Gli stati di vita del cristiano

Indice

Stato dei consigli, stato sacerdotale, stato laicale

Al termine di queste considerazioni si possono ora riassumere con uno sguardo complessivo le molteplici relazioni fra gli stati ecclesiali.

Non è possibile ridurre queste relazioni ad una formula unica, già per il fatto che nel Vangelo ogni preferenza rimane sempre attuata in favore degli altri che non sono stati preferiti, i quali ultimamente godono del vantaggio ricevuto grazie alla preferenza ottenuta da altri.

« Quelle membra del corpo che sembrano le più deboli sono le più necessarie.

Quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli, le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno.

Ma Dio ha composto il corpo conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre.

Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.

Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte » ( 1 Cor 12,22-27 ).

Questo distingue l'ordinamento ecclesiale degli stati di vita da ogni altro, mondano o religioso che sia.

E il momento della distinzione ha origine esclusivamente dal Capo della Chiesa, il quale proprio nel suo più profondo abbassamento trova la sua massima elevazione: « Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose » ( Ef 4,10 ).

« I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori.

Per voi, però, non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve ( … )

Io sono in mezzo a voi come colui che serve » ( Lc 22,23-27 ).

« Io vi ho dato l'esempio, affinché facciate anche voi come io ho fatto » ( Gv 13,15 ).

In questo modo l'ordine viene in maniera non del tutto semplice rovesciato; infatti « voi mi chiamate maestro e signore, e fate bene, perché lo sono » ( Gv 13,13 ), ed egli lo è non da ultimo anche perché ( Fil 2,9 ) lui che era in forma divina si è abbassato al di sotto di tutti.

Perciò anche nella gloria egli non si comporterà semplicemente come il dominatore superiore.

Forgiato da questo modello, anche colui che nella Chiesa è stato in qualche modo preferito non farà mai valere questa sua distinzione come una proprietà personale o una « perfezione » di contro agli altri, ma la intenderà unicamente come un servizio con la sua responsabilità: « A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto » ( Lc 12,48 ).

Ciò che può apparire come un ordinamento gerarchico degli stati di vita viene come dissolto dalla comune grazia ecclesiale alla quale tutti i ministeri e le missioni devono servire: la grazia della comunione e dell'amore personali.

« Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli.

E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che sta nel cielo.

E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.

Il più grande tra voi sia vostro servo.

Infatti chi si innalza sarà abbassato, mentre chi si abbassa sarà innalzato » ( Mt 23,8-12 ).

Solo guardando a queste parole del Signore potremo parlare, in quello che seguirà, di una sovra - e subordinazione degli stati ecclesiali.

1. La prima relazione tra gli stati emerge dall'analogia della chiamata alla sequela di Cristo, dal prender parte attivamente alla realtà ed efficacia ( Wirkiichkeit una Wirkung ) della missione redentrice del Signore:

Stato sacerdotale e stato dei consigli rappresentano di fronte allo stato laicale di vita nel mondo una vocazione speciale, differenziata; nei confronti di questo essi sono le uniche vocazioni nella Chiesa che fondano uno stato di vita.

Se all'interno dello stato laicale avesse luogo una chiamata qualitativa a speciale sequela, essa condurrebbe di per sé il chiamato ad una partecipazione allo stato d'elezione.

La differenza fra stato sacerdotale e stato dei consigli deriva però dal fatto che il primo esige una sequela più stretta di Cristo indirettamente, a motivo dell'ufficio conferito, mentre il secondo la esige in maniera diretta, a motivo della forma di vita conferita personalmente.

La differenza è già stata presentata: il rappresentante del ministero, Pietro, non viene degnato della grazia di vivere la croce insieme a Cristo come il rappresentante dello stato dei consigli, Giovanni; la prospettiva della croce viene fatta apparire a Pietro solo in un secondo tempo, a motivo dell'ufficio conferitegli.

A ciò corrisponde il fatto che il momento ministeriale appare sotto un certo aspetto nel Nuovo Testamento come una continuazione dell'ordinamento dell'Antico Testamento, mentre per lo stato dei consigli ci sono nell'Antico Testamento solo lontane immagini prefigurative, ma nessun vero e proprio presupposto.

Esso è scaturito nel suo insieme dalla croce, e costituisce la vera e propria nuova fondazione operata da Cristo: essa infatti diventa possibile come forma di vita solo quando Cristo, sua immagine archetipa, ha percorso la via della Redenzione.

L'aspetto ministeriale appare anzi anche nell'Antico Testamento, a dire il vero, solo in parte come derivante dall'ordine della salvezza poiché in parte esso è fondato anche nell'ordine della creazione.

Rientra infatti nell'essenza sociale dell'uomo religioso che il suo servizio divino sia pubblico, e per questo alcuni singoli vengono rivestiti dell'ufficio di questo servizio.

Il fatto che in Israele questa funzione viene trasmessa ad una intera tribù e considerata come ereditaria mostra la parentela del suo sacerdozio con quello dei popoli confinanti.

La chiamata di Dio al servizio sacerdotale è perciò là una chiamata per così dire impersonale, in brusco contrasto con la chiamata che è del tutto unica e personale rivolta ai profeti, i quali divengono così prefigurazioni delle vocazioni personali neotestamentarie.

Una traccia di questa distinzione rimane anche nel Nuovo Testamento, non solo nella differenza fra impersonalità dell'ufficio e sequela personale come contenuto di entrambe le vocazioni, ma anche nella possibile diversità della forma di chiamata stessa, come più avanti mostreremo.

La posizione intermedia dello stato presbiterale, fra stato laicale e stato dei consigli, risulta evidente anche dalla concreta configurazione che questo stato acquista nella Chiesa e che lo fa partecipare ad ambedue le altre forme di stato di vita: allo stato dei consigli attraverso il celibato e l'obbedienza al vescovo, senza essere obbligato alla povertà, allo stato di vita nel mondo, per il fatto che conserva un possesso terreno e una relativa autonomia personale, giustificata dalla vocazione di pastore d'anime.

Visto dallo stato laicale di vita nel mondo, lo stato sacerdotale prende parte alla condizione di trovarsi estromesso dagli ordinamenti del mondo per essere a puro servizio della causa di Cristo; visto dallo stato religioso esso sembra formare una certa unità organica con lo stato laicale di vita nel mondo, per la sua relativa sicurezza nella parrocchia e il suo essere ordinato ai bisogni delle famiglie, alla configurazione cristiana della vita laicale ( Battesimo, catechismo, celebrazione di matrimoni, visita delle case, estrema unzione e funerali ).

