Esperienza

IndiceA

Esperienza cristiana - Esperienza spirituale nella bibbia

Sommario

I. Individuazione, previa dell'ambito generale del discorso.
II. Spazio fenomenologico dell'esperienza cristiana:
1. Fenomenologia del cristiano e fenomenologia dell'uomo religioso;
2. Il credente-cristiano: linee di struttura;
3. Il credente-cristiano e il suo "sapere".
III. Possibilità teologica dell'esperienza cristiana.
Determinazione dei suoi contenuti e della sua natura:
1. Puntualizzazione del problema;
2. I termini del problema teologico;
3. Possibilità e legittimità teologica dell'esperienza cristiana;
4. "Sapere esperienziale" e "comprendere".

I - Individuazione previa dell'ambito generale del discorso

1. Servirà, come indicazione di partenza, presentare l'"esperienza" quale equivalente di un "sapere" la realtà: "sapere" che non equivale semplicemente ne a "pensare" ne ad operare una "sperimentazione", pur potendo includere - aliter et aliter - l'una e l'altra cosa.

L'affermazione che l'esperienza sia un sapere che includa, senza ridurvisi, anche il "pensare", forse non crea particolari difficoltà.

Quanto alla "sperimentazione" si dovrà invece richiamare che, almeno per taluni settori del "sapere" esperienziale, l'esperienza si realizza non solo semplicemente prescindendone, ma precisamente rifiutandola ( l'esempio intuitivo è quello dell'esperienza dei rapporti personali o dei valori ).

2. L'analisi critica dell'esperienza-sapere, delle sue condizioni, della sua natura, e quindi la sua definizione criticamente raggiunta, impegna, com'è noto, la riflessione filosofica moderna, particolarmente dopo Kant.

Ne a noi può essere richiesto di impegnarci a nostra volta, in questa sede, per questa difficile impresa.

In maniera certo più immediata e descrittiva basterà, invece, richiamare che "esperienza" in quanto semplicemente "sapere la realtà" può senz'altro essere assunta come sinonimo del modo più completo, adeguato, totalizzante con cui il soggetto, o l'esistente come soggetto, giunge a codesto "sapere", e quindi accede alla realtà.

Si potrà poi tentare di qualificare tale modo di accesso in maniera diversa o secondo diversi quadri di riferimento: ad es. il quadro personalistico ( la persona intera, come unità o come "libertà", vi è impegnata e ne viene "determinata" ) o il quadro vitalistico ( la vitalità del soggetto è messa totalmente in gioco: "esperienza" equivale a "vissuto" ).

In ogni caso la "realtà" - nell'esperienza del soggetto - è saputa come "verità": cioè come ciò che non solo è "veduto", ma che ha provocato e va provocando l'adeguazione ad essa del soggetto, perché vi si collochi, perché esca dall'apparenza, dall'illusione, dallo pseudo-valore, dalla pseudo-autenticità e si "realizzi", cioè - appunto - si collochi nel "reale".

3. "Esperienza" si precisa - a questo punto - come esperienza di un pervenire del soggetto alla "realtà-verità" per l'adeguamento o il collocamento in essa; ed è esperienza del passaggio alla realtà-verità per la forza della provocazione ( accolta ) che viene dalla realtà non illusoria, non apparente, non interlocutoria, ma "vera".

Propriamente questo è il campo di quel "sapere la realtà" che è "esperienza": ed è un campo dove non la "differenza" ma la giustapposizione del "soggettivo" e dell' "oggettivo" mostra, al soggetto stesso, la sua problematica chiarezza; e dove il "sapere" non può più essere ne intellettualisticamente ne "contemplativamente" ridotto.

Vi si è verificata e vi si va verificando, infatti, una unificazione originale ( e in qualche modo originaria? ) tra "conoscenza" e "amore"; tra "contemplazione" e "azione"; tra "teoria" e "prassi".

È - potremmo dire - l'unità originale ( e in qualche modo originaria? ) della "libertà": che appare pertanto come il correlativo adeguato, nel soggetto, della realtà-verità, nella quale esso è provocato a collocarsi.

II - Spazio fenomenologico dell'esperienza cristiana

Un'esperienza cristiana, qualora si dia e qualora sia teologicamente possibile discorrerne, non potrà avere collocazione fenomenologica se non dentro la figura del cristiano in quanto distinguibile e distinta - secondo le linee dinamiche che la caratterizzano - da altre figure: in particolare, la figura dell'uomo "religioso" e la figura del "credente".

1. Fenomenologia del cristiano e fenomenologia dell'uomo religioso

Tali linee non potranno essere genericamente quelle dell'uomo religioso: in ipotesi anche il più autentico, vale a dire quello che coglie il rapporto con l' ( v. ) Assoluto come rapporto con l'Altro dall'uomo, e per il quale la ricerca di questo rapporto sia nel senso di un'obbedienza-comunione che non pretende di disporre dell'Assoluto, ma gli rimane incondizionatamente disponibile.

Posto, infatti, che un tale uomo sia fenomenicamente reperibile, noi avremmo qui non ancora un cristiano ma una possibilità, una premessa, un'apertura verso la figura del cristiano.

Neppure basterà, a darci questa figura, la precisazione dell'uomo religioso sopra descritto in termini di "credente": nel quale, cioè il riferimento all'Assoluto, e perciò il rapporto di obbedienza-comunione con Esso, sia normato da un intervento rivelatore ( storico o metastorico ) da parte dell'Assoluto stesso.

Il "credente" crede in una "rivelazione": e da essa viene qualificato.

Non basterà pertanto giungere qui per avere la figura del credente-cristiano: egli sarà qualificato da quella precisa figura di rivelazione che è quella cristiana, con tutte le sue caratteristiche implicazioni.

2. Il credente cristiano: linee di struttura

Da un punto di vista sintetico-dinamico, il credente-cristiano dovrà pertanto essere descritto in funzione delle seguenti linee di struttura.

Anzitutto il fondamentale riferimento alla figura di rivelazione si precisa in lui come riferimento a Gesù di Nazaret: in quanto strutturalmente, costitutivamente, avvenimento ultimo, decisivo di rivelazione e quindi avvenimento-verità, normatività radicale, universale concreto, assoluto storico, luogo impreteribile e intrascendibile di "comunione" con l'Assoluto Trinitario [ v. Gesù Cristo ].

A tale riferimento sono funzionali sia la parola biblica scritta, sia il sacramento: funzionali nel senso che ne l'una ne l'altro sono l'avvenimento di rivelazione e di salvezza che è soltanto Gesù di Nazaret; ma l'una e l'altro hanno un rapporto organico di mediazione e di presenza di quell'avvenimento, e quindi si collocano dalla parte della "fondazione" stessa dell'essere del cristiano.

Dal riferimento sopra descritto deriva immediatamente la situazione paradossale di storicità del credente cristiano: è infatti la situazione di chi, restando riferito all'avvenimento assoluto, ultimo normativo… e tuttavia "passato", deve vivere e non può non vivere la propria attualità storica altrimenti che come "memoria" di quell'avvenimento concreto che ha i tratti di una figura personale storica: la figura di Gesù.

"Memoria", non ripetizione materiale: e ciò come funzione, da un lato, della capacità dell'avvenimento-Gesù di determinare la figura del credente cristiano nella sua attualità storica ( mettendolo così, in un senso vero, in condizione di "contemporaneità" con sé ); e come funzione, dall'altro, della possibilità che questa determinazione apre al credente di porsi come "coerenza creativa" a Colui del quale egli deve essere "memoria".

Entrambi gli aspetti danno il senso della missione dello Spirito: e giustificano la obiettiva equivalenza di principio tra "cristiano" e "spirituale".

Nessun cristiano è tale, cioè, "memoria" di Gesù, se non "nello Spirito di Gesù"; e solo chi è "nello Spirito di Gesù" è "cristiano".

In ogni caso, mai e per nessun motivo sarebbe giustificato che un cristiano concepisca il suo essere "spirituale" come uno stadio o a un livello che superi il suo essere "cristiano".

Infine andrà richiamata la dimensione ecclesiale di questo riferimento "memorativo" e "creativo" del cristiano alla figura storica di Gesù.

Dimensione ecclesiale: cioè di riferimento a una comunità, a dimensioni esse pure storiche ( = coordinate spazio-temporali ), strutturata anche gerarchicamente e avente pertanto anche determinate condizioni obiettive di appartenenza.

E parliamo di dimensioni per mettere in risalto che si tratta di qualcosa che in linea di principio fa unità con la realtà e l'autenticità del riferimento all'avvenimento fondamentale e che - pertanto - deve essere integrato esso pure nella sintesi del credente-cristiano.

Pur non essendo, infatti, ne l'avvenimento-Gesù ne la parola scritta ne il sacramento, la comunità ecclesiale è il "luogo" che da essi viene determinato; ed è il "luogo" in cui autenticamente la parola è letta ed interpretata, e in cui il sacramento è autenticamente celebrato e ricevuto.

Pertanto nella figura del credente-cristiano ( cattolico e "ortodosso", particolarmente ) non si accuserà l'esigenza di un superamento del riferimento alla chiesa a vantaggio di una "interiorità" o di una "profondità" del soggetto.

Paradossalmente, invece, l'interiorità e la profondità della comunione in Cristo si sperimenteranno nel medesimo movimento nel quale si accetta e si vive il "rischio" di esporsi alla "mediazione" umana della chiesa, giungendo così a scoprirvi la trasparenza reale del mistero fondamentale, che si sintetizza nella comunione con l'unico Signore, morto e risorto.

3. Il credente-cristiano e il suo "sapere"

È questa, in definitiva, la realtà che il credente-cristiano "sa" o è chiamato a "sapere" non semplicemente come chi ne è informato; e neppure soltanto come chi riflette e pensa entro un orizzonte ed in coerenza con un orizzonte ritenuto "vero" od oggettivo, capace di fornire l'interpretazione universale della realtà, così che per tale via egli va "comprendendo" sia i diversi aspetti della realtà e sia lo stesso orizzonte di comprensione.

Egli lo "sa" come colui che vive o cerca di vivere o riconosce di non vivere secondo il riferimento radicale a Gesù di Nazaret e secondo tutto ciò che questo riferimento comporta.

Lo "sa" dunque come si "sa" una provocazione assolutamente radicale ( quella della "verità" appunto ) da accogliere o da respingere.

Almeno in tale senso, pertanto, si dirà che il credente cristiano "sa" Gesù; a che questo è il livello globale, adeguato, non frammentario del suo "sapere" Gesù, precisamente in quanto e perché egli è un credente cristiano.

Quanti e quali livelli questo fatto comporti, e in particolare se vi sia spazio per un livello "mistico" [ v. Mistica cristiana ] di codesto "sapere" Gesù, ora non ci importa di precisare.

Ci preme invece rilevare che l'individuazione fenomenologica obiettiva delle linee di struttura del credente-cristiano non va disgiunta dal rilievo che tali linee sono da lui "sapute" o "vissute": e conducono, anzi sono già esse stesse - sempre nella figura effettiva del cristiano - un "sapere".

In tal senso la figura obiettiva del credente cristiano e la figura del suo "credere" o del suo "sapere" non sono disgiungibili.

E data la fisionomia di codesto credere-sapere, si potrà, almeno in prima approssimazione, ritenere plausibile che esso possa essere presentato utilizzando la categoria di "esperienza".

III - Possibilità teologica dell'esperienza cristiana.

Determinazione dei suoi contenuti e della sua natura

1. Puntualizzazione del problema

Dal punto di vista cattolico il problema si puntualizza anzitutto entro due coordinate storiche.

La prima è data dalla forte riaffermazione della contrapposizione tra "credere" e "vedere": donde l'esigenza di mantenere al di fuori della sfera del "credere" l'evidenza dell'oggetto creduto, perché questo sarebbe "visione".

La seconda, preparata dalla critica scolastica alla concezione agostiniana della "giustizia", è esplosa in dimensioni propriamente dogmatiche nella contrapposizione al protestantesimo prima, ed al giansenismo poi in un secondo tempo.

L'uno e l'altro, infatti, sembravano ridurre il dato obiettivo o ontologico della "giustizia" e della "grazia" in termini di risultanza interiore, se non propriamente psicologica.

Così nel protestantesimo l'esperienza ( cioè la risultanza interiore ) della "concupiscenza" da l'evidenza del permanere del peccatore, e la fede fiduciale, che trionfa sull'angoscia del peccatore, misura la realtà della giustizia "imputata".

Quanto al giansenismo, l'esperienza ( sempre nel senso di risultanza interiore ) dell'attrattiva verso il bene ( delectatio victrix ) e del "cuore nuovo" definiscono sia la realtà della grazia attuale efficace, sia il dono della carità.

La contrapposizione del concilio tridentino al protestantesimo ( soprattutto nelle sess. V e VI ) sottolinea la non riducibilità ( almeno nel battezzato ) della concupiscenza sperimentata alla permanenza del peccato originale; e rivendica l'interiorità obiettiva della giustificazione, come effettiva trasformazione dell'uomo: condizionata certo anche da una "fiducia" in Dio salvatore ma pure da un insieme di altri elementi ( tra i quali anche l'osservanza dei comandamenti ) non riconducibili alla "fede fiduciale".

In questo senso la "certezza assoluta" di essere giusti non è - per il concilio di Trento - condizione per la giustificazione; anzi, è un dato che normalmente non può essere acquisito, salvo particolari rivelazioni.

E la realtà della "giustizia" può coesistere non solo con l'esperienza della concupiscenza di cui si è detto, ma con una effettiva esperienza quotidiana di fragilità e con una aliquale obiettiva dimensione di rapporto al peccato personale ( "reato di pena" ) che può giustificare sia la "virtù della penitenza", sia la confessione di devozione, sia il sacramento dell'unzione estrema ( oggi: unzione degli infermi ), sia il purgatorio ed i suffragi.

2. I termini del problema teologico

Le lezioni e le conseguenze che si trarranno dal quadro dogmatico appena tracciato saranno, per il teologo cattolico che voglia riflettere sull'esperienza cristiana, le seguenti.

I contenuti dell'alleanza, o dell'uomo-secondo-alleanza, non sono per un cristiano direttamente desumibili dall'interiorità o dalla risultanza interiore: bensì dalla parola rivelatrice letta e interpretata nella chiesa.

La stessa interiorità o risultanza interiore, del resto, è sottoposta a discernimento nelle medesime sue linee di struttura: il criterio del discernimento è fornito dalla sua coerenza con la figura autentica del cristiano, e risulta esso pure direttamente dalla parola di Dio.

Due parametri dogmatici emergono in proposito:

a. l'esigenza - conseguente del resto a ciò che è appena stato notato - che le risultanze inferiori di un cristiano che vive dell' "oggettività cristiana" siano collocate nell'ambito della fede, e che quindi il cristiano situato al di qua della condizione escatologica definitiva sia e rimanga un "credente";

b. l'esigenza che la certezza "interiore" soggettiva non adegui mai o non superi in valore la certezza che deriva al credente dalla "rivelazione pubblica" ma si lasci normare da essa; in particolare non diventando mai una fiducia soggettiva che si fonda o si giustifica in se stessa e per se stessa.

Con tutto ciò non si svaluta ne si esclude ne si rende illegittima la realtà di un'interiorità cristiana, e quindi neppure un discorso su di essa.

Una tale conclusione, tratta bensì dalla teologia post-tridentina e soprattutto post-cartesiana e preilluministica ( Bossuet ), è senza dubbio indebita e finisce per non saper rendere ragione ne delle pagine bibliche che descrivono l'esistenza dell'uomo secondo l'alleanza [ v. Mistica cristiana III ], ne della tradizione spirituale cristiana ( si pensi anche solo al capitolo sul ( v. ) "discernimento degli spiriti" ), ne ad alcuni filoni di tradizione teologica ( teologia agostiniano-monastica; tradizione francescana ).

3. Possibilità e legittimità teologica dell'esperienza cristiana

Esiste invece un'interiorità o una risonanza inferiore cristiana che è funzione dell'appropriazione integrale cristiana dell' "oggettività" cristiana, dalla quale si lascia normare e discernere.

Codesta appropriazione non è e non può essere concepita come l'appropriazione di un'esteriorità autoritaria, eteronoma: perché ultimamente si tratta dell'avvenimento di Gesù da cui il reale, e quindi anche l'esistente concreto, riceve la propria determinazione storica obiettiva.

Ma nondimeno, poiché si tratta di avvenimento storico obiettivo liberamente e definitivamente posto, l'oggettività cristiana di cui discorriamo non sarà mai riconducibile ne alla pura espressione storica variabile del sentimento religioso, ne alla "rappresentazione obiettiva" dell'unità del reale che la riflessione dello spirito finalmente è chiamata a superare.

Semmai, nell'appropriazione autentica e libera di questa oggettività, si opererà il passaggio o il superamento di una estraneità che è quella dell'esistente stesso chiuso o non commisurato o solo superficialmente adeguato al rapporto fondamentale con Gesù di Nazaret; e l'interiorità o la risonanza soggettiva registrerà allora e sarà a suo modo una trasparenza di tale passaggio o superamento.

Si raggiunge in tal modo un livello esplicito, tematico, per quanto globale, di "sapere" la realtà da parte del credente: è il livello in cui il "credere" mostra la sua effettiva capacità di coordinare tutti gli aspetti dell'esistenza e dell'esistente in funzione ( o in coerenza ) con il riferimento costitutivo della personalità cristiana a Cristo Gesù di Nazaret.

È un tipo di "sapere" che con Mouroux si potrebbe chiamare "esperienziale": ed è un sapere se stessi, in quanto la personalità si va strutturando e determinando a tutti i livelli in forza del suo riferimento all'assoluto concreto che è Gesù; ma, inversamente o contemporaneamente, è anche un sapere Gesù in quanto colui dal quale la personalità e l'esistenza va ricevendo contorni e determinazione.

4. "Sapere esperienziale" e "Comprendere"

La dimensione critica obiettiva della realtà e l'emergenza fenomenica della figura del cristiano come funzione di una appropriazione autentica dell'oggettività cristiana rappresentano dunque le condizioni per il darsi dell'autentica "risonanza interiore soggettiva" o del "sapere" esperienziale autentico del credente-cristiano.

Per le ragioni che già abbiamo richiamate ( = normatività della parola letta nella chiesa ) tale "sapere" non andrà mai contrapposto al momento propriamente intellettuale o concettuale del "sapere" della fede, ne alla ricerca di "comprensione" analitica e riflessa, purché credente, sia della oggettività cristiana sia della sua appropriazione soggettiva.

La questione sarà semmai se il "sapere esperienziale" di cui parliamo debba concepirsi solo come un punto di arrivo della vita secondo la fede, e quindi un test della maturità del cristiano: e quindi se tale itinerario sia descrivibile in funzione di essa.

Ora se può essere teologicamente chiaro che l'accedere alla fede esplicita sia accedere anche al "sapere" in questione, e che l'esistenza secondo la fede è di sua natura contrassegnata da codesto sapere, più difficile diviene l'impresa di proporne una descrizione evolutiva o progressiva.

Per questo scopo, infatti, il teologo non può disporre ne del parametro evolutivo umano, ne di una teologia normativa del progresso del "sapere" e della fede: pur accettando la condizione generale di storicità e di divenire da cui anche il credente rimane caratterizzato [ v. Itinerario spirituale ].

Con maggior pertinenza, invece, il teologo potrà porsi l'interrogativo se il "sapere esperienziale" proprio della vita di fede non implichi e non tematizzi una sorta di "esperienza trascendentale" sia pure cristologicamente determinata: vale a dire, la presenza di un orizzonte fondamentale di comprensione che viene saputo e compreso nella comprensione dei diversi contenuti del sapere, senza essere esso stesso mai un contenuto.

Le difficoltà sostanziali, qui, saranno le medesime che potranno essere opposte alla teologia esistenziale ed alla svolta antropologica in teologia.

Ma dove si mantenga chiaramente la consistenza storica dell'avvenimento di Gesù e la sua capacità obiettiva di determinazione del reale storico, e quindi anche dell'uomo storicamente esistente, si potrà - crediamo - senza eccessiva difficoltà accedere all'analisi del credere e del sapere esperienziale cristiano come tematizzazione normativa, autentica di quell'orizzonte trascendentale che è la situazione costitutiva stessa dell'uomo storico: quella di essere posto in un rapporto radicale, fondativo con l'assoluto concreto che è Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto.

[ Il nostro svolgimento del tema "esperienza cristiana" ha come suo completamento sostanziale quanto diciamo nella voce ( v. ) Mistica cristiana e nella voce ( v. ) Teologia spirituale ].

Esperienza spirituale nella bibbia

Sommario

Introduzione.
I. L'Antico Testamento:
1. Il punto di partenza dell'esperienza d'Israele;
2. Le tradizioni più antiche del Pentateuco:
a. Lo strato J,
b. Lo strato E;
3. Alla scuola dei profeti:
a. La struttura fondamentale della spiritualità profetica,
b. Ambienti e metodi degli interventi profetici;
4. La spiritualità deuteronomica;
5. L'esperienza spirituale dei sapienti;
6. L'esilio e l'immediato dopo-esilio:
a. Il messaggio di Ezechiele,
b. La tradizione P e la redazione finale del Pentateuco,
c. Il messaggio del Profeta della consolazione e i carmi del Servo di Jahve,
d. La riflessione di Giobbe,
e. La lode d'Israele:
7. Le ultime voci:
a. L'interrogativo di Qohelet,
b. La risposta del libro della Sapienza,
c. La spiritualità dell'apocalittica;
8. Le strutture dell'esperienza spirituale anticotestamentaria: sintesi:
a. La fedeltà alla storia,
b. La memoria,
c. La tensione verso il futuro messianico,
d. La fedeltà alle origini e l'apertura al nuovo,
e. La coralità,
f. Assimilazione e dialogo,
g. Dio,
h. L'uomo,
i. La tentazione dell'idolatria.
II. IL Nuovo Testamento:
1. L'esperienza spirituale originaria: il Cristo e i discepoli alla sua sequela:
a. Gesù di Nazaret, uomo religioso e solidale,
b. L'esperienza dei discepoli al seguito di Gesù,
c. Vera e falsa ricerca di Dio;
2. Le comunità sinottiche:
a. Il vangelo di Marco,
b. Il vangelo di Matteo,
c. L'opera di Luca;
3. L'esperienza spirituale di Paolo:
a. « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me »,
b. « La giustizia di Dio fondata sulla fede »,
c. « Chi mi libererà da questo corpo di morte? »,
d. « Saremo sempre col Signore »,
e. « Sono crocifisso con Cristo »,
f. « Quando sono debole, allora sono forte »,
g. « La manifestazione dello Spirito è data per la comune edificazione »,
h. « Lo Spirito di Dio abita in voi »;
4. L'esperienza spirituale secondo Giovanni:
a. « Io sono vero pane »,
b. L'uomo di fronte alla rivelazione,
c. L'itinerario del discepolo,
d. La comunità, il mondo e lo Spirito;
5. Le strutture dell'esperienza spirituale neotestamentaria: sintesi:
a. Cristo, rivelatore di Dio,
b. La via di Cristo,
c. Gesù, vero uomo,
d. Il Figlio incarnato, uguale e distinto dal Padre e dallo Spirito,
e. Tensioni nella storia e nella persona di Gesù,
f. La salvezza è "grazia".

Introduzione

L'esperienza spirituale nella bibbia si incentra essenzialmente nel rapporto con Dio, che però diventa generatore di rapporti tra uomini e criterio di lettura degli eventi.

La domanda fondamentale, che percorre tutta la bibbia da un capo all'altro, è: come e dove incontro il Signore, e come posso discernere la sua volontà?

Ma accanto a questa domanda ( o meglio all'interno di essa ) ve n'è una seconda: chi è l'uomo? ( Sal 8 ).

L'esperienza spirituale biblica è teologica e antropologica insieme.

Per delineare - sia pure a grandi tratti - l'esperienza religiosa biblica non è sufficiente descrivere staticamente il rapporto dell'uomo con Dio, fra uomini e con la storia.

Per cogliere lo specifico della spiritualità biblica non basta indicarne le strutture: è indispensabile vederne la crescita, come si è formata e sotto la spinta di quali fattori, quali le costanti e le varianti.

Dunque occorre indicare da una parte i fattori che hanno generato, mosso e sollecitato l'esperienza spirituale dell'uomo biblico, e dall'altra osservarne le espressioni concrete ( sempre legate alle condizioni storiche e quindi provvisorie ) in cui essa si è via via configurata.

In concreto: per quanto riguarda l'AT ci preoccupiamo di descrivere l'esperienza spirituale così come si è configurata nelle diverse tradizioni, che sono delle vere e proprie correnti spirituali ( tradizioni storiche, profetiche, sapienziali ), tenendo conto, per quanto è possibile, delle diverse tappe della storia d'Israele, così da mostrare l'incidenza degli eventi e delle situazioni.1

Passando al NT è importante mettere in luce il rapporto di continuità/novità con l'esperienza dell'AT e il rapporto, spesso polemico, con la spiritualità ambientale ( giudaica e pagana ).

Dalla rivelazione di Gesù e dall'esperienza del gruppo dei discepoli che fecero comunione con lui nacquero le diverse comunità, le quali vissero con toni originali l'esperienza spirituale comune: le comunità sinottiche, paoline e giovannee.

Ci interessa osservare come l'originalità di ciascuna comunità si inserisca nello sforzo di vivere la propria esperienza spirituale in situazioni precise: comunità in contesto giudaico, giudaico/pagano, ellenico: comunità che vivono in situazione di persecuzione e di emarginazione; comunità che si scontrano con le prime eresie.

Con questo restano dichiarati l'ambito, il metodo e la prospettiva del nostro discorso.

Ma è anche chiaro che - soprattutto per ragioni di spazio, ma non solo - il nostro discorso sarà frammentario, episodico: non al punto però, pensiamo, da impedirci di individuare le strutture portanti che definiscono l'esperienza spirituale biblica.

I - L'Antico Testamento

1. Il punto di partenza dell'esperienza d'Israele

Prima di passare allo studio delle diverse correnti in cui l'esperienza spirituale d'Israele si è espressa, crediamo metodologicamente corretto ricostruire, sia pure in modo necessariamente sommario, quello che potremmo chiamare il "nucleo base" ( originario e soggiacente a tutte le successive configurazioni ) di tale esperienza.

La via migliore è partire concretamente da alcuni testi importanti e rappresentativi.

Sono testi che vanno considerati come dei "condensati" dell'esperienza di Israele ( testi sui quali tutte le generazioni di israeliti si sono confrontate ) e, insieme, come veicoli della sua trasmissione.

Come tutti possono facilmente costatare, Israele, quando s'interroga sul contenuto della sua fede, risponde per lo più con racconti e con frasi informative.

Certo esistono nella bibbia affermazioni su Dio, il mondo, l'esistenza umana e il fine della vita.

Tutti interrogativi che fanno parte dell'antica saggezza orientale, alla quale anche Israele attinse ampiamente.

Però l'orientamento profondo, tipico e originale del pensiero ebraico sembra essere un altro: comprendere una serie di avvenimenti storici suscitati da Dio in mezzo al popolo.

Tanto è vero che la bibbia è soprattutto un insieme di libri storici e di racconti.

Ci sono formule brevi, nate in ambiente liturgico e esprimenti la fede comune, come ad es. Nm 23,22; Nm 24,8; Es 20,2; Dt 5,6; Gdc 6,13; 1 Sam 4,8.

Ricordano l'evento storico dell'esodo: « Jahve ci ha tratto fuori dall'Egitto ».

Ma ci sono anche testi più ampi e rappresentativi.

Un primo testo è il cantico di vittoria di Es 15.2

È un inno antico costruito a cori alterni: un coro inneggia alla potenza divina, l'altro racconta l'azione di Dio nella storia.

Le parole del coro che loda suppongono quelle del coro che racconta: la celebrazione nasce da un'esperienza storica.

L'inno si rifà a un fatto preciso ( l'evento dell'esodo ), ma contemporaneamente lo supera: racconta una storia aperta, una storia che continua.

Il fatto accaduto è colto come promessa, anticipo e modello del futuro comportamento di Dio.

Nel gesto divino che salva gli israeliti e condanna il faraone è colta una struttura costante dell'azione di Dio - un Dio che libera, un Dio che salva e che punisce - la quale fornisce la chiave per leggere la storia e anticiparne, in speranza e nella celebrazione liturgica, la conclusione.

La cosa più importante per noi è questa: Israele sperimenta Dio nella storia ( lì scopre gli attributi di Dio e lo stile della sua azione ), ed è in un evento centrale della sua storia, non al di fuori di essa e nel mito, che Israele trova la chiave di lettura degli avvenimenti accaduti prima e degli avvenimenti che continueranno ad accadere dopo.

Un secondo testo importante e rappresentativo è il c 24 di Gs.

I cinque libri di Mosè sono come racchiusi in miniatura in questo grande credo che Israele ascolta a Sichem, centro della confederazione delle tribù giunte nella terra promessa.

È un formulario di rinnovamento dell'alleanza.

Nella prima parte ( vv 2-13 ) sono elencati gli interventi divini: i patriarchi, la liberazione dall'Egitto e il deserto, la terra promessa.

Nella seconda parte ( vv 14-24 ) risuona la risposta del popolo.

Come si vede, la struttura dell'esperienza di fede è sempre la medesima: è nella storia che Israele riconosce il suo Dio.

Un terzo testo è il ben noto passo di Dt 26,4-10.

All'interno di una cornice rituale - che descrive il rito dell'offerta delle primizie - si trova un dato inatteso, cioè i vv 5-9 che non sono una preghiera rivolta al Signore, come ci si attenderebbe, bensì un racconto, una storia in cui si parla del Signore alla terza persona.

Soltanto alla fine ( v 10a ) si trova la forma attesa: « ed ecco che io porto le primizie dei frutti che tu, o Signore, mi hai donato ».

Il pio israelita che offriva le primizie era invitato a fare una professione di fede, a recitare un credo, che consisteva nel racconto di una storia.

