possibile e permesso.

Per questo può ogni cosa e compie molte cose che invano affaticano e spossano chi non ama ».19

Si tratta cioè di un principio attivo di vita spirituale che ha origine dall'azione preveniente di Dio ( Gv 15,16; Rm 5,8 ).

1. Carità e azione caritativa

La carità cristiana non si esaurisce nell'ascetica, nella mistica o nelle devozioni, ma si realizza nella "caritas" che è la forma suprema dell'attività del cristiano, determinandone il dinamismo che deve realizzarsi sul terreno concreto dell'azione caritativa.

È un atteggiamento dello spirito, che esprime la sua realtà trasformandosi in azione: « Figlioletti, non amiamo a parole e con la lingua, ma a fatti e in verità» ( 1 Gv 3,18 ).

Di questa azione caritativa ci sono date alcune esemplificazioni pratiche: « Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» ( Lc 3,11 ); «Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da tè un prestito non voltar le spalle » ( Mt 5,42 ); « quando farai un convito chiama i poveri, gli storpi, i ciechi » ( Lc 14,13 ).

Vi sono comunque opere caritative che in apparenza sono l'equivalente dell'amore ma che, non essendo suscitate da un genuino spirito di carità, gli sono estranee ( 1 Cor 13,3 ).

La carità presuppone non soltanto una vittoria sul nostro egoismo ma anche un esercizio di ( v. ) umiltà.

La filantropia può nascondere anche un raffinato egoismo.

Può scaturire non dalla preoccupazione del bene della persona cui si rivolge, ma dal sia pure inconscio desiderio di riceverne lode: « Quando fai elemosina, non far sonar la tromba dinanzi a tè, come fanno gli ipocriti… per essere onorati dagli uomini… ma quando tu fai elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra » ( Mt 6,2-3 ).

Può anche, come nell'episodio di Anania e Saffira ( At 5,1-11 ), essere dettata da una ricerca del proprio interesse.

Lo spirito di carità, ispirandosi alla carità di Dio che ci ha amati cosi come noi siamo, deve esprimersi nella capacità di separare l'uomo dal male che ha commesso o che continua a compiere ( Rm 5,7-8 ).

La nostra carità deve essere quindi strumento per rendere l'uomo a se stesso, per riscoprirlo come Dio vuole che egli sia, aiutandolo perché lo diventi.

Poiché la nostra risposta alla carità di Cristo deve esprimersi nell'accogliere l'azione della sua grazia, così anche noi siamo chiamati a manifestare uno spirito di carità non soltanto nel saper dare ma anche nel saper ricevere.

2. La carità superamento dell'antitesi fede-opere

L'antitesi fede-opere, che è stata spesso oggetto di dibattiti teologici e di controversie tra le varie confessioni cristiane, è non solo superata ma vanificata da una retta concezione della carità ( Gc 2,18 ).

La fede non è solo ferma certezza nelle promesse divine ma consenso ad una vita nuova, che ha la sua sorgente in Cristo e assenso alla creazione in noi di una vita che scaturisce dalla sua, che s. Paolo definisce « la fede operante per mezzo dell'amore » ( Gal 5,6 ).

Se la fede non dipende dalle opere perché le precede, è attraverso di esse che manifesta la sua autenticità: «Che giova, fratelli miei, se uno dice d'aver fede ma non ha opere?

Può la fede salvarlo?» ( Gc 2,14 ).

Non può, perché « la fede senza le opere è morta » ( Gc 2,26 ).

E queste opere sono le opere dell'amore ( Gc 2,15-16 ); « È Dio che ci salva.

Ma le nostre opere, questo comportamento in una vita rinnovata da Dio, indicano che la salvezza di Dio è scesa su noi, che noi siamo entrati in un nuovo giorno, il giorno di Gesù Cristo.

Senza questo segno delle opere buone, noi saremmo ancora immersi nelle tenebre del peccato ».20

3. Carità e azione dello Spirito santo

La carità, essendo la manifestazione più alta di Dio ed il dono più sublime fatto all'uomo, può essere compresa e divenire operante dove opera lo Spirito santo.

L'apostolo Paolo afferma che « l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per lo Spirito santo che ci è stato dato » ( Rm 5,5 ).

