Celebrazione liturgica

IndiceA

Sommario

Introduzione.
I. Vita del culto e culto della vita;
1. Liturgia come mistero:
a. La religiosità cristiana,
b. Liturgia cristiana come celebrazione dei "misteri";
2. Liturgia come azione di salvezza:
a. I sacramenti come azione,
b. I sacramenti come incontro,
c. Uno sguardo alla storia.
II. Celebrazione e missione:
1. Vita, liturgia e missione;
2. Liturgia e vita:
a. Liturgia e vita della chiesa,
b. Liturgia e vita delle vocazioni,
c. Liturgia e vita delle testimonianze;
3. Contemplazione e liturgia.
III. Celebrazione e dialogicità:
1. Celebrazione e dialogo con Dio;
2. Celebrazione e dialogo con gli uomini.

Introduzione

Fino a non molti decenni or sono, ogni accostamento e confronto tra le celebrazioni cristiane e quelle proprie di altre religioni suscitava diffidenza e addirittura un netto rifiuto; lo stesso confronto tra celebrazioni veterotestamentarie e quelle neotestamentarie, reso in certo modo inevitabile dall'appartenenza di ambedue i contesti celebrativi all'unica religiosità biblica, era condotto con l'evidente preoccupazione di mettere in risalto i grandi limiti delle prime e l'enorme superiorità delle seconde.

Per la verità questo atteggiamento di diffidenza non mancava di buone giustificazioni.

Tra gli studiosi di storia delle religioni ad es., c'era chi - spinto da precomprensioni ideologiche più che da rilevazioni di fatto - credeva di poter sostenere l'esistenza di un'unica matrice mitica, assolutamente indifferenziata, per ogni gesto celebrativo religioso.

Per logica conseguenza le effettive e innegabili differenze, riscontrabili nei diversi contesti di celebrazione, erano ritenute abbastanza marginali e, in ogni caso, erano attribuite solo al diversificarsi dei livelli di civiltà, dei contesti socioculturali e, in sostanza, delle epoche storiche che si succedevano.

Per questo stesso motivo ci fu un periodo, nei primi decenni dei nostro secolo, in cui divenne quasi un canone scientifico quello di
stabilire un parallelo molto stretto tra alcune celebrazioni cristiane e quelle della religiosità babilonese ( panbabilonismo ); o, più frequentemente, con i culti misterici praticati in alcune regioni del bacino mediterraneo in epoca precristiana e anche in epoca immediatamente postcristiana.

Al di là di queste spiegazioni e delle loro presunte documentazioni scientifiche giocava però l'aprioristica convinzione che le celebrazioni e tutte le attività rituali in genere erano sempre espressione di civiltà del tutto primitive, di situazioni di subcultura o, al massimo, di folklore e, come tali, destinate a scomparire con l'avvento di civiltà progredite, di cultura evoluta e di vita emancipata.

L'ipotesi che la celebrazione avesse un solido fondamento antropologico e che trovasse quindi le sue radici non solo nella realtà stessa dell'uomo e del suo mondo, ma specialmente nella natura specifica del rapporto religioso Dio-uomo, non era neppure presa in considerazione.

Ora, che il mondo cristiano rifiutasse energicamente di lasciar ricondurre le sue celebrazioni entro l'ambito della mitologia e che protestasse categoricamente di fronte alla pretesa di ridurre la celebrazione ad un fatto di subcultura e di folklore, è del tutto comprensibile.

Le matrici delle celebrazioni cristiane sono ben altre.

Tuttavia non è altrettanto legittimo che il mondo cristiano, per non subire indebite riduzioni o alterazioni del suo patrimonio liturgico, si rifiuti di prendere in giusta considerazione il reale fondamento antropologico dell'attività celebrativa.

È proprio questo fondamento che, mentre da una parte consente alla ritualità cristiana di conservare immutata ogni sua più vera originalità, le consente, dall'altra, anche di rendersi interprete qualificata di ogni ordinata religiosità naturale.

La cultura contemporanea non ha ancora completamente superato le sue prevenzioni nei confronti di un effettivo valore antropologico dell'attività celebrativa; anzi, in alcuni contesti, sembra che queste prevenzioni siano ulteriormente esasperate.

Ma ormai non sono più un caso sporadico e culturalmente marginale le correnti di pensiero che riscoprono e rivalutano la funzione formativa dell'accostamento e dell'interpretazione simbolica del reale.

In questo contesto, la simbolicità non rientra più nella categoria dell'irreale, del non vero e del futile, ma diventa un nuovo e più profondo modo di vedere e di sperimentare la realtà e di situare se stessi in un rapporto più costruttivo con le cose, con gli uomini e con Dio stesso; diventa addirittura la contestazione più efficace di una mentalità efficientistica che, dopo avere deturpato il mondo, ha largamente strumentalizzato l'uomo [ v. Simboli spirituali ].

I - Vita del culto e culto della vita

Se è vero che da diversi secoli a questa parte l'uomo si è abituato ad accostare la realtà prevalentemente dal punto di vista dello sfruttamento e del dominio, se è vero che di fronte alla realtà che lo circonda, dopo di essersi chiesto « che cos'è? », la domanda che l'uomo ritiene più ovvia e costruttiva è la seguente: « a che cosa serve? », è però altrettanto vero che alcune amare esperienze di cui l'uomo contemporaneo incomincia a rendersi conto ( vedi ad es. problema ecologico [ v. Ecologia ] ) incrinano la certezza con cui si riteneva che l'unico modo intelligente di accostare il reale per favorire il progresso è quello della sua utilizzazione efficientistica.

Si tratta di un'incrinatura che, sia pure a diversi livelli e con diversa profondità, attraversa già anche il fronte della ricerca scientifica e della tecnica, ma che, in ogni caso, si affaccia in forma sempre più evidente sul fronte della filosofia, della sociologia e delle scienze dell'uomo in genere.

Del resto per il ricupero dell'importanza e dell'ampiezza che la simbolicità gode nella sfera dell'esistenza umana basta pensare alla dimensione assolutamente nuova e diversa che gli stessi fatti biologici assumono a livello umano.