Una storia che mette in evidenza la gratuita benevolenza di Dio, che ha condotto il popolo dalla schiavitù alla libertà, dal deserto alla terra.

L'esperienza d'Israele deve alimentarsi a questo ricordo, e in questo ricordo deve trovare la certezza che la parola di Dio è fedele.

In uno studio molto interessante, W. Zimmerli3 analizza la formula: « e voi conoscerete che sono Jahve », particolarmente presente in Ez ( per es. Ez 7,2-4; Ez 25,3-5; Ez 37,1ss ), ma presente anche in altre tradizioni, in contesti svariati, quali i detti profetici, i testi narrativi, preghiere, parenesi.

È innegabilmente una formula che esprime sostanzialmente i tratti comuni, continuamente riprodotti dell'esperienza spirituale d'Israele.

Ebbene, la prima cosa che colpisce è che la formula ricorre sempre a conclusione di contesti in cui si racconta l'agire di Dio.

La conoscenza del Signore è preceduta dalla sua azione nella storia.

C'è di più: non soltanto la conoscenza di Dio deriva dall'incontro con l'azione di Dio nella storia, ma è lo scopo a cui l'azione di Dio tende.

« L'agire di Dio non si compie per se stesso, ma è finalizzato all'uomo.

Esso deve investire l'uomo, deve muoverlo alla conoscenza di Dio ».4

Alcuni passi poi ( come per es. Ger 23,14, dove la formula di conoscenza è unita a « con tutto il cuore e con tutta l'anima » ) ci avvertono che per conoscenza non dobbiamo intendere un fatto semplicemente intellettuale, ma un conoscere che afferra l'uomo nella sua totalità.

Dunque « la prima condizione perché si abbia la conoscenza di Jahve è che preceda l'azione di Jahve ».5

La bibbia non da spazio a una conoscenza che in qualche modo sorgerebbe dalla meditazione dell'uomo ripiegato su se stesso, o dall'analisi del mondo.

Ma a questo punto è importante una precisazione: « Le azioni di Jahve non hanno vita solo in quella determinata ora in cui sono accadute, per poi affondare nella dimenticanza…

La parenesi veterotestamentaria insiste sempre di nuovo sul dovere di trasmettere con il racconto questo agire di Jahve ».6

L'esperienza d'Israele, storica, si alimenta al ricordo e alla tradizione e rivive soprattutto nella liturgia.

Il nucleo base dell'esperienza di Israele ci sembra, così, sufficientemente delineato.

2. Le tradizioni più antiche del Pentateuco7

È opinione comune che gli strati più antichi del Pentateuco sono lo jahvista ( = I ) e l'elohista ( = E ).

a. Lo strato J

Lo strato J viene fatto risalire all'epoca di Davide o a quella di Salomone ( ovviamente con un certo margine per rielaborazioni e aggiunte posteriori ): si ambienta nella Palestina meridionale e rispecchia gli interessi della monarchia al suo apogeo.

Il testo base per capire la prospettiva di J è Gen 12,1-3, definito da alcuni il kerigma dello J: fa da cerniera fra il ciclo delle origini e il ciclo dei patriarchi.

Vi troviamo già le caratteristiche più originali dell'esperienza spirituale d'Israele: la libera e gratuita iniziativa di Dio, la fede che esige, la missione che affida.

La chiamata d'Abramo è un'elezione.

Jahve è il Dio Vivente che si inserisce nella vita di Abramo e la muta.

La sua parola è ordine e promessa ed esige obbedienza e fiducia.

Jahve è un Dio di grazia e la sua chiamata è predilezione, ma è anche il Dio di tutti e il suo orizzonte si apre all'universalità: « In tè saranno benedetti tutti i popoli della terra ».

Lo schema: è universalità - Israele - universalità.

La chiamata di Abramo ( Israele ) è sulla base dell'universalità ( la preistoria ) e si apre sull'universalità.

Ma per cogliere l'esperienza spirituale dello J è ancor meglio leggere Gen 2-3.

Si vede come la fede illumina concretamente l'esistenza storica dell'uomo e diventa un modo di leggere la vita.8

In questo racconto sono presenti alcune domande:

Perché l'uomo e la donna sono così attratti l'uno verso l'altro ( 2,24 )?

Perché il serpente striscia e l'avversione fra l'uomo e il serpente è così subdola e implacabile ( 3,14 )?

Perché la donna è tradita e avvilita proprio nella maternità e nel suo attaccamento all'uomo ( 3,16 )?

Perché l'uomo è smentito nel suo lavoro e nel dominio del mondo che pure gli appartiene ( 3,17-18 )?

Ma dietro questi interrogativi particolari si intravede una domanda di fondo: Come si spiega l'esistenza dell'uomo, esistenza lacerata e carica di contraddizione?

La domanda sull'esistenza che lo J pone deve essere collocata in un'esperienza religiosa particolare, che non solo avvia verso una soluzione originale, ma che ancor prima pone l'interrogativo in modo originale: se Dio è fedele in favore dell'uomo ( come l'esperienza dell'esodo ha manifestato ), perché la contraddizione?

Perché l'ingiustizia sembra dominare? Perché la morte?

In breve, Israele vive una lacerazione religiosa oltre che umana: da una parte la fede in un Dio liberatore, dall'altra l'esperienza storica che sembra smentirla.

Di fronte alle molteplici contraddizioni che segnano la storia non bisogna incolpare Dio, dice lo J, bensì l'uomo.

Il male ha un'origine storica, nella libertà, non un'origine teologica.

Non sfugga l'importanza di una simile risposta, che non ha soltanto un valore teologico ( mettere in salvo la bontà di Dio ), ma anche un valore antropologico: induce l'uomo a considerarsi responsabile della sua storia e del male che c'è in essa e a non scaricare altrove la responsabilità.

Può essere utile, a questo punto, confrontare la risposta biblica con la risposta della mitologia.

Ci riferiamo a testi babilonesi molto noti: l'Enuma Elis, l'epopea di Ghilgames e il poema di Atrahàsis.

Sia nel mito che nella bibbia ( molti materiali espressivi sono comuni ) la riflessione è a servizio di una comprensione dell'esistenza.

Ma nel mito la morte e la contraddizione sono caso o destino, volontà assurda degli dèi.

La spiegazione della lacerazione dell'uomo si trova in alto, nella sfera degli dèi, al di là del tempo e della storia.

Per la bibbia invece la spiegazione va cercata in questa storia.

Nella spiritualità dello J sono presenti come elementi essenziali la libertà, la responsabilità di fronte a Dio, la decisione mediante la quale l'uomo è responsabile del suo destino.

Per lo J la realtà e la storia dell'uomo non diventano comprensibili semplicemente ricostruendo le linee del progetto di Dio, che pure rimangono.

L'esperienza che l'uomo concretamente vive è segnata dal peccato e dalla contraddizione.

Nell'uomo c'è il progetto di Dio e la possibilità della sua smentita.

Il serpente suggerisce che Dio ha intenzioni di gelosia: è la concezione, antichissima e universalmente diffusa, dell'invidia della divinità.

Il peccato consiste, appunto, nel pensare Dio invidioso ( da un ordine per salvare il suo dominio sull'uomo anziché per liberare l'uomo ) e, di conseguenza, nel sottrarsi al suo progetto e farsi la misura del bene e del male: decidere da sé, non in obbedienza.

Ma è proprio questo "farsi Dio" che crea nell'uomo il disordine e nella storia la contraddizione.

Allontanandosi da un progetto per il quale fu pensato e volendo fare da sé, l'uomo si aliena.

Lo J sperimenta la radicalità del peccato: si è accorto che il male si è inserito nei fondamentali rapporti dell'uomo e corrode l'essere umano nelle sue intime fibre ( nel rapporto uomo/donna, fra uomini, nel progresso tecnico, nella società ).

Ma accanto all'invadenza del male lo J sperimenta l'ostinazione della misericordia di Dio.

Per questo lo J è, nonostante tutto, carico di speranza.

L'uomo si ostina nel peccato, vi cade e ricade.

Ma Dio è altrettanto ostinato nel ricominciare da capo.

b. Lo strato E

L'E, che possediamo in modo molto più frammentario di J, si colloca nel regno del Nord ( dunque risale a dopo la divisione del regno di Salomone).9

A differenza di J, non vede nella monarchia lo strumento della salvezza, ma è piuttosto dalla parte dei profeti ( i grandi personaggi, come Abramo e Mosè, sono appunto chiamati profeti ), di cui rispecchia la critica alla monarchia e al sacerdozio.

L'E non ci da alcuna storia primordiale: è lontano dall'ampia visuale della storia di salvezza che aveva J.

Egli si limita alle tradizioni nazionali di Israele.

Due indicazioni ci sembrano importanti per individuare l'esperienza spirituale di cui E è portatore.

La prima è la viva consapevolezza del peccato.

L'E è convinto che Israele tradisce continuamente le attese di Dio, e non soltanto tardi, ma subito appena stipulata l'alleanza.

L'E non racconta il peccato delle origini dell'umanità come J ( egli si concentra, come abbiamo detto, sulla storia di Israele ), ma conosce un altro grande peccato delle origini: l'episodio del vitello d'oro ( Es 32 ).

Il racconto sottolinea quanto presto Israele abbia tradito ( e continua a tradire ) le promesse del patto: « Metteremo in pratica tutte le parole dette da Jahve ».

Con questo appare, come già nello J, che la fedeltà di Dio è grazia.

Ma appare anche la grande tentazione di tutta l'esperienza di Israele: non certo quella di abbandonare Jahve e la propria prerogativa di popolo eletto, ma piuttosto quella di approfittare di tutto questo, di gestirlo a modo proprio: piegare la presenza di Dio al proprio progetto.

Sorge una domanda: come si comporta Dio di fronte al male che sembra annullare il suo disegno di salvezza?

Certo Dio non può ignorarlo e lo punisce.

Ma una risposta più profonda, anche se ancora parziale, la possiamo trovare nella storia di Giuseppe ( che è una sezione molto importante dell'opera di E ).

Si legge in Gen 50,20: « Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso ».

La potenza del Signore può persino approfittare dell'azione cattiva dell'uomo per attuare la sua salvezza.

La seconda indicazione è la sensibilità morale dell'E.

Esso sottolinea fortemente le esigenze del Signore e, quindi, il lato morale della vita religiosa.

Israele, mediante l'alleanza, è messo a parte per il Signore e questo comporta una posizione e un compito particolari.

Jahve è il Signore e la sua signoria si esprime nella legge, e la fedeltà del popolo si attua nella sua osservanza.

Non è certo un caso che allo strato E del Pentateuco appartenga la redazione del decalogo, che si trova in Es 20,1-21.

In Es 20,1 ss si scorge la medesima struttura dei formulari dei trattati di alleanza che i sovrani perseo-ittiti stipulavano con i loro vassalli.

Jahve si presenta come il Signore d'Israele, elenca i benefici compiuti in suo favore ( « ti ho tratto dalla casa di schiavitù » ), ne afferma il legame ( « io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo » ), elenca le leggi, indica il premio e il castigo.

Ma sono tre le osservazioni che ci interessano maggiormente.

Prima: il Dio d'Israele si rivela come il Dio della vita: egli è interessato alla vita quotidiana, alle relazioni fra gli uomini, alla comunità: non è solo interessato al culto e ai riti.

Seconda: il Dio d'Israele è il Dio dell'interiorità, non dell'esteriorità.

Vuole l'uomo intero.

Alle parole e alle azioni devono corrispondere la sincerità e la fedeltà del cuore.

Terza: la legge è in relazione con il gesto salvatore e liberatore di Dio.

La legge non è l'imposizione di un tiranno o, semplicemente, di un padrone.

È la volontà di un Dio salvatore, che per primo ha compiuto gesti di salvezza.

L'osservanza della legge è la risposta a un Dio che ha fatto qualcosa per primo.

E così è già chiaro che Israele non deve osservare le leggi di Dio per puro calcolo utilitaristico, ma come conseguenza di una posizione in cui, per grazia di Dio, è venuto a trovarsi.

Israele deve far vedere ciò che è diventato per gratuita elezione.

3. Alla scuola dei Profeti

Il profetismo è, senza dubbio, uno dei fenomeni più originali dell'esperienza biblica.10

Non potendolo presentare in dettaglio, ci accontentiamo di delineare la struttura fondamentale della spiritualità dei profeti ( la vediamo come una forma vibrata della spiritualità dell'intero popolo, almeno come questa avrebbe dovuto essere ) e i principali ambienti ( e i metodi ) dei loro interventi [ v. Contestazione profetica I; Profeti ].

a. La struttura fondamentale della spiritualità profetica

Frequentemente si è pensato ai profeti come a degli anticipatori del futuro o, secondo altri, come a dei portatori di novità, tali da potersi dire i veri creatori della religione ebraica.

Nessuno dubita che i profeti abbiano approfondito la fede ebraica e che, quindi, le antiche tradizioni siano state successivamente rilette alla luce della loro esperienza.

Ma concepire i profeti anzitutto come anticipatori del futuro e portatori di novità significa tradire la loro originalità più profonda.

Uno studioso come N. Lohfmk ha potuto scrivere, non senza un pizzico di paradossalità: « I profeti non sono innovatori, ma piuttosto i difensori dell'antico; essi sono, nel vero senso della parola, conservatori ».11

Ci interessa subito una domanda: chi è il profeta e donde scaturisce la forza critica del suo messaggio?

I profeti sono, anzitutto, uomini di Dio.

Il Signore non è un oggetto della loro riflessione e del loro discorso, ma una persona vivente con la quale entrano in comunione: in nome del quale e per ordine del quale essi parlano.12

I profeti sono uomini di fede.

Non solo hanno predicato la fede, ma l'hanno vissuta.

Vale la pena di indicare almeno due atteggiamenti tipici del loro modo di vivere la fede.

Essi accettano di condurre un'esistenza segno, di verificare in se stessi e di esemplificare per primi il messaggio che annunciano.

Per far questo il profeta accetta l'isolamento e la solitudine, accetta di vivere l'esperienza del popolo di Dio perseguitato, sofferente, messo alla prova.

Inoltre il profeta vive quel tipo di fede, difficilissimo a volte, che consiste nel credere alla validità della propria missione nonostante le ripetute esperienze di fallimento.

Il profeta non perde mai la speranza.

Tipico in proposito è il profeta Geremia.

Il suo libro è disseminato di confessioni, nelle quali egli ci apre l'intimo della sua spiritualità.

È una lettura preziosa che ci fa conoscere le sofferenze, le delusioni e le crisi di un autentico uomo di fede.

Geremia amava la pace e la tranquillità, avrebbe desiderato avere con tutti rapporti sereni e distesi.

Invece Dio lo chiamò a proclamare una parola di giudizio, una parola che suscitava divisioni e contese, solitudine.

Per questo sorprendiamo più volte il profeta a interrogarsi sulla sua vocazione e a lamentarsi con il suo Dio ( Ger 20,7ss ).

Ma la solitudine, la calunnia e la sofferenza non sono l'unico dolore per Geremia.

Egli amava il suo popolo profondamente: così la tragedia del suo popolo diventa una sofferenza ulteriore ( Ger 8,21; Ger 14,17; Ger 15,18 ).

Ma accanto a questo troviamo anche altre confidenze: quelle della gioia, della speranza ritrovata: « Tu, invece. Signore, mi conosci, mi vedi, scruti il mio cuore e sai che è con tè » ( Ger 12,3 ).

« La mia speranza sei tu » ( Ger 17,14 ).

Come tutti i profeti, pur nella sofferenza, nella delusione e nel rifiuto, Geremia sperimentò nel profondo il miracolo della speranza e della serenità.

Il profeta, lo abbiamo già detto, non è colui che anticipa il futuro.

È piuttosto colui che sa leggere nella trama degli eventi il disegno di Dio, colui che sa cogliere i segni dei tempi e sa interpretare il senso religioso dei fatti.

I profeti sono attenti a tutti gli avvenimenti della vita politica nazionale e internazionale, sociale e religiosa.

Ma non si limitano a descrivere i fatti: li misurano sulla fedeltà all'alleanza ( potremmo dire che li confrontano con l'esperienza religiosa che viene dal passato ), e li giudicano in base alla loro capacità di condurre verso il futuro promesso da Dio.

Non si accontentano di fare della cronaca: dietro la cronaca raggiungono la storia, il disegno di Dio.

I profeti, per lo più, fanno un'analisi della situazione diversa da come gli altri la fanno.

I politici del tempo di Amos ne facevano un'analisi politica: scorgevano la causa del pericolo nella volontà di dominio degli altri e nella debolezza dei propri eserciti.

Cercavano perciò la salvezza nelle alleanze umane.

Cercavano la salvezza anche nell'obbedienza a Dio, nella preghiera e nel culto, ma il Dio a cui si rivolgevano era concepito come un garante del loro successo.

Amos invece fa un'analisi della situazione dal punto di vista dell'alleanza e del significato del popolo di Dio.

La rovina per il profeta viene dal tradimento dell'alleanza, non da altro: perciò la salvezza sta nella conversione.

Vi è una terza caratteristica del profeta: egli è attento a recuperare il messaggio religioso in tutta la sua purezza originaria, si sforza di ricondurre la religione alle sue fonti primitive.

Per questo il profeta reagisce alle interpretazioni accomodanti e alle incrostazioni che gli uomini via via hanno aggiunto: riconduce la fede al suo centro profondo e sconvolgente.

Così il profeta finisce con l'essere inquietante, ma non perché crea idee nuove, bensì perché sa ascoltare di nuovo la perenne parola di Dio.

b. Ambienti e metodi degli interventi profetici

Va detto che le situazioni in cui i profeti si trovarono a operare furono tutte molto difficili.

Sia pure con le dovute sfumature e con innumerevoli diversità, tutti i profeti si sono trovati di fronte al medesimo problema: Israele non è più nel deserto, nomade, ma è divenuto un popolo sedentario, vivente in una situazione nuova, di benessere: come vivere la fede in questa situazione nuova, piena di benessere e di tentazioni?

Inoltre Israele è divenuto uno Stato, deve fare una politica: ma quale politica?

Di fronte a questo problema le risposte dei profeti, pur nella loro innegabile varietà, obbedirono tutte ad uno schema comune: uno sforzo di fedeltà al germe originario dell'alleanza e contemporaneamente, uno sforzo di fedeltà alla loro contemporaneità.

I profeti tengono desta la speranza di Israele, lo costringono a guardare in avanti.

Tolgono al popolo la sicurezza che via via si costruisce e non gli permettono di diventare un popolo sedentario.

L'aprono al futuro messianico.

Ma donde deriva questa forza critica? e a quali settori si rivolge?

La denuncia dei profeti parte sempre dalla fede.

Non parte da una critica dell'uomo e della società, ma da un discorso su Dio e sul suo progetto di salvezza.

Nella loro coscienza e nel loro messaggio è prevalente la dimensione verticale: sono interessati a difendere nel mondo lo spazio di Dio.

Ma proprio per questo diventano capaci di scorgere le contraddizioni degli uomini.

La critica dei profeti nasce da una precisa convinzione: il Dio che ha liberato Israele dall'Egitto è un Dio che ha accettato la storia ed è inserito in essa per realizzare un progetto che è suo e che sta al di là di tutte le concretizzazioni che l'uomo raggiunge ( è un progetto che non si lascia imprigionare da nessuna legge, istituzione o ordinamento ).

Questo induce il profeta a relativizzare i valori e a lottare contro tutto ciò che vuole porsi come assoluto e definitivo.

Solo Dio è l'assoluto.

È questa la lotta dei profeti contro l'idolatria.

Essi hanno sempre reagito contro ogni forma di idolatria, non solo religiosa ma anche politica.

Hanno sempre reagito, ad es. contro la tendenza politica e religiosa insieme ad assolutizzare il popolo e il tempio ( quasi cose necessarie per Dio ): popolo e tempio - ripetono i profeti - possono benissimo essere dispersi.

I profeti furono critici nei confronti della politica d'Israele.

Secondo loro la via verso la salvezza passa attraverso la fedeltà al Signore, non attraverso altre alleanze.

Nella concezione di Isaia, ad es., la fede e l'incredulità sono i due fattori, positivo e negativo, della storia: la fede come forza attiva e l'incredulità come principio di rovina.

Secondo Isaia questa è la legge che spiega il declino e l'ascesa della civiltà, in particolare d'Israele. Naturalmente per fede non si intende una passiva attesa dell'intervento di Dio, ma un'attiva fiducia nella proposta di Dio.

I profeti sono critici nei confronti della società d'Israele.

Le pagine in cui denunciano l'ingiustizia rivoltante del loro tempo sono particolarmente forti e incisive.

Ma l'importante è capire che il loro criterio di giustizia - in base al quale giudicano il proprio tempo e ne denunciano le contraddizioni - non è mutuato dall'uomo o dal sistema vigente, ma da Dio.

I profeti partono da un'esperienza religiosa.

Infine i profeti criticano il culto.

Il culto ebraico si svolge nel quadro dell'alleanza.

Sta qui la sua novità.

Nel culto si rinnova l'alleanza e questa è - contemporaneamente - l'alleanza del popolo con Dio e delle tribù fra di loro: ha una dimensione religiosa e una dimensione politica.

Perciò il culto - oltre che un aspetto di adorazione - ha un aspetto di conversione e di missione.

In proposito è interessante un confronto fra il profetismo biblico e il profetismo babilonese.

I profeti babilonesi presentano in nome di Dio comandi che riguardano sempre, o quasi, il settore cultuale.

Il loro Dio è interessato alle offerte del popolo e alla soddisfazione dei propri privilegi.

I profeti biblici invece proclamano ed esigono la sovranità di Dio su tutta la vita e la realizzazione incondizionata del diritto e della giustizia.

Per intuire qualcosa della profonda spiritualità a cui i profeti hanno portato Israele citiamo ancora l'esempio di Geremia.

Nonostante la lucida analisi che egli fa del peccato presente in tutto il tessuto di Israele, resta sempre per Geremia una possibilità di trovare il Signore.

Soltanto che gli antichi valori religiosi ai quali Israele dava molta importanza - come il tempio, Gerusalemme, la dinastia di Davide - non bastano più.

Quello che conta è di offrire al Signore il proprio cuore, completamente.

Jahve non è prigioniero di un territorio, di una struttura, di una pratica religiosa.

Lo si può trovare dovunque, a condizione che si scenda nel profondo del proprio cuore.

La conversione di cui parla Geremia non è una semplice sottomissione esteriore alle esigenze di Dio.

Non è neppure, semplicemente, un'adesione sincera a una dottrina o a delle pratiche puntualmente compiute.

È una trasformazione profonda di tutto il proprio essere.

È per tutto questo che la religione di Geremia è ritenuta una religione interiore e personale.

Interiore, perché alle parole e alle azioni deve corrispondere la fedeltà e la sincerità del cuore.

Personale, perché Jahve non si lega a Israele nel suo complesso, ma vuole ciascun individuo, uno ad uno; personale perché sia l'individuo che la comunità non devono dare a Dio qualcosa, ma devono dare se stessi.

Geremia sa molto bene che questa conversione del cuore è impossibile all'uomo.

È un miracolo che solo Dio può compiere.

Ma è un miracolo che si può sperare, perché non si tratta, questa volta, che Dio salvi il tempio e la nazione e si adatti alla salvezza che l'uomo vuole.

E il contrario: è l'uomo che si lascia modellare da Dio e accetta di essere condotto dovunque vuole il Signore.

Spesso le parole dei profeti sono di minaccia, ma si tratta sempre di una minaccia che nasce dalla giustizia e che non smentisce la fedeltà di Dio e la sua ostinata solidarietà.

Ciò che provoca la minaccia è sempre l'infedeltà del popolo: la pratica dell'ingiustizia ( Am ), l'abbandono di Dio per le divinità straniere ( Os, Ger ), la pratica di una politica priva di fede ( Is ), la violazione del sabato e una prassi di violenza ( Ez 20,12.21; Ez 22 ).

Le minacce dei profeti sono sempre precedute dal richiamo alla conversione.

I profeti sanno che Dio non è contento di punire: in un certo senso, è un dovere di giustizia che egli compie con sofferenza ( Ger 12,7-8; Ger 45,3 ).

Ad ogni modo Dio non distrugge, non punisce mai definitivamente: salva un "resto", col quale ricomincia da capo.

La storia di salvezza è sempre aperta.13

4. La spiritualità Deuteronomica

Il libro del Dt è il punto di arrivo di una corrente spirituale - chiamata appunto deuteronomica - che ebbe la sua origine nel regno del Nord ma che diede i suoi frutti migliori al tempo della riforma religiosa di Giosia.

Riprende le tradizioni mosaiche per attualizzarle e reinterpreta la storia del popolo - dalla morte di Mosè all'esilio - seguendo un unico criterio fondamentale, e cioè quello della fedeltà religiosa.

Il tema centrale del Dt è semplice, continuamente ripetuto: come riformulare l'alleanza e la legge oggi, rendere l'esodo un fatto contemporaneo?

Questo sforzo di attualizzazione si muove su, tre linee.14

Prima: il Dt attualizza l'evento dell'esodo collocandolo in un contesto liturgico e parenetico.

I discorsi e i racconti del Dt rivelano chiaramente lo stile della proclamazione liturgica e della parenesi.

Le parole di Mosè sono dirette e coinvolgono l'ascoltatore.

Il "tu" e il "voi" risuonano continuamente.

E gli eventi non sono passato, ma un oggi.

L'oggi è una parola frequentissima nel libro.

Seconda: Il Dt attualizza l'alleanza, riscoprendo, al di là della casistica e delle prescrizioni legislative, il nocciolo centrale della legge, la logica di fondo che dà valore a tutto e alla quale ogni prescrizione deve essere rapportata.

Per il Dt questo nucleo centrale è la legge dell'amore ( Dt 10,12-11,17 ).

Il nucleo centrale della spiritualità deuteronomica è così presto descritto.

È una spiritualità dell'ascolto attento ( « ascolta, Israele… » ), dell'amore senza compromessi e del servizio: « Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l'ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi che oggi ti dò per il tuo bene? » ( Dt 10,12-13 ).

Israele appartiene totalmente al suo Signore.

Il Dt non parla mai semplicemente di Jahve, ma sempre ( o quasi ) di Jahve tuo Dio, vostro Dio, nostro Dio.

Questa totale dedizione al servizio del Signore nasce, secondo il Dt, sulla base di un amore di Dio che ha agito per primo.

La spiritualità deuteronomica ha un senso assai spiccato della grazia.

Israele non fu eletto fra gli altri popoli a motivo di qualche sua particolare proprietà: « Non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri Jahve si è compiaciuto di voi e vi ha scelti… » ( Dt 7,7ss ).

La scelta di Jahve è pura grazia: « Ecco, al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene.

Ma il Signore predilesse soltanto i tuoi padri, li amò, e dopo loro ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè voi, come oggi » ( Dt 10,14-15 ).

L'appartenenza totale al Signore che sorge dalla grazia si prolunga in un servizio agli uomini: « Il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, il Dio forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà paga e vestito: amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto » ( Dt 10,17-19 ).

La struttura della spiritualità deuteronomica ( ma, evidentemente, dell'intera bibbia ) è ora molto chiara: dalla radice della grazia scaturiscono il servizio al Signore e la giustizia fra gli uomini.

Va infine detto, naturalmente, che la grazia non annulla la responsabilità.

È questo il senso del motivo delle benedizioni e delle maledizioni, della vita e della morte, che il Dt spesso sottolinea.

Tale motivo evidenzia la situazione di profonda serietà nella quale Israele è stato portato dalla grazia di Dio.

Certo, ora Israele possiede il dono di Dio, ma sta a lui volerlo mantenere.

Terza: Il Dt attualizza l'alleanza, pensandola e riformulandola alla luce del nuovo contesto ( religioso, sociale e politico ) in cui Israele venne a trovarsi.

Si sforza di adattare il monoteismo ebraico ( che proclama il Dio della storia ) al nuovo contesto agricolo ( che porta con sé la tentazione del culto agli dèi, cananei della fecondità ).

Si sforza di ripensare i comandamenti alla luce delle nuove strutture ( Israele non è più un popolo nomade, ma sedentario; non è più una confederazione di tribù, ma uno Stato ).

Ripensa la spiritualità della fede e della dipendenza da Dio, della povertà, alla luce della nuova situazione di benessere e di sicurezza ( Dt 8,1-20 ).

Anche da questo punto di vista il risultato della riflessione deuteronomica può definirsi brillante.

Secondo il Dt, che esplicita intuizioni già presenti prima, l'esperienza del ( v. ) deserto [ II ], esperienza di nomadismo e di povertà, ha un valore teologico fondamentale, è una lezione che Israele deve imparare e mai più dimenticare.

Fu ad es. un'educazione alla dipendenza da Dio.

Nella povertà del deserto Israele si sperimentò incapace di provvedere a se stesso e bisognoso di Dio.

Dunque, tempo di educazione alla fede e di verifica: da una parte Israele sperimentò la propria insufficienza e, dall'altra, la presenza dell'aiuto di Dio: imparò che « non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio » ( Dt 8,3 ).

È una lezione da tener presente soprattutto in una situazione di benessere.

Due sono infatti i pericoli del benessere: la dimenticanza di Dio e l'autosufficienza.

Di fronte a questi pericoli - conclude il Dt - è importante riandare all'esperienza del deserto: fu il momento della verità.

5. L'esperienza spirituale dei sapienti

La riflessione sapienziale è assai antica ed ha accompagnato tutta l'esperienza d'Israele.

Senza il suo apporto l'avventura spirituale d'Israele sarebbe stata molto diversa.

Si distingue dalle esperienze sinora descritte per alcune caratteristiche proprie, di metodo e di interessi, che configurano la riflessione sapienziale come un'espressione originale.

Con essa la spiritualità d'Israele entra in dialogo con la ragione e l'esperienza e con il patrimonio culturale comune ai popoli vicini " [ v. Consigli evangelici II,2 ].15

E molto interessante osservare che la bibbia conosce - accanto all'ascolto esplicito della parola - l'ascolto delle cose, dell'uomo, della storia, dell'esperienza e della ragione.

