Gli stati di vita del cristiano

Indice

Lo stato di Cristo

B. Lo stato cristiano

Non siamo però penetrati ancora abbastanza a fondo nel mistero della divisione degli stati, che solo a partire da Gesù Cristo si lascia rischiarare.

Ogni prospettiva extracristiana, più o meno puramente sociologica, di avvicinamento alla questione vedrà sempre in quello che cristianamente appare come stato d'elezione una forma di fuga dal mondo, sotto pretesto di avvicinarsi, uscendo dal molteplice e relativo, all'uno e assoluto, per arrivare a stare presso di esso.

Una simile via che partendo dal mondo va verso Dio, tentata costantemente nelle più diverse maniere nelle religioni del mondo, può da una parte apparire profondamente fondata nella natura umana, e d'altra parte essa deve, come vedremo, abbandonare se stessa, condurre ad una negazione dell'analogia originaria Dio-creatura e distruggere l'uomo posto nella distanza da Dio.

Ma noi abbiamo superato nella nostra impostazione questa visuale sociologica naturale, quando abbiamo preso come nostro punto di partenza lo stato paradisiaco originario, presupponendo che Dio ha creato l'uomo nel giusto rapporto verso di sé ( nella « rectitudo » secondo Anselmo, « iustitia originalis » secondo tutti i Teologi ), e niente affatto in un rapporto che dovrebbe venir contrassegnato come alienazione, mancanza di relazioni, smarrimento nel mondo.

Simile alienazione può essere venuta a realizzarsi solo a motivo del peccato; per questo la dottrina dello stato originario che era « molto buona » è necessaria.

E con essa noi siamo, nella teoria sugli stati di vita cristiani, già sfuggiti alla critica della sociologia: lo stato d'elezione non si riferisce più al Dio che è senza il mondo, ma alla sintesi creata all'origine nell'uomo e nel mondo, dei quali essa vuoi essere formale disegno previo e che alla fine dei tempi sarà di nuovo riacquisita.

Ora è però importante notare che non potemmo stabilire la relazione dello stato d'elezione allo stato originario senza la questione circa Gesù Cristo e il suo stato, che allora dovette venir sollevata anche la questione del rapporto fra il suo stato e lo stato originario.

Essa fu però soltanto condotta avanti finché non diventò evidente questo: Cristo ristabilisce il collegamento fra la strada dell'amore « in alto » e la strada della rinuncia « in basso »; discendendo dall'alto egli è in grado, attraverso la « vita secondo i consigli » vissuta sino alla piena rinuncia sulla croce, di rendere anticipatamente la realtà frantumata in cui noi viviamo espressione della totalità integra dello stato originario e finale.

Ma con questo abbiamo già detto abbastanza?

A quanto pare abbiamo fatto compiere a Cristo una sintesi fra lo stato della natura integra e quello della natura corrotta; ma non viene Egli forse dall'alto in quanto dal Paradiso adamitico, vale a dire dal Padre?

E non mira egli con ciò anche ad una sintesi più alta di quella da noi descritta come paradisiaca?

Non allude forse la Scrittura nelle sue affermazioni finali su di lui a qualcosa di simile, quando ci dice che egli è « il primogenito di tutta la creazione, poiché in lui tutto fu fatto, ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra, ( … ) tutto fu fatto per mezzo di lui e in vista di lui » ( Col 1,15s ), dunque anche l'uomo adamitico e il suo stato paradisiaco, che addirittura viene esplicitamente relativizzato a Lui: « Il primo Adamo era un essere vivente, ma l'ultimo Adamo sarà uno spirito vivificante.

Ma non è lo spirituale che viene per primo, bensì ciò che è sensibile, e solo dopo viene lo spirituale.

Il primo uomo è tratto dalla terra, è polvere; il secondo uomo ha origine dal cielo » ( 1 Cor 15,45-47 ).

Dobbiamo quindi oltrepassare una concezione che vede lo status di Cristo semplicemente come superamento della differenza fra stato originario e stato decaduto, e riferire piuttosto al Suo status ultimamente anche lo stato originario.

Così lo stato cristiano d'elezione, che è in ogni caso un collocarsi nello stato di Cristo, viene ancora una volta del tutto nuovamente determinato, e a partire da esso ogni stato cristiano.

Determinato radicalmente, lo status di Cristo è uno stare « presso » il Padre, come sua Parola originaria che crea e tutto sostiene ( Gv 1,1; Eb 1,3 ); perciò nessun movimento e missione può eliminare questo suo stare presso il Padre.

Ma se egli è Verbo di Dio attraverso il quale tutto fu fatto, allora egli stesso è ( come dicevano i Padri ) la idea originaria ( Uridee ) di tutto quanto è stato creato, e allora egli, venendo nel mondo, viene ultimamente nella « sua proprietà » ( Gv 1,11 ), anche se il mondo alienatesi nel peccato non lo riceve e si rende estraneo a Lui.

Ma il mondo, che lo sappia o no, che lo voglia o no, ha in Lui il suo centro, il suo punto di partenza e punto di arrivo; in Lui il mondo è nella maniera più alta presso se stesso.

Queste affermazioni esigile a partire dalla Scrittura vengono salvaguardate dai dogmi della Chiesa antica contro l'arianesimo e il monofisismo.