Il mangiare dell'uomo ad es. è qualcosa di più e di diverso dell'assunzione del cibo da parte di un animale ed è sintomatico il fatto che il mangiare assume la sua forma più palesemente umana nel banchetto, cioè in un contesto dove il fatto biologico del prendere cibo consente all'uomo di esprimere e di realizzare il suo essere "con" gli altri uomini, mediante e "con" le vivande di cui si nutre.

Nel "rituale" del convito, dove l'uomo solidarizza con le cose per solidarizzare con i suoi simili, si crea comunione e, per converso, una comunione già in atto trova modo, nel convito, di significarsi e di realizzarsi ulteriormente.

In altre parole: all'interno della carica simbolica del gesto conviviale - come, del resto, in ogni altro gesto simbolico - l'uomo recepisce, esprime e realizza un'interpretazione particolarmente profonda del suo essere e del suo esistere anche se, il più delle volte, nessuno dei partecipanti al convito è in grado di teorizzarla in forma riflessa.

In questo contesto l'uomo apprende che la sua ragion d'essere e il senso del suo "esserci" non li trova in se stesso ma in un doppio "con": essere "con le cose", essere "con gli uomini", e che questo doppio "con" è a sua volta fondato su un terzo "con" stabilito dalla stessa struttura dell'uomo che è uno spirito "con" un corpo e viceversa.

Quanto si è detto della carica simbolica del convito è valido per ogni gesto con cui l'uomo cerca di esprimere e di realizzare il suo situarsi all'interno di un'unica corrente di vita cosmica.

Ma all'interno di quest'unica corrente di vita emerge quell'ultimo e supremo "con" che da senso a tutto senza eccezione e che costituisce la più alta, ma anche la più indispensabile ragione dell'attività simbolica umana: l'essere "con" Dio.

Se attraverso il simbolismo l'uomo si recepisce e si esprime come un essere "situato" in un complesso di rapporti che danno concretezza e senso alla sua esistenza, è attraverso il simbolismo che recepisce ed esprime soprattutto il suo rapporto con la trascendenza nella quale trova giustificazione e senso non solo la sua realtà e la sua esistenza singola, ma tutta la realtà cosmica e la storia.

Non esiste religione al mondo che non abbia cercato di esprimere attraverso gesti simbolici la sua interpretazione globale e unitaria del reale e che abbia pensato di poter prescindere dalla celebrazione per vivere il suo rapporto con Dio.

A questo punto è però indispensabile sottolineare che se tutte le religioni convergono nel vivere e nell'esprimere simbolicamente il loro rapporto religioso, divergono tuttavia radicalmente nei contenuti dei loro gesti simbolici: i gesti significanti possono essere pressoché identici in varie religioni, ma il significato del gesto significante è notevolmente diverso.

La non esatta interpretazione di questa convergenza/divergenza ha portato, come si faceva rilevare più sopra [ v. Introduzione ], sia all'errata affermazione di un'effettiva identità tra la celebrazione cristiana e quelle pagane, sia all'altrettanto errata negazione di una qualsiasi e pur remota radice comune tra l'una e le altre.

Ma, per quanto contrastanti tra loro, tutte e due queste tesi hanno in comune un pericoloso misconoscimento della dimensione antropologica della celebrazione; e mentre la prima - in nome di una presunta scientificità - fa di ogni celebrazione un fatto non umano perché alienante, o comunque un fatto di subcultura perché sottintendente un'interpretazione non "scientifica" del reale, la seconda, per difenderne l'originalità e la sublimità, crede indispensabile isolare le celebrazioni cristiane da quelle basi che le accomunano ad ogni altra celebrazione almeno nella misura in cui corrispondono all'intima natura dell'uomo e alle origini stesse del rapporto trascendenza/immanenza.

Se si tiene presente la convergenza/divergenza sopra accennata, è evidente che il ricondurre la celebrazione cristiana entro l'ambito dell'umano e del cosmico non significa spogliarla della sua originalità di contenuti e della sua soprannaturalità di origine e di efficacia; significa semplicemente non mettere in concorrenza tra loro l'aspetto umano e quello divino della celebrazione.

Significa impedire che gli sforzi fatti dalla tradizione cristiana per leggere in chiave di autentica alleanza il mistero dell'incarnazione ( un unico Cristo che è simultaneamente vero uomo e vero Dio ), risultino fittizi e inutili proprio all'interno della liturgia che è la sorgente e il culmine della vita cristiana.

È in nome di questa logica di alleanza che il riconoscere nella vita del culto un autentico culto della vita non può risultare riduttivo dell'integrità cristiana e tanto meno offensivo per la sua dignità.

1. Liturgia come mistero

L'aspetto più caratteristico e specifico della liturgia cristiana rispetto alla liturgia di ogni altra religione sta nel suo essere "celebrazione" dei misteri della storia della salvezza.

Questa affermazione, tuttavia, per quanto chiara, è del tutto inadeguata a mettere in risalto lo specifico della nostra liturgia, se non è prima situata e riletta nel quadro più ampio della religiosità cristiana.

a. La religiosità cristiana

Mentre le grandi religioni, comprese quelle positive - che in qualche misura si rifanno ad una rivelazione soprannaturale -, sono prevalentemente fondate su una religiosità cosmica, quella cristiana è decisamente legata ad una religiosità storica.

La religiosità cosmica si pone come teorizzazione del rapporto Dio creatore - uomo creatura, Dio dominatore e sovrano - uomo suddito e servitore.

All'interno di questo rapporto la storia è assumibile solo dal versante umano, non coinvolge la divinità.

Le dottrine con cui l'uomo teorizza il suo rapporto religioso, l'etica con cui codifica le normative divine, i riti con cui onora la divinità, celebra la sua sudditanza e cerca di ottenere i favori e la benevolenza divina possono variare nel corso della storia e, di fatto, hanno una storia, ma - nell'ambito della religiosità cosmica - il rapporto Dio-uomo resta sostanzialmente immutabile, cioè quello: Creatore-creatura.

Facendo progredire in meglio i suoi atteggiamenti religiosi, l'uomo potrà ottenere da Dio maggiori favori, ma non potrà mai pensare di diventare qualcosa di più e di diverso di una semplice creatura.

Invece la religiosità storica, come quella biblica in genere e cristiana in specie, pur riconoscendo come fondamentale l'atto divino creatore, si pone però come il risultato di una serie di interventi di Dio nella storia.