La sua forza, quindi, non è quella degli uomini, ma la potenza dello Spirito santo di cui è il frutto: « Il frutto dello Spirito è amore, allegrezza, pace, longanimità, benignità, bontà, dolcezza, temperanza » ( Gal 5,22-23 ).

Il singolare indica che si tratta di un unico frutto del quale tutte le virtù enumerate non sono che l'estensione e lo sviluppo: il frutto dell'amore.

L'apostolo parla anche di « carità dello Spirito » ( Rm 15,30 ) e di « amore dello Spirito » ( Col 1,8 ).

La nostra partecipazione all'intimo rapporto tra il Padre ed il Figlio è sigillata e garantita dal dono dello Spirito ( 2 Cor 1,21-22 ), mediante il quale l'amore di Dio viene diffuso nei nostri cuori ( Rm 5,5 ).

Ed è lo Spirito che attesta insieme col nostro spirito che siamo figliuoli di Dio ( Rm 8,17 ), facendoci comprendere la realtà dell'amore di Dio, permettendoci di assimilarne i comandamenti d'amore per viverli e viverne.

4. Carità e perfezione cristiana

Il comandamento di Gesù « siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste » ( Mt 5,48 ), nella luminosità di orizzonti che dischiude dinanzi al credente, ci appare anche fra i più sconcertanti ponendoci di fronte, nientemeno, che l'esempio di Dio.

Quale è dunque questa perfezione?

Non si tratta certo di imitare le perfezioni metafisiche di Dio, il che trascende la nostra creaturalità.

Si tratta invece di imitare la perfezione morale dell'amore di Dio, « che fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi » ( Mt 5,45 ), cioè quella immensa benevolenza verso tutti gli uomini, che trova riscontro nel comandamento: « Siate misericordiosi com'è misericordioso il Padre vostro » ( Lc 6,36 ).

Si tratta di imitare la perfezione, che ci è rivelata nella incarnazione e nella croce, cioè la perfezione dell'amore che si dona.

È ovvio che il comandamento non si rivolge all'uomo naturale, ma alla nuova creatura che, in quanto tale, è chiamata a percorrere « la via per eccellenza » ( 1 Cor 12,31 ).

Ai tempi apostolici la nuova fede accesa da Cristo fra gli uomini era chiamata "la via" o la "nuova via" ( At 9,2 ), il che suggerisce l'idea di un cammino da percorrere e di una meta da raggiungere.

La via è « camminare nell'amore » ( Ef 5,2 ) e la meta comprendere « qual sia la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo, e conoscere questo amore » ( Ef 3,18-19 ) affinché « l'amore di Dio diventi perfetto in noi » ( 1 Gv 4,12 ).

La carità, quindi, è non solo una virtù da realizzare ma un cammino da percorrere, un itinerario spirituale per il quale, guidati dallo Spirito santo, noi possiamo avvicinarci a Dio ed alle sue perfezioni morali.

L'apostolo Pietro, esortando a praticare le virtù cristiane, afferma: «Aggiungete alla pazienza la pietà, alla pietà l'amor fraterno, e all'amor fraterno la carità » ( 2 Pt 1,6-7 ).

E l'apostolo Paolo, dopo aver parlato di alcuni segni della vita nuova, che il credente realizza in Cristo ( benignità, umiltà, dolcezza, longanimità, sopportazione reciproca, perdono ), conclude: « E sopra tutte queste cose, vestitevi della carità che è il vincolo della perfezione » ( Col 3,14 ).

La scuola agostiniana, ponendo nella carità le basi della spiritualità, la articola in "carità desiderosa", cioè anelante ad uniformarsi all'Essere supremo; in "carità ascendente", che per gradi ci conduce ai vertici della perfezione; in "carità combattente", che contrasta le cattive inclinazioni; infine in "carità generante", che partendo dalla premessa della carità verso Dio alimentata dalla preghiera, dall'umiltà e dal raccoglimento indica, come segno di maturazione spirituale, la carità verso il prossimo.

Si tratta della possibilità di riferirci al Tu divino per trasferire questo Tu al tu del nostro prossimo. La perfezione cristiana nella carità diviene così imitazione di Cristo ( 2 Cor 8,9 ) e identificazione di Cristo col nostro prossimo ( Mt 25,35-40 ).

È questo il cammino che è gradito a Dio come « profumo d'odor soave » ( Fil 4,18 ).