Se Cristo è il Verbo di Dio che crea e porta a compimento il mondo redimendolo, allora non può essere inferiore a Dio, non può operare la sintesi tra Dio e il mondo a partire da un punto che non è né divino né creaturale.

E nemmeno egli può perciò attirare la creatura, che egli venne a salvare, fuori dalla sua reale creaturalità per porla in un immaginario mondo intermedio, ma deve invece trasferirla nel suo giusto stato davanti a Dio e in Dio, stato che ultimamente è reso possibile ed è determinato dal suo proprio stato, quello di Figlio di Dio.

È così che viene descritto lo stato cristiano! Esso è uno « stare nella fede » ( 1 Cor 16,13 ), uno « stare nella grazia » ( Rm 5,2 ) e perciò anche uno « stare nella perfezione » ( Ef 6,13 ).

È uno stare che viene reso possibile da una decisione e una disposizione del Signore: « Poiché dove sono io, là sarà anche il mio servo » ( Gv 12,26 ).

Cristo è il luogo in cui sta il cristiano.

Egli determina lo « stare » del cristiano non dall'esterno come un luogo geografico; Egli è una realtà personale, divino-umana, e « stare in Cristo » significa, stare in questa realtà in modo tale che si viene da essa determinati e plasmati fino a formare ciò che è secondo la sua essenza.

In Lui in quanto Verbo di Dio è infatti l'idea del cristiano.

Così abbiamo in primo luogo da riflettere più dettagliatamente su quanto abbiamo detto concisamente circa lo status di Cristo.

Il « dove » del Figlio è il Padre.

« Non credi che io sono nel Padre, e il Padre è in me? » ( Gv 14,10 ).

Questo essere nel Padre viene affermato anche per il tempo che il Figlio trascorre sulla terra e durante il quale egli adempie all'incarico del Padre nei confronti del mondo.

L'incarico, la missione, esigono un uscire dal Padre e un ritorno a lui: « Io sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo.

Ora io lascio il mondo e vado al Padre » ( Gv 16,28 ).

L'una e l'altra affermazione è vera e deve stare accanto all'altra non sminuita: « Io sono nel Padre » e: « Io sono uscito dal Padre ».

Il suo uscir fuori non è solo apparente, quasi che egli sia rimasto in verità immutabilmente nel Padre.

E il suo rimanere non è un rimanere attenuato, all'incirca come un ricordo da lontano, come se egli si trovasse in verità nel mondo.

Egli è invece nel Padre ed è allo stesso tempo uscito dal Padre.

Questa inafferrabilità del suo « dove », del suo stato, è fondata nella sua stessa essenza divina.

Egli infatti è colui che « è Dio » per il fatto che è « presso Dio » ( Gv 1,1 ), è « l'irraggiamento della sua gloria e l'espressione della sua essenza » ( Eb 1,3 ).

Il suo eterno essere e rimanere nel Padre e presso il Padre ha la forma dell'ipostatica distinzione dal Padre, dell'uscire ( processio ) da lui e del ritorno a lui.

Egli è secondo la sua divinità la missione ( missio ) del Padre; la sua persona sussiste nella rivelazione del Padre.

La sua persona è dunque l'espressione dell'essenza di un'altra persona; il suo conoscere, il suo amare, il suo operare sono nel loro fondo più intimo a servizio di questa rivelazione.

Egli non è una persona « autonoma », che in un secondo momento ha assunto il ruolo di trasmettere al mondo, a servizio del Padre, il suo messaggio.

Egli è persona in Dio solo in quanto è « servizio » al Padre.

Un « servizio » che coincide perfettamente con l'amore, giacché il Padre lo ha generato per amore e il Figlio vede in questo la sua essenza: nel ridare al Padre questo amore nella stessa infinita perfezione con cui egli lo ha ricevuto e si è ricevuto da lui.

Il Figlio è dunque la prima missione intradivina, ed esprime in se stesso essenza e volontà del Padre.

Egli non potrebbe possedere il Padre più perfettamente in sé che lasciandosi da lui inviare.

Non potrebbe in maniera più perfetta essere presso il Padre, che uscendo dal Padre per far ritorno a lui nell'amore.

E se ora il Padre lo invia nel mondo, in questa uscita da Dio egli rivela contemporaneamente il Padre e se stesso.

Egli si allontana cioè dal Padre nella misura in cui il mondo non è il Padre, e rimane tuttavia altrettanto veramente nel Padre, poiché egli ha in sé la missione del Padre, anzi è questa missione.

Il Padre non ha perciò affatto bisogno di compiere il movimento del Figlio insieme con lui, per accompagnarlo; egli è nel Figlio, poiché il Figlio anche nel mondo rimane il perfetto « irraggiamento della sua gloria ed espressione della sua essenza ».

Quando egli esprime il compito che il Padre gli ha dato, parla lui come inviato del Padre, ma parla in ugual maniera anche il Padre in lui, poiché egli è la stessa Parola del Padre.

« Io non sono solo; il Padre che mi ha mandato è con me.

Non sono solo io a testimoniare per me; il Padre che mi ha mandato, anche lui testimonia per me » ( Gv 8,16-18 ).

Questa unità delle deposizioni non risulta dal fatto che l'opinione del Padre e quella del Figlio accidentalmente coincidono.

Essa ha origine piuttosto dal fatto che il Figlio sin da principio è la deposizione ( Aussage ) del Padre, che egli impiega tutto il suo essere ( memoria, intelletto e volontà ) per nient'altro che per esprimere il volere del Padre.