Questi interventi, oltre a rapportarsi a quel primo atto come un insieme di fatti concatenati tra loro da un'unica logica salvifica, costituiscono un unico tessuto storico dove il rapporto tra i due protagonisti.

Dio e l'uomo, si evolve e, senza smentire il primitivo rapporto Creatore-creatura, si pone come rapporto Padre-figlio.

In questo modo, il vero significato della religiosità non è dato dal primo intervento di Dio, ma dall'ultimo, cioè da quello che in una visione retrospettiva esplicita il senso e il fine di tutto quello che è avvenuto in precedenza.

Nel nostro caso, l'evento supremo è il Cristo nel quale Dio si rapporta così profondamente con l'uomo e si impegna a tal punto nella storia, da entrare a farvi parte come può farlo un Dio che è anche vero uomo.

L'evento Cristo, però, considerato nella sua totalità ( il Cristo pasquale ), oltre a costituire il vertice della storia della salvezza, oltre a darle il suo senso compiuto, indica l'economia che la regge e quindi caratterizza la religiosità e, conseguentemente, la celebrazione cristiana sotto diversi aspetti.

Innanzi tutto, dal momento che Cristo è una realtà storica dove l'uomo s'incontra definitivamente con Dio fino a rendere praticamente inseparabile l'uno dall'altro, la religiosità cristiana si qualifica giustamente come una religiosità di alleanza.

Il mistero di Dio non è più soltanto un fatto di trascendenza ma anche di storia; i misteri divini non sono più solo una verità soprannaturale che l'uomo accetta per l'autorità di Dio rivelante, ma il fondamento di una storia.

In altre parole: la verità salvifica non è più teorizzabile solo come un principio o una serie di principi teorici a cui la storia si deve adeguare, ma appartiene allo stesso tessuto storico.

Per i cristiani la verità è Cristo; al punto che, secondo un corretto procedere di riflessione teologica cristiana, non si parte da Dio per capire Cristo, ma da Cristo per capire Dio.

D'altra parte, questa storia così profondamente modificata ( nuovo modo di essere ) da porsi come il "locus" dell'azione e della presenza divina, presenta due altre caratteristiche.

La prima è data dalla sua gratuità.

La storia della salvezza e il Cristo che ne è il vertice non sono il frutto di una conquista umana ma dell'iniziativa divina.

L'uomo e la sua storia, tuttavia, non sono neppure un semplice strumento passivo dell'azione divina; non sono qualcosa di fittizio e di umbratile dove la libertà, l'autonomia e l'impegno umano storico sono solo una maschera di una volontà divina e trascendente che domina incontrastata e che si serve degli uomini come di strumenti.

La fede cristiana ha sempre difeso l'autenticità della dimensione umana di Cristo contro coloro che ne facevano un'apparenza, perché diversamente la stessa storia umana avrebbe perso ogni suo valore; se l'incontro di Dio con l'uomo e con la storia fosse stato possibile solo al prezzo dello svuotamento dell'uno e dell'altra, allora anche il rapporto religioso non avrebbe più potuto essere di alleanza ma solo di strumentalizzazione paternalistica.

La gratuità della storia della salvezza non è sinonimo di futilità e inconsistenza, ma piuttosto di graziosità, di amore, di donazione e, inoltre, sta a significare che lo stile con cui l'uomo può costruire positivamente la sua storia deve corrispondere a quello con cui Dio stesso interviene nella storia.

Anche da questo punto di vista la figura di Cristo è fortemente significativa: Cristo, che è il massimo dono di Dio all'uomo, è anche l'uomo che si dona totalmente nella sua morte in croce, la quale, nonostante possa sembrare un effettivo fallimento storico, è in realtà il momento più costruttivo della storia.

L'altra caratteristica della storia della salvezza è il suo orientamento escatologico.

Se il vertice della storia è il Cristo pasquale, cioè colui che nella sua gloriosa risurrezione attinge uno stato che trascende la storia, allora anche la storia della salvezza troverà la sua piena realizzazione in una meta che è al di fuori e al di sopra della storia stessa.

Anche l'affermazione dell'orientamento escatologico della storia sembra comportare un giudizio di svalutazione della storia; ma in realtà, come lo dimostra il sorprendente sviluppo che in questi ultimi tempi ha avuto il tema della ( v. ) speranza cristiana, è proprio la tensione escatologica [ v. Escatologia ] a fondare l'impegno del cristiano nel mondo e nella storia e a sorreggerlo nel vincere la tentazione di cercarsi un alibi nella vita futura o di bloccare la storia con un atteggiamento di "conservatorismo" che smentirebbe la sua fede in un futuro verso il quale non ha mai finito di camminare

b. Liturgia cristiana come celebrazione dei "misteri"

Precisata così la religiosità cristiana nei suoi elementi strutturali ( alleanza, gratuità, tensione escatologica ), è più facile rendersi conto del significalo e della portata che fa della liturgia cristiana una celebrazione dei "misteri".

Per la comunità cristiana, la celebrazione e il culto non si rifanno ad un'ideologia e tanto meno ad una concezione magica del rapporto religioso, ma nascono da una storia; le fondamentali attività celebrative ( i sacramenti ) sono il momento in cui il fedele, reso partecipe dei misteri di salvezza, è inserito in una storia nuova.

Dall'inserimento nella storia della salvezza, che ha una sua economia e una sua logica di sviluppo, il cristiano desume anche le norme etiche che regolano i suoi comportamenti e lo stile di vita che lo contraddistingue nel costruire la sua storia.

Si capisce, quindi, perché questi momenti di celebrazione siano chiamati, nel linguaggio cristiano, "memoriale": dalla memoria dell'evento salvifico di ieri si desume una verifica per l'oggi e le norme operative per il domani.

In conclusione: se si; volesse riassumere il ritmo di sviluppo della religiosità cristiana e, quindi, l'esatta collocazione della celebrazione al suo interno, si potrebbe dire che, sulla base di un'esperienza storica di grazia, recepita nella fede, la religiosità cristiana rivive quest'esperienza nella celebrazione dalla quale ricava i criteri orientativi per una corretta gestione della storia: dall'esperienza alla celebrazione e dalla celebrazione all'obbedienza.