Tutto questo appare con particolare incisività, appunto nella riflessione sapienziale.

Nel loro sforzo di conoscenza e di appropriazione del mondo, i sapienti non si affidano direttamente alla rivelazione ( anche se sono convinti credenti ), ma alla ragione, all'esperienza e al dialogo.

Il loro metodo è diverso da quello dei profeti: non discendono dalla parola alla vita, riflettendo cioè sui gesti compiuti da Jahve in seno ad Israele.

Si sforzano piuttosto di leggere il mondo, la storia e l'esperienza.

La sapienza considera il mondo come una realtà profana, senza veli mitici: ci si può impadronire dei suoi misteri in maniera razionale e scientifica.

Due sono gli elementi che caratterizzano la struttura sapienziale e il suo metodo: considerare l'uomo, anzitutto, non come figlio di Israele, ma come uomo ( nell'ordine della creazione ), e considerarlo come un uomo che deve dirigere la sua vita con l'osservazione e l'esperienza ( non sempre immediatamente e unicamente appellandosi alla rivelazione ).

Probabilmente ci fu una certa opposizione fra sapienti e profeti.

Isaia ( Is 3,1-3; Is 5,21; Is 10,13; Is 19,11; Is 29,13-15; Is 30,1 ) e più tardi Geremia ( Ger 4,22; Ger 8,8; Ger 9,22; Ger 49,7; Ger 50,35 ) hanno manifestato qualche sospetto nei confronti della sapienza.

Non un rifiuto di principio, ma un'inquietudine.

E lo si comprende: la sapienza procede per via di esperienza e di ricerca, la profezia è ascolto della rivelazione.

a. I sapienti manifestano una chiara intenzione di universalità

Il loro sforzo è di costruire una piattaforma comune di sapienzialità intorno alla quale tutti gli uomini di buona volontà possano convenire.

I sapienti tendono a un dialogo che va oltre i confini di Israele.

E per lo più essi non si impongono con il comando autoritativo, con imperativi apodittici, ma piuttosto col convincimento, col consiglio, la motivazione: la sapienza ricerca il consenso.

Il sapiente si sforza di assimilare la cultura circostante e di introdurla nella propria spiritualità, senza con questo tradire la propria originalità e la propria fede.

Il sapiente tenta di esprimere la fede ebraica in un linguaggio accessibile alle culture circostanti.

Egli fa l'esperienza di raggiungere Dio in una dimensione più ampia della Thora.

Il sapiente non riflette anzitutto sulla storia di Jahve con Israele, ma su temi che oggi diremmo profani, come la professione, la convivenza, la società e la politica.

E si muove dichiaratamente dentro l'orizzonte della creazione e la sua teologia è una teologia della creazione.

Il suo scopo è la conquista del mondo per l'uomo: non solo conoscenza del mondo, non solo ricerca di competenza professionale, ma anche dimensione politica e visione etica.

Il sapiente è convinto che l'uomo abbia una sfera di autonomia nell'ambito della creazione.

Tutto questo potrebbe sembrare, a prima vista, estraneo alla fede e all'esperienza spirituale.

In realtà è diverso. Anche sotto questo aspetto i sapienti sono dei veri educatori alla fede.

Suggeriscono comportamenti che sembrano essere al di qua dell'alleanza: si accontentano, per lo più, di suggerimenti riguardanti il buon senso e il saper vivere, ma questo loro umanesimo ha lo scopo - nella sua globalità - di creare un tipo
di uomo adatto alle scelte e agli impegni dell'alleanza: intende creare le disposizioni favorevoli al dialogo con Dio.

Le virtù più inculcate? La forza e il coraggio, la padronanza di sé, la libertà interiore, la fedeltà, la prudenza: tutte virtù necessarie perché l'uomo sia uomo e perché sia malleabile nelle mani di Dio.

b. Tutta la tradizione sapienziale d'Israele si sforza di far coabitare Dio e la sapienza, fede e ragione

Come si vede, è una esperienza profondamente religiosa.

Si cerca di gettare dei ponti fra rivelazione e esperienza.

Ma naturalmente fede ed esperienza interagiscono fra di loro, e qui sta la novità e la profondità dell'avventura spirituale della sapienza ebraica.

La fede relativizza l'esperienza, la richiama a una trascendenza: l'esperienza, a sua volta, contesta il dogmatismo.

In altre parole, i sapienti hanno alla fine costretto l'indagine sull'esistenza ad aprirsi alla rivelazione: procedendo per esperienza si sono imbattuti in zone di mistero che solo Dio può illuminare.

Hanno ascoltato la realtà profana e l'hanno seguita nel suo dinamismo, ma hanno avvertito che questo dinamismo è in sé religioso, viene da Dio e ne riflette la sapienza.

Si sono imbattuti nel mistero e lo hanno riconosciuto: pensiamo ad es. a Pr 30,1-6.

Si direbbe, anzi, che uno dei loro compiti sia proprio quello di demolire le false sicurezze, non importa se fondate su pretese teologiche o razionali.

I sapienti hanno alla fine capito che la sapienza dell'uomo - ogni esperienza - viene da Dio: non qualcosa che sale dal basso, ma che scende dall'alto: un dono da accogliere, dunque, una parola da ascoltare in atteggiamento di disponibilità, di obbedienza, di silenzio: anche da leggere e da ascoltare, perché la parola di Dio è pure racchiusa nella creazione e nell'esperienza dell'uomo e perciò deve essere scrutata, ma sempre con la consapevolezza che si tratta di una parola di Dio e da Dio.

In effetti il sapiente ( ed è un tratto importantissimo della sua spiritualità ) non considera la sua ricerca - anche se procede per via razionale e di esperienza - come una "prova di forza", ma come un'autentica interpretazione, un ascolto, alla scoperta di un ordine che è da decifrare e che si ritiene salvifico.

È un atteggiamento profondamente religioso, ed è in gioco l'apertura del cuore e la libertà dello spirito, non solo l'intelligenza: è in gioco il rigore morale.

La vera sapienza rende consapevoli che la ricerca deve terminare nel silenzio ( di fronte a Dio e al mistero dell'esistenza ) e, insieme, rende consapevoli che il silenzio non è disgiunto da una sana ricerca.

La spiritualità dei sapienti suppone il superamento dell'idea che Dio si manifesti nel mondo soltanto attraverso prodigi e la storia di salvezza.

Non solo nella rivelazione, ma anche nella creazione è seminata la sapienza di Dio.

La spiritualità dei sapienti si muove in un'intima tensione: procede nella convinzione che il mondo resta in tutto subordinato a Dio, ma questa subordinazione non impedisce la ricerca.

L'ordine del mondo viene da Dio, l'intelligenza e l'esperienza sono luce da Dio.

I sapienti sono alla ricerca di un ordine, di un disegno nella storia del mondo e, quindi, di una regola di vita.

Il mondo e la storia sono segnati dal molteplice e dalla frammentarietà, si direbbe dalla casualità.

Tutto capita a caso o c'è un ordine su cui fare affidamento?

Nulla capita a caso, nulla accade senza senso - conclude l'antica riflessione sapienziale -; e il fondamento dell'ordine è il principio di retribuzione: chi fa bene ottiene il bene, chi fa male ottiene il male.

È questo il punto più delicato dell'antica riflessione sapienziale: che rischia di imprigionare l'agire di Dio entro un'esigenza di umana razionalità e rischia di imprigionare la storia entro uno schema semplicistico.

Ma questi rischi furono felicemente superati ( come vedremo in Giobbe e Qohelet ), e ciò è dovuto al fatto che alla base della spiritualità sapienziale c'è il rigore morale, la volontà di leggere le cose come sono, la precedenza accordata alla realtà sullo schema ideologico.

6. L'esilio e l'immediato dopo-esilio

Nella logica della storia d'Israele l'eventualità di un esilio sembrava un assurdo.

Sarebbe stato uno sconvolgimento di tutto il disegno salvifico di Dio, iniziato durante l'esodo a prezzo di innumerevoli prodigi; sarebbe stata una smentita a tutte le promesse di Dio ( e Dio non può smentirsi ): la promessa della terra, il giuramento di fedeltà alla casa di Davide, la stabilità del tempio.

Ebbene, tutto questo che sembrava assurdo, che sembrava al di fuori della logica di Dio, accadde.

Al di là di ogni altro disagio, l'esilio pose, dunque, un problema teologico, un problema di fede: il Signore è ancora il Dio salvatore?

È ancora fedele alle sue promesse?16

Per rispondere a questo interrogativo Israele ripensò a tutta la sua fede, alla sua tradizione, alla sua legislazione, alla sua storia.

Tutti i libri dell'AT tradiscono - quale più quale meno - questo grandioso lavoro di ripensamento.

Ciò che sembrava assurdo, ciò che sembrava la fine della fede costituì in tal modo un grandioso balzo in avanti nella fede stessa.

L'esilio - e forse ancor più la situazione di tensione seguita ai ritorno in patria - fece prendere coscienza a Israele del vero volto di Dio, lo costrinse a recuperare la vera idea di Dio e di conseguenza la vera idea di popolo eletto e di speranza messianica.

Si trattò di una riformulazione teologica che andava al cuore della spiritualità di Israele.

Cogliamo alcuni spunti di questa grandiosa maturazione spirituale nel messaggio del profeta Ezechiele, nella tradizione sacerdotale ( = P ) e nella redazione finale del Pentateuco, nel Deutero Isaia e nel libro di Giobbe.

a. Il messaggio di Ezechiele

Ezechiele svolse il suo ministero profetico fra gli esiliati, a Babilonia, dal 592 al 570 circa.

Il 16 marzo del 598 Gerusalemme capitolò di fronte all'esercito di Nabucodonosor.

Il giovane re Joachim, la regina madre, gli alti ufficiali, i cittadini più importanti furono deportati a Babilonia.

Fra costoro c'era Ezechiele.17

Ezechiele vive dunque in esilio, a Babilonia.

Il contesto in cui si trova è carico di problemi.

Per es.: gli esiliati mantenevano un'inalterabile fiducia nei destini gloriosi del popolo eletto: Gerusalemme non sarà distrutta - essi pensavano -, l'esilio terminerà e si potrà tornare di nuovo nella terra promessa; Dio castiga, ma è fedele: ha sempre fatto così.

Potrebbe sembrare un atteggiamento di fede, ma era un attaccamento al passato e una illusione.

Quando più tardi - nel 586 - Gerusalemme e il tempio furono distrutti, tutti allora capirono che la speranza di un rapido ritorno era illusione.

A questo punto subentrò un altro pericolo: lo scoraggiamento e la sfiducia nelle promesse di Dio.

Il Signore si ricorda ancora del suo popolo? È ancora possibile sperare?

E c'era dell'altro: gli ebrei, in Palestina, erano abituati a manifestare la loro vita religiosa offrendo sacrifici al tempio e celebrando la liturgia: ora, a Babilonia, si trovarono di colpo privati di tutte queste possibilità.

Infine si aggiunga la sofferenza di sentirsi estranei, sradicati.

Molti cercarono di risolvere la difficoltà integrandosi nel nuovo ambiente, accettandone la cultura, le forme sociali e fatalmente anche la religione.

Molti perdettero la fede; altri invece ebbero il coraggio di rimanere fedeli alla loro religione e alla loro identità: costoro costituirono il "resto" d'Israele, segno di Dio fra le nazioni.

Nella situazione descritta Ezechiele si assunse come primo compito quello di orientare definitivamente gli spiriti dei deportati verso l'avvenire, liberandoli dalla tentazione di voltarsi indietro.

Per questo egli demolì, una dopo l'altra, tutte le illusioni dei deportati.

Anzitutto il mito di Gerusalemme: Dio non è legato a Gerusalemme; e poi il mito della dinastia di Davide: Dio ha fatto la promessa a Davide e alla sua discendenza, ma la promessa di Dio non è mai rigidamente legata ad una discendenza carnale; infine, ultima illusione, il tempio: la sorte di Jahve non è legata a un tempio di pietra, non è legata a nessuna istituzione.

Tutto è crollato, ma non si deve piangere.

Alla morte della moglie il profeta si sente proibire di portare il lutto: « Voi farete allora come ho fatto io.

Non vi raderete la barba ne mangerete il pane del lutto.

Avrete il turbante in capo e i calzari ai piedi.

Non vi lamenterete e non piangerete » ( Ez 24,22-23 ).

È un gesto simbolico. È giusto che il vecchio mondo scompaia, non merita le lacrime di nessuno!

Il Signore non vuole ricostruire sopra i ruderi, vuole costruire con materiali nuovi.

Come tutti i profeti, anche Ezechiele pronunciò molte parole di sciagura, che però non intendevano demolire la speranza di Israele, bensì le illusioni del popolo.

La vera speranza poggia su Dio, non sulle illusioni.

Solo dopo aver demolito le illusioni è possibile parlare di speranza.

Un terreno purificato dalle illusioni e dalle nostalgie è l'unico adatto perché la speranza di Dio possa di nuovo germogliare.

Le fiducie dell'uomo sono tutte crollate, e proprio allora la fedeltà di Dio si mostra incrollabile.

Jahve costruirà un'alleanza nuova.

In essa impegnerà tutto il suo amore e tutta la sua potenza creatrice.

Per strappare l'uomo alle infedeltà e al peccato lo spirito di Dio rifarà quel gesto trasformante, gratuito e salvifico, che si è manifestato nella creazione e nell'esodo ( Es 36,22-28 ).

b. La tradizione P e la redazione finale del Pentateuco

Lo strato P del Pentateuco è ritenuto, nella sua composizione finale, lo strato più recente ( si pensa all'epoca esilica ): raccoglie però materiali antichissimi, probabilmente appartenenti alle tradizioni legate al tempio di Gerusalemme.

P è una rielaborazione delle antiche tradizioni d'Israele, non per trasformarle ma per ricavarne con maggior chiarezza il significato religioso e per trovarvi una risposta agli interrogativi suscitati dalla situazione in cui Israele si trova.

All'ambiente di P e ai suoi interessi si deve sostanzialmente anche la redazione finale dell'intero Pentateuco.18

Quale ambiente? Lo abbiamo già in parte descritto [ qui sopra, a ], ma crediamo valga la pena di insistervi.

Israele vive una situazione inedita.

Senza tempio e liturgia come restare fedele alla religione dei padri?

Si può ancora aver fiducia nel Dio dei padri, ora che le promesse sembrano tutte smentite?

Non si dimentichi che per gli antichi una vittoria su un popolo era la vittoria del proprio dio nei confronti del dio del popolo vinto.

Il dio Marduk è allora più forte di Jahve?

Babilonia, inoltre, non, era soltanto il centro di un vasto impero, ma anche il centro di una vita culturale assai viva e di una liturgia affascinante.

Al popolo d'Israele disperso e tentato, P rivolge, con molta vivacità, un messaggio di speranza, un invito alla fiducia nella parola di Dio, una proclamazione dell'unica sovranità di Jahve.

Anzitutto, una solenne proclamazione della signoria di Dio e della fedeltà della sua parola.

La prospettiva dominante del racconto della creazione ( Gen 1,1-2,4a ) non è l'origine delle cose, ma l'affermazione di un Dio ordinatore, che è all'origine di tutte le creature, le guida e da loro un senso.

Tutto ciò che esiste è sotto la signoria di Dio.

Ognuna delle opere della creazione è raccontata secondo un formulario fisso, che mette in rilievo la corrispondenza fra gli ordini di Dio e il loro compimento.

L'autore è convinto che la salvezza dell'uomo consista nella corretta esecuzione degli ordini divini, e per questo mostra che l'obbedienza è già ancorata nel cosmo: è una legge dell'esistenza, non semplicemente dell'uomo.

Ma si legga anche il racconto di Gen 17.

Il P presenta la vocazione di Abramo in una riduzione teologica estrema.

Nei vv 1-14 è unicamente Dio che parla: di Abramo nessuna parola, solo un gesto di adorazione ( v 3 ).

Si può dire che tutto il racconto consista nel discorso di Dio, solenne, minuzioso, come risuonante in uno spazio vuoto.

Come lo J aveva condensato l'essenziale del suo messaggio in Gen 12,1-3 ( Abramo fonte di benedizione per tutti i popoli ), così il P sembra condensare il suo motivo centrale in Gen 1,28: motivo che poi risuona come un ritornello nei punti strategici della sua narrazione ( Gen 9,1-7; Gen 17,2-6; Gen 17,16; Gen 17,20; Gen 28,3-4; Gen 47,27; Gen 48,3-4; Es 1,7 ).

Il messaggio è chiaro: la vita viene da Dio, dalla sua benedizione.

Non è nelle mani dell'uomo, ne nelle mani del dio Marduk.

La vita è sospesa alla benedizione di Dio, e Israele è l'erede di questa benedizione.

È un invito alla fiducia. Tanto più che l'alleanza - altra idea che il P sottolinea - non è condizionata alla risposta dell'uomo, ma unicamente alla parola di Dio.

La cattiveria degli uomini ha riportato il caos nel mondo ( diluvio ), ma Dio si « ricordò », e la sua parola ha riportato l'ordine ( Gen 8,1 ).

La sua alleanza ora è stabile e senza pentimento.

Dio soltanto si è impegnato nei confronti di Noè, i suoi figli e i suoi discendenti: Gen 9,1-17.

È un impegno gratuito e perpetuo.

Anche in Gen 17,2-3 è Dio che enuncia il patto.

Non si segue la formula dei trattati, la formula del patto fra due.

Tutto è stabilito da Dio. L'uomo deve accogliere e adorare ( v 3 ).

La promessa di Dio - radicata dunque nella sua parola e non nel comportamento dell'uomo - non può essere che fedele.

Anche se è una promessa che non segue le nostre vie.

La vicenda di Abramo, letta nel contesto dell'esilio, diventa, in proposito, molto illuminante.

La parola di Dio ha spinto Abramo a una scelta radicale.

Egli tutto ha abbandonato fidandosi della parola del suo Signore.

Ma gli anni passano, i figli non vengono, le promesse di Dio, quelle promesse per le quali si è tutto rischiato, sembrano sempre più allontanarsi.

Dio non ha fretta di mantenere le promesse.

Il sacrificio di Isacco ( Gen 22 ) ci porta al cuore di questa esperienza.

Dio non solo non sembra affrettarsi a mantenere la promessa, ma addirittura sembra smentirla ( tale è, appunto, l'esperienza dell'esilio ).

Dio aveva promesso ad Abramo una discendenza, ora gli chiede il figlio.

Il Dio della salvezza è misterioso, le sue vie non sono le nostre.

Nel contesto della situazione dell'esilio, comprendiamo pienamente anche un altro interesse del P: la sua insistenza su alcune prescrizioni ( che egli inserisce costantemente in quadri narrativi ): la legge del sabato ( Gen 2,1-3 ), il divieto di alcuni cibi ( Gen 9,4-6 ), l'obbligo della circoncisione ( Gen 17,10-14 ), la proibizione dei matrimoni misti ( Gen 28,1-9 ).

Queste prescrizioni non sono l'impegno dell'uomo che merita il patto, ma sono il segno dell'uomo che accoglie il patto e decide di vivere alla sua ombra.

In esilio diventano il segno dell'identità del credente, il segno del coraggio della sua fede e della sua volontà di appartenenza al popolo di Dio.

c. Il messaggio del Profeta della consolazione e i carmi del Servo di Jahve

Agli esiliati in Babilonia anche un profeta sconosciuto ( chiamato il Profeta della consolazione o Deutero Isaia ) non esita a ripetere parole di consolazione e di speranza.

Si direbbe che i testi biblici di speranza siano tutti nati in contesti di umano fallimento.

Is 54,5-14 medita su Dio che è giusto ( e perciò castiga il suo popolo ), ma la cui fedeltà è vittoriosa sulla sua stessa giustizia: « Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore ».

Il Dio giusto è talmente fedele al suo piano di salvezza che non viene meno, anche se Israele viene meno alla sua parte.

E Is 55,1-11 sottolinea l'efficacia indiscussa della parola di Dio: è come la pioggia che non ritorna senza avere fecondato la terra.

È a questa parola che bisogna appoggiarsi, non ad altre.19

Ma sono soprattutto i carmi del Servo di Jahve che ci interessano: Is 42,1ss; Is 49,1-6; Is 50,4-9; Is 53,1-12.

La figura del Servo, eletto da Dio e scelto per una missione di salvezza, è sotto diversi aspetti sconosciuta.

Chi è il Servo? Una cosa è certa: è una figura contemporaneamente individuale e comunitaria; i due aspetti si innestano l'uno nell'altro e i testi sfuggono spesso al nostro desiderio di distinzione.

Il Servo è il popolo di Israele, è il resto fedele di Israele, è il messia.

Il pensiero può oscillare da un aspetto all'altro ( o meglio, riferirsi a tutti contemporaneamente ) perché la vocazione/missione del popolo di Dio si ritrova, portata a compimento, nel messia, e la vocazione del messia rivive nella comunità.

I diversi soggetti sono legati da un filo profondo: in essi si fa presente il medesimo disegno di Dio che si svolge secondo la medesima logica.

Come sempre, è importante ricostruire il tempo in cui collocare questi canti.

Il tempo più adatto ci sembra quello della crisi post-esilica.

Il ritorno di Israele da Babilonia, benché cantato ed esaltato come un nuovo esodo, fu di fatto una delusione.

In questo contesto di delusione - e quindi carico di nuovi interrogativi intorno alla fedeltà di Dio e all'efficacia del suo amore - si collocano i canti del Servo con il loro messaggio di speranza, di invito alla fedeltà alla parola di Dio, soprattutto con la loro riflessione sul significato salvifico della persecuzione vissuta dai profeti ( per es. Geremia ) o dal "resto" d'Israele ( che, fidandosi della parola di Dio, è ritornato in patria e, proprio per questa sua fedeltà, si trova a disagio e smentito ).

Ecco la risposta: è proprio attraverso una sofferenza purificatrice ( sofferenza che i giusti - cioè il popolo eletto - subiscono prendendo su di sé la sorte degli altri ) che giunge la salvezza per tutti.

In questo contesto di pensiero, logicamente, non si pensa più al messia ( e alla sua comunità ) come a un re glorioso, ma piuttosto come a un profeta sofferente.

Il messia sarà il grande giusto sofferente.

d. La riflessione di Giobbe

L'affascinante e importantissimo libro di Giobbe non è di facile lettura.20

Inizia con un prologo ( cc 1-2 ) e finisce con un epilogo ( Gb 42,7-12 ): ambedue sono in prosa.

Fra prologo ed epilogo è inserita un'ampia sezione poetica.

Per cogliere il lucido problema che il libro affronta sono indispensabili due premesse.

Prima: non basta leggere il libro in chiave individuale, occorre piuttosto leggerlo in chiave comunitaria.

Non è semplicemente un individuo che si interroga sul senso della propria sofferenza, ma è la comunità che si interroga sul significato della propria elezione.

Seconda: la parte centrale del libro, quella poetica e che per il nostro tema è indubbiamente la più interessante, va collocata nel dopo esilio, in quella situazione che noi abbiamo già descritto [ sopra, 6, a ] e che pone drammaticamente il grande interrogativo su Dio: che significato ha l'amore di Dio, la sua elezione, quando costato che il popolo di Dio, il popolo amato, è perseguitato e sofferente?

L'esperienza di Giobbe non è un'esperienza isolata.

Riflessioni sulla sofferenza del giusto si trovano in Egitto e a Babilonia.

Giobbe quindi è l'eco di una riflessione e di un'inquietudine la quale va al di là della cultura ebraica.

Ma l'autore ebraico ha inserito il tema nel contesto dell'alleanza, rivelandone tutta la portata teologica, che mette in discussione - lo ripetiamo - non solo la fede del singolo, ma la stessa ragion d'essere del popolo di Dio e sollecita una profonda revisione del modo di concepire Dio e il suo disegno di salvezza.

È tanto grande la forza critica del problema - cioè: un giusto che soffre - che tutta la teologia tradizionale lo rifiuta: si rifiuta il dato di esperienza perché sembra negare la fede.

È questa, sostanzialmente, la posizione degli amici di Giobbe: partendo da un indiscutibile dato di fede ( Dio è giusto ), essi deducevano che era impossibile che un innocente fosse colpito da malattia: altrimenti come si potrebbe ancora affermare che Dio è giusto?

Ben diversa è invece la posizione di Giobbe ( nella quale crediamo di scorgere il nucleo più profondo della spiritualità biblica ).

Al di fuori dei primi due capitoli,Giobbe non è più il modello della pazienza, bensì il modello del credente che si scontra con il mistero di Dio.

Il suo dolore nasce dalla fede: egli non è più sicuro di Dio, vede dileguarsi la propria sicurezza teologica.

Si trova in balia di un dolore ingiusto, che non può ricondursi al peccato e al castigo: un dolore che sembra smentire l'amore di Dio, che tuttavia continua ad essere affermato.

Giobbe è così costretto a perdere la fede o a credere in un Dio diverso.

In tal modo la sua sofferenza ( ma, più ampiamente, potremmo parlare della storia e delle sue contraddizioni ) non smentisce l'amore di Dio, bensì ne rivela il mistero, e la scoperta di questo mistero come la sua accettazione sono parte essenziale dell'autentica spiritualità.

Solo così si può dire di avere incontrato Dio: « Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono » ( Gb 42,5 ).

Nell'esperienza di Giobbe troviamo la reazione del vero credente contro il tentativo di razionalizzare il mistero dell'esistenza.

Occorre invece accettare il mistero, viverlo con fiducia nel Dio vivente che sta al di là dei vari tentativi di soluzione: una fiducia che, per sorreggersi, non ha bisogno di negare l'esperienza, che anzi deve essere letta lucidamente e accettata coraggiosamente.

A nessuno sfugge, crediamo, l'importanza e la modernità dell'esperienza di Giobbe.

Egli elenca, a partire da una spregiudicata lettura della storia, tutte le smentite a cui una certa ( e diffusa ) spiritualità può andare incontro.

Lo sbocco è semplice: o un Dio diverso o l'ateismo.

Alla fin fine si tratta di un problema di relazioni e val la pena di precisarlo nuovamente: Giobbe è innocente eppure soffre, e Dio è giusto.

Come comporre le due affermazioni? Se continuiamo a pensare che la giustizia dell'uomo sia la misura di quella di Dio, allora c'è posto solo per l'ateismo, a meno di accettare la menzogna degli amici che si ostinano a non guardare in faccia la storia.

Ma è il punto di partenza che va cambiato: la giustizia di Dio è oltre quella dell'uomo.

La vera spiritualità si nutre del mistero, non si sforza di eliminarlo.

e. La lode d'Israele

Il salterio, composto lungo tutta la storia d'Israele, traduce in preghiera le vicende del popolo di Dio.

Possiamo dire che tutto l'AT vi si ritrova sotto forma di preghiera e di meditazione.

È perciò un luogo privilegiato per osservare la spiritualità biblica.21

Nei salmi non troviamo soltanto ricordi e riferimenti alla storia della salvezza ( non sono cioè semplicemente racconti poetici delle gesta di Dio ), ma vi troviamo la reazione dell'animo, le risonanze che le gesta divine suscitarono.

Sono dunque storia pregata e vissuta, gesto di Dio e risposta dell'uomo.

I salmi parlano di Dio, dell'uomo, della salvezza, della retribuzione.

Purtroppo non possiamo indicare tutti i vari generi dei salmi, e ancor meno, indicare tutti i temi di ciascun genere [ v. Salmi ].

Ci limitiamo perciò a pochi cenni intorno ai temi degli "inni di lode" e ai "salmi di supplica".

Gli inni di lode riprendono i fatti salvifici, le grandi gesta di Dio ( creazione, salvezza e provvidenza ), e li sfruttano come motivo per lodare e ringraziare Dio, come mezzi per scoprire il suo volto e il suo amore, come fondamento per la fiducia in ogni situazione.

Gli inni sono una preghiera che nasce dal ricordo.

Un tema frequente è la lode al Dio salvatore.

L'esperienza del Dio vivente colora di sé ogni cosa.

Sono le gesta dell'esodo che hanno soprattutto educato Israele a pregare: le ritroviamo nei salmi in infinite variazioni.

Hanno reso la preghiera d'Israele una manifestazione di lode, gioia e riconoscenza; l'hanno impregnata d'incrollabile fiducia.

Più ancora, hanno insegnato a Israele a far appello a quell'amore divino di cui esse sono appunto i segni e la garanzia.

Un secondo motivo è quello della creazione: la lode e la meraviglia per es. di fronte alla varietà, alla sapienza e alla bellezza delle opere di Dio, in particolare dell'uomo ( Sal 8 ).

Ma anche quando osserva la natura, l'israelita è portato a leggerla alla luce delle sue esperienze storiche: nel fenomeno dell'uragano per es. non vede solo la potenza di Dio, ma vede il volto del Dio salvatore che pone quella sua potenza a servizio di un piano di predilezione: la reazione dell'animo perciò non è solo il timore, ma la fiducia ( in proposito il Sal 29 ).22

Terzo motivo: Israele scopre la propria vocazione missionaria riflettendo insieme sul mistero dell'elezione e sul fatto che questo Dio che sceglie è il Dio della creazione, il Dio di tutti.

Israele è scelto fra tutti per lodare Dio a nome di tutti.23

I salmi di supplica ci fanno penetrare nella vita dell'uomo e del popolo di cui intravediamo le paure, le pene, le lotte e le speranze.

Sono la preghiera dell'uomo travolto dal dolore, perseguitato dai nemici, tradito dagli amici, che si rivolge a Dio dal profondo del cuore e da lui solo attende aiuto.

Molti sono i temi che essi sviluppano: la sofferenza, il peccato, il povero, la morte, la fiducia in Dio.

Sono motivi perenni. Ma forse vai la pena di scendere più a fondo nell'animo di questi salmisti e scoprire la loro spiritualità.