« Il Figlio non può far niente da se stesso. Egli può far solo quello che vede fare dal Padre.

Ciò che questi compie, lo compie ugualmente anche il Figlio ».

E per escludere che questo non poter fare sia per il Figlio un limite o comporti per lui una costrizione, soggiunge: « Il Padre infatti ama il Figlio, e gli mostra tutto ciò che egli fa » ( Gv 5,19-20 ).

La perfetta e totale dedizione alla glorificazione del Padre, la quale è la radice dell'essenza del Figlio, sboccia nell'intera pienezza divina: « Il Padre ha messo tutto il giudizio nelle mani del Figlio, affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre » ( Gv 5,22-23 ), ma in modo tale che la radice non viene mai abbandonata e dimenticata: « Il mio giudizio è giusto, poiché io non seguo la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 5,30 ).

A questo Figlio il Padre guarda con infinita compiacenza, poiché egli vede ritornare a sé filialmente il suo amore paterno in tutta la sua perfezione.

Tre volte durante l'esistenza terrena del Figlio il Padre lascia udire la sua voce per testimoniare il suo amore per il Figlio:

al momento del Battesimo come vocazione e missione: « Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto » ( Mt 3,17 ),

sul Tabor al momento della Trasfigurazione che costituiva una conferma: « Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo! » ( Mt 17,5 ),

e prima della Passione come consenso alla sofferenza redentrice: « L'ho glorificato e ancora lo glorificherò » ( Gv 12,28 ).

Il Padre si vede così perfettamente rappresentato nel Figlio, che per condurre gli uomini a sé egli ha bisogno soltanto di rinviare al Figlio, anzi si sa perfettamente glorificato nella stessa decisione del Figlio di affrontare la Passione.

Così il mistero del compito del Figlio nel mondo è un mistero trinitario, e l'uscita dal Padre, che condurrà fino all'abbandono ( Verlassenheit ) del Figlio, non può cader fuori da questo mistero.

Il « dove » del Figlio, che fissa il suo status, è quindi, che egli si trovi nel seno del Padre o sulle vie del mondo, sempre chiaro: è la missione, il compito, la volontà del Padre.

Qui lo si può trovare ad ogni tempo, giacché egli è la stessa quintessenza della missione paterna.

In quanto sussistente missione del Padre egli è, detto umanamente, la persona predestinata in Dio dall'eternità ad adempiere il compito di riconciliare il mondo con Dio.

Così come egli venendo nel mondo non si allontana da se stesso, altrettanto non si allontana perciò dal Padre.

Distanza e vicinanza sono per lui da sempre conosciute come un'unità: la distanza dal Padre che « è più grande di me » ( Gv 14,28 ), perché egli è l'eterna origine e l'eterno fine, questa distanza che fa del Figlio l'eterno adoratore del Padre nella lode, nella deferenza e nel servizio, è sin dall'eternità colmata ( Uberbriickt ) nella più alta vicinanza, nel richiudersi dell'amore nello Spirito Santo: « Io e il Padre siamo una cosa sola » ( Gv 10,30 ), nella coessenzialità ( Gleichwesenthchkeit ) della sostanza.

Lo « svuotamento » ( Fil 2,7 ) che il Figlio accetta su di sé venendo nel mondo ( il quale certo non è Dio, e quindi esige necessariamente da lui una nuova situazionalità ( Zustàndiichkeit ) in mezzo alle creature ), questo svuotamento non è tuttavia per lui semplicemente una cosa che gli è estranea: esso viene reso possibile e come prefigurato nell'eterno rinnegamento di sé del Figlio nei confronti del Padre, autorinnegamento in cui egli non vuol essere altro che l'adorante immagine speculare della sua Origine.

La potenzialità, sulla cui pista egli con l'Incarnazione si mette sino al totale annientamento nella obbedienza della Croce, è fondata nella assoluta attualità dell'eterno amore trinitario.

Non c'è nessuna uscita che non sia presa e superata dall'eterna uscita del Figlio dal Padre, e nessun ritorno che non si debba compiere all'interno dell'eterno ritorno del Figlio al Padre.

Così il movimento di uscita nel mondo e di ritorno dal mondo a Dio non rappresenta alcuna interruzione dell'eterna uscita e dell'eterno ritorno del Figlio dal Padre verso il Padre.

Il mistero dell'ordine della salvezza ( oikonomìa ) ha come base portante, anzi come perno ultimo del suo svolgimento il mistero della vita trinitaria ( theologia ).

Che il Figlio nel mondo venga attratto dal Padre divino sino a far trasparire la sua divinità sul Tabor, o che venga consegnato dal Padre nell'estrema distanza dell'abbandono e della perdizione, sempre la loro unità è in egual maniera perfetta, lo stato del Figlio è immutato, vicinanza e distanza di Padre e Figlio nello Spirito Santo sono le stesse.

Così grande è l'intima ricchezza dell'eterna vita trinitaria, che ogni situazione della vita terrena di Cristo ( l'esultante gioia dell'unità col Padre come pure l'angoscia del trovarsi abbandonato da lui ) è soltanto una rappresentazione all'esterno delle possibilità interne del loro eterno amore.