Nello stesso tempo, però, il ritmo ha anche una fase di ritorno perché, mentre la vita condotta secondo le norme etiche e la logica della storia della salvezza costituisce l'elemento che da consistenza ed autenticità alla celebrazione cultuale cristiana, la celebrazione fornisce a sua volta la chiave per una lettura di fede della storia, e, quindi, per l'esperienza della vita come grazia: dall'obbedienza alla celebrazione e dalla celebrazione all'esperienza.

La celebrazione viene così a trovarsi al centro del tessuto storico e, sebbene nel suo porsi come rito conservi tutta l'apparenza di un momento disgiunto da ogni attività direttamente intesa alla edificazione della storia, ne è invece il fattore connettivo più importante.

Intesa in questo modo la liturgia diventa la sorgente e l'anima di una spiritualità che, oltre a sfuggire al pericolo di un intimismo e di un individualismo esasperato, si pone come ricerca di un rapporto con Dio che coinvolga in un unico vincolo di solidarietà il rapporto con i fratelli e con ogni realtà creata.

Tuttavia, per enucleare meglio le caratteristiche di una spiritualità liturgica, è necessario approfondire ulteriormente il rapporto liturgia-salvezza.

2. Liturgia come azione di salvezza

Sebbene le informazioni pervenuteci sulle celebrazioni della comunità apostolica e subapostolica siano estremamente scarne, sono tuttavia sufficienti non solo a documentare quanto è stato precedentemente stabilito sulla dimensione misterica della liturgia cristiana, ma anche a fornirci una nozione adeguata della salvezza che i cristiani intendevano raggiungere mediante le loro celebrazioni.

Le celebrazioni di quest'epoca, semplici e notevolmente ridotte dal punto di vista della ritualità, sono soprattutto quelle dell'iniziazione cristiana ( battesimo, confermazione, eucaristia ).

Il significato di questi riti, così come risulta dalla predicazione apostolica, è certamente quello di offrire agli uomini la salvezza che Cristo è venuto a portare, ma la loro funzione è quella di offrirla descrivendola.

Prendendo in considerazione le strutture e le diverse componenti del gesto rituale non è difficile rendersi conto che, se la salvezza cristiana può anche essere descritta in termini discorsivi e tanto dettagliati da consentirci l'elaborazione di una sua nozione teorica e sistematica, nessuna descrizione è però tanto viva e ricca quanto quella fornitaci dai gesti simbolici che, descrivendola, ce ne consentono una prima, germinale ma fondamentale esperienza.

In pratica le strutture portanti dei riti sacramentali sono due: l'azione, che si specifica come incontro; la nozione di salvezza cristiana si disegna attorno a queste due coordinate.

a. I sacramenti come azione

I riti sacramentali, sebbene coinvolgano anche le cose, non sono una cosa ma un'azione.

Quando la teologia, parlando dei sacramenti, li definisce "strumenti" e "segni", non si discosta dal vero, ma non si premunisce abbastanza dal pericolo - di fatto largamente incorso - di sottoporre i sacramenti ad un processo di cosificazione.

Se i sacramenti sono un segno, la loro carica di significazione non è data tanto dalle cose, ma dall'uso che se ne fa; se i sacramenti sono uno "strumento" di santificazione, non lo sono come può esserlo un utensile o un meccanismo, ma come lo è un gesto simbolico che, al di là della materialità delle forme, coinvolge in un'azione tanto profonda da non essere esprimibile e recepibile che simbolicamente.

A titolo puramente esemplificativo si pensi a tutta la gestualità simbolica di cui l'amore ha bisogno per esprimersi e per edificarsi.

Purtroppo il processo di cosificazione dei sacramenti si rivelerà notevolmente pericoloso perché, oltre ad impoverire la nozione di sacramento e a determinare, conseguentemente, un analogo processo di cosificazione della "giustizia" cristiana, sarà la ragione principale della frattura tra spiritualità e liturgia di cui faremo cenno in seguito.

Ma, qualificando la celebrazione sacramentale come azione, resta ancora da dire che si tratta di un'azione ministeriale e comunitaria.

La caratteristica della ministerialità emerge con particolare evidenza, ad es., nella celebrazione del battesimo.

La prassi abluzionale come simbolo di purificazione e di penitenza era largamente in uso anche nel contesto giudaico precristiano; ma, mentre in questo caso si tratta di un gesto con cui l'uomo esprime simbolicamente il suo sforzo personale di conversione ( il penitente poteva amministrarsi anche da solo l'abluzione ), nel caso cristiano è innanzitutto l'espressione simbolica di un'azione di Dio.

Il rito è compiuto in nome e per autorità di Dio; colui che amministra l'abluzione è solo un ministro di un attore principale e più vero, e chi riceve l'abluzione sa di sottoporsi ad un'azione che non è di un uomo ma di Dio stesso.

D'altra parte, sia perché l'azione di Dio ha come scopo l'edificazione salvifica dell'individuo in una comunità, sia perché il senso della risposta dell'uomo all'azione di Dio non è stabilito dal singolo ma dalla comunità in cui è inserito, l'azione rituale è sempre comunitaria.

Del resto la stessa ministerialità dell'azione sacramentale, mentre da una parte sta a significare che si tratta di un'azione di Dio, dall'altra significa che si tratta di un gesto compiuto in nome di una comunità.

b. I sacramenti come incontro

L'azione liturgica cristiana, però, si struttura e si specifica come incontro e, nel linguaggio teologico contemporaneo, la definizione dei sacramenti come "incontro" è ormai comunemente accettata.

Da un'analisi anche sommaria degli elementi che costituiscono il rito sacramentale è facile rendersi conto che, nella celebrazione, l'uomo si incontra con la parola di Dio che gli annuncia e gli promette la salvezza e con la comunità ecclesiale nella quale le promesse salvifiche trovano attuazione.

D'altra parte, siccome la parola di Dio diventa un discorso compiuto solo in Cristo, mentre la comunità è costituita e radunata attorno a Cristo, ne consegue che l'azione sacramentale è fondamentalmente un incontro con Cristo e con i suoi misteri.