Generalmente sono dominati dagli interessi di Dio più che dai propri: lo pregano di intervenire per la sua gloria; sembra che la loro preoccupazione sia la gloria di Dio, non la loro personale salvezza.

Si sentono sempre, nonostante tutto, legati a Dio; ad essi non viene in mente di allontanarsi da Dio o di negare la sua bontà e la sua sapienza.

In proposito sono grandemente illuminanti i cosi detti salmi del « giusto sofferente» ( Sal 22; Sal 31; Sal 42-43; Sal 69 ).

Sono preghiere di uomini che sperimentano la sofferenza ingiusta, derisi e perseguitati per la loro fedeltà al Signore.

Si lamentano e supplicano e sperimentano tutta l'amarezza del "silenzio di Dio".

Ma nel contempo sperimentano una incrollabile fiducia.

I salmi presentano una situazione concreta ( individuale o collettiva ), personale, ma la collocano d'istinto nella storia della salvezza: la risolvono e la interpretano alla luce delle gesta di Dio.

Israele non conosce un altro criterio di interpretazione.

7. Le ultime voci

Negli ultimi secoli prima di Cristo non si odono più le voci dei grandi profeti di un tempo.

Ma l'avventura spirituale d'Israele è tutt'altro che conclusa.

Costretti a sintetizzare, ci soffermiamo su Qohelet, il libro della Sapienza e il libro di Daniele.

a. L'interrogativo di Qohelet

Il libro di Qohelet ( o Ecclesiaste ), scritto probabilmente nella seconda metà del III sec., costituisce senza dubbio una lettura sconcertante.24

Per questo la tradizione rischia di trascurarlo.

In realtà gli interrogativi che esso pone e le inquietudini che suscita sono il passaggio obbligato verso un'autentica esperienza spirituale.

L'interrogativo che costituisce il tema centrale del suo discorso ( « che senso ha la vita? » ) è posto in un contesto teologico e spirituale preciso.

La riflessione profetica aveva già contestato la soluzione della retribuzione collettiva: si veda Ger 31,29-30 e Ez 18.

I due profeti avevano compreso molto bene che non si può risolvere il problema di Dio e del male presente nel mondo ricorrendo a una specie di responsabilità collettiva.

La riflessione sapienziale, a sua volta, aveva già contestato l'ingenuo ottimismo degli antichi sapienti, che ritenevano il bene e il male giustamente distribuiti, secondo la condotta di ciascuno.

Contro questa concezione aveva già innalzato la sua rivolta il libro di Giobbe.

Qohelet va oltre. Giobbe lascia supporre che una vita ricca di benessere e di successo è degna di essere vissuta.

Qohelet invece si chiede: a che serve?

Fra la credenza nella giustizia sulla terra, che è rigettata, e la credenza nella giustizia dopo la morte, che non è ancora intravista, la fede passa attraverso una crisi.

Qohelet è un libro di crisi.

Sa demolire con molta efficacia quella sintesi umana e teologica che la fede d'Israele si era costruita, ma non è in grado di indicare una sintesi nuova.

D'altra parte la sua negazione resta indispensabile per arrivare a una sintesi nuova.

In una densa e affascinante premessa ( Qo 1,4-18 ) Qohelet dimostra che l'uomo e la storia si muovono in tondo, dentro un cerchio che non riescono a infrangere.

Tutto ritorna al punto di partenza, come il movimento del sole, del vento e dell'acqua dei fiumi.

L'affannarsi dell'uomo è un girare su se stesso, un fare e un disfare.

Qohelet è convinto che l'uomo non può rompere il cerchio nel quale è racchiuso.

Non riesce a penetrarlo con la sua conoscenza, a coglierne il meccanismo e il segreto.

E nemmeno riesce a infrangerlo con la sua attività creatrice, che non conclude ma anzi si vede sempre rimandata al punto di partenza: il mondo nuovo che l'uomo si sforza di costruire sfugge continuamente dalle mani, e così ogni generazione è costretta a ricominciare da capo.

In tal modo Qohelet contesta violentemente la speranza messianica d'Israele.

Il messianismo dei profeti è terrestre e la novità che essi promettono è chiusa nell'esistenza mondana.

Ma come, allora, si può veramente parlare di novità?

Sempre ci sarà il limite della morte, l'occhio dell'uomo continuerà a non saziarsi di vedere e l'orecchio di ascoltare, e alla ricerca dell'uomo continuerà a sfuggire il senso dell'insieme.

Qohelet non è uno scettico o un miscredente o un deluso: è più semplicemente un uomo lucido.

Bene e male non sono distribuiti secondo un criterio accettabile - continua Qohelet - e saggezza e stupidità non sono trattate come meritano.

I conti non tornano ( cosa che invece la sapienza tradizionale ingenuamente affermava ).

Se qua e là i conti sembrano tornare, è come per caso.

Ma l'esistenza umana è vanità soprattutto perché urta contro il limite invalicabile della morte, che doppiamente colpisce l'uomo e ne annulla lo sforzo.

Sottrae l'uomo a tutte quelle realizzazioni che faticosamente si è costruito.

E la stessa sorte, riservata allo stolto e al saggio, disconosce l'innegabile superiorità della saggezza e costituisce una vera e propria beffa nei confronti del saggio che tanto ha faticato per sottrarsi alla stupidità.

Così la morte mette radicalmente in questione la vita.

Naturalmente, per comprendere questa riflessione di Qohelet sulla morte, occorre tener presente che egli vede la morte come i suoi contemporanei, cioè senza la chiarezza di una positiva esistenza ultraterrena: i morti stanno nello scheol, dove conducono una esistenza ombra, senza distinzione fra buoni e cattivi.

Su questo il nostro autore è molto preciso, persino ironico nei confronti di chi ( come ad es. gli egiziani o i greci ) pretendevano assicurare l'immortalità ( Qo 3,19-21 ).

Se l'esistenza è minacciata dalla morte e amareggiata dall'umiliazione inflitta alla sapienza e, comunque, inadeguata alle profonde aspirazioni dell'uomo, allora « non resta all'uomo che mangiare, bere e godere il successo del proprio lavoro » ( Qo 2,24 ).

Tale costatazione ritorna altre cinque volte lungo il libro ( Qo 3,12-13; Qo 3,22; Qo 5,17-19; Qo 8,15; Qo 9,7-9 ).

Molti sono dunque i motivi per i quali la fatica di vivere appare all'uomo senza guadagno.

Ma a pensarci bene essa - in un certo senso - è vanità per essenza: infatti ( anche prescindendo dai casi disgraziati, che pur ci sono, e dalle molte minacce provenienti dall'esterno ) non si vede come il desiderio dell'uomo possa essere colmato: è un desiderio aperto, infinito, e la realtà dell'esistenza è quella che è: inferiore.

Perché Dio - ecco la domanda che non si può eludere - ha costruito l'uomo così, squilibrato, con un principio di globalità e di durata che poi resta insoddisfatto?

La domanda è teologica e mette in questione Dio.

La successiva riflessione biblica dovrà riprenderla.

Da parte sua Qohelet se la pone, ma è discreto nella risposta, quasi evasivo, e questo mostra la sua profonda religiosità.

Risponde: « Dio agisce così perché l'uomo abbia timore di lui » ( Qo 3,14 ).

Risposta breve, quasi evasiva, si direbbe sproporzionata all'ampiezza della domanda, ma importante, essenziale per capire la spiritualità e la religiosità di Qohelet ( e anche per capire i suoi limiti ).

Temere Dio significa essere consapevoli dei propri limiti.

Significa avere fiducia in lui nonostante tutto.

Significa accettare la situazione, serenamente e lucidamente, e afferrare il dono di Dio volta per volta.

Dopo questa riflessione di Qohelet si danno tre possibilità.

Quella di negare l'esperienza storica, cioè la validità dell'analisi di Qohelet, pur di salvare quella sintesi teologica e culturale che la tradizione affermava: è la posizione degli amici di Giobbe e dei molti che, in ogni epoca, assomigliano ad essi.

Si nega la realtà, contraddittoria e inquietante, pur di salvare il proprio schema in cui si crede di trovare chiarezza e ordine.

È questa una spiritualità fondata sulla menzogna.

Oppure - ed è la seconda possibilità - negare che nella vita esistano valori che poi nella realtà vengano smentiti; in questo caso l'assurdo è eliminato affermando un non senso generale: è la soluzione atea.

O infine risolvere il problema dell'esistenza superando lo scoglio della morte: è la soluzione che la successiva riflessione biblica troverà, ma che Qohelet non è ancora in grado di vedere.

Qohelet rifiuta le prime due possibilità, contestando quindi la sintesi tradizionale, senza essere in grado tuttavia di elaborarne una nuova.

E non tenta di farlo, e proprio qui sta il suo coraggio.

Non elimina un aspetto o l'altro dell'esperienza, pur di fare - costi quello che costi - una sintesi.

Rinuncia a una sintesi conservando però ( anche se è incapace di armonizzarli ) tutti quegli elementi che in seguito la permetteranno.

E questo, ci sembra, è un atteggiamento costante dell'autentica spiritualità biblica.

b. La risposta del libro della Sapienza

Secondo Qohelet, dunque, la morte rappresenta lo scacco radicale dell'esistenza dell'uomo.

Il libro della Sapienza - un libro che si colloca alle soglie del NT - sembra portare ( idealmente ) la riflessione di Qohelet alle sue ultime conseguenze; o, meglio, legge il discorso di Qohelet con gli occhi dell'empio, traendone tutte le conseguenze, ma per poi, alla fine, rovesciarle.25

Sap conosce la concezione materialistica della vita, che trova la sua giustificazione nella negazione dell'al di là e nella conseguente negazione del principio di retribuzione.

In realtà - afferma il libro - Dio ha creato l'uomo per l'immortalità ( Sap 2,21-23 ).

Contrariamente alle apparenze Dio è fedele e non abbandona il giusto nella morte, non lo mette alla pari dello stolto.

La morte non delude la speranza dei giusti, ma la conferma ( Sap 3,4 ).

Non si tratta - ovviamente - di una semplice sopravvivenza, ma di una comunione con la vita di Dio ( Sap 15,3 ), prolungamento di quell'amicizia con la sapienza che già qui il discepolo si è sforzato di instaurare ( Sap 3,9 ).

Si può parlare di una duplice morte: quella fisica, a cui anche i giusti sono soggetti, ma che va vista come un passaggio da un'esistenza tormentata a una vita con Dio ( Sap 2,19; Sap 3,9; Sap 5,15 ); e la morte eterna, quella dell'empio, che si identifica con la separazione definitiva da Dio ( Sap 2,24 ).

C'è da chiedersi, a questo punto, come sia avvenuta questa illuminazione, che in definitiva ha salvato tutta l'esperienza spirituale d'Israele.

L'originalità del libro della Sap sta nell'essere riuscito a congiungere due esperienze: quella sapienziale ( che ha riflettuto sull'uomo e ne ha messo a nudo le aporie ) e quella storico-profetica, testimone di una storia di continua fedeltà di Dio.

La conclusione: Dio è fedele e non può abbandonare l'uomo: non può averlo creato con una sete di vita per poi deluderlo, non può invitarlo alla sapienza per poi tradirlo.

Naturalmente anche questo congiungimento non è giunto improvviso.

Fu preparato dall'esperienza di alcuni uomini pii che, da una parte, hanno sperimentato l'ingiustizia dell'esistenza e sentito la tentazione della sfiducia, e dall'altra hanno sperimentato un'incrollabile fiducia nella fedeltà di Dio e a quest'ultimo, a dispetto di tutto, hanno fatto credito: così alcuni salmi ( Sal 73; Sal 17; Sal 49; Sal 16 ).

L'intuizione della sopravvivenza fu anche agevolata dall'esperienza dei martiri ( 2 Mac 7,9; 2 Mac 12,43-45; 2 Mac 14,46 ): è mai possibile che Dio abbandoni alla morte coloro che muoiono per essere fedeli alla sua legge?

E fu anche agevolata ( cosa da non sopravvalutare ma nemmeno sottovalutare ) dall'incontro col pensiero greco, che già da tempo aveva elaborato l'idea dell'immortalità.

Siamo ora in grado di capire come dallo scontro fra due esperienze ( da una parte la promessa del Dio vivente e dall'altra la morte che sembra smentirla ) sia scaturito, dapprima, lo scandalo della morte e poi la speranza di fronte alla morte.

Una speranza che ha due caratteristiche fondamentali.

Essa non poggia su ragionamenti umani, non viene dedotta dall'uomo stesso, ma è tutta sospesa alla fedeltà di Dio; è religiosa: la vittoria sulla morte è assicurata dalla promessa di Dio, è a partire da Dio che si comprende la necessità che la morte sia vinta.

Inoltre la speranza di Israele è concreta e globale: abbraccia tutto l'uomo e tutta la creazione; Israele non parla d'immortalità ma di risurrezione.

c. La spiritualità dell'apocalittica

Nel tardo post-esilio si sviluppa nel giudaesimo una vasta letteratura che viene chiamata apocalittica.

Il capolavoro biblico di questa letteratura è il libro di Daniele.

È una letteratura ( e, più a fondo, una spiritualità ) per un tempo di crisi.

Sono tempi difficili, di persecuzione, e l'apocalittica vuole essere un messaggio di consolazione: alla fine dei tempi ( e questi tempi sono prossimi ), per l'intervento di Dio, il giudizio sarà fatto e le situazioni saranno capovolte.26

L'esperienza spirituale dell'apocalittica è alimentata, da una parte, da un radicale pessimismo nei confronti del mondo presente e delle possibilità dell'uomo e, dall'altra, da un'assoluta fiducia nelle possibilità di Dio.

C'è alle spalle una ben precisa filosofia della storia, che affonda le sue radici nella concezione dei profeti.

Nessun avvenimento è dovuto al caso.

Tutto è previsto e accade nel tempo stabilito.

Gli eventi della storia - contrariamente alle apparenze - sono da Dio ordinati e guidati in modo da preparare l'avvento del suo regno.

C'è nella storia un disegno che può sfuggire ai superficiali ma non ai veri credenti.

Nella spiritualità apocalittica c'è un senso assai vivo della trascendenza di Dio.

Egli controlla tutta la storia con la sua iniziativa.

Questo senso della trascendenza si esprime molto bene anche a livello letterario: Dio è descritto in modo approssimativo, a tentoni.

Come è facile intuire, anche gli apocalittici si preoccupano di rispondere agli interrogativi posti alla fede dall'azione di Dio nel mondo.

Consapevoli dello scacco che il regno di Dio incontra nella storia, proiettano la soluzione alla fine, oltre la storia.

In questa chiara consapevolezza di un destino che va oltre la storia sta il loro merito; ma vi è insita anche una tentazione ( assente nell'apocalittica biblica, ma presente altrove ): quella cioè di abbandonare il mondo presente, ormai irrimediabilmente corrotto, al suo destino, per attendere - nella fede e nella rigorosa osservanza della legge - quel mondo nuovo che solo Dio può creare.

8. Le strutture dell'esperienza spirituale anticotestamentaria: sintesi

Vogliamo ora - concludendo la nostra lettura dell'AT - tentare di raccogliere in sintesi ( ma anche completare ricuperando aspetti che la nostra troppo rapida lettura ha lasciato in ombra ) le principali strutture che formano come l'ossatura costante della spiritualità biblica.

a. La fedeltà alla storia

Anzitutto, e ciò è apparso con chiarezza, c'è un principio base che regge tutta la costruzione: la convinzione della presenza salvifica di Dio nella storia.

Israele pone al centro della propria fede una "storia di salvezza", e ciò significa la persuasione che Dio agisce nel mondo storico in maniera e in forme umane, condividendo la relatività dell'esistenza; che l'uomo trova Dio e il suo dono di salvezza dentro la storia, non fuori di essa; che la storia non è soltanto il luogo in cui inserirsi per servire Dio, ma ancor prima il luogo in cui inserirsi per conoscerlo: la storia è luogo di rivelazione27 [ v. Credente II ].

Di qui una prima struttura della spiritualità biblica: l'ostinata fedeltà alla storia.

Più che di un contenuto si tratta di un metodo.

A differenza del pensiero mitico ( che parte da ciò che è tipico, schematico e generale e in esso assorbe i fatti particolari ), l'uomo biblico parte da ciò che è singolare e concreto.

Solo dopo ( e mai a prezzo di rinnegare l'originalità dei singoli fatti ) tenta di analizzare i fatti e di vederne le costanti.

Non un procedimento dal generale al particolare ( così che la fede possa ritrovare sempre il suo comodo rifugio in principi generali ), ma dal particolare al generale.

La precedenza è a ciò che è, alla singolarità, anche se questa mette in questione la fede.

Non si deve mai sacrificare il concreto allo schema.

È un'indicazione metodologica di grande importanza.

Ovviamente gli eventi particolari hanno implicazioni universali, diversamente non avrebbero senso.

Dio si rivela in un momento particolare della storia, e tuttavia si rivela come il Signore di tutta la storia: « l'universalità è implicata nel particolare ».28

Ma questa universalità non si trasforma mai in principi astratti e generali.

La particolarità resta irrinunciabile: è in essa che si coglie un senso universale.

Chi vive e comprende il momento storico di Dio non diventa un filosofo che riconosce principi e schemi, ma è chiamato ad essere un testimone che ricorda e racconta di fronte a tutti.29

L'AT orienta la fede a quanto accade nel mondo e la costringe a rimanere ancorata agli avvenimenti, comunque siano: ancorata alla storia anche quando gli avvenimenti sembrano smentire in modo flagrante la concezione religiosa che Israele aveva della storia stessa.30

Così l'esperienza spirituale d'Israele - proprio perché ancorata alla concretezza della storia - è sempre aperta alla sfida e alla minaccia degli avvenimenti.

L'uomo biblico è coinvolto nella storia e non sfugge il conflitto che la storia significa per la fede.

L'esperienza spirituale è confrontata con tutti i fatti storici, « con quelli che parlano della provvidenza divina, ma anche con quelli che sembrano negare la presenza di Dio ».31

In tutti i casi l'uomo biblico si rifiuta non solo di disperare di Dio, ma anche di « separarlo dalla storia e di cercar rifugio nel misticismo o nella fuga dal mondo ».32

b. La memoria

Immerso in una storia che per lo più appare frammentaria, senza direzione e senza senso, anche Israele - come tutti gli altri popoli - è alla ricerca di una direzione, di una sicurezza e di una spiegazione.

Ma non cerca tutto questo fuori dal tempo, bensì dentro la storia.33

In altre parole: Israele legge la propria storia presente e si apre al futuro traendo luce da alcune gesta di Dio particolarmente rivelatrici: per es. le gesta delle origini, dei patriarchi e dell'esodo.

Con questo intendiamo mettere in luce una seconda grande struttura della spiritualità biblica, e cioè la memoria.

Non sarebbe certo difficile ricordare qui tutta una serie di avvenimenti che Israele ha costantemente conservato nella propria memoria per decifrare - a partire da essi - le vie di Dio.34

E questo non soltanto nei confronti della propria storia particolare, ma anche dell'intera storia universale: nella propria esperienza particolare Israele è convinto di trovare una chiave interpretativa per la storia intera.

Non si tratta di una memoria astratta, ma di un aggancio al passato in cui Dio ha mostrato la sua potenza salvifica, nella convinzione che ancora oggi il Signore salva nella stessa maniera e nella convinzione che un giorno la salvezza raggiungerà la pienezza.

A questo punto va però precisato che Israele non ricorda semplicemente le gesta di Dio, ma le gesta commentate dalle parole e fissate nei segni.

Le gesta di Dio resterebbero mute senza la parola che le spieghi e senza i segni che accreditano la parola di spiegazione.

Si comprende, in tal modo, come la liturgia abbia svolto una funzione fondamentale: le feste, il sabato, i gesti liturgici sono memoriali.

La vita di Israele è intessuta di "segnali" che trasmettono l'esperienza spirituale ( la liturgia, il tempio, le feste, le leggi ).

Nella liturgia si ricorda e si attualizza: le gesta del passato, ricordate e interpretate, ridiventano contemporanee e interpellano il popolo.

La memoria diventa un oggi.

c. La tensione verso il futuro messianico

Israele continuamente riprende e rilegge la parola e la propria esperienza passata.

C'è una convinzione alla base di questa rilettura: la parola di Dio resta, a dispetto degli eventi che paiono smentirla, ferma e valida.

È questo, della fedeltà di Dio un secondo principio base della spiritualità di Israele, da porre accanto al primo da noi indicato all'inizio [ qui sopra, a ], e cioè la ferma convinzione che Dio agisce nella storia.

Convinto che la parola di Dio è ferma, Israele non solo ritorna ad essa e l'attualizza, ma di fronte alle smentite dei fatti la purifica e la proietta nel futuro.

« È straordinario - scrive G. von Rad35 - come Israele non lasciasse cadere alcune delle promesse di Jahve, alimentandole anzi fino a renderle iperboliche, come continuasse a tramandare quello che non si era ancora adempiuto mettendolo in conto a Jahve ».

Cogliamo con questo la terza grande struttura della spiritualità biblica: la tensione verso il futuro messianico.

Non si comprenderebbe l'esperienza d'Israele senza questa apertura al futuro.

L'uomo biblico non crede soltanto in una presenza di Dio nella storia, ma è convinto che la storia sia aperta e che non abbia ancora completamente svelato il suo senso.

Israele è convinto che la spiegazione della storia sia in avanti.

L'esperienza presente è frammentaria, è una spiegazione "di volta in volta": l'unità è in avanti, la sintesi è nel futuro.

Non ci è difficile costruire il meccanismo di questa esperienza spirituale.

La continua costatazione di un divario fra la promessa di Dio ( ampia ) e la dura realtà della storia ( sempre deludente ), anziché mettere in discussione la fedeltà di Dio e la verità della sua parola, ha spinto Israele a purificare la promessa, a differirla e ad appoggiarla a Dio.

La speranza d'Israele nel futuro è un fatto teologico: nasce unicamente dalla convinzione della fedeltà di Dio, non dalla fiducia nell'uomo o da valutazioni ottimistiche degli eventi.

Nello scontro fra parola e storia Israele si è sempre preoccupato, anzitutto, di mettere al sicuro la fedeltà di Dio, senza però venir meno - giova ripeterlo - al dovere di accettare lucidamente e lealmente la realtà dei fatti.

In effetti, Israele non cade nella tentazione di introdurre, in quegli eventi che mettono in questione la parola, elementi estranei e accomodanti ( come invece gli amici di Giobbe che si ostinavano a ritenere Giobbe un peccatore ), ma preferisce affermare la misteriosità della fedeltà di Dio e cercare in avanti quel senso che ora sfugge.

La proiezione verso il futuro è ciò che permette a Israele di unire insieme la convinzione della fedeltà di Dio e la lealtà verso la storia; di fare, in definitiva, una lettura religiosa della storia senza alienarsi dalla storia stessa.

d. La fedeltà alle origini e l'apertura al nuovo

La proiezione verso il futuro induce l'uomo biblico a vivere un non facile equilibrio fra memoria e novità: il Dio che viene è fedele ed è perciò in continuità col passato, ma Dio non si ripete e perciò la sua venuta è nel contempo "nuova".

È questa una quarta struttura dell'esperienza spirituale biblica: fedeltà alle origini e apertura al nuovo.

Potremmo parlare, in un certo senso, di "spiritualità nomadica".

« Israele non aveva ancora finito di adattarsi alla nuova situazione che tosto era messo all'erta dall'annuncio di nuovi interventi e una volta di più costretto a spogliarsi di idee cui si era appena abituato… ».36

Questo diversifica in modo radicale la mentalità ebraica dalla mentalità greca: i greci concepivano l'universo come un cosmo, cioè come un complesso armonico e coerente, retto da leggi immutabili; gli ebrei invece come un evento nelle mani di Dio.

E questo fa sì che le rispettive ricerche spirituali siano totalmente differenti: il greco è soprattutto teso a scoprire le leggi delle cose e ad uniformarvisi: egli vuole rispettare un ordine fisso, già dato; per l'ebreo invece entrare nell'ordine delle cose significa ricercare la volontà - sempre libera e imprevedibile - di Dio; occorre la direzione di un disegno ancora in svolgimento: non un ordine fisso da conservare e ripetere, ma piuttosto una direzione da prolungare.

All'ebreo sono richieste fedeltà e intuizioni, memoria e novità.

Soprattutto è richiesto il superamento della nostalgia: « Non ricordate le cose passate, non pensate più alle cose antiche » ( Is 43,16-21 ).

C'è un attaccamento al passato, anche al passato di Dio, che chiude gli occhi alla liberazione di Dio che oggi, di nuovo, sta germogliando: « Ecco, faccio una cosa nuova: essa già germoglia, non ve ne accorgete? ».

e. La coralità

L'esperienza spirituale d'Israele si è sviluppata dentro una storia, una storia concreta e reale, quotidiana.

Ma con una precisazione: all'interno di questa storia ci sono eventi significativi, veri punti di riferimento e chiavi di lettura.

Qualcosa di analogo deve essere detto a proposito di un'altra struttura della spiritualità biblica: la coralità.

L'esperienza biblica è corale e avviene all'interno di una comunità; ma in questa coralità ci sono dei testimoni, che diventano dei punti di riferimento: così, ad es., i profeti, ma anche i sacerdoti e i sapienti.

f. Assimilazione e dialogo

Un'ultima tensione infine - che ci sembra pure una struttura costante - è l'attaccamento al proprio patrimonio originario e nel contempo, a partire da esso, una sorprendente capacità di assimilazione e di dialogo.

Le pagine bibliche, anche le più importanti, manifestano una vasta comunanza culturale, esistenziale ed espressiva con i problemi e le idee dei popoli vicini; ma nel contempo manifestano una profonda originalità.

È un dato costante: una profonda solidarietà con l'ambiente e insieme la presenza di un elemento ad esso irriducibile.

Abbiamo individuato due principi base a partire dai quali si è configurata l'esperienza spirituale di Israele: la convinzione che Dio agisce nella storia [ qui sopra, a ] e la convinzione dell'assoluta fedeltà della sua parola [ c ].

Sulla base di queste due convinzioni sono state individuate alcune strutture portanti [ a-f ].

Ma si tratta di strutture formali più che di contenuto.

Indicano anzitutto un metodo.

Volendo invece passare più esplicitamente al contenuto ( e senza la pretesa di esaurirlo ) è doveroso soffermarsi sui due punti cardine: Dio e l'uomo.

g. Dio

Israele ha fatto l'esperienza che Dio è presente e operante nella storia, ma ha anche sperimentato, e drammaticamente, la sua assenza.

Così Israele si è imbattuto nel "mistero" di Dio.

L'esperienza spirituale d'Israele non si presenta come uno sforzo affannoso per strappare Dio al suo mistero: al contrario, si direbbe uno sforzo per resistere alla tentazione di eliminare il mistero.

« Dio si nasconde, così come si manifesta ».37

Accanto alle professioni di fede: « Dio è con noi », « Dio ci ha tratto dall'Egitto » - professioni che ritornano in tutte le epoche e in tutte le forme - c'è l'interrogativo dell'abbandono: dov'è Dio? che cosa fa Dio?

L'agire di Dio è sconcertante: ti libera e poi sembra abbandonarti ( Es 14,11; Es 16,3; Es 17,3; Nm 11,4-6; Nm 11,31-34 ).

In Gdc 6,13 troviamo, non senza sorpresa, l'articolo fondamentale della fede ricordato e nel contempo messo in discussione.

Le assenze di Dio non si spiegano, sempre e semplicemente, come frutto del peccato e, quindi, come un castigo.

Obbediscono a una pedagogia di Dio, sono una "prova", la strada obbligata per raggiungere il vero Dio.

Profeti e salmisti ripetono che Dio si nasconde « per farsi ritrovare ».

Ma nonostante queste spiegazioni, è di fronte a queste assenze di Dio che Israele sente, perennemente, la tentazione di cercare altre presenze o altri appoggi: cercare un Dio più programmabile, meno inquietante.

Nel mistero di Dio ( non è il mistero di Dio in sé, ma il mistero di Dio nella storia, il mistero della sua azione salvifica ) ci sono delle tensioni - potremmo dire delle contraddizioni dialettiche - che possiamo così sintetizzare:

Dio è trascendente e tuttavia è coinvolto nella storia;

è il protagonista della storia e tuttavia la storia è nelle mani della libertà dell'uomo;

è il Signore della storia e tuttavia nella storia c'è il male;

la sua azione è per l'uomo e tuttavia non si lascia strumentalizzare dall'uomo.

Come abbiamo detto, la bibbia riconosce ed esprime queste antinomie, ma non le risolve.

Piuttosto le difende. Smantella i tentativi di soluzione.

Non strappa Dio al suo mistero.

L'uomo biblico rifiuta un Dio che è Signore ma senza coinvolgimento, separato dalla storia e che esige dai suoi fedeli un simile distacco.

C'è molto slancio e molto misticismo nella spiritualità biblica, ma mai un incontro con un Dio che rifiuta la storia e il mondo.

L'uomo biblico si oppone a un Signore coinvolto nella storia e che sopraffa la storia, che non concede spazio alla libertà e al male.

L'uomo biblico rifiuta un Dio che - proprio per dare spazio alla libertà e al mondo - non sia più il protagonista e il Signore della storia stessa.

Al credente, testimone di Dio, non è permesso difendere Dio strappandolo dal suo coinvolgimento nella storia: difenderlo, calunniando l'uomo ( come gli amici di Giobbe ) o difenderlo rifugiandosi in una storia passata ( trasfigurata ) o più semplicemente in una storia generale ed astratta.38

Per tutto questo la ricerca di Dio non è uno sforzo di conoscenza speculativa e non è neppure, fondamentalmente, una ricerca di Dio in sé, ma piuttosto una ricerca di Dio in rapporto a noi e; dentro la vita concreta.

h. L'uomo

Dio è per Israele presente nella storia degli individui, del popolo e degli altri popoli: in una parola, dirige la storia.