Così come tutte le parole che Cristo pronuncia sulla terra sono solo sfaccettature e aspetti dell'unica eterna Parola che egli è, altrettanto tutte le posizioni che egli occupa nel corso della sua vita, morte e risurrezione sono solo forme di apparizione del suo unico, eterno stato nel Padre.

Ed anche se la sua vita nel mondo è un incessante movimento, di cui il dove e il verso dove non sarà mai per il mondo afferrabile, poiché esso sembra dissolvere tutto ciò che è statico nella dinamica del suo venire dal Padre e andare al Padre, l'inarrestabile procedere della sua via è tuttavia prodotto e guidato da un unico punto: il suo stare presso il Padre.

Questo stato è, proprio perché è infinito e perciò immutabile, eterna e mai conclusa vita e pienezza di tutte le possibilità.

Il Figlio sta così sicuro in Dio, da potersi permettere per così dire ogni movimento verso l'esterno.

Ogni lontananza dal punto centrale sta solo a mostrare quanto egli stia irremovibilmente in questo punto centrale.

L'identità che persiste anche nelle violente oscillazioni pendolari della sua via attraverso il mondo è l'identità della sua uscita e del suo ritorno al Padre, dunque l'identità della sua missione, che egli non solo ha, ma che egli è in quanto Verbo del Padre.

La dimensione eccentrica della posizione del Figlio nel mondo non pone in questione quella concentrica della sua posizione nel Padre.

Nel cuore del Padre si compie la missione eterna, ma anche quella nel tempo.

« Al centro del trono », che è il trono del Padre, « sta l'agnello come sgozzato » ( Ap 5,6 ); il Signore stesso testimonia anche proprio per quanto riguarda la sua vita nel tempo questa concentricità del suo stare nel Padre: « Non credi tu che io sono nel Padre, e che il Padre è in me? ( … )

Credetemi, io sono nel Padre, e il Padre è in me » ( Gv 14,10-11 ).

Ma il mutamento della posizione del Figlio incarnato nei confronti del Padre diventa però comprensibile solamente attraverso la nuova collocazione dello Spirito Santo nell'ordine dell'Incarnazione ( oikonomia ).

In questa lo Spirito mandato dal Padre è attivo: egli porta il Figlio - che si lascia incarnare - nel seno della Vergine.

Egli viene durante il Battesimo mandato sul Figlio come la missione che permane in lui e sopra di lui, alla quale egli guarda come ad una regola oggettiva per obbedire al Padre in ogni tempo.

Lo Spirito riposa in pienezza sul Figlio ( Gv 3,34 ); nello Spirito egli opera ( Mt 12,28 ), ma prima che egli non lo riesali verso il Padre sulla croce ( Gv 19,30 ) lo Spirito non se ne va da lui ( Gv 7,39 ).

Certo Cristo obbedisce allo Spirito in quanto portatore del volere del Padre non come ad uno Spirito straniero, esterno a lui ( altrettanto poco quanto farà un religioso se obbedisce alla sua regola ), ma egli si colloca nel suo abbassamento là dove egli in Dio stesso riceve dal Padre la possibilità di spirare lo Spirito insieme col Padre, e con ciò anche là dove stanno gli uomini creati, i quali ottengono lo Spirito di Dio ( per con-spirarlo ) non altrimenti che obbedendo a lui in quanto Spirito della missione.

Questa « inversione » della seconda e terza persona divina che ha luogo con l'Incarnazione spiega come il Figlio possa diventare obbediente al Padre fino alla morte in croce senza mutare il suo essere personale, è come egli sia in tal modo divenuto archetipo ( Urbild ) di ogni obbedienza creaturale, non servile ma filiale.

L'obbedienza della Passione è resa possibile solo dal fatto che il Padre oggettiva a tal punto il suo volere nello Spirito Santo, che egli in quanto persona può scomparire dietro questa oggettivazione.

Lo Spirito garantisce la completa identità del rapporto Padre-Figlio anche per il tempo di questo oscuramento personale o apparente assenza.

Così la non solo creaturale, bensì colpevole, eccentricità del mondo, per cui viene espiato sulla croce, può venir inclusa nella immutata ( anche durante l'abbandono divino del Figlio ) intimità trinitaria, e lo Spirito, quando l'obbedienza del Figlio alla missione è penetrata sino al termine estremo, può venir alitato sulla Chiesa e sul mondo, poiché oramai il Figlio, in quanto « innalzato a Signore » ( At 2,36 ), dal Padre e insieme col Padre lo può inviare ( Gv 14,26; Gv 15,26 ), riversare ( Rm 5,5 ), alitare ( Gv 20,22 ).

Tutta l'eccentricità del mondo creato nel suo rapporto verso Dio è possibile ultimamente solo perché questa eccentricità è situata all'interno delle parentesi del Verbo di Dio incarnato e della sua concentricità nei riguardi del Padre.

Attraverso la Rivelazione noi non sappiamo di nessun altro piano di Dio sul mondo all'infuori di quello nel quale egli dall'eternità, « da prima della fondazione del mondo », « ci ha scelti in Gesù Cristo per essere suoi figli », e cioè in quel Gesù Cristo nel quale noi riceviamo « la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati » e nel quale « tutto nel cielo e sulla terra deve venir ricapitolato » ( Ef 1,3-10 ).