Nelle formulazioni dottrinali di tutta la tradizione cristiana, la giustificazione e la salvezza sono spesso e più dettagliatamente descritte come remissione dei peccati, come conferimento della grazia e come caparra della vita eterna; bisogna tuttavia convenire che la descrizione fornitaci dalla celebrazione liturgica, anche se meno sistematica, è però più globale e vitalmente più ricca; tanto più che nell'azione liturgica è sempre rimarcato quel fondamentale fattore di giustificazione e di salvezza, a volte trascurato dalle descrizioni sistematiche, che è lo Spirito di Cristo.

Nella misura in cui si lascia effettivamente coinvolgere in una celebrazione che è "azione-incontro", l'uomo non può più ipotizzare la giustificazione e la salvezza solo come scioglimento da un debito o come assoluzione da una colpa in senso giuridico e nemmeno come semplice conferimento di un dono da custodire gelosamente per ottenere l'accesso alla beatitudine eterna.

La celebrazione proclama ad alta voce che la giustizia cristiana è un nuovo rapporto con Dio, con i fratelli e con tutta la realtà, derivante da una vita nuova suscitata e vissuta nello Spirito del Signore.

Ciò che fa del giusto un uomo nuovo non è solo un'entità nuova che si sovrappone alla sua natura, ma una vita che trasforma tutto il suo essere.

La spiritualità del cristiano diventa, quindi, un cammino, guidato dall'azione dello Spirito, di progressiva personalizzazione del rapporto con Dio, con Cristo nei suoi misteri e con la comunità.

L'esercizio di ogni virtù [ v. Santo ], la pratica dell' ( v. ) ascesi cristiana, ogni forma di testimonianza e di ( v. ) apostolato, trova il criterio di verifica della sua autenticità in questa triplice relazione significata e stabilita dall'azione liturgica.

Le modalità di esercizio delle virtù, della testimonianza e dell'apostolato possono variare, così come di fatto variano le stesse forme di esistenza storica, ma la spiritualità cristiana trova in ogni caso un'unica convergenza nella relazione e nell'incontro dinamico con la parola, con Cristo e con la chiesa.

In questo senso e per questo motivo la spiritualità cristiana diventa una spiritualità dialogica; non solo perché nasce ed è finalizzata ad un incontro, ma perché coglie nella celebrazione i due tipici momenti di un incontro dialogico.

La medesima azione celebrativa, che è il segno efficace di una proposta e di un intervento salvifico di Dio, è sempre anche il segno con cui il cristiano offre a Dio, in ringraziamento e lode, la novità di vita da lui effettivamente condotta: l'azione liturgica è sempre e simultaneamente mezzo di santificazione e di culto.

c. Uno sguardo alla storia

Purtroppo, con il passare del tempo, sotto l'influsso di alcuni fenomeni storici di vasta portata, come ad es. la cristianizzazione di massa e l'incidenza di culture non sempre adatte all'interpretazione fedele del fatto cristiano, si è determinato un processo di eccessiva separazione della salvezza dalla storia ( la giusta affermazione che la salvezza trascende la storia, non deve far dimenticare il profondo rapporto che lega il tempo all'eternità e la storia all'escatologia ) e, correlativamente, un processo di riduzione della salvezza a dimensioni prevalentemente individuali e soggettive.

Le ulteriori conseguenze derivanti da questi dati di fatto furono molte, ma qui interessa sottolineare la rottura tra liturgia e spiritualità.

Nella misura in cui la salvezza fu intesa non solo come stato che trascende la storia, ma come realtà senza alcun aggancio diretto con il tempo presente, le celebrazioni liturgiche, e in particolare i sacramenti, diventeranno soltanto "mezzi" necessari per produrre la grazia, cioè l'entità indispensabile per poter accedere al premio eterno.

L'azione liturgica, pertanto, pur continuando ad essere un momento importante della vita e della prassi cristiana, non ne sarà l'anima, il punto di partenza e il criterio verificazionale.

La vita cristiana, più che dalla liturgia, sarà ritmata dall'etica, spesse volte intesa come complesso di norme piuttosto che come nuova logica di esistenza.

La spiritualità, tramite l'ascetica, troverà un maggior numero di legami con la morale che non con la liturgia e, in ogni caso, subirà il duplice processo di privatizzazione e di destoricizzazione a cui era stata sottoposta la stessa nozione di salvezza.

In questo clima la spiritualità troverà alimento nelle devozioni private [ v. Esercizi di pietà ] più che nella liturgia della chiesa: tanto che dal tardo medioevo in poi, sarà questa spiritualità devozionale ad esercitare un notevole condizionamento e, in certa misura, un influsso negativo sulla liturgia.

È l'epoca in cui il calendario liturgico vede prevalere il "santorale" sul "temporale", fino a consentire che i misteri della vita di Cristo, sorgente e norma ultima di ogni santità, siano in qualche modo sopraffatti dalla fioritura di altri modelli, senza dubbio validi, ma meno determinanti di vita cristiana.

Anche quando la spiritualità dirà riferimento ai misteri della vita di Cristo, lo farà attraverso pratiche devozionali notevolmente sganciate, se non addirittura sostitutive dell'azione liturgica.

Le stesse grandi scuole di spiritualità, alle quali non si può certo imputare di aver contribuito alla rottura tra spiritualità e liturgia, in pratica non furono immuni dal pericolo di specificarsi e di distinguersi tra loro più per un diverso orientamento devozionale che non per un diverso modo di testimoniare nella vita la loro fedeltà all'unico mistero salvifico celebrato dalla chiesa.

Per riscontrare un chiaro tentativo di ritorno alle sorgenti bisognerà aspettare la nascita del movimento liturgico che, dalla seconda metà del secolo scorso fino ai nostri giorni, oltre a promuovere le più illuminale riforme liturgiche sanzionate dal Vat II, oltre a introdurre i correttivi indispensabili per riportare la pietà popolare entro l'alveo della prassi liturgica, ha largamente favorito la rifioritura di una spiritualità liturgica.

Ciò che merita di essere sottolineato a questo punto è che il ritorno della spiritualità alla liturgia ha determinato un evidente risveglio, qualitativo anche se non sempre quantitativo, di vita cristiana; e, pur prescindendo dagli orientamenti nuovi impressi anche nelle diverse forme di arte e di architettura che con la celebrazione cristiana hanno un diretto rapporto, non possono essere sottovalutati gli influssi esercitati nell'ambito dell'ecclesiologia, della missionarietà e delle diverse testimonianze cristiane nel mondo del nostro tempo.