Questa fede potrebbe portare a sminuire o a negare la parte dell'uomo.39

E invece no. È proprio all'interno di un quadro teocentrico che Israele afferma il primato dell'uomo.

L'uomo biblico non è giunto ad affermare la grandezza dell'uomo osservando concretamente l'uomo e la sua capacità di dominare la natura, la sua distanza dalle cose e la sua superiorità su di esse.

L'esperienza biblica è religiosa: ha colto la grandezza dell'uomo, di ogni uomo, riflettendo sul comportamento di Dio, sul suo amore, sulla sua alleanza.

Ed ha alla fine compreso che l'esistenza dell'uomo sarà riscattata dalla vanità e dalla morte non partendo dalle componenti dell'uomo, ma dalla fedeltà di Dio.

Tutto questo è significativo. L'esperienza biblica ripete che il riconoscimento della signoria di Dio non è a scapito del senso dell'uomo, ma ne è il fondamento.

Dio e l'uomo sono legati: insieme si salvano o si perdono.

i. La tentazione dell'idolatria

Questo discorso su Dio e sull'uomo non sarebbe completo se non si dicesse una parola sulla costante tentazione a cui Israele è sempre stato esposto, e cioè l'idolatria.

Tutta la storia biblica è una lotta contro questa tentazione.

I profeti hanno ampiamente illustrato l'importanza e l'esigenza del monoteismo e hanno ironizzato sul culto degli idoli ( per es. Is 44, Sap 13,1-10 ) ha mostrato la stupidità dell'idolatria: l'uomo confonde le creature con il creatore.

Ma a noi interessa cogliere la radice dell'idolatria.

I peccati contro Dio sono molti e svariati, ma la radice che li provoca è la medesima.

È un'analisi che risale ai profeti.

Le trasgressioni sono molte e diverse, ma alla radice c'è sempre un germe d'idolatria: la sfiducia in Dio ( la convinzione che Dio ci ostacoli ), la ricerca della sicurezza al di fuori della parola di Dio, la volontà d'indipendenza: sono le tre componenti dell'idolatria.

Del resto il peccato non è mai semplicemente un rifiuto di Dio ( concretamente un sottrarsi al suo progetto ): Dio, una volta rifiutato, viene sempre sostituito con qualcosa che si crede più importante e più sicuro di lui. E questo è idolatria.

Uno scambio - ironizza la bibbia - che è insensato, ottuso.

Scrive Ger 2,13: « Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate e prive di acqua ».

Anche l'esperienza biblica parla di rinuncia, ma non si tratta di rinuncia al mondo e a se stessi per raggiungere l'assoluto; è una rinuncia di altro genere: Israele deve rinunciare a un progetto di vita proprio per accettare quello di Dio.

C'è un'idolatria aperta, chiara ( l'abbandono del monoteismo per seguire gli idoli stranieri ); e c'è un'idolatria più subdola ma non meno importante ( la degradazione di Jahve al livello degli idoli ), che può trovarsi anche all'interno d'Israele.

L'idolatria, in altre parole, non consiste soltanto e innanzitutto nell'abbandonare Jahve, unico Dio, per una pluralità di dèi; non è solo questione di monoteismo, è questione di tipo di Dio.

Idolatria è credere in un Dio diverso da Jahve o ridurre Jahve a un Dio diverso.

Nel deserto il popolo si fece un vitello d'oro ( Es 32 ): « Facciamo un dio che vada innanzi a noi », cioè un dio strumentalizzabile e manovrabile, a servizio di Israele.

Ambedue le forme dell'idolatria sono essenzialmente uguali: sia negando Dio che degradandolo si finisce con l'erigere gli "idoli muti" a valore supremi, a cui l'uomo sacrifica se stesso e gli altri.

Come si intravede, la perdita di Dio è sempre - in una forma o nell'altra - anche una perdita dell'uomo.

II - Il Nuovo Testamento

1. L'esperienza spirituale originaria: il Cristo e i discepoli alla sua sequela

L'esperienza spirituale originaria, archetipa, è quella del Cristo e dei primi discepoli al suo seguito.

In concreto sono tre, ci sembra, le strade da percorrere per ricostruirla: l'esperienza spirituale dell'uomo Gesù, l'esperienza dei discepoli al suo seguito, lo scontro fra Gesù ( messaggio e prassi ) e l'ambiente religioso in cui egli è vissuto.

Non è facile ricostruire questa esperienza originaria, e ciò per due motivi: per l'unicità della persona di Gesù e per la difficoltà di raggiungere - dietro i vangeli che sono testimonianze di fede - la storia.

Tuttavia, nonostante il carattere unico della sua personalità e, quindi, l'impossibilità per noi di raggiungere il cuore della sua esperienza spirituale.

Gesù è pur sempre un uomo reale, che si è espresso in parole e gesti: ha lasciato trapelare qualcosa di sé.

E nonostante la riconosciuta difficoltà del problema riguardante il Cristo storico, rimane vero che i testimoni della fede hanno inteso comunicarci la sostanziale realtà degli avvenimenti.

Ed è altrettanto chiaro che tali testimonianze - al di là di molteplici differenze dovute a situazioni comunitarie e ad esperienze diverse - riportano affermazioni costanti e comuni.

Per il nostro scopo queste ci bastano.

Ci fidiamo delle comunità cristiane e della convergenza della loro testimonianza.40

a. Gesù di Nazaret, uomo religioso e solidale

Non è facile definire Gesù, non soltanto nella sua divinità, ma anche nella sua fisionomia umana.

Non è un uomo comune, e non esistono schemi atti a definirlo.

Già all'inizio del suo ministero ( Mc 1,21 ss ), di fronte ai suoi primi discorsi e ai suoi primi gesti, la folla si pone l'interrogativo: che significa tutto questo?

La risposta è che Gesù insegna con autorità ( non come gli scribi ) e che il suo insegnamento è nuovo.

È una novità qualitativa, non cronologica.

Più avanti, sul finire del ministero in Galilea ( Mc 8,27-28 ), la folla definirà Gesù ricorrendo a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, un profeta.

Con questo la gente coglie in qualche modo la grandezza di Gesù, ma non ne coglie la profonda originalità.

Non si può esprimere il significato di Cristo ricorrendo a schemi interpretativi già noti.

Non si può rinchiudere Gesù entro un sapere già dato.

In che cosa consiste la sua originalità? e donde deriva?

aa Gesù uomo lucido

Una cosa balza subito all'occhio leggendo i numerosi dibattiti in cui Gesù fu coinvolto: egli va sempre al fondo del problema.

Così è a proposito del sabato, del puro e dell'impuro, del tributo a Cesare e di altro ancora.

Di fronte a ogni questione Gesù cerca di condurre gli interroganti a una visione nuova del problema.

Non si lascia imprigionare nei termini angusti entro i quali si era soliti porre la questione.

Si mostra convinto che c'è qualcosa più indietro da ricuperare, qualcosa che rinnova i problemi dalle fondamenta.

Questa lucidità di Gesù, che fa scorgere il fondo vero delle cose, è già un motivo che lo rende diverso, non catalogabile.

La folla se ne accorge e, come Marco annota, rimane ammirata di lui ( Mc 12,17 ) e « nessuno più ardiva interrogarlo » ( Mc 12,34 ) e « lo si ascoltava volentieri » ( Mc 12,37 ).

La constatazione che abbiamo fatto ripropone la domanda: in che cosa consiste l'originalità di Gesù e donde gli deriva?

bb. Gesù uomo religioso

Sta qui la radice della sua originalità: Gesù parla di Dio e soltanto di Dio.

Egli trae da una profonda comunione con il Padre i criteri della propria azione e i giudizi per le proprie valutazioni.

Valuta le cose a partire da Dio.

Per penetrare, sia pure di poco, questo profondo mistero della spiritualità dell'uomo Gesù, mettiamo in luce tre aspetti.

Primo: in tutto ciò che fa - anche, e si direbbe soprattutto, in quelle cose che sconcertano i contemporanei - Gesù intende unicamente rivelare il volto del Padre, il suo atteggiamento verso l'uomo, il suo amore.

La prassi di Gesù è una costante ricerca degli oppressi, dei peccatori, degli emarginati di ogni genere: parla con loro, entra in polemica con farisei e scribi a causa loro, siede alla loro mensa.

Perché? È subito chiaro che Gesù non ricava i criteri del proprio atteggiamento, per così dire, da un'analisi della società o dell'uomo.

Egli li ricava da un'analisi del comportamento di Dio.

Il suo procedimento è religioso: chi è Dio e qual è il suo progetto sull'uomo?

È questo il dato di partenza: il Padre ama ogni uomo.

A partire da qui Gesù conclude che ogni emarginazione è un peccato religioso.

La prassi di misericordia di Gesù trova la sua spiegazione in un'esperienza religiosa.

Ciò è particolarmente chiaro nelle parabole della misericordia di Lc 15: nella prassi di misericordia di Gesù - spiegano le parabole - si fa presente la misericordia del Padre, si svela il vero volto di Dio, che ama i peccatori e li attende come un padre: Dio gioisce del loro ritorno e vuole che la sua gioia sia condivisa.

Secondo: Gesù è un uomo di profonda preghiera.

Su questo il vangelo è molto discreto, ma, comunque, sappiamo che Gesù ha pregato al battesimo, prima di eleggere i dodici, a Cafarnao dopo una giornata piena di lavoro, al Getzemani, sulla croce.

I momenti cruciali della sua vita sono commentati da una preghiera, personale e solitaria, al Padre.

La preghiera di Gesù esprime anzitutto la sua consapevolezza di essere unito al Padre: è la comunione col Padre che affiora nella sua coscienza e si traduce in colloquio.

Ma è anche vero che la preghiera di Gesù esprime la sua attenzione al piano di Dio e alla parola.

Nella preghiera, cosi come si può vedere nell'orto del Getzemani, Gesù ritrova il coraggio e la nitidezza della propria scelta ( Mc 14,26 ).

La preghiera di Gesù esprime infine la sua solitudine, la sua nostalgia.

Gesù è consapevole della sua figliolanza divina, mistero unico, originale, irripetibile.

Per questo egli si ritira, da solo, a pregare.

Non gli basta parlare con gli uomini, neppure gli basta morire per i fratelli.

Avverte una solitudine che solo il Padre può colmare una ricchezza che solo il Padre può capire e condividere.

La preghiera esprime la solitudine del Figlio inviato dal Padre e in viaggio verso il Padre.

Terzo: la profonda religiosità di Gesù si esprime nella sua incondizionata obbedienza al volere del Padre: un'obbedienza talmente radicale che possiamo chiamarla "trasparenza".

In tutto ciò che egli fa e dice, è attento a conformarsi al Padre, così da esserne l'immagine perfetta: appunto, la trasparenza.

Nel vangelo di Gv 4,34 leggiamo: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera».

È una delle affermazioni più importanti per capire la spiritualità di Gesù, cioè il suo rapporto con Dio e il modo di intendere la propria esistenza.

Gesù è proteso nello sforzo continuo di una totale obbedienza.

Non è venuto a dire parole proprie, originali, tali da mettere in mostra se stesso: è venuto a dire unicamente le parole del Padre.

cc. Gesù uomo per gli altri

Oltre che uomo lucido e religioso, Gesù è uomo proteso nel dono di sé.

Progetta l'esistenza in termini di donazione, non di possesso.

Consapevole di essere messia e figlio di Dio, non si mette al di fuori della storia degli uomini: solidarizza con essa e la assume.

Ad es., entra nel movimento penitenziale del suo popolo ( battesimo al Giordano ); è coinvolto nella lotta tra il bene e il male che caratterizza la storia umana ( tentazioni ); dice di essere venuto non per essere servilo, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le moltitudini ( Mc 10,45; Mc 14,24 ).

La parola "riscatto" evoca la solidarietà più radicale: l'atteggiamento del parente che, di fronte al consanguineo che cade in schiavitù, non si rifugia nel disinteresse, non prende le distanze, ma si sente coinvolto e solidale, sino al punto di sostituirsi.

dd. La via della croce

E a questo punto che si inserisce e prende senso la via della croce.

Gesù previde la sua passione e morte non semplicemente come lo sbocco logico, inevitabile e prevedibile, di ciò che diceva e faceva e della reazione che suscitava, ma come una volontà di Dio.41

I gesti e le parole dell'ultima cena ( Mc 14,22-25 ) - il pane spezzato e il vino condiviso, il richiamo all'antica alleanza ( Es 24,8 ) e al Servo di Jahve ( Is 53 ) - rivelano che Gesù vide la sua morte come un'obbedienza totale al Padre ( una fedeltà al suo volere fino alla morte, un abbandono totale nelle sue mani ) e un dono incondizionato agli uomini.42

Così Gesù è morto come ha vissuto, portando a compimento quegli atteggiamenti che lo hanno guidato in tutta la sua esistenza ( l'incondizionata obbedienza al Padre, la solidarietà con i peccatori, l'abbandono senza riserve all'amore ).

In tal modo la croce diventa la rivelazione ultima dell'originalità di Gesù ( e del volto del Padre che egli intende appunto svelare ) e, per ciò stesso, la rivelazione della struttura base di ogni spiritualità cristiana: l'apertura al Padre ( obbedienza e trasparenza ) e l'apertura ai fratelli ( dono e solidarietà ).

Resta un'ultima osservazione.

Gesù ha vissuto la passione e la croce senza sottrarsi a quegli aspetti di debolezza e oscurità che sono tipici dell'uomo.

Si legga di nuovo l'episodio del Getzemani, specialmente nella redazione di Mc 14,32-42.

Gesù fa propria l'esperienza ( Mc sembra parlare addirittura di "disorientamento" ) dell'uomo che si dibatte, solo, di fronte a un Dio che parla di amore e di liberazione, ma che sembra, a volte, un muro di silenzio e di abbandono.

Gesù ha recitato sulla croce il Sal 22, la preghiera accorata di un giusto che si sente abbandonato dal suo Dio.

E tuttavia, accanto all'abbandono e alla solitudine, al turbamento, ci sono la serenità, la pazienza e la confidenza, la maestà: altri tratti elle i racconti della passione mettono in risalto.

Dunque l'esperienza della croce di Gesù ha come due volti, è alimentata da due radici: l'oscurità e la serenità.

b. L'esperienza dei discepoli al seguito di Gesù43

Di fronte a Gesù nasceva la domanda: chi sei? donde vieni?

Non è facile rispondere, perché c'è come uno sconcerto.

Da una parte la pretesa di Gesù di essere inviato da Dio ( e i segni che la manifestano ), dall'altra la realtà fenomenica ( così umana, quotidiana ) che sembra smentirla: così è accaduto a Nazaret ( Mc 6,1ss ) e ai giudei nella sinagoga di Cafarnao ( Gv 6,41-42 ).

Da una parte l'affermazione che il regno è giunto, dall'altra il fallimento della croce.

Tutto questo ci introduce all'itinerario spirituale che il discepolo, chiamato da Gesù al suo seguito, ha percorso.

I discepoli hanno seguito Gesù nei suoi viaggi, hanno ricevuto da lui un insegnamento particolare, lo hanno interrogato: hanno fatto vita comune con lui.

Tutto questo rientrava nella normalità: ogni rabbi era circondato da un gruppo di discepoli che lo seguivano.

Ma al di là di questa comune ambientazione, il rapporto che lega il discepolo a Gesù è originale.

L'appello di Gesù ( Mc 1,16-20 ) esige prontezza di decisione, distacco e condivisione.

L'elemento centrale è il seguire, che suppone una chiamata e un'adesione personale.

Sta qui il nocciolo dell'originalità del discepolato evangelico.

Normalmente è il discepolo che va in cerca del rabbi celebre, attirato dalla sua fama e desideroso di impossessarsi della sua dottrina; nel vangelo è Gesù che chiama.

Normalmente il discepolo cerca la dottrina del rabbi, non la persona; nel vangelo è invece in primo piano la persona di Gesù, non la dottrina.

Normalmente la condizione di discepolo è una situazione transitoria: il discepolo frequenta un maestro per diventare, a sua volta, maestro; nulla di ciò nel vangelo: l'essere discepolo è una condizione permanente.

Il discepolo di Gesù, chiamato a vivere un'esperienza originale di discepolato, è invitato a percorrere lo stesso itinerario del maestro, cioè la via della croce [ v. Croce II ].

Per questo gli è richiesta una profonda e radicale conversione: Mc 8,27-35.

Non basta confessare apertamente, come Pietro, la messianicità di Gesù per essere discepolo; occorre condividerne la strategia.

Anche il discepolo può correre il rischio di cadere nella logica degli uomini attribuendo a Gesù una messianità che viene « dalla carne e dal'sangue » : una messianità secondo gli uomini, conforme a quello schema di grandezza che gli uomini sognano.

Invece il discepolo deve « rinnegare se stesso » ( Mc 8,34 ), capovolgendo l'immagine di messia che si è costruito e convertendo radicalmente le speranze che ha coltivato.

È una conversione che va alla radice e, a ragione, può dirsi "teologica".

Tanto più che il discepolo deve anche applicare a se stesso la via della croce: la sua via è come quella del maestro, ugualmente incamminata verso la croce.

In concreto il discepolo deve, a sua volta, progettare l'esistenza in termini di donazione: « chi crede di salvare l'esistenza la perde, chi la dona la ritrova » ( Mc 8,35 ).

I discepoli, ponendosi al seguito di Gesù, avevano idee sbagliate su di lui e sul suo messianismo: lo pensavano sostanzialmente allo stesso modo delle folle, come loro prigionieri di speranze impazienti.

Tutta la vicenda evangelica lo dimostra, fino all'ultimo.

Eppure, a differenza delle folle e nonostante la loro incomprensione, rimasero sempre accanto al maestro.

Ciò significa che in loro c'era un attaccamento personale a Gesù, più profondo del progetto che si erano costruiti.

Sta qui, in questo appassionato e incrollabile attaccamento al Signore, l'essenza della spiritualità cristiana [ v. Sequela II ].

c. Vera e falsa ricerca di Dio

Gesù visse, insegnò e operò ( e fu rifiutato ) in una società grandemente religiosa.

Ma c'è anche una falsa ricerca di Dio, c'è anche l'incredulità del credente.

È contro questa falsa ricerca che Gesù prima, e la comunità primitiva poi, dirigono gran parte della loro denuncia, non solo smascherando le forme molteplici in cui questa falsa religiosità si esprime, ma anche mettendone a nudo, con lucidità, i moventi e le occulte radici.

Il discorso è ampio, e come al solito siamo costretti a scegliere. Ma prima una premessa.

Il vangelo descrive la falsa ricerca di Dio incarnata in situazioni e persone del tempo.

Si tratta di realtà storiche, che però assurgono a tipo: ciò vale, ad es., per il fariseo e lo scriba, per la folla, per gli stessi discepoli.

Nel vangelo di Mc 7,1-23 troviamo una forte polemica contro la spiritualità farisaica.

È indubbiamente una pagina ingarbugliata, ma alcuni aspetti sono immediatamente chiari, importanti - ci sembra - non solo per conoscere le deviazioni che oscuravano la spiritualità giudaica del tempo di Cristo, ma per conoscere alcune fra le principali deviazioni che possono riprodursi ( quasi una perenne malattia dello spirito ) anche nella stessa spiritualità cristiana.

C'è una prima affermazione: comandamento di Dio e tradizioni degli uomini devono essere tenuti distinti ( Mc 7,8-13 ).

Perenne il primo, provvisorie le seconde.

Una seconda affermazione: Gesù rifiuta la distinzione fra puro e impuro ( Mc 7,19b ), fra una sfera religiosa, separata, in cui Dio è presente e una sfera ordinaria, quotidiana, in cui Dio è assente.

Non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio altrove: ci si deve purificare dal peccato per incontrare Dio nella vita.

Una terza affermazione: la condanna decisa di tutta una casistica elaborata e ipocrita che finisce col vanificare quella legge che pretende servire ( Mc 7,10-12 ).

Ma l'elemento essenziale, in tutta questa polemica, è costituito dalla piccola parabola di Gesù: non è ciò che entra nell'uomo che lo contamina, ma ciò che esce dal suo cuore, questo contamina l'uomo ( Mc 7,15 ).

Con tale paraboletta Gesù afferma la morale del cuore e non solo delle azioni.

È l'uomo che deve essere in ordine: solo da un uomo ordinato procedono azioni morali.

Il cuore deve essere pulito, se vuoi essere in grado di cogliere la volontà di Dio: volontà che non è semplice lettera scritta, che non è ripetitiva.

Occorre crearsi una situazione interiore capace di conoscere Dio, il vero Dio, capace di leggere di nuovo la volontà di Dio.

Dietro questa polemica c'è un avvertimento fondamentale, quasi una convinzione di fondo: le diverse storture spirituali nascono sempre da un'incomprensione di Dio.

Non si tratta semplicemente di storture morali, ma di una scorretta concezione teologica.

È da una cattiva concezione di Dio che nasce l'accecamento verso il vero Dio e verso la sua volontà.

Gli esempi non mancano, ma ce ne basta uno: il conflitto fra Gesù e i farisei sull'osservanza del sabato.44

La tradizione sinottica ricorda un contrasto fra Gesù e i farisei originato dal fatto che i discepoli strappavano spighe ( e Lc precisa « stropicciandole con le mani »: Lc 6,1 ) in giorno di sabato ( Mc 2,23-28; Mt 12,1-8; Lc 6,1-5 ) e un secondo contrasto motivato dal fatto che Gesù guarì, sempre di sabato, un ammalato che non versava in grave pericolo di vita ( Mc 3,1-6; Mt 12,9-14; Lc 6,6-11 ).

Il pensiero di Gesù è riassunto in una frase: il sabato è per l'uomo, non l'uomo per il sabato ( Mc 2,27 ).

Frasi come questa si possono trovare anche nel giudaesimo.

Si tramanda ad es. un detto di R. Shimon b. Mensaja: « Il sabato è affidato a voi, non voi al sabato ».

Questo detto però aveva valore soltanto nel caso di imminente pericolo di vita.

Così pure era ammesso, in giorno di sabato, salvare la vita con la fuga, portare aiuto a un uomo in pericolo, o a una donna colta dai dolori del parto, o in caso d'incendio.

Ma il quadro teologico e morale entro il quale questi detti si muovono è completamente diverso da quello di Gesù.

Essi sono eccezione a una regola.

Per Gesù invece è cambiata la regola, e questo perché è rinnovata la visione di Dio e di onore a lui dovuto.

In effetti la proclamazione di Gesù non è semplicemente un'accusa al formalismo dei farisei, è soprattutto un'accusa al loro modo di concepire Dio e di onorarlo.

Partendo dall'ovvio principio che Dio è superiore all'uomo, i farisei concludevano che l'onore di Dio era da preferirsi ( ovviamente con le debite gravi eccezioni ) alla salvezza dell'uomo: come se fosse concepibile un onore di Dio ( di un Dio che è amore ) al di fuori della salvezza dell'uomo.

La durezza di cuore dei farisei ( Mc 3,5 ) non si risolve dunque con una semplice conversione morale, occorre una conversione teologica.

Bisogna cambiare il modo di concepire Dio e la sua gloria.

Analogamente vanno interpretati gli altri conflitti di Gesù intorno alla legge e più generalmente, lo scandalo che la sua prassi di misericordia ha suscitato.

2. Le comunità sinottiche

a. Il vangelo di Marco45

Marco scrive il suo vangelo - verso gli anni 70 - per una comunità di origine pagana e che vive in un mondo pagano.

È un vangelo di iniziazione, e questo ne spiega la essenzialità.

Si concentra su pochi e fondamentali interrogativi: chi è Gesù? Dove e come è presente il regno e quali sono le leggi del suo sviluppo? Chi è il discepolo?

aa - Per rispondere a questi interrogativi Mc conduce progressivamente il lettore a comprendere il senso della croce: tutto il discorso ruota attorno a questo centro.

Non è escluso che l'evangelista fosse in polemica con una tendenza che insisteva troppo sugli aspetti gloriosi ( come ad es. i miracoli ) del Cristo.

Egli ne avverte il pericolo: una cristologia della gloria a scapito della croce riprodurrebbe all'interno della comunità cristiana l'equivoco giudaico, cioè una ricerca di Dio che rifiuta la presenza di Dio nel crocifisso.

Per Mc è la croce lo spartiacque fra vera e falsa ricerca di Dio ( Mc 8,27ss ).

Il vero discepolo è il centurione, che ai piedi della croce riconosce il figlio di Dio nella morte ( Mc 15,39 ): non soltanto nei miracoli, ma in "quella" morte, cioè nell'ostinazione, dell'amore e nella solidarietà più radicale, egli scopre la presenza salvifica di Dio.

Con questo Mc mostra di intendere la passione non semplicemente con un gesto compiuto da Cristo a nostra salvezza, ma come un gesto che rivela i tratti più caratteristici della epifania divina.

Il discorso di Mc passa continuamente dalla croce al discepolo, invitandolo a credere nella via della croce e a percorrerla.

Non è più possibile percorrere altre strade se si vuoi fare una vera esperienza di Dio.

In concreto, percorrere la via della croce significa rinnegare se stessi ( cioè progettare l'esistenza non più in termini di conservazione ma di dono: Mc 8,35 ), vivere la solidarietà più radicale nel matrimonio ( Mc 10,1ss ), accogliere i piccoli ( Mc 9,37 ), vendere i propri beni, distribuirli ai poveri ( Mc 10,21 ), servire ( Mc 10,45 ).

Naturalmente la via della croce è indissolubilmente legata alla risurrezione.

Se il dono di sé rimanesse inutile e sconfitto non sarebbe "lieta notizia": invece lo è, perché al dono di sé è promessa la vittoria di Dio.

Seguire Cristo non è perdersi ( questa è la radice di tutte le paure del discepolo ), ma ritrovarsi.

Al discepolo è promesso il centuple « già ora, nel tempo presente» ( Mc 10,28-31 ).

bb. - Il discorso in parabole ( Mc 4 ) è il primo discorso importante che troviamo nel vangelo di Mc.

Intende rispondere a un interrogativo che interessa profondamente l'esperienza spirituale cristiana: perché la parola di Dio ( quella di Gesù prima, e ora la parola che risuona nell'annuncio della chiesa ) sembra sprecata, debole e contraddetta, accolta da pochi e rifiutata da molti?

L'evangelista risponde, anzitutto, citando Is 6,9-10, poi facendoci riflettere su tre parabole, infine raccontandoci il miracolo della tempesta.

Che la parola di Dio sia soggetta alla contraddizione non deve far meraviglia.

Rientra nel piano di Dio, come già aveva detto Isaia.

La parola di Dio, proprio perché di Dio, è giudizio: è luce per chi ha il cuore limpido ed è tenebra per chi ha il cuore accecato.

Accettazione e rifiuto dipendono dunque dal cuore dell'uomo ( i diversi terreni della parabola del seminatore ).

Proprio perché di Dio, la parola del regno non vuole essere chiara ad ogni costo; corre il rischio della libertà.

Ma la parabola del seminatore non si limita ad insegnare che il regno di Dio prevede il rifiuto.

È anzitutto un invito alla fiducia.

È certo che il seme da molte parti è rifiutato, ma è altrettanto certo che da qualche parte frutta, e con abbondanza.

Anche la parabola del seme che cresce da sé è un invito alla speranza.

La parola c'è e cresce, cresce comunque al di là delle resistenze degli uomini.

E la parabola del granello di senape ci ricorda che il regno segue la legge delle apparenze umili e piccole, non del grandioso.

Dunque, nonostante le apparenti smentite, la parola del regno è presente e operante.

Il discepolo non viene sottratto alle difficoltà e alla persecuzione: in questo nulla è mutato.

Ma il discepolo deve fidarsi della presenza del suo Signore.

Il miracolo della tempesta mostra la potenza della presenza di Dio, e invita il discepolo ad avere fede nelle difficoltà, anche le più disperate.

cc. Il vangelo di Mc 13 tocca un altro punto - essenziale e delicato - dell'esperienza spirituale neotestamentaria: l'attesa del Signore e il senso del tempo presente.

Al centro di tutto il discorso c'è l'affermazione - tradizionale e irrinunciabile - della certezza del ritorno del figlio dell'uomo.

Al di là del linguaggio immaginoso, ecco gli elementi che ne costituiscono il contenuto: il trionfo del figlio dell'uomo, che ora nella storia sembra smentito, sarà visibile a tutti; il giudizio; il raduno degli eletti nella grande famiglia di Dio.

Va precisato che il ritorno del figlio dell'uomo « in potenza e maestà » non significa in alcun modo che Dio, alla fine, abbandonerà la via dell'amore per sostituirvi, appunto, quella della potenza.

Se così fosse, la croce non sarebbe più il centro del piano di salvezza.

Significa invece che, alla fine, apparirà tutta la potenza vittoriosa racchiusa nella croce.

Il discorso è scandito da frasi che affermano che la venuta del Signore è vicina ( Mc 13,29.30.36 ) e da altre che invece sembrano affermarla lontana ( Mc 13,7.10 ).

Con questa apparente contraddizione Mc vuole spiegare il vero senso della vigilanza cristiana ( Mc 13,5.9.23.33.35.37 ): ne impazienza ne mondanizzazione.

È dunque una duplice vigilanza: contro le idee degli esaltati e le speculazioni dei falsi profeti da una parte, e contro il rilassamento di chi si mondanizza dall'altra.

b. Il vangelo di Matteo46

È probabile che il vangelo di Matteo sia stato scritto nel decennio che va dal 70 all'80 d.C.

Siamo in una comunità giudeo-cristiana che vive nei dintorni della Palestina.

In quegli anni il giudaesimo, persa la propria consistenza territoriale e politica dopo la catastrofe dell'anno 70, si stringe attorno alla legge e a una rinnovata ortodossia.

Questo pone alla comunità di Mt un interrogativo: qual è l'originalità cristiana nei confronti, appunto, della rinnovata ortodossia giudaica?