Questa collocazione mediana dello stato sacerdotale ha i suoi pregi, ma anche i suoi pericoli: il pregio del contatto pastorale diretto con la comunità dei laici, e quello ancora più grande di una partecipazione ai privilegi della sequela personale quale la possono offrire i consigli; infatti il prete può uniformare quanto vuole la sua vita personale allo spirito, anzi alla realtà dello stato dei consigli.

I pericoli risultano dalla posizione intermedia: il prete può cadere in una mediocrità e mancanza di colore, o anche, nella sua debolezza umana, prendersi da ogni stato quelle cose che più sono piacevoli, aggirando la radicalità del « perdere la propria anima » ( nel matrimonio o nella vita secondo i consigli ).

Non che egli debba necessariamente soggiacere a questi pericoli; fu pure il Signore stesso a conferire al presbiterato questa posizione, instaurando una differenza fra l'ufficio e la sequela personale.

Rimane affidato alla libertà del prete, fino a che punto egli voglia conformare la sua vita all'ufficio ricevuto e far diventare così il sacerdozio un vero tramite fra stato dei consigli e stato di vita nel mondo.

È ora il momento di porre propriamente in luce questo vero punto centrale.

2. La seconda relazione tra gli stati consiste di conseguenza in una sovraordinazione dello stato presbiterale allo stato dei consigli e a quello laicale.

Questa sovraordinazione ha il suo motivo nel fatto che il ministero presbiterale rappresenta per la Chiesa intera Gesù Cristo nel suo triplice ufficio di maestro, guida e pastore, e garantisce così la permanente presenza di Cristo nella sua Chiesa.

In forza di questa rappresentazione e per esplicito incarico del Fondatore il ministero come tale ( e non come forma di vita ) può e deve esigere l'obbedienza di fede e d'amore di tutti i cristiani.

Esso può e deve richiedere questa obbedienza a motivo della evidenziata distinzione di ufficio e persona, dell'evidenziata intangibilità dell'ufficio anche nel caso della più grande indegnità della persona.

E la cristianità cattolica si rivelerà sempre nuovamente come quella che veramente vive dello Spirito di Cristo per il fatto che essa nelle situazioni di importanza decisiva presta sottomissione al ministero altrettanto incondizionatamente quanto Cristo si è sottomesso al volere del Padre per la redenzione del mondo.

Un volere che all'inizio della sua vita gli fu presentato nel « formalismo » legale della Legge veterotestamentaria, a cui egli si inchinò senza proferir motto, e alla fine della sua vita in una ferrea volontà di passione del Padre, volontà divenuta completamente anonima, dietro la cui feconda inesorabilità la sua amata persona scompare nella notte dell'invisibilità.

Davvero nella « separazione » di Padre e Figlio durante la Passione è sottratto a questi tutto ciò che avrebbe potuto facilitargli l'obbedienza puramente ministeriale e formale che egli come redentore doveva prestare, grazie alla relazione personale tra lui e il Padre: della paternità del Padre non è rimasto più niente altro che l'incondizionatezza dell'esigenza d'obbedienza, e delle personali forze del Figlio niente più che l'assoluta coscienza - in angoscia, vergogna e abbandono, nel sentirsi richiedere più di quanto sostenibile e di conseguenza sentirsi impotente -, l'assoluta coscienza, tuttavia, che la missione deve essere adempiuta.

Questo avvenimento centrale del cristianesimo rimane riprodotto nella Chiesa nell'incontrovertibile sovraordinazione del ministero ecclesiale ad ogni grazia personale e carismatica, la quale per lo meno deve dimostrarsi autentica anche attraverso l'obbedienza ecclesiale.

Ma poiché nella sua obbedienza il Figlio ha portato via tutta la giustizia dell'ira di Dio per il peccato e ha così apportato la riconciliazione, la partecipazione della Chiesa al ministero dell'obbedienza ministeriale è per essa già un segno di sovrabbondante misericordia.

Proprio qui scaturisce per essa la salvezza in forma di EucarIstia e degli altri Sacramenti, forma della presenza garantita della parola di Dio nella figura della parola ecclesiale e nella grazia del legare e sciogliere ecclesiale, che lega e scioglie in cielo, dunque nell'assoluta grazia della redenzione.

Il ministero sacerdotale diventa in tal modo eminente luogo ecclesiale della presenza di Cristo, così come Cristo stesso con la ministerialità della sua obbedienza è diventato luogo eminente della presenza del Padre nel mondo.

Così come d'ora in poi il Padre non è accessibile a prescindere da Cristo, sebbene Cristo sia apparso all'interno dei limiti di spazio e tempo ( « Nessuno giunge al Padre se non attraverso di me », Gv 14,6 ), altrettanto la salvezza d'ora in poi non può essere cercata aggirando il ministero ecclesiastico, sebbene Cristo sia « salvatore di tutti gli uomini » ( 1 Tm 4,10 ) e si riservi il « potere su ogni carne » ( Gv 17,2 ) e di conseguenza « tutto il giudizio » ( Gv 5,22 ).

« A te che importa questo? Tu seguimi! » ( Gv 21,22 ).

Come in base a ciò proprio il discepolo dell'amore, Giovanni, si caratterizza con la sua indubitabile sottomissione e la sua tacita rinuncia, nei confronti del ministero di Pietro, come colui che nell'amore ha conoscenza del Signore, così all'interno della Chiesa colui che è particolarmente vivo e maturo nella fede si caratterizza con la sua tanto maggiore attenzione per il ministero ecclesiastico, sino a « imprigionare tutti i propri pensieri per renderli obbedienti a Cristo » ( 2 Cor 10,5 ).

E come Cristo nel fuoco dell'anonimità della sua obbedienza alla missione di fronte alla volontà del Padre divenuta anonima dispiega l'intera pienezza delle sue energie personali, così nella Chiesa il passare attraverso il fuoco dell'obbedienza ministeriale diventa sicura garanzia della salvezza della personalità umana.

« Perché ognuno sarà salato con il fuoco, così come avviene per ogni offerta sacrificale » ( Mc 9,49 ).

L'apparente perdita delle personali forze religiose e carismatiche nel cattolicesimo diventa esattamente il luogo in cui queste forze vengono regolate, purificate, sviluppate, rese idonee per il regno dei cieli.

La ministerialità del sacerdozio non è un corpo estraneo contro il quale le forze propriamente cristiane di fede, speranza e carità devono per così dire andare a sfracellarsi; il ministero è piuttosto la forma inferiore di questo dono celeste.