II - Celebrazione e missione

1. Vita, liturgia e missione

Il benefico riavvicinamento della liturgia alla vita cristiana, promosso ed operato dal movimento liturgico, non è stato sufficiente ad impedire, in epoca più recente, l'affacciarsi di alcune tesi esasperate della teologia della secolarizzazione che pretendeva attribuire a Cristo e alla religiosità cristiana un atteggiamento di radicale rifiuto, non solo del ritualismo, ma anche della stessa ritualità.

La fedeltà di Cristo all'uomo, al suo mondo e alla sua storia ( il saeculum in senso latino ) veniva teorizzata come movimento di totale "profanazione" ( riduzione al profano ) della nozione di sacro e anche di ogni attività rituale a cui la nozione di sacro era connessa.

Queste esasperazioni, prive com'erano di un solido fondamento, sono ormai superate; tuttavia è interessante rilevare che, pur approdando a conclusioni opposte, derivano dalla medesima radice da cui era scaturito il processo di cosificazione dei sacramenti: cioè l'incapacità d'individuare nella liturgia un effettivo aggancio con la vita, anzi la sorgente e il punto di partenza per la programmazione dell'esistenza cristiana.

Fra le ragioni remote, ma non meno determinanti, della crisi dei sacramenti deve essere ricordata anche la prassi di quei fedeli che, paghi di attingere nella celebrazione quanto è indispensabile per garantirsi l'accesso alla vita eterna, ne hanno fatto un punto di arrivo religioso piuttosto che un punto di partenza.

Se la vita cristiana non sa trovare altra prassi che quella rituale, non meraviglia che sia stato possibile parlare di praticanti non credenti e di credenti non praticanti.

Ma, oltre a questo dato di fatto, è giusto ricordare che, in connessione alla deprecabile frattura che si è operata tra liturgia e vita, è derivata anche l'altra non meno deprecabile separazione tra vita cristiana e missione.

Infatti, anche coloro che non hanno ridotto la pratica cristiana alla ritualità, se dimenticano che nella celebrazione siamo coinvolti in una storia nuova fondata sui misteri della vita di Cristo, possono ritenere che l'unico impegno di vita consista nello sforzo di conservazione della grazia ricevuta e, per logica conseguenza, di osservanza dei precetti morali.

La convinzione che la vita cristiana si deve sviluppare come testimonianza degli eventi salvifici, dei quali siamo diventati protagonisti, si attenua e passa in secondo ordine; la vita cristiana, che in realtà è missione per una testimonianza, diventa semplicemente coerenza e la missionarietà, cheè un dovere per tutti, diventa un compito riservato a coloro che, in uno slancio di generosità, hanno deliberatamente assunto un impegno non strettamente necessario per raggiungere la salvezza.

Pur prescindendo dal fatto che questa prospettiva ha contribuito, sia pure in connessione con altri fattori, a istituzionalizzare l'eccessiva contrapposizione tra clero e laicato [ v. Laico II ], cioè tra chi ha il dovere missionario e chi non l'ha, non bisogna dimenticare che ha dato il via ad un processo degenerativo della stessa nozione di missione e di apostolato.

Separata dalla testimonianza, la missionarietà e l'apostolato ( apostolo significa appunto mandato ) hanno potuto essere intesi come semplice opera di proselitismo e siccome - al limite - il proselitismo può essere fatto anche da coloro che non sono coerenti con la dottrina da loro propagandata, l'apostolato e l'azione missionaria hanno potuto perdere, a volte, il loro necessario legame, non solo con la testimonianza, ma anche con la coerenza.

Il ricupero della dimensione missionaria della liturgia, perciò, è veramente fondamentale, non solo per la vita e la spiritualità dei singoli cristiani, al fine di ridare autenticità ai loro atteggiamenti, ma per la stessa comunità ecclesiale.

2. Liturgia e vita

a. Liturgia e vita della chiesa

La famosa espressione del n. 10 della costituzione SC del Vat II dove si dice che « la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della chiesa, e insieme la fonte da cui deriva tutta la sua forza », ha trovato un largo successo ed ha fornito lo spunto per un numero indefinito di considerazioni.

Tuttavia, se non si vuole abusarne come di uno slogan o come di un enunciato suggestivo per la forma ma abbastanza indeterminato per i contenuti, se non si vuole darne un'interpretazione maggiorata o, viceversa, riduttiva, è indispensabile rapportarla al discorso che il Vat II sviluppa nel c. 1 della LG e che ha per oggetto il tema della chiesa "mistero-sacramento".

Ciò che costituisce la chiesa nella sua specifica natura e nella sua ragion d'essere nel mondo e nella storia sta nel suo essere evento e realtà storica suscitata dall'azione salvifica divina e non da una semplice decisione umana.

È Dio che fa della chiesa una comunità radunata in Cristo mediante l'azione dello Spirito per essere "segno", cioè un significativo ed effettivo punto d'incontro con la perdurante presenza di Cristo in mezzo a noi.

In altre parole l'origine trascendente della chiesa non è in funzione della sua autoaffermazione e per fare di lei una comunità privilegiata rispetto ad ogni altra società, ma in funzione del suo servizio al genere umano.

La costituzione della chiesa è in rapporto ad una missione e se la sua costituzione è straordinaria è perché la sua stessa missione è straordinaria.

Tutto questo è chiaramente indicato dalla s. scrittura; il testo di Mt 28,19, per non citarne altri, ha da sempre costituito la base da cui la chiesa ha desunto sia le sue riflessioni dottrinali che le sue scelte operative missionarie.

Resta vero però che la stessa parola di Dio, che ricollega la vocazione missionaria della chiesa all'esplicita volontà di Cristo, stabilisce un profondo legame tra liturgia e vita-missione della chiesa.

A questo proposito nei documenti del NT sono reperibili due filoni di pensiero estremamente interessanti.

Il primo, nel quale possono essere catalogati, oltre al succitato testo di Mt, tutti quelli nei quali si fa accenno al dovere-diritto della chiesa di amministrare i diversi sacramenti, mette in risalto che l'azione liturgica, pur non esaurendo l'attività missionaria della chiesa, ne costituisce però un momento fondante e, quindi, un settore inaccantonabile.