Il cosmo e gli uomini in esso non hanno nessuna storia chiusa in sé, nessun senso ultimo tranne che grazie a questa esauriente missione a partire dalla quale poi anche gli eletti nel Figlio ottengono la loro missione e così il senso della loro esistenza o la loro « idea ».

Certo « in principio tutto fu fatto nel Verbo, e senza di lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto: in Lui era la vita, e la vita era la luce del mondo » ( Gv 1,3-4 ).

Ma questa affermazione è solo in cammino verso ciò che segue, poiché la luce viene nelle tenebre, là illumina ogni uomo e infine si fa persino carne, per portare a tutti la pienezza della grazia e della verità.

Solo questo passo è la storia originaria, il punto d'incrocio che raccoglie in sé tutti i fenomeni del mondo e del suo sviluppo storico.

Così infatti il Figlio di Dio sta nella stessa nostra distanza creaturale, nella distanza del « servo di Dio », sul quale ora si può caricare anche tutta l'estraneità del peccato, senza che il suo status cambi.

Egli non ha schivato l'anonimità, nella quale è invece sprofondato come uno degli innumerevoli possessori della natura umana, ha guardato al Padre con occhi di uomo e gli ha parlato con bocca d'uomo.

Egli non si sottrae all'analogia tra Dio e creatura.

Egli non vuole esser separato dai suoi fratelli da alcuna parete di vetro, ma « diventare simile a noi in tutto fuorché nel peccato » ( Eb 4,15 ) e fare « l'esperienza dell'obbedienza » ( Eb 5,8 ), anzi l'esperienza, che tutto abbraccia senza lasciar fuori nulla, del « venir reso peccato » ( 2 Cor 5,21 ), del portare la « maledizione » di tutti ( Gal 3,13 ).

Ma in tutto ciò egli è la realizzazione in persona dell'idea del mondo ( Weltidee ) onnicomprensiva, qui racchiusa in unità, che il Dio uno e trino aveva in principio.

Egli è questa Idea non in un qualche luogo al di là del mondo reale e della sua storia, ma proprio entrando in questo mondo e nella sua storia e ricapitolandola dall'interno « in sé come capo » ( Ef 1,10 ).

Misurando in sé l'analogia del mondo a Dio, ma senza contrapporre la sua posizione nel mondo alla sua posizione nel Padre come qualcosa d'altro, egli diviene misura per tutte le creature analoghe, diviene concreta analogia dell'essere.

In base a lui deve orientarsi chi vuole stare nella giusta distanza e nella giusta vicinanza nei confronti di Dio.

Infatti « egli è al principio di tutto, e tutto ha in lui consistenza » ( Col 1,16-17 ); egli è l'Alfa e l'Omega ( Ap 1,17; Ap 2,8 ), misura della creazione sin dentro i suoi ordinamenti più mondani.

Questo è così vero che l'obiezione che egli è entrato nel mondo solamente alla fine dei tempi è priva di valore, giacché il processo mondano non avrebbe nemmeno avuto il varo se non fosse stato previsto questo momento nella pienezza del tempo.

E inoltre ancora una volta: questo diventar reale dell'idea del mondo nell'Incarnazione è divenuto realizzabile solo perché la sua idea giaceva all'interno delle libere possibilità dell'eterna realtà della vita trinitaria.

Per questo il passaggio dal Padre al mondo nella storia e dal mondo al Padre, questo passaggio che supera ogni distanza, è l'asse fisso attorno a cui gira tutta la storia del mondo.

Anche lo stato originario non costituisce eccezione alcuna a ciò.

Nel piano di Dio sul mondo non è un assoluto, ma un inizio e un transito.

In esso non sono percorse tutte le dimensioni; la tentazione, che da Gesù viene inserita nel suo unico e onnicomprensivo stato, costituisce il suo confine.

Così esso mantiene, all'interno della perfetta identità di idealità e realtà in Cristo, una idealità unilaterale ( e una corrispondente irrealtà ).

Da ciò consegue per la creazione che non c'è per essa alcuna altra relazione ultima a Dio che in Cristo Signore.

Consegue ancor più concretamente per l'uomo che egli non ha bisogno di cercare per primo il vero rapporto tra creazione e Dio, tra ordinamenti naturali e grazia soprannaturale, che l'unità di misura e il « dosaggio » tra le due sfere gli è sottratto, poiché l'unità è concretamente prodotta in Cristo ed è già data, come il dono più grande.

È impossibile che un uomo possa collocarsi al centro fra il mondo naturale e Cristo, per ripartire giustamente i pesi sotto di essi.

Come Cristo non trasporta il suo stato al di fuori del Padre, per mediare tra Dio e mondo, in un immaginario ( praticamente ariano ) punto centrale che mantenga eguale distanza da ambedue o che stia da entrambe le parti in modo tale che egli trovi un giusto equilibrio fra di esse come fra due partner equiparati, così pure il cristiano non può mettersi fra Cristo e il mondo, o fra la Chiesa come Corpo di Cristo e gli ordinamenti naturali, per guadagnare a partire da questa immaginaria, inacquisibile posizione un'unità di misura per le vere relazioni fra i due.

Come Cristo è una persona divina con una natura divina e una natura umana e a partire dall'unità della sua persona ristabilisce per l'intera creazione la vera relazione tra Dio e uomo, corrispondentemente il cristiano non potrà andare ad abitare in nessun altro luogo all'infuori di quello in cui lo colloca la fede in Cristo, e solo a partire da esso egli può valutare le relazioni grazia e natura, fede e ragione.