Fede, speranza e carità come vita di Dio riversata in noi ( Rm 5,1-5 ) non significano anzi nient'altro che lo spostamento del fulcro dell'esistenza cristiana dall'io terreno nell'invisibile centro di Dio, e quindi un morire alla propria personalità per risorgere invisibilmente come uomo nuovo in Dio.

Il proprio piano di vita personale viene sostituito dal piano della grazia, dalla missione, che diventa d'ora in poi il punto centrale della personalità cristiana.

In tal modo nel cristiano stesso tutto viene relativizzato in funzione di questa missione, e di conseguenza ufficializzato e spersonalizzato.

Vita cristiana è « ministero della giustizia » ( 2 Cor 3,9 ).

Così a partire dal ministero ecclesiastico la forma ministeriale si pone al di sopra di ogni vita cristiana, e la tacita sottomissione della persona all'oggettiva ( non necessariamente « sperimentata » ) volontà di Dio, che vive in essa come viva missione, diventa la nota caratteristica che contraddistingue se uno è cristiano oppure no.

« Non colui che grida: Signore! Signore! entrerà nel regno dei ciEli, ma unicamente colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » ( Mt 7,21 ).

Questa ministerializzazione della persona è rappresentata nel sacerdote cattolico in un procedimento pure ministeriale, ma in modo tale che la grazia del ministero, che egli ottiene nel sacramento della ordinazione sacerdotale, gli offre allo stesso tempo la personale corrispondenza a questa esigenza.

Attraverso questa grazia sacramentale tutta la sua persona viene assorbita dal servizio alla grazia di Cristo, per divenire, insieme col Figlio sacrificato, fecondo per la Chiesa.

In ogni assoluzione impartita, ogni comunione distribuita, ogni predica, in tutto ciò che il prete fa in forza del suo ministero, egli è non semplicemente canale passivo della grazia, ma, se egli non si chiude alla grazia del ministero, attivo dispensatore insieme al Cristo dispensante, anzi attivo dispensato insieme col Cristo dispensato, distribuito.

Egli ha parte attiva alla distribuzione eucaristica di Cristo, poiché ha parte alla sua volontà d'amore che rinuncia a sé e sprofonda nell'anonimo.

E in questo senso la sua ministerialità è archetipo e modello ( Urbild und Vorbild ) per tutti gli stati di vita cristiani, in particolare per lo stato dei consigli, che deve prendere a prestito da esso il prolungamento dell'ufficio episcopale in quello dell'abate o del provinciale ecc., per poter partecipare ecclesialmente alla forma dell'obbedienza di croce di Cristo.

A partire da quest'ultima osservazione diventa visibile un nuovo ordinamento vicendevole degli stati di vita, in quanto i due stati d'elezione nella loro unità diventano « forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ).

3. Stato sacerdotale e stato dei consigli, come prima abbiamo mostrato, vanno assieme, non soltanto storicamente a partire dal Vangelo ( in quanto allora entrambi erano contenuti l'uno nell'altro senza differenziazione ), ma anche obiettivamente, e quindi in maniera duratura.

Essi si completano come l'aspetto oggettivo e quello soggettivo della grazia cristiana della missione.

Visti così, stato sacerdotale e stato dei consigli si comportano soltanto come sottolineature diverse dell'unica chiamata di Cristo, che ultimamente deve anche di necessità essere unica, poiché è chiamata all'unica sequela dell' « unico mediatore fra Dio e gli uomini » ( 1 Tm 2,5 ).

La differenziazione ha luogo solamente per motivare e assicurare definitivamente l'interezza dell'unica sequela.

Se Gesù non avesse per niente distinto l'aspetto ministeriale e quello personale, ci sarebbe stato il pericolo che col conferimento del ministero i credenti vedessero già conferito e garantito anche l'aspetto personale, perdendo di vista che oltre all'assolutezza dell'essere c'è anche quella altrettanto urgente del dover essere.

Se d'altra parte il Signore avesse trattato la chiamata al ministero e quella alla sequela personale come due chiamate separate, che non stanno in nessuna connessione essenziale, sarebbe allora sembrato che nella tensione della sequela personale vi sia solo una « tensione morale alla perfezione », e non anche un'essenziale partecipazione all'atto ministeriale redentivo di Cristo.

Poiché però Gesù instaura una specie di unione personale fra le due forme di sequela, in quanto egli dapprima chiama i suoi apostoli ad entrambe senza distinzione e presenta ad essi sempre di nuovo l'esigenza dell'unità di queste due parti e vie, mentre egli d'altra parte rende evidente però la separabilità dei due aspetti, chiamando certuni ( ad esempio le donne o anche il giovane ricco ) alla sequela personale senza conferire od offrire ad essi il ministero, e distinguendo inoltre Pietro nei confronti di Giovanni, viene allora posta in luce teoricamente e praticamente la reciproca immanenza di essere e dover essere.

L'assoluta garanzia dell'essere non esime colui che l'ha ricevuta dall'obbligo e dalla necessità di tendervi con tutte le sue forze, n colui che vi aspira è privo della consolazione che la sua tensione è accompagnata dalla garanzia dell'essere.

Il fatto che noi siamo redenti non può attutire in noi la coscienza che noi dobbiamo ogni giorno nuovamente venir redenti.

A sua volta questa inquietudine non può offuscare la « pace che sorpassa ogni immaginazione » ( Fil 4,7 ) insita nella certezza che noi siamo redenti.

Entrambi i lati della chiamata di Cristo tendono perciò insieme verso un'unità.

Colui che è chiamato a esser prete ottiene primariamente il ministero, il quale di conseguenza richiede l'adeguazione di tutta la sua persona al ministero; colui che è stato eletto alla vita secondo i consigli viene chiamato primariamente alla sequela personale del Figlio di Dio, il quale adempie la sua opera ponendo la sua persona a disposizione del suo ministero di missione, lasciando che essa vi scompaia totalmente, e richiedendo a chi lo segue che faccia lo stesso.

Entrambi, il prete e colui che segue i consigli, devono ministerializzare la loro persona, il primo a partire dall'ufficio, il secondo dalla persona.

Poiché però questa ministerializzazione può avvenire solo attraverso Cristo, in Cristo e per Cristo, colui che segue i consigli è dipendente dal ministero ecclesiale, il quale gli rende presente Cristo qui e ora nella Chiesa.

Ma poiché d'altra parte la ministerializzazione è un'opera di amore estremo, che si lascia consumare come vittima sacrificale per il mondo, il prete è dipendente dallo stato dei consigli, che gli pone sempre davanti agli occhi e gli richiama alla memoria questo lato del ministero.

