Summa Teologica - I

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Il primato dell'essere e dell'intelletto

VII

21 - Notiamo ancora che l'Angelico, pur accettando quale verità indiscutibile e valorizzando molto la nozione di Dio come Sommo Bene ( cfr. I, q. 6; q. 19, a. 2; III, q. 1, a. 1; q. 23, a. 1; q. 75., a. 1 … ), preferisce ( distinguendosi in questo dalle correnti teologiche più ispirate al Platonismo ), come concetto sintetico massimamente comprensivo, quello di Essere sussistente.

Perché il concetto di essere, come concetto, gli appare più universale di quello di bene ( q. 5., a. 2 ); e la facoltà intellettiva, che ha come suo proprio oggetto l'essere, primeggia sulla volontà che ha come suo proprio oggetto il bene; il quale non muove la volontà se non in quanto conosciuto dall'intelletto.

E da questo pertanto, la volontà, pur essendo prima nell'ordine dell'efficienza ( I, q. 82, a. 4 ), riceve nell'ordine della causalità finale e formale la sua specifica determinazione.

Sicché, assolutamente parlando - essendo il fine la prima delle cause - l'intelletto precede la volontà e la dirige ( I, q. 82, a. 3 ).

Anzi ogni volontà emana dall' intelligenza come da suo principio ( I, q. 19, a. 1; q. 27, a. 3; q. 59, a. 1; q.80, a. 1 ); e il suo atto libero è tutto impregnato della luce intellettiva, ed è intimamente connesso all'esercizio del raziocinio ( I, q. 83 ).

Tuttavia, realista sino in fondo, l'Angelico - proprio in forza dei principi or ora accennati circa l'oggetto proprio della nostra intelligenza e il modo di procedere di essa nel suo atto, e la conseguente imperfezione della nostra conoscenza di Dio - stabilisce che è cosa migliore amare Dio, specialmente in questa vita, che conoscerlo, ossia che, trattandosi di questo supremo oggetto dell'amore, amare vai meglio che conoscere; e la carità, la quale è nella volontà come forza impulsiva ad amare Dio com' è in sé, è più alta e nobile virtù, che la, fede, la quale è nell' intelletto e ci fa conoscere Dio soltanto imperfettamente nelle analogie dell'ente creato.

L'amore infatti, spiega S. Tommaso, procede dalla conoscenza, ma fa un percorso inverso: l'intelletto conosce traendo a sé le cose, la volontà invece tende alle cose conosciute per possederle in se stesse.

Sicché l'intelletto, conoscendo Dio, lo abbassa al suo livello ( quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur ), mentre il moto dell'amore tende a superare questo limite per possedere Dio com'è in sé; il suo desiderio non si appaga ma si acuisce e non lascia tregua all' intelletto ( cfr. p. 247, nota 3; II-II, q. 27, a. 4; De Verit., q. I, a. II, ad 6 ).

« L'amore di Dio, quindi, è qualcosa di più grande - maius aliquid - che la conoscenza di Dio, specialmente nello stato di via », in cui ci troviamo finché viviamo su questa terra ( II-II, ivi, ad 2 ).

Presuppone tuttavia la conoscenza di Dio, la quale ne rende possibile l'amore; e la conoscenza stessa riprenderà il suo posto di primato, anche nei rapporti con Dio, però non del tutto, nel termine della via, in Patria: quando l'intelligenza fornirà alla volontà il possesso pieno del Sommo Bene, a cui la volontà anela; non più inseguendolo nelle ombre, ma vedendolo svelatamente faccia a faccia ( I, q. 12, a. 10; I-II, q. 3, a. 4 ).

Questa dottrina - del primato dell'intelligenza - ci permette di salvare con più evidenza la libertà di Dio nella sua azione creatrice e in tutte le opere ad extra, contro il pericoloso determinismo naturale dei Neoplatonici, e contro quello psicologico, che ebbe più tardi la sua formazione nell'ottimismo di Leibnitz.