Questa maturazione spirituale nella carità è indispensabile non solo alla vita del credente ma anche alla vita della chiesa: « Se la fede e la carità sono i principi della sua vita [ della chiesa ], è chiaro che nulla dovrà essere trascurato per dare alla fede gaudiosa sicurezza e nuovo alimento e per rendere efficace l'iniziazione e la pedagogia cristiana a tale indispensabile scopo: uno studio più assiduo ed il culto più devoto della parola di Dio saranno certamente fondamento di questo rinnovamento.

E l'educazione alla carità avrà successivamente il posto d'onore: dovremo ambire alla ecclesia caritatis, se vogliamo che essa sia in grado di rinnovarsi profondamente e di rinnovare il mondo attorno a sé: immenso compito! anche perché, come è noto, la carità è la regina e la radice delle altre virtù cristiane: l'umiltà, la povertà, la religiosità, il coraggio della verità e l'amore della giustizia e di ogni altra forma operativa dell'uomo nuovo »21

VII - La carità nella acculturazione ecclesiale odierna

L'uomo moderno sembra voler tenere sempre più il mondo nelle sue mani: lo amplia, lo domina, lo plasma sul piano fisico, psichico, sociale.

È però un mondo che sembra voler fare a meno della sovranità redentrice e liberatrice di Cristo senza la quale nulla di permanentemente valido e di sostanzialmente benefico può essere realizzato ( Mt 28,20 ).

Compito della chiesa è di fermentarlo con la carità.

1. La carità segno di credibilità del messaggio cristiano

Non siamo noi a poter rendere credibile il messaggio cristiano; esso è « Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» ( 1 Cor 1,24 ).

Siamo chiamati invece a rendere credibile la nostra fede e la testimonianza, che ne diamo, vivendola nella pratica dell'amore ( Gv 13,35, At 4,3 ).

Vi è però nella preghiera sacerdotale di Gesù un esplicito riferimento alla necessità di dare un segno ben preciso perché il mondo creda: essere « perfetti nell'unità » ( Gv 17,23 ).

E vi è un presupposto: « che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in tè, anch'essi siano in noi; affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» ( Gv 17,21 ).

È un itinerario d'amore ben preciso: dal Padre al Figlio, dal Figlio a noi, da noi al nostro prossimo.

È una facile deformazione pensare all'amore di Dio come rivolto esclusivamente a noi.

La carità è veramente tale ed è segno per il mondo quando provoca la scoperta di un "tu", che entra in noi per farci uscire da noi stessi.

Essa richiede quindi una duplice conversione: a Dio ed al prossimo.

In questo senso la carità rende credibile al mondo il messaggio cristiano; in quanto è, nel mondo, il segno del regno di Dio che viene: « La carità è Dio fra noi; è la vita che egli vuoi da noi, il moto ascensionale che porta noi a lui, e fa della nostra esperienza nella società l'esperimento dell'amore per lui.

E in quanto essa si realizza, si attua nel mondo il regno di Dio.

La società retta dalla carità è il regno di Dio in terra ».22

2. La carità nel contesto sociologico del nostro tempo

Il principio della carità è particolarmente necessario in un tempo nel quale l'umanità si mostra sensibile ai problemi sociali: sia per ispirarli come per evitare che vengano risolti in un'unica direzione.

L'etica sociale moderna cerca di risolvere questi problemi non più, o semplicemente, in termini di filantropia o di trasferimento di beni materiali, ma in termini di mutamento di strutture che creino nuova giustizia e nuovi rapporti umani.

Si tratta, anche inconsapevolmente, di tradurre in termini attuali il precetto evangelico « voi siete tutti fratelli » ( Mt 23,8 ).

La chiesa, che nel corso dei secoli è stata suscitatrice e ispiratrice di opere caritative che hanno sollevato sofferenze e miserie di ogni genere, sta oggi scoprendo la propria responsabilità in un ambito più vasto che non sia quello del soccorso.

Si vedano, ad es. le encicliche Pacem in terris e Mater et magistra, la lotta condotta dal Consiglio ecumenico delle chiese contro il razzismo, il richiamo alla "chiesa dei poveri", il problema della "promozione umana" che, nel Cristo vivificatore ( Gv 15,5 ), mostrano la preoccupazione di permettere all'uomo di accedere ad una nuova dimensione conferendogli la sua vera dignità.