Se i cristiani seguissero perfettamente il Signore, non ci sarebbe bisogno di questa sottolineatura distintiva: essi comprenderebbero da sé l'unità di amore personale e obbedienza impersonale.

Poiché però essi sono sempre « stolti e tardi a capire » ( Lc 24,25 ), il Signore, per educarli, ha posto i due rappresentanti della vocazione l'uno di fronte all'altro, affinché ognuno veda nello specchio dell'altro ciò che gli manca.

Questa tensione non viene eliminata nemmeno nel caso del prete regolare, il quale sembra riunire in sé i privilegi di entrambi gli stati.

Nella sua vocazione di solito ha avuto la precedenza la chiamata allo stato dei consigli; il sacerdozio gli viene conferito come massimo adempimento del personale bisogno di sequela.

Qualcuno che si sente chiamato allo stato dei consigli sta forse dapprima di fronte alle funzioni sacerdotali senza interiore rapporto e comprensione; l'accesso a ciò gli viene dischiuso solo nel corso della sua vita secondo i consigli, a motivo di un interiore comprensione personale dell'aspetto sacerdotale del sacrificio di Cristo.

È anche possibile che il religioso che ha rinunciato all'autoconfigurazione della sua vita attenda dai suoi superiori, nell'indifferenza, se essi lo destineranno ad essere prete o « laico » e consideri questa decisione come espressione della volontà di Dio.

Il sacerdozio sta di conseguenza nello stato dei consigli in dipendenza molto più stretta dal sacrificio personale di quanto non avvenga nel caso del prete secolare.

E anche se l'abate di un monastero esente può esercitare funzioni episcopali, e il ministero appare quindi preso nella sua interezza all'interno della forma dell'ordine religioso, questo non significa tuttavia che con ciò la dimensione funzionale sia diventata completamente una funzione della dimensione personale: infatti egli rimane dipendente dalla più alta delle funzioni nella Chiesa, la Santa Sede.

A ciò si aggiunge il fatto che la vita secondo i consigli racchiude in sé la forma piena dell'ufficio sacerdotale soggettivo di Cristo, il quale non si trova in alcuna tensione nei confronti del suo ufficio sacerdotale oggettivo.

Così si chiarisce che un religioso che non venga ordinato prete, oppure il membro di un istituto secolare, che per amore della sua vocazione rimane laico, nella sua vita cristiana non è privo oggettiva-mente di niente, che egli soggettivamente senta il suo esser laico come una rinuncia o meno.

Il conferimento dell'ordinazione sacerdotale, ad esempio, ad uno psichiatra in un istituto secolare, il quale poi possa non semplicemente analizzare i suoi pazienti, ma anche assolverli, mostra chiaramente che il conferimento di un ministero all'interno dello stato dei consigli non avviene per amore di una più alta « perfezione », ma per l'esecuzione di una funzione.

Così, ad esempio, anche in un'abbazia benedettina non c'è bisogno che vengano ordinati preti più monaci di quanto lo richieda il servizio liturgico interno ed esterno dell'abbazia.

Esattamente a questo punto diventa anche evidente che la donna chiamata alla vita secondo i consigli non viene privata di nulla per il fatto che essa non ottiene l'ufficio sacerdotale.

Certamente perlomeno altrettanto che l'uomo, se non di più, essa ha parte al sacerdozio esistenziale di Cristo, del quale nessuno fu così profondamente partecipe come la Madre del Signore sotto la croce.

La forma della sua indifferenza all'interno del volere del Dio trinitario è in quanto femminile così perfetta che supera ampiamente la speciale indifferenza di un uomo nello stato dei consigli, per quanto concerne l'ordinazione o meno ad esser sacerdote.

E se la donna rimane in una dipendenza nei confronti del ministero ecclesiastico, tale dipendenza è insita essenzialmente ad ogni esistenza cristiana, ad ogni laico, uomo o donna, e addirittura ad ogni prete o religioso, il quale non può impartirsi da sé l'assoluzione ( nemmeno il Papa lo può ) e deve obbedienza in maniera accentuata ai superiori ecclesiastici ( come il Papa in maniera speciale rimane in obbedienza nei confronti dell'intera tradizione ecclesiale ).

Che la tensione possa essere eliminata a partire dall'altra parte, dalla dimensione ministeriale, è altrettanto poco da temere, poiché infatti qui il personale non può mai in ogni caso adeguarsi pienamente al ministeriale.

Il più grande sforzo di dover essere non porterà mai fino alla coincidenza con l'essere che è personificato nel ministero.

Il prete secolare che per attuare una maggior dedizione assuma una parte o l'intera forma della vita secondo i consigli non giungerà mai alla tentazione di credere che con questo egli abbia « fatto tutto » ( Lc 17,10 ).

Egli scorgerà sempre nello specchio della « vita perfetta » dei Santi che hanno seguito il Signore in povertà, verginità e obbedienza il modello irraggiungibile del suo tendere.

Anche posto che egli stesso sia santo e non lo sappia, vedrebbe piuttosto la santità tanto maggiormente personificata nei suoi fratelli.

Ancora una volta è il rapporto reciproco di stato sacerdotale e stato religioso che rimane esemplare per lo stato laicale.

Non come se i laici dovessero imitare esteriormente le altre due forme di stato di vita, ma certo però nel senso che lo spirito di questa unità di ufficio e persona deve determinare la loro vita di cristiani nel mondo.

Essendo però l'unità di essere e dover essere un'esigenza innalzata nei confronti di ogni cristiano, lo stato dei consigli, che personifica l'aspetto dell'esigenza di dover essere, ottiene ora ancora una volta una priorità nei confronti degli altri due stati di vita.

4. Lo stato dei consigli appare, in quanto stato dell'offerta di tutta la persona a servizio della redenzione, in una speciale unità con lo stato di Cristo, e acquista così una funzione normativa nei confronti dello stato sacerdotale come dello stato laicale.

Infatti sebbene Cristo ( e con lui Maria ) stia al di sopra degli stati di vita e li fondi tutti, questo egli lo fa prevalentemente per il fatto che anche nello stato mondano della sua gioventù porta già in sé la forma nascosta dello stato dei consigli, come un germe che più tardi si svilupperà.

Anche lo stato sacerdotale egli lo fonda non altrimenti che raccogliendo dapprima insieme tutta la dimensione ministeriale veterotestamentaria nel suo personale atteggiamento di sacrificio, per poi solo a partire da ciò lasciarla dispiegarsi di nuovo in una ministerialità ecclesiale.