Come dunque il Figlio non conosce alcuna neutralità fra Dio e mondo, ma percorre la sua via verso il mondo e nel mondo in base alla sua eterna decisione per Dio, così non c'è per il cristiano alcuna possibile neutralità fra Cristo e il mondo.

Infatti « Io sono la via, la verità e la vita » ( Gv 14,6 ), e su questa via, che sola conduce alla verità e alla vita, può trovarsi solamente chi si decide per essa.

« Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde » ( Mt 12,30 ).

Togliendo al Signore ogni possibilità di una doppia collocazione, una in Dio, l'altra nel mondo, per unificare tutte le possibili collocazioni nel suo status onnicomprensivo, egli diventa non solo il Signore di tutti gli stati, ma anche, cosa che è assai più paradossale, il fondatore della divisione degli stati.

Per poterli in maniera cristiana dividere, egli stesso deve stare al di sopra di entrambi, in una unità di status alla quale entrambi possano aver parte.

Altrimenti essi non sarebbero stati cristiani.

Ma perché questa dualità non cada fuori dalla sua unità, non basta intenderla come una unità trascendente nei confronti di ambedue; essa deve anche venir dimostrata espressamente come immanente ad ognuna delle due forme di stato di vita.

Anzi, deve proprio venir resa visibile in maniera cristiana anche l'origine della dualità nella e dalla unità.

L'unica via di Cristo dal Padre al Padre passando attraverso il mondo deve esser fatta in modo tale che egli possa divenire origine di entrambe le possibilità dello stare, senza venir egli stesso scisso in un doppio stato.

Il Signore rappresenta lo stato mondano ( Weltsfand ) nella sua via attraverso il mondo con i primi trent'anni della sua vita.

Durante questo tempo egli è membro di una famiglia umana, generato ed educato come ogni uomo e soprattutto sottomesso ai suoi genitori in quel legame che contraddistingue lo stato mondano.

Lo stato di Gesù durante questo tempo non è lo stato mondano stesso, ma il modello dello stato mondano.

Infatti né egli è costretto per natura a questo stato come gli altri uomini, ma si è volontariamente posto in questo legame, né è nato da un matrimonio naturale, né si sottopone al legame del matrimonio che contraddistingue lo stato mondano.

Il suo stare nel mondo è come la velatura del suo perdurante stare nel Padre, senza che si possa dire che il suo stare nel mondo sia per questo in realtà uno stato d'elezione.

Questo viene infatti fondato solo con lo scioglimento dei naturali legami con la famiglia, che pure contraddistinguono proprio il suo primo periodo.

Questo rimane dunque l'autentico e non solo apparente modello dello stato mondano, poiché il Figlio, come bambino, adolescente e uomo all'interno di una cornice veramente umana e in vera obbedienza rispetto alle leggi della famiglia naturale e della società, vive la possibilità di stare nel Padre e nella di Lui volontà e missione.

Quando egli più tardi, all'inizio della sua missione pubblica, lascia questo ambito, si reca in una nuova forma di vita, fonda insieme ai suoi discepoli una nuova comunità, allora egli non continua semplicemente in questo secondo periodo della sua vita ciò che ha cominciato nel primo, ma sottolinea con tutta forza il salto che sta frammezzo, e pone ancor più chiaramente in luce con la diversità ( Andersartigkeit ) del secondo lo stare a sé ( Eigenstàndigkeit ) del primo stato.

Questo confronto avviene laddove egli rinnega la sua parentela terrena verso madre e fratelli, per riconoscere oramai soltanto la parentela soprannaturale con coloro che fanno la volontà del Padre, in prima linea i suoi discepoli ( Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21 ).

Questa opposizione attua come una dimostrazione, a mo' di insegnamento scolastico, dell'unità del suo stato che lo conduce attraverso entrambi gli stati.

Come egli adempie la volontà del Padre suo nascendo all'interno del primo stato ( Gal 4,4 ), così egli la adempie adesso nel secondo stato, che si contrappone al primo, sciogliendosi dal primo legame in favore del secondo.

L'identità sta nel medesimo adempiere la volontà del Padre, in cui il cambiamento dell'obbedienza ha l'aspetto di un'emancipazione dal legame mondano.

Il Figlio, per evidenziare la ripidezza dell'abisso che separa i due stati, utilizza addirittura sua madre, la quale, nel momento in cui insieme coi suoi fratelli lo cerca, deve rappresentare lo stato mondano, mentre egli stesso vive già nello stato d'elezione.

Questa utilizzazione di sua madre per chiarire l'altra cosa che sta di fronte non indica per questo ( come a torto volevano da ciò dedurre alcuni Padri della Chiesa ) una imperfezione della Madre, poiché il Figlio stesso aveva anzi vissuto fino a poco tempo prima in quello stato.

Egli lascia semplicemente sopravvenire un differimento di fasi tra il suo transito e il transito della madre dal primo al secondo stato, onde chiarire nel punto di rottura l'articolazione tra i due stati.

La nuova comunità non è ostile alla prima, poiché anche se il Signore a Cana accenna dapprima alla distanza che adesso lo separa dallo stato di sua madre ( Gv 2,4 ), egli la prende tuttavia proprio qui alla festa con sé, adempie il suo desiderio e accenna in anticipo al punto di convergenza della Croce che sta davanti a loro, dove lo stato di loro due di nuovo coinciderà ( Gv 2,4 ).