Le chiese dell'America latina parlano al riguardo di "spiritualità dello sviluppo" richiamandosi, con questa espressione, ad una spiritualità capace di alimentare il cristianesimo nel suo sforzo sociale ed economico per lo sviluppo delle risorse di questo mondo.

Ciò al fine di permettere a tutti gli uomini di avere non solo pane a sufficienza ma dignità umana e risveglio psicologico.

Ma l'evangelo non è un trattato di etica sociale; è un principio di vita fondato sull'amore.

Il che non toglie sia possibile cogliervi alcuni insegnamenti specifici per un'etica sociale che sappia ispirarsi ad esso.

Vi sono ad es. riferimenti precisi circa i diritti ed i doveri del lavoratore ( 1 Ts 4,11; 2 Ts 3,10.12; 2 Tm 2,16; Gc 5,4 ).

Non ci è detto nulla sul come affrontare e condurre le lotte per la promozione umana ma, nel precetto di amare anche i nemici ( Mt 5,44-47; Lc 6,27-35 ), ci viene dato al riguardo un orientamento preciso.

In un regime di odio, di avarizia, di spietata concorrenza a tutti i livelli, che sospinge l'uomo a vivere in una atmosfera di paura: paura della fame, della disoccupazione, degli abusi, della violenza, ci raggiunge il messaggio dell'amore che « caccia via la paura » ( 1 Gv 4,18 ).

Nelle giuste aspirazioni alla libertà ci è ricordato che non si tratta soltanto di un diritto nei nostri confronti ma anche di un dovere nei confronti degli altri ( 1 Cor 8,9; 1 Cor 9,19; Gal 5,13; 1 Pt 2,16 ).

Nelle lotte per la giustizia ci è ricordato che la carità non la sostituisce ma la supera ( Mt 20,15 ).

La carità, infatti, non si isterilisce in calcoli di "dare" e "avere", non si lascia condizionare dalle mode correnti di pensiero o di costume, trasforma la giustizia legalistica in giustizia giustificante, cioè capace di perdono ( Lc 6,37; Ef 4,32 ).

Saper perdonare è l'atto di carità di cui necessitano tutte le lotte sociali, anche le più giuste, se non vogliono smentire la loro matrice cristiana.

3. La carità elemento primario per il dialogo

Il dialogo, esigenza accentuata in una società pluralistica, porta ad uno scontro, anziché ad un incontro, dove è assente uno spirito di carità.

Gesù, incarnazione dell'amore, rappresenta il dialogo ristabilito fra Dio e l'uomo.

Il suo ministero terreno è una testimonianza della sua pedagogia del dialogo ( Mt 7,1-10; Mt 15,21-28; Mt 19,18-21; Mc 8,27-33; Lc 10,23-37; Gv 3,1-10; Gv 4,7-26; ecc. ).

Il dialogo non è incontro di persone che pensano allo stesso modo.

Anzi ha inizio, necessariamente, con l'affrontarsi di due personalità ( individuali o collettive ) che hanno un passato, pregiudizi e tradizioni, formazione culturale e spirituale diverse, una diversa visione della società e della fede.

Dialogo non è livellamento ma reciproco arricchimento.

Non solo prendere coscienza di quel che unisce ma anche di quel che divide, rispettandolo.

Rinunciare alla strumentalizzazione delle posizioni altrui per far trionfare le nostre.

Tutto questo richiede uno spirito di carità perché solo la carità permette il superamento di vecchie barriere storiche, sociali, culturali, etniche e religiose ( Gal 3,27-29; Rm 3,22-23; ecc. ).

Il dialogo fra credenti e fra le chiese è costruttivo solo se si uniforma all'insegnamento paolino sulla carità che « è paziente, benigna, non invidia, non si vanta, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non sospetta il male » ( 1 Cor 13,4-5 ).

In tale spirito impariamo ad essere discepoli prima di farci maestri, a comprendere prima di giudicare, a valutare prima di respingere, a tener conto del passato prima di ipotizzare il futuro.

Nel dialogo col mondo il Vat II ha messo in luce il dovere della chiesa di essere attenta non solo a dare ma anche a saper ricevere.

L'ecumenismo, che è una nuova dimensione della vita della chiesa, si fonda, respira, avanza nella atmosfera della carità, secondo la ispirata formula agostiniana: nelle cose essenziali l'unità, nelle secondarie libertà, in ogni cosa la carità.