Ecco perché l'evangelista sviluppa tutto il suo racconto attraverso un continuo dibattito/confronto con la giustizia degli scribi e dei farisei, mettendo in luce da una parte l'originalità della giustizia cristiana e dall'altra la sua piena conformità alle scritture.

Gesù inaugura il suo insegnamento sul monte e proclama la nuova legge del regno: Mt 5-7.

È il nuovo Mosè.

La lettura del discorso della montagna mostra con chiarezza quella preoccupazione che abbiamo indicato: a differenza di Lc che si concentra sull'essenziale ( le beatitudini e la legge della carità ), Mt si confronta con la giustizia degli scribi e dei farisei e mostra che quella del discepolo è superiore ( Mt 5,20 ): « Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli ».

Mt non intende una superiorità nell'ordine della quantità o di una maggiore puntigliosità ( più digiuni, più elemosina, più preghiera), ma una superiorità nell'ordine della qualità.

Gesù ricupera il centro della volontà di Dio affermando il primato della carità.

Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso.

In questo senso l'affermazione più importante la troviamo in Mt 5,48: « Siate perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto ».

Non è una perfezione qualsiasi, ma la perfezione dell'amore e del perdono ( « amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » ); a imitazione di Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.

Ecco dunque una prima ragione per cui si può dire "superiore" la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento.

Invitando a prendere posizione fra Dio e il denaro ( « non si può servire a due padroni » ), Mt indica nella liberazione dall'affanno e nella serenità il secondo segno della giustizia del discepolo.

Il verbo affannarsi ( essere nell'angoscia, nell'ansia, nell'agitazione ) ritorna con insistenza: Mt 6,24-34.

L'affanno è il segno del pagano, la serenità il segno del discepolo.

La fiducia nel Padre non sottrae all'impegno, che, anzi, in nessun modo viene privato della sua serietà e della urgenza: rende però l'impegno sereno.

L'attaccamento al denaro, l'eterno avversario di Dio, è idolatria, è la radicale smentita alla paternità di Dio.

Non sentendosi sicuro all'ombra della parola del Padre, l'uomo cerca la propria sicurezza nel denaro.

Ma è nel contempo anche antiumanesimo: cercando sicurezza là dove non la si può trovare ( « i ladri rubano e la tignola consuma » ), il pagano prova ansia e affanno.

C'è un terzo contrassegno della giustizia del vero discepolo: l'essenziale della vita cristiana non è confessare Cristo a parole ( Mt 7,21-23: « non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » ).

Ascoltare la parola e metterla in pratica è costruire sulla roccia.

Ascoltare la parola e non metterla in pratica è costruire sulla sabbia.

u questo tema Mt ritorna nella scena del giudizio, tutta costruita intorno alla contrapposizione tra il "fare" e il "non fare".

La scena è la conclusione di un ampio discorso sulla vigilanza, cioè su come il cristiano debba impegnarsi nel tempo presente in attesa del ritorno del Signore.

La parabola dei talenti ( Mt 25,14-30 ) spiega che vigilare significa, in concreto, passare dalle parole ai fatti, e la scena del giudizio ( Mt 25,31-46 ) precisa che i fatti, in base ai quali saremo giudicati, si riconducono all'amore.

Al giudizio sarà svelata la vera identità dell'uomo, che però il credente già fin d'ora conosce: è solo l'amore verso i fratelli che dona all'uomo consistenza e salvezza; è solo nell'amore verso i fratelli che si incontra concretamente il Signore.

Per il nostro scopo è infine importante ricordare che Mt è soprattutto interessato a un interrogativo: dove e come posso incontrare il Signore?

Questo interesse preciso ( che esprime l'ansia più profonda di ogni credente ) apre e chiude il suo vangelo: all'inizio Gesù è chiamato il « Dio con noi» ( Mt 1,23 ) e alla fine sono riportate le solenni parole di Gesù ( Mt 28,20 ): « Io sono con voi tutti i giorni ».

Il Signore non è dunque partito, ma è rimasto.

È sempre il Dio con noi.

Ma quali sono i luoghi concreti e oggettivi della sua presenza?

Mt non esita a rispondere: la comunità radunata nel suo nome ( Mt 18,20 ), la celebrazione del pane e del vino ( Mt 26,26 ), gli apostoli che annunciano la sua parola ( Mt 28,20 ), i missionari bisognosi di ospitalità ( Mt 10,40 ), i fratelli poveri ed emarginati ( Mt 25,31 ).

c. L'opera di Luca47

Come afferma egli stesso nel prologo ( Lc 1,1-4 ), Luca si è accinto a scrivere la sua opera valutando tutto personalmente, con spirito critico, risalendo sino alle origini.

Si è sobbarcato alla lunga fatica con uno scopo preciso: convincere il carissimo Teofilo che gli insegnamenti ricevuti nella catechesi impartita nella comunità sono solidi e attendibili.

Siamo dopo gli anni 70 e già si infiltrano le prime novità.

È importante mostrare che la catechesi deve continuare a fondarsi sugli elementi sicuri che vengono dalla tradizione apostolica, non sulle opinioni degli uomini.

D'altra parte - e il racconto di Lc ce lo mostra - fedeltà non è ripetizione: l'evangelista attinge alla tradizione di Mc e ad altre, ma le rielabora, attualizzandole per l'esigenza del suo tempo.

Ha così raggiunto un non facile equilibrio tra tradizione e contemporaneità, fedeltà e rinnovamento.

La storia di Gesù è un evento reale, accaduto fra noi, non un mito.

Per certi aspetti è una storia come le altre, oggetto di ricerche e di testimonianza oculare.

I termini che Lc usa nel suo prologo lo dicono con chiarezza.

Ma nel contempo è una storia diversa, salvifica, operata da Dio, in un certo senso perennemente contemporanea.

Nella comunità credente gli avvenimenti di Gesù tornano ad essere vivi, attuali e salvifici, tornano ad essere vangelo oggi, storia di salvezza che accade "fra noi".

Per questo Lc può parlare di avvenimenti accaduti fra noi pur essendo in realtà accaduti in seno al popolo ebreo.

Ed è per lo stesso motivo che egli scrive, in continuità con la storia di Gesù, la storia della chiesa ( Atti degli apostoli ): anche la vera storia della chiesa è - in dipendenza dalla storia di Gesù - vangelo, storia di salvezza, luogo dove i disegni di Dio si attuano.

È all'interno di questo quadro - il tempo della chiesa continua il tempo di Gesù - che devono essere colti gli aspetti più concreti e originali ( che per brevità riduciamo a tre) dell'esperienza lucana.

Primo: radicalità e quotidianità.

Lc non perde occasioni per sottolineare, da una parte, la radicalità delle esigenze di Gesù: nessuno più di lui sottolinea l'intransigenza delle parole di Gesù sul distacco, sulla povertà e il pericolo della ricchezza, sulla fraternità e la condivisione; dall'altra, nessuno come Lc è attento a calare le esigenze evangeliche nel fatto quotidiano: la croce è da portare ogni giorno e l'invito è per tutti ( Lc 9,23 ).

Le esigenze di Gesù vanno inserite in un'esistenza normale, il che non significa privarle della loro radicalità, ma - al contrario - comprendere che anche nella vita quotidiana c'è la possibilità di scelte radicali.

Modello di questa radicalità e quotidianità è Gesù nella sua prassi di liberazione ( Lc 4,14-30 ) e di gioiosa misericordia ( Lc 15 ), soprattutto nel momento della passione in cui egli appare come il modello del martire cristiano.

Secondo: il tempo della chiesa è tempo di testimonianza.

Al centro della sua duplice opera - come chiusura del vangelo ( Lc 24,50-53 ) e come inizio degli At 1,9-11 - Luca pone il racconto dell'ascensione.

È la conclusione della "via" di Gesù ( verso il Padre ) ed è l'inizio della "via" della chiesa ( verso la universalità ).

Quanto al primo aspetto, l'ascesa di Gesù al Padre non è una partenza, ma un modo nuovo di essere presente.

Cristo ritira la sua presenza visibile per essere presente nella fede, nella parola che lo annuncia, nella comunione fraterna, nella frazione del pane, nello Spirito.

Quanto al secondo aspetto va detto che la missione della chiesa è un compito di testimonianza ( At 1,8: Lc 24,47-48 ).

La testimonianza è presente in tutte le tradizioni neotestamentarie ( è al cuore della spiritualità cristiana ), ma Luca vi attribuisce alcune accentuazioni particolari che elenchiamo brevemente.

Una prima caratteristica è l'universalità: non ci sono luoghi nei quali Cristo non debba essere testimoniato ( At 1,8 ).

Una seconda è la via della croce, della persecuzione, come mostra l'episodio del martire Stefano raccontato sulla falsariga della passione di Gesù ( At 7,54-60 ).

Terza: la testimonianza si attua nell'ascolto comune della parola e nel culto, in particolare nella comunione fraterna.

Per Luca il segno visibile della realtà della risurrezione del Cristo e della sua forza di rinnovamento è, anzitutto, la fraternità ( At 2,44-45; At 4,34-35 ).

Infine la testimonianza si traduce in un impegno concreto nella storia, senza evasioni e senza impazienze escatologiche: « Uomini di Galilea, perché state guardando in cielo? » ( At 1,11 ).

La parusia non è immediata e comunque non giustifica evasioni.

Il testimone di Cristo percorre le vie del mondo e sa che la storia che continua è tempo di salvezza, ricco di possibilità.

Il regno è già qui, in mezzo a noi ( Lc 17,21 ).

Terzo: l'esperienza dello Spirito.

È noto che Luca, più di Mc e Mt, è attento alla presenza dello Spirito.48

Per Luca l'esperienza cristiana è fedele nella misura che ubbidisce allo Spirito.

Il primo compito dello Spirito è di essere l'elemento di continuità fra l'esperienza di Gesù e l'esperienza cristiana.

Ci sono, ovviamente, anche altri fattori di continuità: le scritture, il ricordo delle parole di Gesù, gli apostoli, le istituzioni.

Però, al di là di tutto, c'è lo Spirito.

Se il tempo della chiesa rappresenta - per tutte le generazioni - l'oggi della salvezza, è appunto perché è presente lo Spirito.

È lui che fa sì che la parola che oggi risuona nella chiesa sia parola di Dio come la parola di Gesù, parola decisiva e urgente, alla quale non è lecito sottrarsi.

Si comprende perché - secondo Luca - il dono promesso alla preghiera insistente e fiduciosa sia lo Spirito ( Lc 11,13 ).

Lo Spirito viene dato alla comunità radunata in preghiera ( At 2,1-13 ), la apre all'universalità e le imprime uno slancio missionario, le dà il coraggio di proporsi ma non la sottrae alla contraddizione: di fronte alle manifestazioni dello Spirito c'è chi pensa alla presenza di Dio e chi alle stranezze di spiriti esaltati.

Lo Spirito guida la comunità e gli apostoli nelle loro scelte, ma si tratta sempre di scelte che avvengono in una direzione costante e precisa: l'universalità ( At 10 ), la libertà del vangelo ( At 15 ), la carità e l'unità.

3. L'esperienza spirituale di Paolo

La figura di Paolo, la sua attività, la sua predicazione, la sua robusta riflessione teologica e la sua ricchissima esperienza spirituale dominano tutto il primitivo cristianesimo.49

A differenza dei vangeli, Paolo non racconta la vita di Gesù: questa è supposta.

Egli è tutto proteso a capirne il senso e a dedurne le conseguenze per la vita, a tradurla - in altre parole - in esperienza spirituale.

Non possiamo certo illuderci di comprendere pienamente, e in tutti i suoi risvolti, l'esperienza di Paolo.

Ci sembra però di intuire che essa - nella sua inafferrabile ricchezza di direzioni e di temi - si alimenti ( almeno principalmente ) a una sola sorgente ( la croce/risurrezione di Cristo ), da cui Paolo deriva il principio che costituisce la chiave di volta della sua concezione dell'esistenza: la salvezza/grazia.

Queste due radici - la croce e la grazia - sono ( ci sembra le strutture portanti dell'intera costruzione paolina, e spiegano e conducono a unità le molte direzioni del suo pensiero e della sua complessa esperienza spirituale.

a. « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » ( Gal 2,20 )

La prima cosa che colpisce leggendo le sue lettere è che Paolo parla continuamente di Cristo e soltanto di Cristo.

Non ha altro interesse.

Morte e vita, prigionia e libertà, tutto è considerato in rapporto a Cristo e al vantaggio del vangelo ( Fil 1,18 ), e l'oggetto della sua speranza è di essere sempre col Signore ( 1 Ts 4,17 ).

È in Cristo che Dio comunica la sua carità ( Rm 8,35-39 ), la libertà ( Gal 2,4 ), la pace ( Fil 4,7 ), la conoscenza ( Ef 4,21 ) e la forza ( Ef 6,10 ).

Bisogna dunque "rimanere" in Cristo.

Il che non significa semplicemente prendere Cristo come modello, ma permettergli di diventare il principale protagonista della nostra esistenza ( Gal 2,20 ) [ v. Gesù Cristo II ].

b. «La giustizia di Dio fondata sulla fede » ( Fil 3,9 )

Ogni profeta è "segnato" per tutta la vita dalla sua esperienza di vocazione.

Questo vale anche per Paolo.

In diverse occasioni egli allude al suo incontro con il Signore crocifisso e risorto lungo la strada di Damasco: Gal 1,13-17; 1 Cor 15,8-10; Fil 3,7-14; 1 Tm 1,12-17.

In tutti questi passi, pur nella varietà dei particolari, si intravedono con chiarezza alcune linee costanti, che formano il nucleo dell'esperienza cristiana di Paolo, dalla quale egli deriva quello che chiama il "suo vangelo".

Egli è convinto che nel suo incontro con il Signore si è fatto chiaro il senso centrale e irrinunciabile della morte e risurrezione di Gesù: una morte per noi.

Ed è convinto, di conseguenza, che nella medesima esperienza si è fatta chiara la logica costante che guida l'intera storia della salvezza: l'amore gratuito di Dio.

Paolo ha sperimentato in se stesso un cambiamento radicale: dalle tenebre alla luce, da persecutore a discepolo, da peccatore a credente.

Ma non si tratta di un passaggio su un piano morale ( dalla malvagità all'onestà ), bensì di un passaggio su un piano teologico: da una concezione della salvezza a un'altra, da un modo di comprendere se stesso a un altro, dalla propria giustizia alla giustizia che viene da Dio.

Paolo non abbandona una miseria interiore, ma il suo orgoglio: « L'uomo non è giustificato in virtù della pratica della legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo » ( Gal 2,16 ).

In altre parole: Paolo ha sperimentato che la salvezza è grazia.

La grazia è il centro del vangelo, l'unico modo corretto di intendere la croce e risurrezione di Gesù: « Se la giustizia si attua mediante la legge.

Cristo allora è morto inutilmente » ( Gal 2,21 ) e lo « scandalo della croce sarebbe eliminato» ( Gal 5,11 ).

È questo il criterio guida della nuova esistenza.

Ed è anche il tema che Paolo difende e ribadisce in tutte le sue lettere.

Lo difende contro i giudaizzanti che ponevano la loro fiducia nelle opere religiose e contro i greci che la ponevano nella loro sapienza.

Affermare che la salvezza è nella fede e non nelle opere non significa disimpegnare l'uomo, ma escludere la sufficienza dell'uomo.

Vivere di fede significa simultaneamente due cose: riconoscere la propria radicale insufficienza ( da soli siamo incapaci a salvarci ) e la ricchezza infinita della misericordia divina ( Cristo è la nostra salvezza ).

Questo motivo della grazia - lo ripetiamo - è il principio architettonico che regge tutta la costruzione paolina: è quel principio, ricco di possibili variazioni, che permette alla riflessione di Paolo di abbracciare tutte le situazioni della fede e insieme di ridurle a unità.

c. « Chi mi libererà da queste corpo di morte? » ( Rm 7,24 )

Paolo ha vissuto profondamente l'esperienza dell'impotenza dell'uomo di fronte al peccato ( esperienza indispensabile per aprirsi alla grazia ) e ha analizzato con molta lucidità l'insufficienza della legge quale via di salvezza.

È d'obbligo riferirsi a Rm 7-8.

Il c 7 può essere letto ( è una prima scelta che diversi esegeti condividono ) in chiave di esperienza personale, oppure ( ed è una seconda possibilità che altri preferiscono ) nella filigrana della storia salvifica.

Comunque, sia la vicenda personale dell'uomo che l'intera storia salvifica assomigliano per Paolo « a un perenne succedersi di smarrimenti, fino a quando non si approdi alla luce di Cristo ».50

La storia mostra che l'uomo « invano tenta di realizzare quell'unità che gli è stata assegnata da Dio ».51

Lontano da Cristo, l'uomo « non trova più la sua strada, dominato com'è dalla carne che frustra persino le aspirazioni della mente: l'uomo non si raccapezza più nemmeno sul valore di quella che era parsa la solida roccia della legge ».52

A questo quadro fa riscontro - nel c 8 - la chiarezza della situazione in cui l'uomo viene a trovarsi « in Cristo Gesù » ( Rm 8,1 ) e sotto l'influsso dello Spirito ( Rm 8,1-4 ).

L'uomo non si libera dal peccato con l'ausilio della legge - strada illusoria - ma solo con la fede in Cristo e il dono dello Spirito.

Il concetto di legge è ampio: significa qualsiasi elemento a cui l'uomo, incapace di affidarsi unicamente a Cristo, si appoggia in cerca di salvezza.

È un tentativo che sottende una sottile idolatria.

La tentazione di fare da sé non è solo del pagano, ma anche del credente, quale è il giudeo.

La fanatica e severa osservanza dei comandamenti e delle prescrizioni ne può essere una manifestazione.

Si tratta, ad ogni modo, di un'autosufficienza che trova espressione nel vantarsi.

È un movimento dal basso all'alto: l'uomo che vuole salire a Dio ( come il primo Adamo ).

La salvezza è invece un movimento dall'alto al basso: la grazia ( l'inno cristologico di Fil 2,6-11 ).

È proprio del giudeo vantarsi della legge ( Rm 2,17-23 ), come è proprio del pagano vantarsi della sapienza ( 1 Cor 1,29-31 ).

Conseguenza del vantarsi dell'uomo è l'ansia.

L'uomo che vuole salvarsi con le proprie risorse cade inevitabilmente nell'ansia di riuscire: per Paolo la gioia e la libertà sono possibili unicamente là dove l'uomo rinuncia a ogni fiducia in se stesso per affidarsi a Cristo.

d. « Saremo sempre col Signore» ( 1 Ts 4,17 )

Paolo, specialmente nel primo momento della sua riflessione, accentua la prospettiva escatologica, come testimoniano le lettere ai Tessalonicesi.

Il suo sguardo è rivolto al « giorno del Signore ».

Ma anche in seguito, quando il suo interesse sembra spostarsi maggiormente verso le realtà già presenti dell'esistenza cristiana, non viene mai meno a questa prospettiva.

Lo prova un passo importante come 1 Cor 15.

La visione escatologica di Paolo è retta da due convinzioni.

La prima è la solidarietà fra la morte/risurrezione di Cristo e la nostra, convinzione già presente in 1 Ts 4,14 e più volte ribadita in 1 Cor 15: la speranza di Paolo è dunque religiosa, poggia sulla croce/risurrezione di Cristo, non su altro.

La seconda è la unitarietà dell'uomo: tutto l'uomo ( e anche il cosmo con lui: Rm 8,19-22 ) è chiamato all'incontro definitivo con Cristo.

Se Paolo mantiene viva nelle sue comunità la tensione escatologica, è perché è convinto che l'attesa del Signore appartenga al centro dell'esperienza spirituale cristiana, non alla periferia.

È convinto che lo sguardo al futuro illumina il tempo della chiesa, suggerendo gli atteggiamenti da assumere ora.

In proposito le indicazioni paoline seguono principalmente tre direttrici: la vigilanza, la speranza e il senso della grazia.

Il giorno del Signore verrà improvviso, come un ladro, e questo richiede vigilanza, un costante atteggiamento di "all'erta" che però in nessun modo disimpegna dal lavoro e dall'impegno storico ( 1 Ts 5,1ss ).

La differenza fra il pagano e il cristiano è la gioiosa speranza ( 1 Ts 4,13 ) che « saremo sempre col Signore ».

La descrizione che Paolo fa degli eventi conclusivi della storia ( 2 Ts 2,3-12 e 1 Cor 15 ) mostra con chiarezza - al di là del linguaggio apocalittico - che la storia è riscattata dal Cristo, non dall'uomo: è grazia.

La visione escatologica permette, infine, a Paolo di collocare al giusto posto ( senza sminuirla e senza sopravvalutarla ) la realtà già presente della salvezza.

Il gruppo di Corinto, a cui Paolo si rivolge in 1 Cor 15, era probabilmente un gruppo carismatico che annullava il futuro nell'entusiasmo dell'esperienza pneumatica presente.

Prigionieri del loro entusiasmo ( e illusi dall'abbondanza dei doni dello Spirito che sperimentavano ) i carismatici di Corinto pensavano di aver già avuto, nello Spirito, la piena trasformazione.53

Paolo non è del parere.

L'esperienza spirituale presente, anche se già molto ricca di doni, va vista semplicemente come un anticipo: solo così ha senso.

Se fosse il definitivo, sarebbe deludente.

Ancora infatti restano la morte e il peccato.

Solo quando tutto questo sarà vinto si potrà parlare di salvezza definitiva e della piena signoria di Cristo.

Paolo sa molto bene che la lieta notizia dell'uomo rinnovato da Cristo sembra continuamente smentita dall'esperienza quotidiana.

Il battesimo ci ha fatti morire e risorgere con Cristo, ci ha rinnovato alla radice: il cristiano è un salvato.

Eppure il cristiano è ancora sottomesso al mondo vecchio, impegnato in una dura lotta morale, lacerato.

La comunità cristiana può sempre ricadere nella schiavitù delle opere, oppure - al contrario - confondere la libertà del Cristo con la licenza ( Cristo ci ha invece liberati dalla schiavitù per renderci disponibili all'amore: Gal 5,13 ).

C'è da chiedersi a che cosa si riduca la novità di Dio di cui al battesimo ci è stato fatto dono.

I cc 6-8 di Rm riflettono su questo problema.

E sempre il problema del "mistero del regno di Dio nella storia" su cui riflettono anche i sinottici: solo che Paolo sembra esprimerlo al livello dell'esistenza del singolo.

La risposta di Paolo è in linea con la tradizione: lo Spirito ci è dato e siamo già rinnovati, tuttavia dobbiamo ancora lottare e attendere.54

Il cristiano è già in grado di gustare la libertà, la redenzione e la perfezione, ma deve continuare a conquistarle.

C'è già, ad ogni modo, nell'uomo una inversione di tendenza, e questo è il fatto nuovo.

e. « Sono crocifisso con Cristo » ( Gal 2,19 )

Paolo si sforza di imitare il Cristo nei suoi aspetti di umiltà, servizio e dono ( Fil 2,6-11 ), ma soprattutto nel suo mistero di morte e risurrezione.55

Espressioni che si rapportano alla morte/risurrezione sono disseminate in tutto l'epistolario: hanno tutte come centro il grande testo di Rm 6,1-11 e hanno sempre - sullo sfondo - l'esperienza battesimale.56

Morire e risorgere con Cristo è una legge che abbraccia l'intero arco dell'esperienza cristiana.

Troviamo infatti i verbi battesimali al passato ( e in questo caso si riferiscono a quel radicale "morire e risorgere con Cristo" che si è attuato per noi al battesimo ), all'imperativo ( e in questo caso si riferiscono al quotidiano morire e risorgere che rappresenta l'imperativo morale di ogni battezzato ) e al futuro ( la pienezza escatologica ).

La fedeltà alla morte/risurrezione - o, ciò che è lo stesso, al battesimo - si vive, anzitutto, sul piano morale come lotta al peccato, come liberazione da una esistenza rivolta a sé e accettazione di un'esistenza aperta a Dio.

Oltre che sul piano propriamente morale, la croce/risurrezione guida e interpreta l'esistenza anche sul piano degli eventi e delle vicende in cui il cristiano e la comunità sono coinvolti: vicende di povertà, di donazione, di disagio apostolico, di persecuzione.

Per Paolo ad es. è normale che la sua esistenza apostolica diventi il luogo in cui la morte/risurrezione di Cristo può di nuovo attuarsi e trasparire: la sua esistenza è tale che può dire di essere « crocifisso con Cristo » ( Gal 2,19; 2 Cor 4,10-18 ): « il mondo è per me crocifisso ed io lo sono per il mondo » ( Gal 6,14 ).

Non solo esperienza di croce però, ma anche - contemporaneamente - di risurrezione.

Per Paolo la risurrezione non è solo presente come attesa, come premio finale, ma già ora è anticipata ( senza tuttavia annullare la tensione escatologica ) come forza operante, come rinnovamento, consolazione e gioia, vittoria sul peccato, diffusione del vangelo.

Paolo sperimenta nella sua esistenza perseguitata - contemporaneamente - i due volti del mistero pasquale: « pressati ma non schiacciati, in difficoltà ma non senza via di scampo, inseguiti ma non abbandonati, abbattuti ma non perduti » ( 2 Cor 4,8-9 ).

f. « Quando sono debole, allora sono forte » ( 2 Cor 12,10 )

Il fatto che Paolo abbia posto al centro della sua meditazione e della sua esperienza spirituale la croce/risurrezione ( la stessa intuizione della salvezza/grazia non è altro per Paolo che una sua doverosa e ovvia deduzione ), lo porta ad altre intuizioni di grande interesse sul piano della spiritualità.

La croce è "sapienza" e "metodo": 1 Cor 1,17-2,6.

Giudicata da giudei e greci stoltezza e follia, è in realtà « potenza e sapienza di Dio ».

I giudei - abituati a pensare le manifestazioni di Dio sullo schema dei prodigi dell'esodo - attendevano un Dio potente e vittorioso, risolutore, sottratto al rifiuto.

Ad essi la debolezza della croce parve una via completamente estranea al piano di Dio: uno scandalo.

I greci erano abituati a valutare in termini di competitività, di affermazione di sé e di genialità.

Ad essi lo spendersi del Cristo in croce, il suo ostinato amore e la sua dottrina parvero mortificazione della propria personale originalità, mancanza di genialità e insulsaggine.

Per i credenti invece - cioè per coloro che sanno che il crocifisso è risorto e hanno sperimentato la forza del suo Spirito - è proprio nella debolezza della croce che apparve in tutto il suo splendore la "Sapienza di Dio. Paolo non pensa soltanto alla croce di Gesù, ma anche alla predicazione che avviene nella chiesa, nella quale la via della croce deve continuamente attuarsi.

Per l'apostolo la croce non è soltanto oggetto dell'annuncio, ma è metodo.

La predicazione - ma questo vale per l'intera esistenza cristiana - deve obbedire alla logica della croce: non deve, in altre parole, cercare appoggi estranei per sfuggire alla stoltezza della croce, non deve cercare « gli argomenti persuasivi della sapienza umana ».

La tentazione dei Corinzi ( e più in genere di ogni credente ) è quella di sottrarsi alla debolezza della via di Dio, cercando altre strade.

Si va in cerca degli argomenti convincenti della potenza ( come i giudei ) per rendere efficace l'annuncio, oppure lo si accomoda alla sapienza degli uomini ( come i greci ) per renderlo più intelligibile: in un modo o nell'altro si sfugge alla debolezza della croce.

Invece è solo nella piena accettazione di tale debolezza che può apparire la forza dimostrativa dello Spirito.

In un testo esemplare ( 2 Cor 12,7-10 ) - frutto della sua esperienza apostolica letta alla luce della croce/risurrezione - Paolo afferma che la potenza di Dio è presente nella debolezza.

Proprio perché non è fondamento umano ma fa crollare ogni fiducia nei fondamenti umani, la debolezza è il luogo della potenza di Dio.

È nella debolezza dell'uomo che l'azione di Dio può manifestare il suo volto di grazia, « cosi che nessuna creatura possa vantarsi dinanzi a Dio » ( 1 Cor 1,29 ).

Il discepolo non deve "gloriarsi" d'altro se non della croce del Signore Gesù ( Gal 6,14 ).

g. « La manifestazione dello Spirito è data per la comune edificazione » ( 1 Cor 12,7 )

Nei confronti di una comunità ricca di doni dello Spirito ( ma anche affascinata dalla ricerca di sé ), Paolo attira l'attenzione sulla carità e sull'edificazione comune.

La carità è amore a Cristo prima che fra noi, porta ad accordi dinamici e di conversione, non statici e di sistemazione.

Nasce sulla base della grazia e si traduce nel servizio; ciò che tu hai ricevuto gratuitamente non puoi tenerlo per tè, non puoi approfittarne per affermare tè stesso: deve diventare servizio.

La visione di Paolo è diversa da quella dei Corinzi, perché si muove, come sempre, nell'orizzonte della croce e della grazia.

Nei carismi più affascinanti e straordinari - quelli che i Corinzi prediligevano - egli vede la presenza provvisoria e terrestre dello Spirito: passeranno con questo mondo ( 1 Cor 13 ).

La vera presenza dello Spirito, in un certo senso eterna e definitiva, è nella carità e nell'edificazione.

I tratti dell'epifania di Dio non sono anzitutto la straordinarietà ( che può nascondere un'affermazione di sé o, comunque, distrarre dall'edificazione comune ), ma il servizio, l'ospitalità, l'amore.

In fondo è ancora il discorso della croce: l'epifania di Dio è nel dono e nel servizio, non nell'affermazione di sé [ v. Carità ] .

h. « Lo Spirito di Dio abita in voi » ( Rm 8,9 )

La spiritualità paolina è tutta dominata dall'esperienza dello Spirito, e questo è certamente già apparso nelle nostre annotazioni.

Vogliamo però ugualmente terminare questa breve traccia elencando alcuni fra i principali temi legati all'esperienza dello Spirito.

Lo Spirito ci comunica la figliolanza divina e ce ne rende consapevoli ( Rm 8,14-16 ): un primo segno dello Spirito è il nuovo rapporto, franco e confidente, con Dio.