Anche se in Cristo la dimensione personale non può mai venir considerata a prescindere dalla sua missione, poiché egli dall'eternità è persona in quanto Verbo proveniente dal Padre, che poi si pone a disposizione per la missione nel mondo, il suo ministero di redenzione ha però la sua origine solamente nel suo amore personale al Padre e al mondo, e anche l'anonimità della sua passione sulla croce è sempre solo espressione di questo amore personale che giunge « sino all'estremo » ( Gv 13,1 ).

Unicamente in vista di questo amore l'intero sacerdozio ufficiale dell'Antico Testamento ha avuto senso, e unicamente a partire da questo amore il sacerdozio ministeriale del Nuovo Testamento ha il valore di una ripresentazione efficace della redenzione compiuta.

In tal modo lo stato dei consigli avanza a stato di vita che propriamente da forma ad ogni vita nella sequela del Signore.1

Infatti ciò che motiva questo stato, vale a dire la forma di vita di povertà, verginità e obbedienza, nel Nuovo Testamento non è nient'altro che l'espressione della volontà di prender parte all'atteggiamento sacrificale di Cristo.

In questa partecipazione, coesecuzione, e in nient'altro consiste però ciò che nel Nuovo Testamento si può chiamare « santità »: essa è « consacrazione sacrificale » nella volontà del Padre attuante il sacrificio ( Gv 17,19 ).

Lo stato dei consigli è perciò non soltanto « tendere alla perfezione » o alla « santità »; esso è anche esser collocati in quella forma di vita il cui reale adempimento è l'essenza della santità stessa.

Infatti il contenuto dei tre voti e la forma dell'esprimere il voto contengono la santità stessa.

Certo, qualcuno esprime il voto e non lo mantiene, qualcuno riveste questa forma di vita senza però lasciare che essa diventi sua legge di vita.

Se però la persona che vive nello stato dei consigli lascia diventare esistenziale per sé il contenuto del suo atto solenne di professare i voti, allora questa persona ha in essi la pura sostanza della santità cristiana.2

Non c'è infatti nessun'altra forma di sequela di Cristo, nessun altro compiere la volontà del Padre insieme con Cristo, che l'amore che offre tutto.

Questo amore, che l'essenza della santità, nell'ordine del mondo decaduto nel peccato e della redenzione cristiana non può presentarsi altrimenti che nella forma della rinuncia a tutto ciò che è proprio.

Ma più che beni materiali, corpo e spirito nessun amore può offrire.

Il suo rinnegamento di sé rimane il presupposto fondamentale anche per ogni atto d'amore da compiere nelle opere di misericordia corporale e spirituale.

Non conta solo l'opera esteriore, ma la dedizione interiore; l'opera esteriore ha valore cristiano davanti a Dio solo nella misura in cui è una derivazione dell'inferiore « opera » dell'amore.

La santità coincide talmente con ciò che dà la sua forma alla vita secondo i consigli, che ogni vocazione alla santità è una vocazione alla vita secondo lo spirito ( anche se non necessariamente alla forma esterna ) dei consigli.

Questo si vede anche dal fatto che ogni modello esemplare di santità nella Chiesa partecipa allo spirito, se non anche alla forma, della vita secondo i consigli.

Di gran lunga la maggior parte dei santi canonizzati sono religiosi o persone che attraverso un voto presero parte alla forma della vita secondo i consigli.

Solo in alcune eccezioni ( Tommaso Moro, Anna Maria Taigi )3 furono canonizzate persone sposate, a meno che esse non fossero - dopo la morte del coniuge o d'accordo con lui - passate in uno stato di perfetta unione con Dio.

In questo esse non abbisognano espressamente, come una S. Brigida o Francesca Chantal, di passare dallo stato matrimoniale al convento; possono anche, come una Giovanna d'Arco, facendo saltare tutti i legami naturali a famiglia e patria, entrare nella nuda obbedienza a Dio, in cui inevitabilmente devono essere anche povere e vergini.

Infatti ognuno che riceve una missione qualitativa può seguirla solo se allontana da sé senza ritegno ogni altro legame, per vivere solo del compito assegnategli.

Ciò che vale per i chiamati nello stato laicale vale non di meno per i preti che ricevono la chiamata ad una missione eccezionalmente personale.

Anch'essi dovranno necessariamente camminare al di là di ogni convenzione nella solitudine di una piena povertà e verginità e di una perfetta rinuncia ad una propria configurazione della vita, come mostra l'esempio del Curato d'Ars, che senza entrare in un ordine religioso - sebbene questa idea, così come la tentazione di alleggerire il suo compito sovrumano, gli balenasse sempre davanti - ha tuttavia vissuto nel perfetto spirito dello stato dei consigli.

Non è certamente che questo orientamento di ogni santità secondo l'ideale dello stato dei consigli sia in qualche modo determinato dall'epoca storica.

Lo stato dei consigli resta ciò che crea per il cristiano di ambedue gli altri stati il passaggio fra il loro stato e ideale di stato forgiato e chiuso in sé e l'infinito, irraggiungibile stato di Cristo.

Lo stato dei consigli è infatti caratterizzato nel più profondo dall'interminabilità della sua esigenza, dal « più che mai » ( Je-Mehr ).

Tanto il matrimonio quanto il sacerdozio hanno la tendenza a mostrare uno sterminato campo di diritti e doveri, che il cristiano conosce bene, che può soddisfarlo e col dominio del quale egli può soddisfare Dio.

L'uomo che vive nello stato dei consigli non conosce tale infinità.

La sua funzione nella Chiesa è quella di far scoppiare sempre nuovamente ogni chiuso ideale e traguardo pastorale all'interno della sempre più grande esigenza di Cristo.

Egli è nella parrocchia e nella diocesi l'elemento della cristiana inquietudine; egli rimane, allorché tutti gli incarichi sono stati accuratamente lottizzati, l'inquieta « gonna senza cucitura », il perturbatore della pace laddove i conti sembravano tornare.

Egli prende parte d'ufficio in maniera speciale all' « al di fuori » ( Aus-serhalb ) di Cristo e alla Sua solitudine, che non raramente gli è resa percepibile; all'interno della Chiesa egli detiene in qualche modo la posizione che la Chiesa nel suo complesso occupa all'interno del mondo: quella dello straniero, che non può mai divenire del tutto di casa nel mondo.

Stato laicale e presbiterato secolare hanno questo in comune, che entrambi per la loro vocazione sono in qualche modo radicati nell'ordine della creazione; lo stato dei consigli invece non possiede, visto a partire da essi, alcun fondamento: esso è sospeso in aria, anche visto dal « mondo ecclesiale » - come il Signore in croce è sospeso tra cielo e terra senza posizione propria.