La nuova comunità, che si staglia così chiaramente nei confronti della precedente, non significa per questo per il Figlio nessuna frattura con la sua prima fase di vita, giacché egli già nel bel mezzo del suo stato mondano aveva innalzato il segno del dodicenne, che appare come un « trait d'union » fra le due vite ( nella misura in cui anticipa l'uscita dal « mondo » nella sfera del Padre ), intimamente però mostra l'unità dello stato del Figlio nella invariabile volontà del Padre.

Solo perché il Padre lo lega all'ordine mondano egli è obbediente ai genitori nella prima fase di vita, e solo perché il Padre lo chiama ad uscir fuori del mondo egli si scioglie da quell'ordine per fondare il nuovo ordine soprannaturale.

Diventa chiaro con questo che lo stato mondano non significa affatto un cedimento alle leggi di questo mondo ( Gal 4,3s ), ma un lasciarsi legare per obbedienza nei confronti del Padre.

Per quanto l'uomo naturale possa di fatto esser naturalmente legato alle cose di questo mondo, il cristiano, che nel Battesimo in Cristo « è sepolto con lui nella sua morte e cammina in novità di vita » ( Rm 6,4 ), è anche nello stato mondano liberato dalla schiavitù degli elementi del mondo ( Gal 4,3 ) e sta di fronte alle cose di questo mondo in una tale distanza di libertà, che egli « non è debitore alla carne, per vivere secondo la carne » ( Rm 8,12 ).

Egli è « chiamato alla libertà » ( Gal 5,13 ), « non più servo, ma figlio » ( Gal 4,7 ), legato unicamente dalla legge dell'amore, in cui tutte le leggi del mondo, nella misura in cui esse originano da Dio, sono adempiute ( Gal 5,14 ).

Ma in questa libertà dal mondo, che sulla base dell'unico stato di Cristo è propria ad ogni cristiano, diviene ora però di nuovo chiaro che lo stato mondano riceve la sua ultima idea e sostanza dallo stare nell'elezione.

Nella dolorosa scena del rifiuto dei familiari il Signore rende chiaro che la libertà cristiana all'interno degli ordinamenti di questo mondo non significa ancora la libertà ultima possibile nella volontà di Dio, che al di là di ciò c'è il lacerante passo del seguire il Padre anche laddove questi ama sciogliere e se necessario far saltare con violenza i legami terreni.

Mentre la libertà del cristiano all'interno del mondo permetteva una certa possibilità di dominio, in quanto il redento dai nocivi legami del peccato trovava nell'ordine mondano il materiale e l'occasione per condurre e rappresentare una vita cristiana, e otteneva da Dio il permesso grazioso di far sì che il dono della figliolanza si ripercuotesse in tutti gli ambiti dello spazio mondano, così c'è al di là di ciò, in base all'insondabile decreto del Padre, la possibilità di sciogliere colui che vuoi essere obbediente sino all'ultimo da questi ambiti mondani, per rapirlo in un invisibile « al di fuori ».

Questo « al di fuori » venne descritto già precedentemente come lo stare nella pura missione del Padre, ma anche come croce, cioè come rinuncia a tutto quanto è proprio nella pura privazione ad opera del Padre.

Qui ora, dove gli stati vengono considerati nella loro nascita dall'unico stato di Cristo, diventa più chiaro che lo stato d'elezione significa certo la radicalizzazione dello stato mondano, ma non soprattutto perché l'uomo cerchi a partire da sé una via migliore, più perfetta, o impieghi mezzi migliori per giungere alla méta dell'amore, ma primariamente perché l'insondabile disposizione del Padre può plasmare lo stare nella sua volontà in modo tale che esso diviene uno svuotamento e una privazione di tutto ciò che non è questa volontà stessa.

Infatti il Figlio percorre questa via fuori dal mondo « mosso dallo Spirito » ( Lc 4,1 ), cioè nell'obbedienza nei confronti del Padre.

È il Padre che per così dire lo attira a sé fuori dal mondo, dal mondo non solo della sua famiglia, della sua stirpe e della sua città paterna ( Mc 6,4 ), ma dal mondo della sua natura umana e delle sue leggi, dal mondo della sua memoria, del suo intelletto e volontà, poiché egli nella notte redentrice della Passione sottrae al Figlio anche tutte queste intime ricchezze naturali, che il Figlio spontaneamente offre a lui.

Egli può disporre a piacimento anche delle energie intime del Figlio, gli può sottrarre « il sapere circa quell'ora » ( Mc 13,32 ), privarlo della certezza circa la sua vicinanza paterna e la sua esistenza ( Mt 27,46 ), negargli la volontà propria umana per lasciarlo andare a fondo totalmente in quella divina ( Lc 22,42 ).

Legame nella sola disposizione divina, cosa che costituisce il nucleo dell'elezione, significa dunque, visto dallo status del Figlio, una tale offerta a Dio di tutto ciò che è proprio e naturale, che Questi può disporre per la sua attività di tutto l'insieme della natura come di qualcosa che è stato consegnato a lui.

Per subire la croce ( e ultimamente era per questo che il Figlio era apparso sulla terra ) egli doveva quindi dapprima entrare nello stato d'elezione: la Croce è solo il culmine e la conseguenza ultima del voto totale, in quanto il Padre qui accetta realmente ciò che viene offerto e lo assume in sé.