Nella storia salvifica Amicizia V
Nel N. T. Carità III,3
Esperienza sp. Bib. II,2b
Preghiera III
Nella spiritualità orientale Carità II,2
Oriente VII,2
… e fede - speranza Carità V,2
Credente IV,1a
Verso i fratelli Apostolato III
Ascesi IV,2
Carità III,3
Carità III,5
Conversione II
Coma amicizia Amicizia V
Amicizia VIII
… in maturazione Amicizia I
Conversione II
… e virtù acquisite Antinomie III
… e contemplazione Contemplazione I,2
Contemplazione III
Mistica II,2b
… e famiglia Famiglia V
… sue contraffazioni Amicizia VIII
… e koinonia Anziano III
Consigli I,5b
Fraternità III,2c
Povero I,2
Sofferente III,3
Uomo sp. III
Volontà II,2b

S. G. B. de La Salle

Chi insegna agli altri è la voce che prepara i cuori; ma è solo Dio che - con la sua grazia - li dispone a riceverlo MD 3,1
L'obbedienza ottiene spesso grandi risultati, anche se - in se stessa - sembra ben poca cosa MD 12,1-2
La pace interiore e i mezzi per conservarla MD 31,2
Le false gioie del mondo e la vera gioia di cui godono i servi di Dio MD 34,3
Unione con i Confratelli MD 65
Non dobbiamo aspettarci che Dio compia miracoli per farci contenti MD 73,2
Chi vive in Comunità ha l'obbligo di sopportare i difetti dei Confratelli MD 74,1-2
San Nicola, vescovo di Mira MF 80,3
Sant'Ambrogio arcivescovo di Milano MF 81,3
Ottava dell'Immacolata Concezione MF 83,2
San Francesco di Sales MF 101,3
San Francesco da Paola MF 113,2
Sant'Anselmo MF 115,3
San Basilio MF 136,3
San Paolino vescovo di Nola MF 137,3
Sant'Alessio MF 143,3
Sant'Anna madre della SS. Vergine MF 146,1
San Domenico MF 150,1
San Girolamo MF 170,2
I Santi Angeli Custodi MF 172,3
San Carlo Borromeo MF 187,1
Mezzi di cui deve servirsi un educatore per portare i fanciulli alla santità MR 194,3
Chi educa i giovani coopera con Gesù Cristo alla salvezza delle anime MR 195,1
Chi istruisce i giovani ha l'obbligo di essere molto zelante, se vuole compiere bene la sua santa missione MR 201,1-2
Come dovete far notare e correggere i difetti degli alunni posti sotto la vostra guida MR 204,1

1 Mem. II, 1-28
2 Ecom. 7, 12
3 H. Bolkestein, Wohttatigkeit und Armenpflege, Utrecht 1939,231-235
4 Majihima Nikaya, I, 129; cf R. Grousset, Sur les traces de Bouddha
5 H. De Lubac, Aspect du Bouddhisme, Parigi 1951, 1, 49
6 Dhammapada, str. 4, 5
7 Vasistha, 6,1
8 Manu, IV, 239
9 Grande Lessico del Nuovo Testamento I, 98
10 A. M. Hunter, Thè Gospel accordine lo St. Paul, Londra 1966, 109
11 Aa. Vv., Teologia e storia della carità. Roma, Edizioni Caritas 1965, 34
12 E. Stauffer in GLNT I, 141
13 E. Stauffer, o. e.. I, 130
14 K. Barth, Dogmatique, Ginevra, Labor et Fides I, 2, 120
15 M. Riquet, La carità di Cristo in atto, Catania, Edizioni Paoline 1962, 21
16 H. D. Wendiand, Die Briefe an die Korinter, Gottinga 1948, 82
17 E. Stauffer, o. e.. I, 121
18 Dal discorso di Paolo VI alla parrocchia di Casalbertone (Roma) in L'Osservatore Romano del 26-3-1964
19 Imit. di Cristo, III, 5
20 E. Thurneysen, La foi et les oeuvres, Neuchàtel, Delachaux-Niestlé, 89
21 Dal discorso di Paolo VI all'apertura della II Sess. del Vat II in L'Osservatore Romano del 30/9-1/10-1963
22 I. Giordani, La carità e la vita sociale in Teologia e storia della carità, cit. 290.