Dalla terra, che lo scaccia, egli è espatriato; nel cielo non ritrova la sua patria, poiché il Padre si vela, ed egli stesso non può ancora seguire lo Spirito che per così dire manda avanti restituendolo nelle mani del Padre.

Egli sta sospeso nell'apertura di una glorificazione di Dio più grande che mai, nell'oscura notte della Passione, senza che questa apertura possa venir indicata come un luogo in cui si sta ( Stand-Ort ).

Nessuno è disposto ad accostarsi a lui in questo stato inescogitabile per il mondo e a preoccuparsi della sua esistenza e del suo futuro e impegnarsi per questo: « Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuoi bene » ( Mt 27,43 ).

Sempre viene fatto di più da Dio che dalla Chiesa per il mantenimento dello stato dei consigli; infatti anche nuove comunità di vita secondo i consigli devono venir richieste direttamente da Dio e imporsi per lo più contro forti resistenze ecclesiastiche, anzi normalmente devono addirittura dimostrarsi come volute da Dio proprio attraverso tali resistenze.

Se una ha la forza di far esplodere ciò che nella Chiesa resta chiuso e portarlo all'aperto - così come un tenero seme di grano, una piccola radice, può fendere un sasso -, allora la Chiesa riconosce in un secondo momento il dito di Dio in quest'opera, la permette ufficialmente, la elogia e da ultimo la raccomanda.

In questa sorte lo stato dei consigli condivide la sorte di ogni missione qualitativa nella Chiesa, che deve affermarsi combattendo soltanto con la forza di Dio e forse morendo, e che, se alla fine tuttavia diviene visibile, viene riconosciuta come « santità », la quale, come l'intero stato dei consigli, è un dono di grazia di Dio istituito interamente a favore della Chiesa e dei due « stati di vita nel mondo ».

La santità infatti non è un privilegio di coloro ai quali viene partecipata, ma un carisma fecondo per l'intero Corpo di Cristo, un carisma che a modo suo deve svolgere nell'economia globale del Corpo una funzione altrettanto ministeriale quanto l'ufficio ministeriale del sacerdote.

« Ci sono infatti diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore »; e a queste prestazioni di servizio appartengono anche le « guarigioni », il « potere di far miracoli », le « profezie », il « discernimento degli spiriti » ( 1 Cor 12,4ss ), quindi puramente gratiae gratis datae, quali le speciali vocazioni di Dio si curano di contrassegnarle e renderle credibili, e le vie dei « santi » di orlarle.

Questa ordinazione al bene comune della Chiesa distingue la vera mistica cattolica da ogni altra forma di « soprannaturale » e può, laddove si tratta dell'esaminazione di simili fenomeni, valere come pietra di paragone decisiva.

Una mistica che nella sua autocomprensione si esaurisce in semplici « circostanzialità » fra Dio e l'anima eletta, senza avere una qualche dimensione sociale ed ecclesiale ( anche se questa non diventa afferrabile esternamente ), sarebbe con ciò già smascherata come illusione.

« Se veniamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; se veniamo consolati, è parimenti per la vostra consolazione » ( 2 Cor 1,6 ).

« Le prove della mia missione apostolica si sono davvero compiute in mezzo a voi, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli » ( 2 Cor 12,12 ).

E se questa specie di operare carismatico nell'Antico Testamento poteva rimanere in qualche modo esterno a coloro che lo esercitavano, cosicché non era necessariamente espressione di santità interiore, nel Nuovo Testamento, allorché l'incarico è affidato all'inviato personalmente, in maniera nuova, e diventa contenuto della sua vita, per poter venir portato a termine, visto nel suo insieme esso prende parte al suo sacrificio interiore.

« Per conto mio mi sacrificherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime » ( 2 Cor 12,15 ).

Come nessuno quindi diventa santo per se stesso, ma questo significherebbe addirittura una contraddizione in sé, poiché « l'amore non cerca il suo interesse » ( 1 Cor 13,5 ), così nessuno diventa solo per se stesso monaco o religioso o qualcos'altro nello stato dei consigli, ma ultimamente per divenire nella sequela più stretta di Cristo un servitore di tutti, che non offre solo il proprio corpo, ma ancor più la sua anima come strumento di santificazione della Chiesa.

« Da questo conosciamo l'amore, che Egli ha dato la sua anima per noi; perciò anche noi dobbiamo dare le nostre anime per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).

L'esuberanza insita in una simile dedizione può apparire agli altri così incresciosa come apparve ai discepoli il gesto di Maria di Betania.

« Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo e dare il ricavato ai poveri » ( Mt 26,8s ).

Nell'amministrazione della pastorale ordinaria si ha cura di misurare l'offerta sacrificale in base al suo utile sociale e caritativo.

Ma il Signore, che pure è un amico dei poveri, interviene a favore dello spreco senza calcolo, il cui profumo si spanderà per sempre in tutta la casa ( Gv 12,3 ) della Chiesa: « In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei » ( Mt 26,13 ).

In questo modo il sacrificio dello stato dei consigli rimane quel sacrificio invisibile come « profumo di Cristo a onore di Dio » ( 2 Cor 2,15 ) dall'efficacia penetrante in ogni cosa, che conferisce alla vita cristiana nella Chiesa la sua massima forza e più alta bellezza.

5. Se così si chiarisce non solo l'aspetto ministeriale del sacerdozio, ma anche e precisamente l'aspetto personale dello stato dei consigli nella sua funzionalità e finalità aliena, le relazioni tra gli stati si capovolgono ancora una volta.

Le due forme di vita speciali appaiono ora chiaramente come strumentali allo stato principale ( Hauptsfand ) nella Chiesa, lo stato laicale:

Questo, come abbiamo detto prima, non è da intendere in un livellante senso populistico, come se l'uomo più differenziato dovesse scomparire nella massa degli indifferenziati, poiché ogni missione speciale conferita da Dio, elargita per il bene comune della Chiesa, è « irrevocabile » ( Rm 11,29 ) e contrassegna il chiamato non solo per il tempo presente, ma anche per l'eternità.

Nella Chiesa il principio di radicale « aristocrazia » non solo è compatibile con quello di radicale comunione dei beni, ma ne è addirittura il presupposto.