Lo Spirito ci libera dalla schiavitù e ci trasferisce nella libertà ( Gal 5,18 ): un secondo segno dello Spirito è il senso della grazia.

Lo Spirito è la « caparra » ( Rm 8,23 ), l'anticipo del mondo nuovo, ed è la forza che trascina la realtà presente verso la pienezza di Dio: un terzo segno dello Spirito è la gioia del presente e nel contempo una profonda insoddisfazione.

Lo Spirito è la nuova legge: la legge di Cristo è scritta nei cuori ( Gal 6,2; 1 Cor 9,21 ) e lo Spirito spinge ulteriormente a comprenderla ( Gal 5,22-25; Rm 8,1-4.14-17 ).

All'uomo dominato dal peccato la legge appare come una schiavitù: non solo perché è impotente di fronte ai suoi comandi, ma soprattutto perché la sente estranea a se stesso: la legge di Dio gli comanda l'amore e il peccato lo trascina in direzione opposta.

Ma per l'uomo sotto lo Spirito tutto è diverso: gli è donato il dinamismo dell'amore, e la legge non gli appare più schiavitù ma libertà [ v. Uomo spirituale ] .

4. L'esperienza spirituale secondo Giovanni

Giovanni scrive il suo vangelo verso la fine del I sec.57

Scrive un vangelo molto diverso dagli altri tre che lo hanno preceduto, e questo si spiega col fatto che lo scrive in un tempo diverso che richiede una diversa presentazione della figura di Gesù.

I problemi del suo tempo li possiamo ridurre a tre.

Anzitutto, inizia una forma di filosofia gnostica che - con la sua tendenza al dualismo ( la contrapposizione fra la sfera del divino e dell'umano, dello spirito e della carne ) - rifiutava di accettare la reale incarnazione del Figlio di Dio.

Dalla stessa matrice nasceva la tendenza a concepire la salvezza in termini di semplice conoscenza, di evasione, e non invece di fede, di amore e di coinvolgimento.

In secondo luogo il tempo di Gv conosce una accesa polemica con la sinagoga.

Il punto di forza del giudaesimo era la legge di Mosè, intesa come la manifestazione ultima e definitiva della volontà di Dio.

La legge era chiamata vita, luce, sapienza di Dio venuto fra gli uomini.

In un simile contesto di pensiero non c'era posto per il Cristo.

Infine, la comunità di Gv vive in una situazione di diaspora, di persecuzione, di emarginazione e di rifiuto: la comunità si sente estranea al mondo.

Di fronte a questa complessa situazione, Gv assume un atteggiamento nel contempo di accettazione e di contestazione.

Accetta le provocazioni che gli vengono dal suo mondo e per questo rilegge in modo nuovo la vita di Gesù, ma contesta il mondo che lo circonda opponendogli il centro tradizionale della fede, cioè il Verbo divenuto uomo, la storia di Gesù di Nazaret.

Alla gnosi oppone la realtà dell'incarnazione in tutta la sua paradossalità, e ricorda che la salvezza ci è data mediante la fede e l'amore, in una reale compromissione con la storia degli uomini.

Contro il giudaesimo afferma che Gesù di Nazaret è la vera e ultima manifestazione di Dio.

Al mondo e al suo orgoglio politico oppone la croce come unica strada di salvezza.

a. « Io sono il vero pane »

Per descrivere l'esperienza spirituale di Gv ( sia pure in modo sommario, e trascurando completamente - se non per brevissimi cenni - le lettere e l'Apocalisse ) è bene partire dal cuore di questa esperienza, cioè la cristologia.

Per questo abbiamo a disposizione un testo denso e riassuntivo, che intenzionalmente ( ci sembra ) raccoglie i tratti più salienti della figura di Gesù, della sua vicenda e del suo significato salvifico: il prologo ( Gv 1,1-18 ).

Pensiamo di sintetizzarne il significato in cinque affermazioni.

Primo: il prologo afferma che la Parola ( che più avanti assumerà il nome storico di Gesù: Gv 1,17 ) esiste da sempre, e ne precisa poi la posizione nei confronti di Dio ( Gv 1,1 ).

È un primo punto di grande interesse.

Comunemente le traduzioni suonano cosi: « e il Verbo era presso Dio ».

Ma si può tradurre molto meglio: « il Verbo era vicino e rivolto al Padre ».58

Nella sua struttura intima, nel suo essere più profondo, il Verbo è in atteggiamento di ascolto e di obbedienza, tutto rivolto al Padre.

Facendosi uomo continuerà a mantenere questo atteggiamento.

Ecco perché in tutto il IV vangelo il Cristo è descritto come l'obbediente, come la trasparenza del Padre ( Gv 4,34 ).

Gesù sembra annullare radicalmente la propria volontà in una totale obbedienza.

Ma è proprio in questa obbedienza che egli ritrova la sua libertà e la sua consistenza di Figlio.

Secondo: il prologo ha il suo centro letterario e teologico nel v 14: « e la Parola è divenuta carne ».

È questo il punto che faceva problema.

I giudei non riuscivano a capacitarsi che la parola; ultima e definitiva di Dio fosse apparsa nella debolezza della vicenda di Gesù.

E le comunità elleniche stentavano ad accettare la piena umanità del Figlio di Dio, giudicata un luogo indegno del divino.

Contro costoro Gv afferma coraggiosamente che la Parola si è fatta carne, dove carne non indica semplicemente uomo, ma uomo nella sua fragilità, divenire, impotenza e parentela con le altre creature.

È questo il fatto centrale cui bisogna credere per avere salvezza: « ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto in carne è da Dio, ma ogni spirito che non confessa Gesù non è da Dio » ( 1 Gv 4,2s ).

Chi rifiuta di ammettere che il Figlio abbia pienamente assunto la natura umana può sembrare, in apparenza, rispettoso di Dio, ma in realtà ne annulla la capacità di amore e di alleanza.

Terzo: il prologo continua: « e noi abbiamo veduto la sua gloria » ( Gv 1,14b ).

Non basta proclamare che la Parola di Dio si è fatta carne, che il Figlio si è fatto uomo: occorre affermare che nella sua persona e nella sua storia ( appunto quella storia ch'e a molti parve indegna di Dio ) è presente la "gloria".

Gesù è la rivelazione di Dio, ma una rivelazione che avviene nella carne, cioè in una forma velata: gli uomini si aspettano sempre una presenza di Dio visibilmente gloriosa, una lucida trasparenza attraverso la quale si contempli direttamente il divino; invece in Cristo la gloria di Dio è come nascosta, da cogliere attraverso i segni, e si richiede da parte dell'uomo una capacità di lettura.

A sentire l'affermazione di Gesù « io sono il pane disceso dal cielo », i giudei mormoravano: « Ma costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe? » ( Gv 6,41-42 ).

Essi non riescono a convincersi dell'origine divina di Gesù.

È lo sconcerto dell'incarnazione, che nasce dal contrasto fra la pretesa del Cristo e la sua realtà storica.

È in gioco tutta una teologia: il modo di concepire Dio, la sua manifestazione, la sua capacità di inserimento nella storia.

Quarto: in Gesù e nella sua vicenda si è manifestata la « gloria ».

Ma che significa? Gloria è una parola che biblicamente significa la manifestazione di Dio, una manifestazione splendida e salvifica.

Tutta la storia di Gesù è manifestazione di Dio, ma il grande momento in cui la gloria apparve in pienezza è secondo Gv la croce: nel suo vangelo è spesso indicata come « innalzamento » e «glorificazione».

Può sembrare paradossale ( come si può dire che la croce è glorificazione? ), ma tutto diventa chiaro se ricordiamo che Dio è amore, e la sua manifestazione è dunque là, dove appare l'amore.

È sulla croce che l'amore di Dio apparve in tutto lo splendore della sua profondità e in tutta la sua ostinazione: è sulla croce che apparve la « grazia e verità ».

Quinto: la conclusione del prologo ( Gv 1,17-18 ) contiene un'ultima affermazione importante: Dio si rivela in Gesù e soltanto in Gesù.

È un'affermazione polemica.

Il v 17 è polemico nei confronti degli ebrei e della loro eccessiva esaltazione della legge: non la legge, ma Gesù è l'ultima e definitiva parola di Dio.

Il v 18 allarga la polemica coinvolgendo ogni altra pretesa di salvezza

L'evangelista afferma la radicale invisibilità di Dio: lo sforzo dell'uomo, le sue ricerche filosofiche e religiose non sono in grado di strappare Dio alla sua invisibilità.

Solo il Figlio di Dio, proprio perché viene da Dio, è in grado di sollevarne il velo.

Le ricerche dell'uomo, anche le più valide, sono preparazione e avvio, in nessun modo conclusione: la loro intima vocazione è di aprirsi a Cristo.

Lungo il racconto evangelico si incontrano diverse solenni affermazioni importanti e rivelatrici, che orientano la fede verso una persona, prima e più che verso una dottrina.

E manifestano una venatura polemica: la vera luce sono io, il pane sono io, non altri.

Gesù intende distinguersi dalle parziali o false offerte di luce, di pane, di vita.

Gesù afferma una pretesa, quella di svelare all'uomo il senso profondo della sua propria ricerca della luce o del pane o della vita, in una parola della salvezza.

Dicendo « io sono la luce », « io sono il pane » Gesù afferma di essere ciò che gli uomini veramente cercano.

Vanno in cerca di luce, di acqua, di pane, ma nel profondo - lo sappiano o no - vanno in cerca di Dio e della sua, parola.

Si comprende facilmente che le indicazioni che il prologo ci ha offerto non descrivono semplicemente le strutture della persona di Gesù e il suo significato per noi, ma indicano - nel contempo - le strutture fondamentali dell'esperienza spirituale giovannea: un'esistenza condotta nella più radicale obbedienza al Padre, così da divenire la trasparenza della sua parola e del suo volto; un'esistenza che accetta fino alle ultime conseguenze l'incarnazione e, quindi, ricerca Dio nel concreto della storia, rifiutando ogni dualismo e ogni evasione; una vita spesa nel servizio e nell'amore, nella convinzione che la strada della croce è la strada della gloria; un rifiuto di tutte le proposte di liberazione e di salvezza dell'uomo per aprirsi unicamente al progetto di salvezza rivelato dal Cristo.

Il quadro cristologico che abbiamo tracciato ( comprese le strutture spirituali che immediatamente ne derivano ) è senza dubbio il quadro fondamentale, di partenza, dell'esperienza giovannea.

Ci sono però altri aspetti da prendere in considerazione: l'uomo di fronte alla rivelazione di Dio; l'itinerario del discepolo; la comunità, il mondo e lo Spirito.

b. L'uomo di fronte alla rivelazione

Si è soliti individuare il filo conduttore del IV vangelo nel progressivo svelarsi di Cristo e, parallelamente, nel progressivo manifestarsi della fede e della incredulità.

Gli episodi sono disposti uno dopo l'altro in modo da formare un crescendo: il Cristo rivela sempre più chiaramente il suo mistero, e gli uomini rivelano sempre più la loro incredulità.

Gv considera l'uomo unicamente all'interno di questo dramma.

È l'opzione prò o contro la luce che qualifica l'uomo, collocandolo nella luce o nelle tenebre, tra i figli di Dio o i figli del diavolo ( Gv 8 ).

La manifestazione di Gesù avviene mediante segni e parole ( Gv 6; Gv 9; Gv 11; Gv 13 ): il segno sottolinea plasticamente la parola e la parola commenta il segno.

La manifestazione di Dio in Cristo ( e nella storia ) è "enigmatica" ( nella carne ), a guisa di parabola: è una manifestazione da decifrare, e le letture possibili sono due, quella carnale e quella spirituale, quella che si arresta alle apparenze e quella che scende in profondità.

Di fronte a questa rivelazione di Cristo l'uomo non comprende, è prigioniero della prima lettura e non sa passare alla seconda: le obiezioni degli ascoltatori - che interrompono spesso i discorsi - lo dimostrano.

L'uomo, come ad es. Nicodemo ( Gv 3 ) e i galilei ( Gv 6 ), pretende passare direttamente dal segno alla fede: occorre invece passare attraverso la parola che rigenera e impedisce di leggere i segni di Gesù all'interno di un sapere già dato.

E poi l'uomo pretende chiudere il dono di Dio entro la propria attesa.

Quando la donna samaritana intuisce qualcosa del mistero di Gesù, lo interpreta subito sul metro delle proprie preoccupazioni ( Gv 4,15 ).

Così i galilei: cercano il loro pane, non il pane di Gesù ( Gv 6,26 ).

Il fatto è che la rivelazione di Cristo richiede "conversione".

Nei cc 3-4 tre personaggi rappresentativi - di mondi diversi - sfilano davanti a Gesù: il giudeo Nicodemo, una donna samaritana, un pagano.

Tutti e tre questi mondi - se vogliono accogliere Gesù - devono aprirsi e abbandonare la propria sicurezza religiosa e la propria ricerca di Dio.

In conclusione: Giovanni sottolinea l'impotenza dell'uomo abbandonato a se" stesso, totalmente incapace di comprendere.

Anche i discepoli non comprendono: pensano al cibo terreno e non sospettano in Gesù la presenza di un'altra fame e di un'altra ricerca ( Gv 4,33 ).

L'uomo deve « rinascere di nuovo e dall'alto » ( Gv 3,3 ): un passaggio che solo Dio può compiere ( di fronte al quale gli uomini sono impotenti come si è impotenti di fronte alla propria nascita ); un passaggio che rinnova dalle fondamenta.

Anche per Gv la conversione è totalmente grazia: « Nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre » ( Gv 6,65 ).

La realtà da comprendere è - lungo il vangelo - diversamente formulata.

È la "gloria" nascosta nella "carne" ( Gv 1,14 ): formulazione cristologica che sottende tutto un nuovo modo di intendere l'epifania di Dio.

È l'amore di Dio apparso sulla croce ( Gv 3,16 ): formulazione che implica la comprensione del mistero della croce, inteso come "innalzamento" e "glorificazione"; si tratta di comprendere, in altre parole, che la croce è vita.

È il mistero dell'amore di Dio che sembra, talvolta, abbandonare l'uomo.

Per quest'ultima formulazione si legga l'episodio di Lazzaro ( Gv 11 ).

Intorno alla malattia e poi alla morte di Lazzaro si sviluppano due dialoghi: uno fra Gesù e i discepoli, l'altro fra Gesù e le sorelle.

Il primo dialogo, l'unico che qui ci interessa, prende l'avvio dallo sconcertante comportamento di Cristo che ama Lazzaro e tuttavia lo lascia morire.

Col suo comportamento Gesù vuole indicare che la morte e la sofferenza non sono un segno dell'abbandono di Dio, ma rientrano in un disegno di salvezza e di amore.

È il mistero della via del Cristo ( la croce ), ma è nel contempo, il mistero dell'esistenza dell'uomo.

c. L'itinerario del discepolo

Non abbiamo la pretesa di tracciare interamente il cammino di fede del discepolo come appare dal IV vangelo.

Ci bastano, a titolo di esempio, alcuni aspetti significativi.

Nel racconto di Gv 1,33-51 il primo incontro dei discepoli con il Signore non è descritto come una vocazione, ma piuttosto come una scoperta del mistero di Gesù.

Ecco i tratti caratteristici del discepolato.

Il discepolo è colui che accetta la testimonianza, segue, cerca, viene, vede, dimora, si fa a sua volta testimone.

Il prologo - per esprimere la risposta dell'uomo al dono di Dio - aveva già usato tre espressioni: riconoscere ( Gv 1,10 ), accogliere ( Gv 1,11 ) e « abbiamo contemplato » ( Gv 1,14 ).

In sostanza, il discepolato ( o la sequela ) è anzitutto caratterizzato dal vedere.

Nel vocabolario di Giovanni "vedere" è possibile all'interno di un noi, come mostra l'espressione al plurale del prologo.

È un vedere comunitario, che si realizza all'interno di una comunità che lotta contro il peccato e vive la sequela, fedele alla tradizione apostolica.

Vedere, in secondo luogo, non è la contemplazione intellettuale e mistica di tipo platonico, neppure la contemplazione attraverso l'ascesi e la fuga dal terrestre di tipo gnostico, ma un vedere storico, un vedere ciò che accade.

Ed è, infine, un vedere penetrante, un andare oltre la realtà fenomenica per cogliere la realtà profonda che la carne nasconde: è un raggiungere il mistero della persona di Gesù.

Il discepolato è poi caratterizzato dal Verbo rimanere ( Gv 1,38-39 ), cioè da una comunanza di vita e di destino con il maestro, da una profonda comunione con lui.

Infine, il discepolato è caratterizzato dalla testimonianza.

Nell'uso di Gv il termine mantiene tutto il suo originario sfondo giuridico processuale.

La testimonianza si svolge all'interno di un conflitto, fra il Cristo da una parte e il mondo dall'altra.

L'annuncio di Gesù si oppone alla logica mondana e alle sue valutazioni, e suscita consensi e rifiuti ( da parte del mondo che non vi si riconosce e si sente minacciato ).

Il testimone è coinvolto in tutto questo.

La testimonianza esige disponibilità al dono di sé.

Nella sinagoga di Cafarnao l'incredulità coinvolge la stessa cerchia di discepoli ( Gv 6,60 ): essi « mormorano » esattamente come i giudei ( Gv 6,61; Gv 6,41.43 ).

Ma accanto ai discepoli che si « tirano indietro » ( Gv 6,66 ), ci sono la confessione di Pietro e i dodici che rimangono ( Gv 6,67-69 ).

La parola ha operato la crisi decisiva: ha messo a nudo l'incredulità e la vera fede.

La risposta del discepolo esprime un'adesione personale a Cristo, un amore indiscusso, si direbbe frutto di fiducia prima che di comprensione: « credere e conoscere » ( Gv 6,69 ) è infatti la successione dei verbi certamente non casuale.

Nel c 20 Giovanni non si mostra interessato soltanto alla risurrezione di Gesù, ma anche - e forse maggiormente - all'itinerario di fede dei discepoli.59

La risurrezione/ascensione non è l'inizio dell'assenza di Gesù, ma l'inizio di una sua presenza nello Spirito più vera e profonda.

Quali sono i segni di questa presenza e quali sono le condizioni per riconoscerla?

Le tracce della presenza del risorto si rischiarano alla luce delle scritture ( Gv 20.9 ) e a condizione che il discepolo esca dalla sua tristezza e dalla nostalgia del passato ( Gv 20,11-18 ).

Il vangelo ha più volte sottolineato la paura dell'uomo: c'è la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù ( Gv 7,13 ), la paura dei genitori del cieco ( Gv 9,22 ) di fronte alle autorità, la paura dei notabili di essere espulsi dalla sinagoga ( Gv 12,42 ).

È una paura che trova complicità nel cuore dell'uomo eccessivamente preoccupato di sé.

Ebbene, il discepolo deve scuotersi di dosso questa paura facendosi disponibile alla gioia dei doni del Signore già presenti ( la pace, lo Spirito e il perdono dei peccati ) e aprirsi alla missione ( Gv 20,19-23 ).

L'itinerario dei discepoli si conclude nella missione.

Una missione senza confini ( universalità ); una missione che prolunga quella che il Figlio ha ricevuto dal Padre: dunque una missione che si svolge nell'obbedienza ( non si porta se stessi ma la verità del Cristo ) e nel dono di sé.

L'essenza di questa missione è la liberazione dal peccato e il rinnovamento nello spirito.

Soprattutto, il discepolo deve credere sulla testimonianza di chi « ha veduto il Signore ».

E l'insegnamento dell'episodio di Tommaso ( Gv 20,24-29 ), che apre la storia di Gesù sul tempo della chiesa.

Discepolo è chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha visto.

Nel tempo di Gesù visione e fede erano abbinate, ma ora, nel tempo della chiesa, la visione non deve essere più pretesa: basta la testimonianza apostolica.

Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Cristo risorto.

Tutt'altro. Gli è offerta l'esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito.

La storia di Gesù è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e che deve essere fedelmente raccontata.

La comunione con Gesù è invece un fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi alla esperienza diretta e personale di tutti coloro che si aprono alla fede.

d. La comunità, il mondo e lo Spirito

I discorsi di addio ( Gv 13-17 ) sottintendono un duplice contesto esistenziale: la partenza di Gesù ( quindi il tempo della chiesa, la sua consistenza, i suoi problemi e i suoi interrogativi ) e l'odio del mondo, la persecuzione, l'incredulità che perdura.

In questo duplice contesto, che caratterizza il modo giovanneo di descrivere il tempo della chiesa e che, certo, corrisponde all'esperienza che la sua comunità viveva, si capiscono anzitutto i due fondamentali compiti assegnati alla presenza dello Spirito nella comunità: l'insegnamento e l'assistenza nello scontro con il mondo ( Gv 14,15-18; Gv 14,25-26; Gv 15,26-27; Gv 16,7-15 ).60

L'insegnamento di cui Gv sta parlando avviene appunto mediante lo Spirito, però a contatto con l'esperienza e la vita della chiesa post-pasquale.

Lo Spirito che insegna non è un fatto privato ne staccato dall'esperienza comunitaria.

Va anche precisato che l'insegnamento dello Spirito non è un insegnamento nuovo rispetto a quello di Gesù: lo Spirito è il garante della tradizione.

Ma la memoria ( Gv 16,26 ) di cui lo Spirito è il garante e il portatore non è ripetitiva.

Per questo si dice « vi introdurrà all'intera verità » ( Gv 16,13 ).

Si tratta di un insegnamento fedele alla memoria di Gesù, ma nel contempo approfondito, attualizzato, posseduto non più dall'esterno ma dall'interno, non più per sentito dire ma per esperienza personale.

È anche detto che lo Spirito « svelerà le cose che avverranno » ( Gv 16,13 ).

Questo non significa che lo Spirito svelerà la cronaca del futuro, bensì che aiuterà la comunità a leggere la storia presente alla luce della sua conclusione, cioè alla luce della storia di Gesù che è lo svelamento del futuro.

È questo il tema principale dell'Apocalisse.

In conclusione: lo Spirito conduce la comunità alla pienezza della comprensione della verità di Cristo.

Non solo alla verità di Cristo, ma alla verità che è Cristo: questo conformemente a tutto il IV vangelo e conformemente all'esatto significato di "Spirito di verità" e "verità".

Il tempo della chiesa - come si può costatare - non è per Gv un tempo povero, ma ricco.

Quando egli scriveva c'era la tentazione di concepire il tempo della chiesa come un tempo povero, un tempo che non è più quello dell'incarnazione e non è ancora quello della parusia.

Gv sottolinea che il tempo della chiesa è ricco: i beni futuri sono già anticipati e la presenza dello Spirito permette di comprendere il Cristo più profondamente di prima.

C'è un secondo compito dello Spirito: la testimonianza.

Davanti all'ostilità del mondo i discepoli saranno esposti al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento: lo Spirito li aiuterà, spiegherà loro la fortuna di essere con Cristo.

E confonderà il mondo: cioè mostrerà ai discepoli il torto del mondo, la sua vanità, la sua inconsistenza.

Li fortificherà nella loro disobbedienza al mondo.

Nel tempo della chiesa - di fronte alla ostilità del mondo e in attesa del ritorno del Signore - il compito primo del discepolo è di "rimanere" in Gesù, come il tralcio rimane attaccato alla vite ( Gv 15,1-17 ).

Compito primo ed essenziale, pena la totale sterilità.

Ma che significa "rimanere" in Cristo? La pericope che abbiamo citato non lascia dubbi.

Attraverso una serie di passaggi scanditi dal verbo rimanere ( Gv 15,4.7.9.10.12 ) si conclude che "rimanere" significa "amarci l'un l'altro".

La mistica giovannea è estremamente concreta.

Nell'amore scambievole si fa esperienza di Dio e si vive la fedeltà al suo messaggio, non altrimenti: « Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi » ( 1 Gv 4,12 ).

Come conclusione, invitiamo alla lettura di 1 Gv 1,1-4.

È un passo che non solo fa da prologo alla prima lettera, ma è una sintesi dell'intera esperienza spirituale di Gv.

L'apostolo intende raccontare « ciò che ha visto e udito e toccato »; si tratta dunque di un fatto accaduto, oggetto di ascolto e di visione.

Ma questo fatto accaduto è stato colto nella fede ( « abbiamo contemplato » ), penetrato nel profondo sino a scorgervi la presenza del « Verbo della vita ».

L'incontro con il mistero di Cristo è qualcosa di contagioso: chi ne fa esperienza non può tenerlo per sé ma deve testimoniarlo ( « di ciò rendiamo testimonianza » ).

Il mistero che viene compreso e testimoniato ( nascosto nel fatto storico e nella nostra esperienza ) è la « comunione » : la comunione fra il Padre e il Figlio e la comunione di noi con Dio e fra di noi.

È nel contempo il mistero di Dio e dell'uomo: non solo una realtà conosciuta, ma sperimentata; non solo una speranza futura ma una realtà già presente e posseduta.

Tutto questo è racchiuso nel ricco significato giovanneo dell'espressione: « la vita eterna che era presso il Padre si è resa visibile fra noi ».

5. Le strutture dell'esperienza spirituale neotestamentaria: sintesi

Alla fine della nostra lettura del NT è necessario - come abbiamo fatto per l'AT [ sopra. I,8 ] - raccogliere in un quadro sintetico le principali indicazioni emerse.

Ci ripromettiamo due vantaggi: mostrare la continuità con l'esperienza d'Israele e mostrare la profonda unità, pur nelle sue diverse espressioni, dell'esperienza del NT.

L'esperienza spirituale neotestamentaria, da qualsiasi angolatura la si osservi, dice riferimento a Gesù Cristo.

Cristo è la via obbligata per comprendere Dio, se stessi, la comunità e la storia.

Tanto è vero che le confessioni di fede nel NT, esprimenti la fede comune delle chiese, sono tutte cristologiche.

Viene celebrata la via che il Cristo ha percorso, la struttura della sua persona ( uomo e Dio ), la sua struttura di Figlio in rapporto al Padre e allo Spirito ( trinità ).

È all'interno di queste tre coordinate che il discepolo deve comprendere la propria ricerca di Dio e la propria ricerca di salvezza, ed è per questo che noi intendiamo raccogliere all'interno di esse tutte le indicazioni che la nostra lettura ha fatto emergere.

a. Cristo, rivelatore di Dio

Un antico inno liturgico della prima comunità cristiana ( Col 1,15-20; Gv 1,18 ) definisce il Cristo « immagine del Dio invisibile ».

Egli è colui che - nella sua persona e nella sua storia - ha reso visibile e vicino il Dio invisibile.

L'invisibilità di Dio si è dissella nell'apparizione storica di Gesù di Nàzaret.

L'affermazione dell'antico inno liturgico è una risposta agli uomini che cercano Dio e non lo trovano: Dio non è più invisibile e lontano, è uscito dalla sua invisibilità e in Cristo ci è venuto incontro.

Ma la medesima affermazione può anche essere letta diversamente, e cioè come una risposta polemica a tutti coloro ( uomini, filosofie, progetti di salvezza ) che pretendono aver raggiunto Dio e il senso ultimo delle cose: Cristo e l'unico rivelatore di Dio.

È lui solo la vera storia della presenza di Dio fra gli uomini.

Tutto questo rimane uno "scandalo" per la ragione: la relazione con l' ( v. ) Assoluto è fatta dipendere da un evento storico.

Ma questo scandalo, lungi dall'essere attenuato, è dalla spiritualità cristiana gelosamente custodito e continuamente riaffermato.

Per l'uomo del NT Dio è raggiungibile in luoghi storici, non diversamente: non scendendo nella profondità di se stessi e staccandosi dal mondo per contemplare direttamente il divino, ma nella comunità radunata, nell'accoglienza della parola, nel gesto della fraternità, nella frazione del pane, nella sequela: tutti luoghi storici, concreti e obiettivi.

L'esperienza di Dio - osserva acutamente H. U. von Balthasar - è « realistica, umana e comunitaria ».61

b. La via di Cristo

Si legga come testo emblematico, Fil 2,6-11.

In questo antico inno liturgico, probabilmente prepaolino, viene anzitutto descritta la via che il Figlio ha percorso ( la sua condizione presso Dio, la sua venuta fra gli uomini, la vita obbediente, la croce, la esaltazione ).

Ma all'interno della via che il Cristo ha percorso vengono colte le strutture della sua persona: Egli è nella condizione di Dio e in tutto simile agli uomini, servo e Signore. 'in questa duplice coppia di antitesi è racchiuso il mistero di Gesù, ma anche il paradosso dell'esistenza cristiana.

È importante per il nostro scopo, osservare con attenzione il modo di pensare di questo inno, caratterizzato da due momenti, che costituiscono altrettante strutture dell'esperienza spirituale neotestamentaria.

Primo: la riflessione parte da una storia concreta, quella che il Cristo ha vissuto.

Il movimento è per così dire, dal basso all'alto, non dall'alto al basso.

In questo c'è molta consonanza con l'esperienza religiosa dell'AT.

I titoli Dio e uomo, servo e Signore vanno intesi secondo quel senso che appare concretamente dalla storia che il Cristo ha vissuto.

Alla domanda: «Chi è Gesù?», i primi cristiani rispondevano raccontando una storia.

E unicamente a partire dalla storia di Gesù che si comprende la sua personalità, la sua divinità e la sua umanità, il suo significato per noi.

Questo partire dalla storia resta un metodo costante dell'esperienza cristiana.

La fede si vive non fuggendo dalle situazioni concrete, ma dentro le situazioni concrete e lasciandosi da esse mettere in questione.

Il vangelo denunzia con forza l'atteggiamento che il fariseo assume di fronte alla prassi di Gesù ( Mc 5,2ss; Gv 9 ).

Il fariseo non è leale, bara al gioco.

Nega l'evidenza dei fatti per salvare la propria ideologia.

Il discepolo invece deve assumere una franca ammissione della storia.