Nella croce la piena estasi del Figlio nel Padre è compiuta, poiché tutto quello che di fronte al Padre sembrava avere una ( seppur così legittima ) autosufficienza ( Selbstàndigkeit ) è interamente consegnato, affinché nel puro patire possa compiersi in purezza l'atto della volontà paterna.

Che un simile star fuori sé ( Heraus-Stehen ) della natura nella pura volontà del Padre sia possibile non poteva affatto venir supposto a partire dal mondo.

Non giaceva nell'orizzonte dell'analogia dell'essere.

Infatti la realizzazione di questo stato non dipende dal tentativo o dall'offerta di colui che desidera legarsi, ma unicamente di Colui che dona il legame e lo accetta, in un atto che sta al di là di ogni aspettativa.

A partire dal gesto dell'offrire il sacrificio di per sé non è possibile desumere se colui al quale il sacrificio viene presentato lo prenderà davvero in proprio possesso e a proprio uso.

Così l'essenza più intima dello stato d'elezione, così come esso viene fondato dallo stato di Cristo sulla croce, rimane una possibilità che non può essere scorta e calcolata a partire dal mondo, anzi nemmeno a partire dallo stato cristiano di vita nel mondo.

La sola radicalizzazione dello stato mondano non basta per suscitare la forma dello stato d'elezione; c'è bisogno per questo di un atto qualitativamente nuovo di Dio, che in una estatica trascendenza su tutte le possibilità interne al mondo fondi con la sua accettazione del sacrificio sulla croce del Figlio un nuovo spazio d'esistenza ( Standort ).

Certamente in questo stato estremo di offerta di sé nel servizio « sino alla fine » ( Gv 13,1 ) il Figlio mostra solamente dove egli è dall'eternità sempre stato: nel centro del volere del Padre. Se egli a dimostrazione di questo stato si lascia con inimmaginabile violenza strappar via e spogliare di tutte le sue energie naturali e umane, anche questo atto estremo non ha tuttavia cambiato il suo stato, poiché egli anche in quanto Dio stava da sempre presso il Padre del tutto al di fuori di sé.

Dopo che egli nel mondo aveva fornito dapprima la prova positiva che « suo cibo è fare la volontà del Padre » ( Gv 4,34 ) e che egli « vive per il Padre » ( Gv 6,57 ), apporta ora la prova negativa col fatto che, una volta sottrattogli questo cibo, muore.

Ma anche questa morte che il Padre dispone e che il Figlio volontariamente offre per il mondo e lascia accadere, si converte nella prova più positiva di tutte del suo stare nel Padre, poiché ora egli rimette il suo Spirito nelle mani del Padre.

Adempiendo in tal modo il piano del Dio trino sul mondo, egli non va ( alla maniera di una fuga dal mondo ) fuori dal mondo per andare incontro a Dio, ma va invece sino al fondo del mondo, o meglio: si rivela egli stesso come il fondo più intimo del mondo.

Perciò lo stato d'elezione, che riceve in consegna come sua forma la croce, può venir designato come lo stato mondano più profondo e più intimo, come status nella ideal-reale realtà fondamentale del mondo.

Le persone che vivono nello stato dei consigli lo sanno, o dovrebbero saperlo.

Stato mondano e stato d'elezione sono in tal modo fondati dall'unico stato di Cristo.

In ambedue egli esegue l'unica volontà del Padre; ma in maniera che nel primo stato egli la segue sottomettendosi ai legami naturali, nel secondo ai legami soprannaturali giustificabili solamente a partire dall'evento della redenzione.

Il suo primo stato rimane internamente uno stare soltanto nella volontà del Padre, ma in modo tale che questo stato interiore rimane all'esterno velato: « Non è egli forse il carpentiere, il figlio di Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone?

E non abitano forse tra noi le sue sorelle? » ( Mc 6,3 ).

Questo velamento fa parte dell'essenza dello stato mondano, poiché gli stessi ordinamenti mondani sono i velami in cui la realtà della vita cristiana si nasconde: « Voi infatti siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » ( Col 3,3 ).

Il velamento viene preso dal mondo come cosa normale, cosicché l'improvviso svelamento nel secondo stato diventa necessariamente per coloro che stanno più lontano uno scandalo ( « perciò si scandalizzavano di lui ». Mc 6,3 ), addirittura per i « parenti » ( Mc 6,4 ), anzi per Maria e Giuseppe esso diventa una cosa incomprensibile ( Lc 2,50 ).

Visto nell'insieme del mondo e anche della Chiesa, il passaggio nel secondo stato manterrà sempre qualcosa del suo originario carattere di scandalo, poiché questo stato riceve la sua giustificazione ultima non da motivi umani ( seppur così elevati ), ma unicamente dal volere del Padre.

Come lo stesso nudo « Aldifuori » dal mondo, esso può apparire al mondo che è dentro e fuori della Chiesa solo come la impossibile possibilità, a meno che lo Spirito di Dio, che è anche lo Spirito della croce e del sacrificio, non desti i cuori di coloro che sono nel mondo e li faccia partecipare allo Spirito di quelli che hanno abbandonato il mondo.

Questa unità dello Spirito non è impossibile, poiché entrambi gli stati sono una sola cosa nell'unità dello stato di Cristo.

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