Così come sole, luna e stelle « furono poste da Dio nel firmamento del cielo per illuminare la terra » ( Gen 1,17 ), allo stesso modo « coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre » ( Dn 12,3 ), e il fatto che « altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle » ( 1 Cor 15,41 ) non impedirà tuttavia che tutti i giusti insieme « splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro » ( Mt 13,43 ).

Perciò nella Chiesa la coscienza del servizio alla comunità non paralizza affatto la coscienza della missione personale dell'eletto, come si può vedere espressamente nel caso di Paolo; ne viceversa la certezza dell'elezione personale può paralizzare l'impeto di « sacrificarsi e consumarsi » fino all'ultimo per i fratelli.

Non è un amore simulato, se l'Apostolo sa la sua esistenza interamente espropriata e posta a disposizione dei fratelli della comunità che non vede, nemmeno però è un amore che si getta via e che non conosce il valore dell'offerta: « Spero che comprenderete perfettamente che noi siamo il vostro vanto » ( 2 Cor 1,14 ); « nutriamo la speranza, col crescere della vostra fede, di crescere ancora nella vostra considerazione, secondo la nostra misura » ( 2 Cor 10,15 ).

Sono realmente « i grandi nel Regno dei Cieli » - Paolo può su questo « parlare in una certa misura come da stolto » ( 2 Cor 11,17-18 ) -, i « più grandi tra i nati di donna » ( Lc 7,28 ), che nella sequela del Signore « si espongono alla potenza della morte », affinché nella comunità si manifesti la vita di Gesù ( 2 Cor 4,11-12 ), si lasciano « mettere all'ultimo posto, come condannati a morte » ( 1 Cor 4,9 ), affinché la Chiesa sia sag già, onorata e purificata.

In essi Dio mette ai piedi della Chiesa, sua sposa, i tesori più preziosi e raduna carboni accesi sul suo capo.

« Tutto io sopporto in favore degli eletti, affinché anch'essi giungano alla salvezza » ( 2 Tm 2,10 ).

« Non cerco infatti i vostri beni, ma voi » ( 2 Cor 12,14 ).

Così tutta la posizione strumentale di stato sacerdotale e stato dei consigli appare insieme a quella del Figlio di Dio come un mezzo per rendere perfetti personalmente i laici, visto che anche ciò, come è stato mostrato, può adempiersi in fin dei conti solo in un divenir a propria volta strumenti da parte di coloro che lasciano che gli strumenti di Dio agiscano su di loro.

Certo la vita dei laici conserverà sempre una certa qual finalità propria, e il tentativo di dotarli tutti insieme di un ufficio ecclesiale, di farli entrare per forza in un « apostolato dei laici », una « Azione Cattolica », modellato in base a quella degli eletti, si rivelerà presto, per le difficoltà pratiche e i limiti realistici, impraticabile.

I laici devono rappresentare nella maniera più perfetta possibile l'amore cristiano a Dio e al prossimo nella loro quotidianità e irradiare così nel loro ambiente una luce calda, profonda, fruttuosa; essi non verranno però destinati a esercitare, in forza della loro comune missione ecclesiale, anche un apostolato speciale, visibile da lontano.

Qualche giovane laico che negli anni della sua formazione, in giovanile idealismo, aveva sperato di poter conciliare un simile apostolato con la sua professione nel mondo, con la sua entrata nella professione e con la fondazione di una famiglia farà da sé l'esperienza che il cerchio della sua missione viene per forza circoscritto ad un più modesto, più inapparente operare e illuminare in quel posto nel mondo nel quale egli è collocato.

Il termine divenuto abituale di « apostolo laicale » ( Laien-apostel ) non dovrebbe suonare diversamente da quello rimasto inusato di « prete laicale » ( Laien-priester ): entrambi i termini significano in fondo la stessa cosa, e cioè che il laico, all'interno del suo personale cerchio esistenziale, deve secondo le sue possibilità rispecchiare e trasmettere qualcosa degli uffici ecclesiali, sacerdozio e vita secondo i consigli.

Ciò avverrà però adeguatamente nel modo migliore se i laici tradurranno negli ambiti del mondo gli impulsi spirituali provenienti dalla « Chiesa » ( nel senso più ristretto del ministero e dello stato dei consigli ) e li condurranno avanti competentemente proprio nel punto in cui cessa la competenza degli stati d'elezione - come abbiamo notato nell'ultimo capitolo a proposito della teologia della liberazione.

Con tale assunzione delle iniziative ecclesiali suggerite dallo Spirito Santo, che spesso sono della massima urgenza, i laici verranno spinti ad un grado di impegno personale - e per questo di abnegazione personale e di purezza - che giunge assai vicino a quello degli stati d'elezione.

D'altra parte il laico deve rimanere consapevole, tanto più quello sposato, che egli rimane legato, pieno di responsabilità, ad un posto nel mondo.

Come privilegio e vanto del prete e dell'apostolo è che la loro esistenza viene resa uno strumento per Dio, così dev'essere vanto e privilegio del laico che la costruzione della sua vita cristiana nella Chiesa è finalizzata a se stessa.

In modo speciale la famiglia deve comprendere la sua chiusura in sé come una rappresentazione dell'amore cristiano nel mondo bastante a se stessa e non invece minacciare con un'artificiosa « apertura » o una falsa laboriosità, ad esempio nelle associazioni cristiane, con un esagerato apostolato dei suoi singoli membri, il più importante bene dell'amore familiare stesso.

E in qualche modo vale la stessa cosa per la famiglia più grande che è la comunità cristiana: anch'essa non deve lasciarsi portare, in tutta la sua interna vitalità nell'amore, dal gran daffare e iperorganizzazione dei suoi membri fino ad una alienazione di finalità che non corrisponde alla sua essenza di comunità e può soltanto danneggiare la sua vera vita.

A questo punto è da ricordare l'assioma così fortemente sottolineato da S. Tommaso, che cioè i mezzi fossero anche i migliori, come ad esempio i consigli evangelici, non possono mettersi al posto del fine, il quale è per ogni stato di vita il puro amore a Dio e al prossimo.

Per la comunità però la giusta misura della strumentalità rimane sempre ( nelle associazioni e organizzazioni ) la vitalità nell'amore personale stesso: nella misura in cui quei mezzi lo arricchiscono sono augurabili e da promuovere, nella misura in cui invece minacciano di soffocare l'amore vivo con un impersonale schema fisso sono di danno e devono venir soppressi.

Tutto può essere strumentale, perfino la vita eterna e il proprio io; l'amore soltanto è il fine di tutti i fini e la misura di tutte le cose.

Questa finalità dell'amore a se stesso la deve rappresentare nella Chiesa la finalità a se stesso dello stato laicale.