Questa franca ammissione della storia richiede ( oltre che rigore e lucidità e lealtà ) anche pazienza e coraggio.

Secondo: nella storia di Gesù c'è un centro, da cui è necessario partire se si vuole comprenderla correttamente.

Il centro è la croce/risurrezione.

La meraviglia che l'inno intende comunicarci non sta semplicemente nel fatto che Dio ha deciso di divenire uomo, ma nel fatto che - avendo deciso di farsi uomo - anziché prendere una condizione umana a livello della sua condizione divina ( quindi una umanità al di fuori della nostra storia, sottratta alla caducità, ai bisogni, alla morte ) ha preferito una condizione umana in tutto e per tutto simile alla nostra; ha preferito condurre una vita obbediente e crocifissa.

Non è semplicemente l'incarnazione il centro della spiritualità cristiana, ma le sue concrete e storiche modalità.

Il Figlio di Dio è entrato nel mondo scegliendo la solidarietà e la condivisione, assumendosi il peso della storia degli uomini.

È chiaro, a questo punto, che il discepolo deve a sua volta entrare nel mondo, soffrire, partecipare, condividere e prendersi a carico il peso della storia degli uomini.

Le regola del discepolo è il « perdersi per ritrovarsi » del vangelo.

c. Gesù, vero uomo

Nella persona di Gesù ( uomo e Dio ) si è pienamente realizzata l'alleanza fra Dio e l'uomo: il Figlio di Dio non ha rifiutato nulla di ciò che è umano, ma l'ha assunto e introdotto nella sua persona ( Gesù è vero uomo ).

Così l'incarnazione ci dice che gli uomini e la loro storia hanno un grande valore, perché sono entrati nel mondo di Dio.

La storia dell'uomo non è più soggetta alla vanità, ma in Cristo è entrata nel mondo di Dio e si apre a una grande speranza.

L'incarnazione rifiuta ogni dualismo.

In Gesù è apparso un Dio che è « la nostra pace », che « ha fatto dei due un solo mondo e ha abbattuto la parete divisoria » ( Ef 2,14-16 ).

Nel mondo antico si parlava di due zone, il mondo terrestre e il mondo celeste, e si parlava di un muro divisorio, di un recinto, che segnava il confine, invalicabile, fra la zona del divino e dell'umano.

In Cristo il mondo di Dio e il mondo dell'uomo si sono uniti, riconciliati.

Il muro che li opponeva è crollato.

Il Dio di Gesù Cristo non è il Dio del dualismo, ma dell'alleanza, dell'assunzione della realtà umana, della solidarietà con la storia.

Il Dio di Gesù Cristo non abbandona il mondo a se stesso ne invita a farlo.

Di fronte a questo Dio, che si definisce come alleanza e solidarietà, non c'è più posto per la tentazione gnostica ne per la tentazione apocalittica ( due schemi antichi che sembrano in qualche modo rivivere nel mondo moderno ).

La tentazione gnostica: il mondo dal basso non è il mondo di Dio e dello Spirito, l'uomo non deve appassionarvisi e tentare di trasformarlo, e sarebbe assurdo pensare di salvarlo; è semplicemente da abbandonare; lo spirito dell'uomo deve estraniarsi dal suo fascino e liberarsi dalla sua prigionia, e salire altrove.

E la tentazione apocalittica: il mondo presente è segnato dal peccato, è talmente caduto in basso che non è più possibile salvarlo, non è più il mondo amato da Dio; inutile tentare di salvarlo, meglio abbandonarlo al suo destino, affrettandone - semmai - la morte: è solo dopo la morte di questo mondo che Dio ci offrirà un mondo nuovo e diverso.

La tentazione apocalittica e la tentazione gnostica dimenticano l'incarnazione e la forza di speranza e di solidarietà che essa racchiude.

Sono due modi di porsi di fronte al mondo incompatibili con l'autentica esperienza spirituale cristiana: il mondo che Dio ama è questo, il mondo nel quale ha deposto il seme della sua salvezza è questo.

d. Il Figlio incarnato, uguale e distinto dal Padre e dallo Spirito

La persona di Gesù non si esaurisce nell'alleanza fra la divinità e l'umanità.

Egli è il Figlio uguale e tuttavia distinto dal Padre e dallo Spirito.

In Gesù si è rivelato un Dio trinitario.

Sono tre - ci sembra - le principali strutture spirituali che derivano dall'incontro con il Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo.

Anzitutto la struttura dell'obbedienza-trasparenza: il Figlio tutto riceve dal Padre e nell'accoglienza del dono del Padre trova la propria consistenza; il Figlio è in ascolto del Padre e in questa obbedienza trova la propria glorificazione e la propria libertà.

Lo Spirito, a sua volta, non viene a dire cose proprie, ma a far comprendere e a ricordare le cose del Figlio.

Dal Padre discende dunque tutto un movimento di accoglienza e di trasparenza, che deve prolungarsi nell'esperienza del cristiano e della comunità.

In secondo luogo, una struttura dialogica, termine che ci sembra il più adatto per esprimere le nuove modalità di esperienza di Dio che il cristiano è chiamato a vivere.

In proposito un testo particolarmente significativo è Rm 8,14-17.

Al centro sta l'esperienza dello Spirito, che si lascia discernere mediante tre segni: una vita "nuova" ( non più un vivere secondo la logica della carne ); un nuovo rapporto con Dio, sentito come Padre; l'intima convinzione ( a dispetto della poca fede e dello stesso peccato ) di essere figli [ v. "Figli di Dio ].

È dunque un nuovo rapporto con Dio il dato essenziale: l'uomo può rivolgersi a Dio liberamente, francamente e confidenzialmente; non più un rapporto di schiavitù, ma di libertà; il discepolo può appropriarsi la medesima confidenza e la medesima libertà del Cristo verso il Padre.

Del Cristo si parla in termini di condivisione: è il Figlio che non tiene per sé la sua figliolanza, ma la estende a noi; ed è il modello di cui dobbiamo ripercorrere la via.

Il Padre è colui da cui tutto discende e a cui tutto ritorna; il Figlio riceve dal Padre e dona a noi, ci apre la via di un nuovo rapporto.

Lo Spirito rivela a noi la nostra nuova situazione, la interiorizza e ce ne procura la convinzione.

Dalla struttura del Cristo - incarnazione e trinità - scaturisce infine la struttura della "comunione" nel suo duplice movimento di « amore con » ( trinità ) e « amore per » ( croce ).

In questa comunione si colloca l'esperienza del cristiano e della chiesa.

C'è un momento interno in cui ci si incontra con Dio e tra i fratelli ( amore con ); è un momento di reciprocità ( Gv 13,34-35 ).

E c'è un momento missionario, in cui si muore per tutti, nella universalità, senza nulla chiedere in cambio ( la croce ).

Ma vi è un ordine in questi due momenti ( ordine che deve essere rispettato nell'esperienza del cristiano e ancor più nell'esperienza della comunità ): dall'amore reciproco ( trinità ) alla missione ( croce ) in vista di una comunione più grande ( Cristo morì sulla croce per attirare tutti a sé: Gv 12,32 ).

e. Tensioni nella storia e nella persona di Gesù

Nella storia e nella persona di Gesù sono racchiuse delle "tensioni" ( uomo e Dio, servo e Signore, crocifisso e risorto ), che poi si ripresentano nella nuova comprensione che il cristiano ha di sé.

In altre parole, il mistero di Cristo è all'origine di una serie di antinomie che caratterizzano l'esperienza spirituale cristiana: antinomie che non è facile accentuare giustamente ( anche per questo si danno carismi e vocazioni differenti ) e tuttavia non vanno dissolte, ma vissute [ v. Antinomie spirituali ].

Al discepolo viene richiesta la capacità di vivere una situazione dialettica e una sensibilità storica, che sappia accentuare di volta in volta ciò che è dovuto.62

Descriviamo tre antinomie, presenti in un modo o nell'altro nell'esperienza di tutte le comunità neotestamentarie.

Prima: continuità e novità.

Il discorso della montagna ( nella versione di Mt ) si apre con due affermazioni in apparenza contrastanti.

Da una parte l'affermazione: « Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per compiere » ( Mt 5,17 ).

Dall'altra un chiaro e ribadito atteggiamento di rottura: « Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico… » ( Mt 5,21ss ).

Risolvere e comprendere questo apparente contrasto significa comprendere non soltanto una delle tesi centrali del vangelo di Mt, ma anche una delle caratteristiche più importanti e costanti della esperienza spirituale delle prime comunità cristiane.

Il messaggio di Gesù è in continuità con l'AT, perché ne riscopre il centro e la tensione.

Gesù non introduce nella sua legge novità mutuate altrove, e non fa correzioni in base a una logica estranea.

Ricupera invece l'intenzione profonda della storia della salvezza e la porta a compimento.

Continuità, dunque, ma si tratta di una continuità che ha carattere di novità.

Esige conversione, perché è critica nei confronti degli schemi precedenti nei quali si è finito con l'accomodarsi, e non ripete semplicemente le parole antiche, ma le compie.

Gesù sa che l'AT è per essenza realtà aperta, avvio, promessa: essergli fedeli significa superarlo e portarlo a maturazione.

La tensione fra continuità e novità non è unicamente racchiusa nel rapporto AT e NT: si riproduce in forme nuove, ma analoghe, nel rapporto tra tradizione e contemporaneità.

La coscienza cristiana - come del resto già quella dell'antico Israele - è fedele alla sua tradizione, ma non è ripetitiva.

Seconda: compimento e attesa.

I primi cristiani hanno vissuto una duplice esperienza, anch'essa in qualche modo analoga alla esperienza d'Israele.

Da un lato, la certezza che il messia è già venuto e che la sua morte/risurrezione costituisce il fatto centrale e risolutore della storia.

Tutti i testi del NT tradiscono questa convinzione e questo entusiasmo.

Ma dall'altro, la costatazione che, nonostante la morte e risurrezione del Cristo, la storia sembra continuare come prima: ancora l'ingiustizia, il peccato, la dimenticanza di Dio: la speranza sembra di nuovo delusa.

All'interno di questa situazione i cristiani si resero ben presto conto di due cose.

La prima è che c'è ancora posto per l'attesa: colui che è venuto nella debolezza della croce ritornerà nello splendore della potenza: la storia avrà una conclusione e alla fine manifesterà pienamente la gloria di Gesù che ora è nascosta.

La seconda è che la vittoria di Dio è già presente, ma come a livello di seme, nascosta, sotterranea ( le parabole del seme: Mt 13 ).

All'interno di questa prospettiva il NT suggerisce due fondamentali atteggiamenti: il rifiuto di ogni atteggiamento che si perda in curiosità ( sul come e il quando della fine ) e che nell'ansia dell'attesa trascuri i compiti di questo mondo; il rifiuto di ogni mondanizzazione, che allenti la vigilanza, la disponibilità e la risolutezza.

Da un altro punto di vista, il NT inculca, la serenità e la serietà.

Il discepolo avverte la drammaticità della storia, l'urgenza dell'impegno, sente il peso della tentazione e conosce il rischio e la facilità della libertà.

Il credente è serio.

Ma il discepolo sa anche che il Signore è risorto, che la morte è riscattata, che la nostra stessa libertà è nelle mani di Dio, che la salvezza viene da Dio: per tutto questo il discepolo è sereno.

Terza: l'esperienza della diaspora.

Il cristiano vive un'ultima tensione, che si fa chiara soprattutto negli scritti più tardivi: egli non appartiene più al mondo, e tuttavia è inviato al mondo.

Questa estraneità al mondo - una sorta di diaspora spirituale - non nasce unicamente dalla ostilità del mondo, ma dalla propria elezione e vocazione.

Nasce dalla propria originalità.

Vi è una doppia tentazione: evadere dal mondo per conservare la propria originalità, impegnarsi nel mondo al punto da perdere la propria originalità.

Anche sotto questo aspetto la spiritualità cristiana è chiamata a vivere un non facile equilibrio.

Non separazione di settori, ma diversità di origine, cioè di logica e di comportamento.

Essere « nel mondo ma non del mondo » significa l'opposizione alla logica mondana, la rinuncia ai valori illusori, distruttori, come ad es. l'ansia di possedere sempre di più, radice di ogni alienazione ( come la chiama s. Paolo ).

La conclusione si impone: il credente deve assumere il mondo e deve inserirsi in esso, ma il suo inserimento non è senza vigilanza.

f. La salvezza è "grazia"

Se poi volessimo ( come si è fatto per l'AT ) condensare, a modo di conclusione, i presupposti ( o le radici ) di tutta la novità cristiana, noi metteremmo in luce un punto solo: la concezione, unanime nel NT, che la salvezza è grazia.

La "grazia" cambia alla radice il rapporto con Dio, fra di noi e col mondo e cambia la comprensione che l'uomo ha di se stesso.

È insieme un modo nuovo di fare teologia e antropologia.

La grazia muta alla radice il modo di concepire il rapporto con Dio, che diventa essenzialmente un rapporto di accoglienza e di gratitudine.

Non è la via dell'uomo che sale a Dio, ma è la via di Dio che discende verso l'uomo.

L'obbedienza dell'uomo, la sua decisione, sono risposta a un dono gratuitamente già ricevuto.

È proprio questo il vangelo, il lieto annuncio da portare a tutti, atteso e desiderato: Cristo è morto e risorto per noi e, di conseguenza, siamo salvati dall'amore gratuito di Dio apparso sulla croce, non dalle nostre opere.

La nostra sicurezza poggia sull'amore di Dio, non sulla nostra risposta: per questo è lieta notizia.

La grazia muta i rapporti all'interno della comunità, nella quale deve regnare l'ordine della donazione reciproca ( gratuita e disinteressata ) e non della giustizia del tanto/quanto: Fil 2,1-4.

La grazia muta i rapporti della comunità nei confronti del mondo, che devono essere rapporti di servizio e in nessun modo di autoglorificazione.

La grazia è anche la radice dell'universalità della missione della chiesa, sia nel senso che la salvezza è nella fede e non nelle culture ( e quindi tutte le culture possono aprirsi al Cristo, e nessun popolo può imporre a tutti in nome di Cristo la propria particolare cultura ); sia nel senso che cadono le barriere fra uomo e uomo, popolo e popolo ( non ci sono più i vicini e i lontani, i degni e gli indegni, e questo per il semplice motivo che l'amore di Dio è gratuito, in nessun modo condizionato dalle opere degli uomini, dalla loro appartenenza a un popolo o ad un altro ).

L'uomo deve concepirsi come dono gratuito, come un'esistenza regalata ( cioè grazia ), che non può, quindi, rimanere chiuso in se stesso e sfruttarsi a vantaggio proprio, ma deve aprirsi e farsi dono gratuito per tutti.

Se questo non avvenisse, il movimento di Dio verrebbe interrotto e distorto: l'amore gratuito che cade sull'uomo verrebbe dall'uomo trasformato: non più dono ma possesso, non più servizio ma potere.

Grazia e servizio sono due realtà correlate ( 1 Cor 12,4 ).

È vivendo la grazia in tutte queste sue dimensioni che si fa esperienza del Dio di Gesù Cristo.

Realtà
Storia
Nozione Esperienza cr. I
Patologia III
In Cristo e nello Spirito Carismatici III,4
Esercizi sp. VII,3
Gesù III,2
Parola I,1
Psicologia III,1
Spiritualità I,2
Uomo sp. VI
Nella Chiesa Segni V,5
… d'amicizia caritativa Amicizia IV
Amicizia VI
Circa la Parola Amicizia VI
Parola I,2
Parola II
… e liturgia Celebrazione I,2
Parola I,1
… e teologia Assoluto II
Chiesa I,1d
Spiritualità III,2a
Teologia IV
Acculturata Spiritualità II,3
Suoi moduli interpretativi Discernimento I
Orizzontalismo III
Sociologia III
Negli esercizi spirituali Esercizi sp.VI
… di santi Gesù III,2
Teologia IV
… di giovani Giovani II,3
Uomo ev.
Circa la spiritualità Storia III
… di fede Credente II,3
… d'unione con Dio Escatologia II,2
Presso i sapienti Consigli II,2a
… d'amicizia Amicizia IV
… di deserto Deserto II,4
… e discernimento spirituale Discernimento II

1 Per la storia di Israele cf M. Noth, Storia di Israele, Brescia 1975; S. Herrmann, Storia di Israele. I tempi dell'AT, Brescia 1977. Attento allo sviluppo storico delle esperienze di fede di Israele è soprattutto G. von Rad, Teologici dell'AT, 2 voll., Brescia 1972, 1974
2 N. Lohflnk, Attualità dell'AT, Brescia, Queriniana 1969, 107-132; J. Plastaras, Il Dio dell'Esodo, Torino 1977,117-137
3 La conoscenza di Dio nel libro di Ezechiele in Rivelazione di Dio. Una teologia dell'AT, Milano 1975, 45-108
4 Ivi, 51
5 Ivi, 72
6 Ivi, 75
7 Sulla formazione del Pentateuco cf H. Cazelles-J. P. Bouthot, Il Pentateuco, Brescia 1968, 190-334; J. A. Soggin, Introduzione sull'AT, I, Brescia 1968, 115-141; G. von Rad, Genesi (cc 1-12), Brescia 1969, 9-47; J. Schreiner (a cura), Parola e Messaggio, Bari. Edizioni Paoline 1970, 147-194, 317-336, 363-390
8 Sulla teologia dello J e in particolare su Gn 2-3 cf Negretti, Westermann, von Rad, Gli inizi della nostra salvezza, Torino 1974; O. Loretz, Creazione e mito, Brescia 1974; C. Westermann, Creazione, Brescia 1974; N. Lohfink, II racconto della caduta in o. e. (nota 2), 85-106
9 J. Schreiner. o. c. (nota 7), 179-194
10 Sui profeti cf Aa. Vv., Prophètes (d'Israel), Prophetisme in DBS 8 (1972), 692-1337; E. Beaucamp, I profeti, guida all'esperienza di Dio, Milano, Edizioni Paoline 1964; G. Gunkel, I profeti, Firenze 1967; A. Lods, Les Prophètes d'Israel et les debuts du fudàisme, Parigi 1969; A. Neher, L'essence du prophétisme, Parigi 1955; E. Testa, Il profetismo e i profeti, Torino 1977; G. Ravasi, I profeti, Milano 1976
11 N. Lohfink, I profeti ieri e oggi, Brescia 1967, 34-35
12 W. Zimmerli, Gott in der Verkùndigung rier Propheten in La notion biblique de Dieu (a cura di J. Coppens), Lovanio 1976, 127-143
13 W. Zimmerli, a. c.
14 N. Lohfìnk, Ascolta Israele (Esegesi di testi del Dt), Broscia 1968; S. Loersch, Il Dt e le sue interpretazioni, Brescia 1973; M. Laconi, Deuteronomio, Roma, Edizioni Paoline 1969
15 Vedi specialmente G. von Rad, La Sapienza d'Israele, Torino 1975; W. Zimmerii, Posizione e limite della sapienza nel quadro della teologia veterotestamentaria in Rivelazione di Dio. Una teologia dell'AT, Milano 1975, 269-281; A. Barucq, Dieu chez les Sages d'Israel in Aa. Vv., La notion biblique de Dieu (nota 12), 167-189; E. Beaucamp, I saggi d'Israele, guida all'esperienza di Dio, Milano, Edizioni Paoline 1964; A. Vanel, Sagesse Humaine et Sagesse Divine. Valeur et limites de la Sagesse, Parigi, Institut Catholique (ad modum manuscripti), 1975; P. Sacchi, La protesta nella Sapienza in RBi 1976/2, 137-163
16 F. Festorazzi-B. Maggioni, Introduzione alla storia della salvezza, Torino 1974, 115ss
17 Sul profeta Ezechiele cf P. Auvray in DBS 8 (1972), 759-791: E. Testa, o. c., (nota 10), 620-683; L. Monloubou, Un prétre devient prophète: Ezéchiel, Parigi 1972
18 Sulla teologia di P cf G. von Rad, o. e. (nota 1), I, 169ss; Id., Genesi (nota 7), 49-78; Negretti, Westermann, von Rad, o. e. (nota 8), 53-80; Schreiner, o. e. (nota 7), 363-390
19 Sul Deutero Isaia e sul Servo cf A- Penna, Isaia, Torino 1958; S. Porubcan, Il patto nuovo in Is 40-66, Roma 1958; S. Virgulin, La fede nella profezia di Isaia, Milano 1961; P. E. Bonnard, Le Second Isa'ie, san discipte et leurs éditeurs, Parigi 1972; C. R. North, Thè Suffering Servant in Deutero-Isaiah, Oxford 1963; J. L. McKenzie, Second Isaiah, New York 1973; G. M. Beheler, Le premier chant du Serviteur, Is 42,1-7 in VSp 120 (1969), 225-281; A. Schoors, Les choses antérieures. et les choses nouvelles dans les isracles deutero-isaiens in EThL 40 (1964), 19-47; R. Beudet, La typologie de l'Exode dans le Second Isaie in Lavai Philosophique et Théologique 19 (1963), 12-21; J. Coppens, La mission du Serviteur de Yahvé et son statuì eschatologique in EThL 48 (2/3, 1978), 343-371; H. Cazelles, La destinée du Serviteur ( Is 52,13-53,12 ) in AssSeign 21 (II serie), 6-14; &. Maggioni, Le troisième chant du Serviteur de Yahvé (Is 50) in AssSeign 19 (II serie), 28-37
20 A. Weiser, Giobbe, Brescia 1975; S. Terrien, Job, Neuchatel 1963; J. Leveque, Job et son Dieu, 2 voll., Parigi 1970; P. Fedrizzi. Giobbe, Torino 1972
21 G. Castellino, Il libro dei salmi, Torino 1955; H. J. Kraus, Die Psalmen, 2 voll., Neukirchen 1961; E. Beau camp-J. Relles, Israele guarda il suo Dio: i salmi, Milano, Edizioni Paoline 1966; G. Rinaldi, I canti di Adonay. introduzioni; storico religiosa ai salmi, Brescia 1973; G. Ravasi. I salmi, Milano 1975
22 B. Maggioni. Osservazioni sul Salmo 29 (28) in BibOr 1965, 245-251
23 B. Maggioni, Invito alla lode di Dio ( Sal 117 ) in Parole di Vita 12 (1967), 61-65
24 O. Loretz, Qohelet una der Alte Orient, Friburgo 1964; L. Di Ponsò, Ecclesiasle, Torino 1967; E. Glasser, Le procès du bonheur par Qohelet, Parigi 1970; P. Sacchi, Ecclesiaste, Roma, Edizioni Paoline 1976
25 M. Conti, Sapienza, Roma, Edizioni Paoline 19772; C. Larcher, Etudes sur le livre de la Sagesse, Parigi 1969
26 M. Delcor, Le Dieu des Apocalypticiens in La notion biblique de Dieu (nota 12), 211-228; W. Schmitais, L'apocalittica, Brescia, Queriniana 1976; D. S. Russel, Thè Method and Message of Jewish Apocalyptic, Londra 1971
27 G. von Rad, o. e. (nota 1), I, 407
28 E. L. Fackenheim, La presenta di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Brescia 1977, 36
29 Ivi, 25
30 R. De Vaux, in Con 1969/10, 35
31 E. L. Fackenheim, o. c. (nota 28), 13
32 Ivi, 24
33 N. Lohfink, Libertà e ripetizione. in o. c. (nota 2), 177-200
34 P. Grelot in Con 1968/10, 23
35 O. c. (nota 1), II, 386-387
36 G. von Rad, o. e. (nota 1), II, 386
37 R. De Vaux, a. e. (nota 30), 33
38 E. L. Fackenheim, o. e. (nota 28), 53ss
39 Tale tendenza sembra apparire in alcuni testi, per es. Es 14,14: ma sono testi che hanno un interesse teologico: si preoccupano di sottolineare la grazia, l'esperienza della gratuità
40 L. Cerfaux, Gesù alle origini della tradizione, Roma 1970; J. Guillet, Gesù di fronte alla sua vita e alla sua morte, Assisi 1972; J. Jeremias, Teologia del NT, Brescia 1972
41 M. Bastin, Jésus devant sa Passion, Parigi 1976; H. Schurmann, Commeni Jésus a-t-il vècu sa morti, Parigi 1977; X. Léon-Dufour, La mort rédemptrice du Christ selon le NT in Aa. Vv., Mort pour nos péchés, Bruxelles 1976, 28-44
42 J. Jeremias, Le parole, dell'ultima cena, Brescia 1973
43 A. Schuiz, Discepoli del Signore, Torino 1968; L. Di Finto, Seguire Gesù secondo i vangeli sinottici in Aa. Vv., Fondamenti biblici della teologia morale, Brescia 1973, 187-252
44 B. Maggioni, Gesù e il sabato in Parole di Vita 1977, 27-33. Più in generale sul rapporto Gesù e la legge cf M. Hubaut, Jésus et la Lai de Moise in Revue théologique de Loivain 1976 401-405
45 Ed. Schweizer, L'evangelo secondo Mc, Brescia 1971; B. Maggioni. Il racconto di Mc, Assisi 1975; P. Lamarche. Rerélulion ile Dieu chei Mare. Parigi 1976
46 B. Rigaux, Tcslimoman:.a del vangelo di Mt. Padova 1968; J. Schniewind. IL vangelo di Mt, Brescia 1977: L. Sabourin, Il vangelo di Mt, 2 voll. Brescia 1976-1977
47 B. Rigaux, Testimonianza del vangelo di Le, Padova 1972; H. Flender. Heil und Gèschichte in der Theologie des IMCOS, Monaco 1965; E. Rasco, La teologia de Lucas, Roma 1976; C. Ghidelli, Luca, Roma, Edizioni Paoline 1977; R Fabris, Atti degli Apostoli, Ruma 1977; J. Dupont, Srudi sugli Atti degli Apostoli, Roma, Edizioni Paoline1975'. - - Cf Haya G. Prats, L-Esprit farce de l'Egtise, Parigi 1975
48 Haya G. Prats, L'Esprit force de l'Eglise, Parigi 1975
49 Fra i molti studi su s. Paolo cf A. Wickenhauser, La mistica di s. Paolo, Brescia 1958; P. Vallalon. Le Christ et la Foi, Ginevra 1960; M. Bouttier, En Christ, Parigi 1962; L. Cerfaux, Il Cristo nella teologia di s. Paolo, Roma 1969; Id.. Il cristiano nella teologia di s. Paolo, Roma 1969; Id., L'itinerario spirituale di s. Paolo, Torino 1976; J. Murphy O' Connor, L'existence chrétienne selon si. Paul, Parigi 1974; O. Kuss, Paolo, Milano, Edizioni Paoline 1974; G. Bornkamm. Paolo apostolo di Gesù Cristo, Torino 1977; G. Eichholz, La teologia di Paolo, Brescia 1977
50 F. Montagnini, Aspetti della antropologia paolina in Aa. Vv., L'uomo nella bibbia e nelle culture ad essa contemporanee, Brescia 1975, 178
51 Ivi, 178
52 Ivi, 180
53 E. Kasemann, Essais exégétiques, Neuchàtel 1972, 214-226
54 Vedi F. Montagnini, Alle radici dell'ottimismo cristiano (Rm 8,19-27) in Aa. Vv., Chiesa per il mondo, 1, Bologna 1974, 175: « Il mondo nuovo, che si profila grazie alla vittoria conseguita in Cristo (8,1), è libero, ma è pur sempre in via di liberazione (cf v 2 col v 21); è in stato di redenzione, ma non senza problemi, giacché della redenzione è ancora in attesa (v 23); ha raggiunto la perfezione, ma questa forma ancora oggetto dell'ansia dello Spirito (v 27) »
55 B. Rinaldi, La presenza della croce nelle principali lettere di s. Paolo, Ed. Fonti Vive 1972
56 B. Maggioni, Il battesimo come inizio di storia di salvezza in Aa. Vv., Il battesimo. Teologia e pastorale, Torino 1970, 23-24
57 In part. N. Lazure, Les valeurs morales de la théologie johannique, Parigi 1965; D. Mollai, Dodici meditazioni sul vangelo IV Gv,Brescia 1966; Id., Jean, maltre spirituel, Parigi 1976; F. Mussner, II vangelo di Gv e il problema del Gesù storico. Brescia 1968; C. H. Dodd, L'interpretazione del quarto vangelo, Brescia 1974; G. Segalla, Giovanni, Roma, Edizioni Paoline 19772. Fra i commentari cf R. Bultmann, Das EvanKeliitm der Johannes, Gottinga 1964; R. E. Brown, Thè gospel accordine lo John, 2 vol, New York 1966-1970; R. Schnackenburg, Il vangelo di Gv, I e II, Brescia 1974 è 1977. - Noi ci siamo abbondantemente riferiti al nostro commento a Giovanni in I Vangeli, Assisi 1975, 1301-1713
58 Nel greco il nome Dio è preceduto dall'articolo, e questo nell'uso neotestamentario significa che si tratta del Padre. La preposizione greca pros non significa solo vicinanza e prossimità (presso), ma anche movimento, direzione e relazione (verso)
59 Gv 20; cf D. Mollai, La foi selon le chapìtre 20 de l'évangile de Jean in Aa. Vv., Resurrexit. Roma 1974, 316-332
60 In particolare I. De La Potterie, II Paraclito in La vita secondo lo Spirito, Roma 1971, 99-123
61 Gloria, I: La percezione della forma, Milano 1975, 316
62 L'esperienza cristiana si muove all'interno di una dialettica, nella quale si esprime la tensione fra il già e il non ancora, l'indicativo e l'imperativo. « Ciò che distingue lo stato del redento da chi non è in Cristo è proprio questa tensione. Essa rappresenta la inversione di tendenza, il fatto nuovo, rispetto a quando si era nella carne; è l'avvio della rottura del vecchio equilibrio » (F. Montagnini, Alle radici dell'ottimismo cristiano ( Rm 8,19-27 ) in Aa. Vv., Chiesa per il mondo. I, Bologna 1974, 175. L'esperienza cristiana si muove fra ottimismo e vigilanza