Il secondo, reperibile soprattutto nei testi che narrano l'istituzione dell'eucaristia e che illustrano la prassi eucaristica della comunità primitiva, fa rilevare che la natura dell'azione missionaria e l'animazione con cui deve essere condotta sono esplicitate dall'azione liturgica.

Fra i testi maggiormente indicativi, in questo senso, possiamo ricordare quello di 1 Cor 11,26 e quello di Lc 22,24ss.

Il testo paolino, dopo aver precisato che gli atteggiamenti egoistici con cui i Corinzi celebravano l'agape eucaristica smentiscono il significato della celebrazione della morte del Signore, che è un mistero di amore, di donazione, aggiunge che la celebrazione è in funzione di un annuncio: « …tutte le volte che mangiate questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore, finché egli venga ».

Muovendosi nella stessa linea logica dell'insegnamento paolino l'attuale liturgia eucaristica prescrive, subito dopo la consacrazione, la triplice acclamazione: «Annunciamo la tua morte.

Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta».

L'azione liturgica, quindi, informa che la natura dell'azione missionaria della comunità cristiana non consiste semplicemente nella diffusione di un messaggio, sia pure divino, ma è innanzi tutto l'annuncio-testimonianza di un evento storico che ha modificato la storia e che ha fornito un nuovo modo di gestirla.

La ripresentazione in sacramento del mistero pasquale conferisce a tutti coloro che vi prendono parte la missione di testimoniare, con la vita, che la storia umana è effettivamente cambiata e che si svolge secondo la logica sconvolgente a cui lo stesso ( v. ) mistero pasquale corrisponde.

La novità di vita che nasce dalla partecipazione sacramentale ai misteri della vita di Cristo non è monopolizzabile a fini salvifici puramente personali, perché è sempre una missione a testimoniare la realtà dell'evento salvifico celebrato.

L'impegno missionario della chiesa è molto di più della semplice fedeltà ad un comando: è la ragione del suo stesso esserci; la chiesa c'è per una testimonianza e ciò che deve testimoniare è ciò da cui ha tratto origine il suo essere.

Il testo di Lc, a sua volta, oltre a farci cogliere nell'eucaristia la ragione ultima dell'identità tra vita cristiana e missione, oltre a farne derivare lo stile con cui l'azione missionaria deve essere realizzata, ci fa individuare nell'eucaristia la fondazione cristologica della natura e delle caratteristiche della missionarietà della chiesa.

Per cogliere nella sua interezza l'insegnamento di questo testo scritturistico bisogna tener presente che Lc, dando al racconto dell'antagonismo degli apostoli una collocazione diversa da quella datagli dagli altri sinottici, ha un duplice e chiaro intendimento teologico: quello di farci cogliere il vero significato del gesto eucaristico e, più radicalmente, dello stesso mistero della Incarnazione.

Agli apostoli che, subito dopo l'istituzione dell'eucaristia disputano tra loro per stabilire chi sia il più grande, Gesù da una lezione che non è soltanto di umiltà, ma che esprime il criterio a cui corrisponde tutto il suo operare, compresa l'istituzione eucaristica, e il suo stesso essere di Figlio di Dio incarnato.

Mentre i potenti di questa terra affermano la loro grandezza facendosi servire.

Cristo afferma la sua grandezza mettendosi a servizio di tutti.

Mediante l'istituzione dell'eucaristia, nella quale Gesù spinge la logica del servizio fino all'estremo limite di farsi cibo degli uomini, da una duplice testimonianza: innanzi tutto che la ragione della presenza di un Dio-uomo nella storia non è quella di dominare la storia e di servirsene ma di servirla, salvandola; secondariamente che il suo "esserci" nel mondo è frutto di una "missione": quella conferitagli dal Padre per testimoniare che il modo con cui il Dio cristiano afferma la sua trascendenza e la sua signoria non è quello di isolarsi o di imporsi, ma di donarsi.

Per tutto questo, la celebrazione eucaristica si trova al centro di un duplice dinamismo di significazione.

Mentre da una parte ci dice che l'essere e l'esistere stesso di Cristo è già una missione-testimonianza e che l'esercizio di questa missione si esprime nel servizio e nella donazione di sé, dall'altra proclama che la missione della chiesa, prima ancora che un'attività da svolgere, è una novità di vita che testimonia il Cristo come il Cristo ha testimoniato il Padre, e che lo stile con cui si deve testimoniare il Cristo sarà, in ogni caso, quello del servizio.

Ma a questo punto la celebrazione eucaristica ci fornisce una terza informazione: poiché l'eucaristia è un convito di comunione con Cristo e, in lui, con tutti i fratelli, ne consegue che la prima missione-testimonianza della chiesa consisterà nel fare comunione, cioè nel saper essere una nella molteplicità, e inoltre nell'esprimere la sua testimonianza dell'unico Cristo mediante la molteplicità delle vocazioni cristiane.

b. Liturgia e vita delle vocazioni

I diversi carismi, di cui la comunità cristiana ha fatto l'esperienza durante l'epoca apostolica, erano qualcosa di notevolmente diverso da quello che noi oggi chiamiamo « vocazioni » cristiane [ v. Vocazione ].

Allora si trattava di grazie straordinarie che costituivano una prova visiva dell'efficacia rinnovatrice dell'azione salvifica compiuta da Dio in Cristo mediante il dono dello Spirito.

Eppure i documenti del NT hanno cura di sottolineare che già queste grazie straordinarie avevano uno stretto rapporto sia con l'azione liturgica sia con l'impegno missionario.

Il libro degli Atti, ad es., attesta in diverse circostanze che le manifestazioni carismatiche erano per lo più connesse con l'amministrazione del battesimo, mentre s. Paolo, nella 1 Cor 12-14, dopo aver insegnato che i carismi non debbono fornire occasione per antagonismi di alcun genere, rimarca che, se proprio si vuoi fare un discorso di gerarchizzazione dei carismi e tentare di stabilire quali siano i più importanti, il criterio da usare a questo scopo è quello della carità e dell'edificazione vicendevole.

I carismi più importanti sono quelli che edificano di più, cioè quelli che hanno una più evidente destinazione missionaria; che cosa importa avere il dono delle lingue se nella comunità non c'è nessuno in grado di dire "amen", cioè capace d'interpretare quanto è stato detto al fine di una sua utilizzazione proficua? [ v. Carismatici I,3 ].