6. A partire da questa sovraordinazione dell'amore a tutto il resto si compie un'ultima relativizzazione di tutte le distinzioni fondanti uno stato di vita.

In forza dell'amore tutte le forme di stato di vita ottengono il loro senso ultimo solo nel puro esser l'un per l'altro e in una specie di reciproca inabitazione ( circumincessio ), attraverso cui l'amore diventa la forma ultima della vita ecclesiale:

Ogni stato di vita è tale in quanto rappresentazione di qualcosa che è presente anche negli altri stati di vita.

Lo stato sacerdotale è la rappresentazione della assolutezza della redenzione di Cristo, la garanzia della sua presenza e dell'essere sacramentale della Grazia in tutta la vita della Chiesa.

Esso è il custode e per volere di Dio la condizione che rende sempre nuovamente possibile questo essere, la cofondazione dell'esser sacrificati e consacrifìcare di ogni membro di Cristo insieme col Capo in base al Battesimo.

L'ordine religioso è la rappresentazione dell'assolutezza del cristiano « dover essere » in base all'essere, dell'incondizionatezza della divina esigenza di coincidenza di essere e dover essere, quale viene presentata ad ogni cristiano: al prete per primo, ma così pure anche al laico.

Lo stato laicale è lo stato della Chiesa stessa, la quale, collocata fuori del mondo dal fatto della redenzione e chiamata fuori da Cristo stesso, è autorizzata e chiamata dallo Spirito Santo ad essere uno stato di vita con il Figlio presso il Padre.

E se lo stato sacerdotale sta più dalla parte del Capo e opera verso il Corpo, mentre lo stato laicale sta dalla parte del Corpo, riceve efficacia dal Capo e vive rivolto verso il Capo, lo stato dei consigli media fra i due, giacché stando fondamentalmente dalla parte del Corpo cerca di vivere in obbedienza la vita del Capo.

Le differenti posizioni degli stati rimangono però relative, poiché anche il prete e la persona che vive nello stato dei consigli fanno parte del Corpo di Cristo, la Chiesa, e il Capo che è Cristo agisce sovranamente all'interno di tutti gli stati ecclesiali.

Entrambe le operazioni, quella dal Capo verso il Corpo e quella dal Corpo verso il Capo, non si allontanano da sé per andare in un campo estraneo, ma sono azioni immanenti dell'unico Cristo, che è allo stesso tempo Capo e Corpo: « Un solo Cristo, che ama se stesso » ( S. Agostino ).

Questo unico amore - che non è un amore di sé, ma una rappresentazione dell'amore trinitario - acquista nella reciprocità di Capo e Corpo la rappresentazione di quella sua pienezza che già anticipatamente è racchiusa nel Capo.

Esso deve essere vissuto e rappresentato nella cristianità, e visto a partire da esso rimane secondario se esso viene presentato come l'amore originario del Capo che tutto crea ( nell'operare dell'ufficio sacerdotale ), o come il tentativo di una risposta del Corpo, tentativo che in risposta all'uomo Cristo è raffigurato in forma femminile ( nello stato laicale ), oppure infine come il nodo dell'indissolubile amore fra i due ( nello stato dei voti ).

Tutti gli stati sono implicati nell'intreccio definitivo di questo nastro, che fu reso possibile dal fatto che « Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa, ( … ) al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » ( Ef 5,27 ), e ricondurla così, attraverso il sacrificio della Croce, là dove in origine l'amore era perfetto: fondato nel paradiso terrestre, apparso una volta nella pienezza dei tempi nella maternità verginale di Maria e previsto per tutti nel mondo definitivo, dove la totalità dei voti sarà nuovamente una sola cosa con la pienezza di ogni ricchezza, di ogni fecondità e libertà.

Ma fino a quel giorno, in cui non ci sarà più bisogno di alcuna rinuncia, non ci sarà più « né lutto, né lamento, né affanno » ( Ap 21,4 ), ma anche nessun « prender moglie e marito » ( Mt 22,30 ), nessun « comprare e vendere » ( Lc 17,28 ), la Chiesa coi suoi stati di vita in mezzo al mondo mondano deve essere un Sacramento che rappresenta nel segno l'amore vero e definitivo, ma anche lo contiene internamente e lo riversa sul mondo, cosicché esso nel suo insieme, amando, sia tanto finalizzato a sé quanto strumentale.

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1 "Ideo etiam prò iis qui non sunt de statu religiosorum, vita religiosa norma et exemplar perfectionis christianae esse potest et debet (…) Quo magis aliquis vi-tam instituit secundum spiritum Consiliorum et ita propius accedit ad vitam re-ligiosam, eo magis accedit ad perfectionem (…) aut vie versa quo magis assimila-tur religiosis, eo propius ad perfectionem" (L. Hertiing, Theologiae asceticae cursus brevior, Romae, Univers. Gregoriana (2) 1944, 37-38)
2 "Perfectio, quam statuii theologia ascetica, non potest esse alia atque ea, ad quam invitai Ecclesia in statu religioso. Si enim status religiosus ab Ecclesia in-stitutus per se non ducerei ad summam perfectionem, fideles eum sequentes de-ciperentur (…) Summa adeoque vera et unica perfectio proponitur ab Ecclesia in statu perfectionis (…) (Cum perfectio sit una, status perfectionis si sunt plures, nec quoad finem nec quoad media essentialiter differre possunt)" (ibid., p. 24)
3 La santità perfetta e la virtù eroica è in base a ciò certamente raggiungibile nel matrimonio (cfr. anche quanto detto sopra nel capitolo sul matrimonio), ma più come un caso-limite e sempre in modo che in ciò appare perfettamente realizzato lo spirito della triplice rinuncia. Ad un certo punto questi santi, tanto più se essi hanno da rappresentare una grande missione ecclesiale (come un Tommaso Moro), oltrepassano l'ambito della famiglia e avanzano nello spazio di un faccia a faccia diretto con la volontà di Dio che conferendo la missione esige tutto. Her-tling paragona la santità pienamente raggiunta e la canonizzazione nello stato laicale ad un "Doctor honoris causa". "Eruditio acquiritur communiter et ordinarie per scholam elementarem, mediana, universitatem, coronatur grado aliquo, laurea. Haec est via communis. Potest fieri ut aliquis sine ulla schola solo ingenio et privata diligentia veram culturam et eruditionem sibi acquirat, ita ut nulli cedat laureato (…) Tamen norma, secundum quam diiudicantur omnes in hoc statu rerum, est "laureatus"" (loc. cit. 38)