Tra l'essere di Dio, della cui bontà sono partecipazione le creature, e la volontà che, per il suo stesso impulso verso il bene, tende naturalmente a comunicare la bontà, sta di mezzo, regolatrice, l'intelligenza, la facoltà che ricerca l'armonia; e ad essa spetta scegliere i fini e proporzionare i mezzi ai fini.

L'essere, quindi, e l'ordine delle cose create, è fatto anzitutto dall'intelligenza, alla quale segue la scelta del volere ( I, q. 14, a. 8; q. 19, a. 4 ).

Il fine, che Dio si prefigge nelle opere esteriori, essendo la bontà divina partecipata e manifestata, appare chiara la libertà assoluta dell'atto creatore, poiché la bontà di Dio - per sé sussistente come il suo essere col quale coincide - è pienezza infinita che nulla riceve dalle creature, e resta sempre infinitamente distante da tutte le sue possibili partecipazioni, realizzabili nelle creature ( cfr. I, q. 19, a. 10; q. 25., a. 6 ).

L'essere sussistente, che agisce per intelletto, non può non essere libero circa i beni, che non sono la sua stessa essenza ( I, q. 19, a. 3 ); e se si vuole parlare di necessità divina nel creare, conservare e governare le creature, si deve intendere di una necessità non assoluta, ma di supposizione; supponendo, cioè, che Dio le voglia, non potrebbe non volerlo, data la sua assoluta immutabilità ( I, q. 19, a. 3 ).

22 - In forza dei cinque suddetti attributi che culminano e si condensano nel concetto di « Essere sussistente », S. Tommaso esclude sin dal principio ogni possibilità che Dio venga panteisticamente confuso con qualsiasi ente creato o parte di ente creato ( cfr. q. 3 ).

Tra l' « Essere per sé sussistente » - pienezza di perfezione e massima semplicità ( q. 4 ), atto puro di perfezione - e gli enti per partecipazione, che non sono l'essere, ma partecipano l'essere - composti quindi, nel loro stesso nucleo costitutivo, da due elementi distinti e proporzionati, uno limitante ( potenza, essenza ) l'altro limitato, ma conferente la reale perfezione ( atto, esistenza ) - la distinzione è radicale e irriducibile.

L'Essere sussistente, appunto perché atto puro, tutto omogeneo in sé, non è che uno e immoltiplicabile ( q. 11 ); è necessario, pienezza simultanea di totale perfezione ossia eterno ( cfr. q. 10 ), semplicità assoluta, senza possibili distinzioni reali ( q. 3 ), assolutamente immune da qualsiasi forma di mutamento ( q. 9 ), causa creante di tutto l'essere ( I, q. 44 ).

Mentre l'essere per partecipazione è moltiplicabile, è contingente e limitato, è mutevole, bisognoso di essere sorretto dall'onnipotenza di lui, appunto perché nel suo nucleo costitutivo non è atto puro, tutto in sé omogeneo, ma composizione reale di potenza ed atto insieme: due elementi distinti, non separabili, ma condizionantisi a vicenda.

Ogni possibile ente che non sia Dio, non può essere se non così.

Questi due concetti nella dottrina di S. Tommaso ( Dio Essere per sé sussistente, nel quale si identificano essenza ed esistenza; le creature enti per partecipazione, realmente composti di essenza e di esistenza ) riassumono tutto ciò che appartiene a Dio come tale è alle creature come tali.

Così l'elemento distintivo, per cui i due mondi - l'increato e il creato - sono irriducibili, è intrinseco a Dio e agli enti creati, e non semplice predicato estrinseco.

Questa visione metafisica è così una forte base per escludere qualsiasi forma di panteismo, e altresì per affermare energicamente la distinzione tra l'ordine naturale e l'ordine soprannaturale ( cfr. n. 17 in fine ).

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