L'esperienza dei carismi straordinari ebbe termine in un giro di anni abbastanza breve, ma tutta la storia dimostra che la chiesa ha sempre trovato innumerevoli forme di manifestazione della ricchezza della sua vita e del suo impegno missionario.

Tuttavia uno storico che leggesse la vicenda cristiana senza la giusta illuminazione della fede potrebbe dare a queste molteplici manifestazioni di vita e di apostolato un'interpretazione riduttiva.

La tentazione di attribuire tutto questo alla semplice iniziativa degli uomini che, a seconda delle esigenze del momento, sanno trovare le soluzioni più adatte, è molto forte; tanto più che anche all'interno della vita della chiesa si è potuto registrare, lungo il corso dei secoli, dapprima un progressivo sganciamento delle vocazioni dalle celebrazioni sacramentali e, conseguentemente, un processo di riduzione della stessa nozione di vocazione.

Il progressivo sganciamento delle vocazioni dagli eventi sacramentali ha avuto inizio quando, come si ricordava più sopra [ I,2,c; II,1 ], la giustificazione e la novità di vita ricevuta nei sacramenti è stata progressivamente concepita come un dono personale e, quindi, solo come un'entità soprannaturale di cui disporre per conseguire la salvezza escatologica.

In questo contesto, mentre la vita cristiana si sganciava sempre di più da un impegno di testimonianza che non fosse quello dell'adempimento degli obblighi morali, la testimonianza perdeva il suo naturale riferimento ai misteri della vita di Cristo celebrati nei sacramenti.

Le conseguenze di questo dato di fatto si sono rivelate lentamente, ma non per questo in misura meno determinante.

Gli obblighi morali a cui il cristiano cercava di essere fedele, nella misura in cui persero il loro diretto riferimento ai misteri della vita di Cristo e alla logica nuova da cui quei misteri erano stati animati, hanno subito in forma notevole l'usura dei diversi contesti culturali in cui la vita cristiana si poneva e, in molti casi, hanno assunto le dimensioni di un'etica naturale senza dubbio buona, ma priva delle più significative e specifiche animazioni cristiane.

Anche in questa situazione di cristianesimo abbastanza anonimo le vocazioni hanno continuato a fiorire, ma, invece di essere identificate in ogni stato di vita in cui il cristiano è costituito dagli eventi sacramentali, furono progressivamente individuate solo in quelle scelte che comportavano la pratica, non solo dei precetti, ma anche dei consigli evangelici.

Ora, pur prescindendo dal fatto che in questo modo non solo si legittimava in termini espliciti una distinzione reale tra precetti e ( v. ) consigli evangelici più di quanto lo spirito del vangelo lo consenta, ma addirittura la si istituzionalizzava; pur prescindendo dal fatto che la vocazione divenne un privilegio di pochi piuttosto che una chiamata per tutti, resta vero che, almeno in qualche misura, si favorì l'equivoco che la ricerca della perfezione concernesse solo alcuni e non tutti gli stati di vita cristiana.

Fu così che, mentre da una parte si poteva pensare che la fedeltà al battesimo, a cui sono tenuti tutti i fedeli, corrispondeva solo ad un programma minimale di vita cristiana, dall'altra, allentando il rapporto tra perfezione e battesimo, si poteva involontariamente dimenticare che la perfezione e la sua ricerca sono configurabili solo come realizzazione ed esplicitazione piena delle realtà e delle potenzialità ricevute nel battesimo.

c. Liturgia e vita delle testimonianze

Ma, oltre a tutto questo, pensiamo sia giusto far notare due altre conseguenze che, in connessione con altri fattori apparentemente più vistosi e più determinanti, sono derivate dallo sganciamento delle vocazioni e delle testimonianze cristiane dall'azione liturgica.

Intendiamo far riferimento sia all'alterazione della nozione di testimonianza, sia al progressivo impoverimento del significato del sacramento della confermazione.

Lasciando cadere in ombra il suo naturale riferimento al battesimo, la nozione di testimonianza si snatura perché, mentre oscilla tra un programma minimale ( che consiste nel far corrispondere ogni attività quotidiana alle esigenze dell'etica cristiana ) e un programma massimale ( che consiste nell'uscire dalla quotidianità per dedicarsi a qualcosa di straordinario ), non lascia immediatamente intravedere il vero ruolo della testimonianza cristiana e, in ultima analisi, il vero significato della presenza della comunità di salvezza nel mondo.

Il primo programma dequalifica la testimonianza perché potrebbe far dimenticare che lo stile, di vita cristiano, pur qualificandosi anche per alcuni obblighi che vanno al di là delle esigenze di una semplice morale naturale, in realtà si qualifica soprattutto per l'animazione amorosa che la deve reggere.

Cristo ha potuto presentarsi come colui che porta a compimento la legge, non tanto perché ha aggiunto nuovi precetti al decalogo, ma perché ha insegnato ad osservarne i precetti con uno spirito nuovo.

D'altra parte questo spirito nuovo non comporta necessariamente l'adempimento di opere straordinarie e, inoltre, si da il caso che anche opere straordinarie non corrispondano allo spirito del vangelo; è in questo senso che la nozione di testimonianza può essere dequalificata dal secondo programma.

La ragione per cui molti hanno potuto ritenere che una vita moralmente onesta è sufficiente per qualificarsi come cristiani e, al contrario, la ragione per cui molti altri hanno invece ritenuto di non potersi sufficientemente qualificare come cristiani nel lavoro e nell'attività professionale, sta anche in questa alterazione della nozione di testimonianza.

Per di più è questa alterazione che ha potuto far pensare ai non credenti che non è necessario essere cristiani per vivere onestamente e che l'opera di cristianizzazione che la chiesa intende fare nel mondo consista, invece che in un servizio per un'adeguata realizzazione dei giusti valori creaturali, in una catturazione del mondo e in un tentativo di sottrarre le attività umane anche a quella sfera di giusta autonomia di cui debbono disporre per la realizzazione del mondo.

Ma, se l'alterazione e l'impoverimento della nozione di testimonianza è una conseguenza della sua scissione dall'azione liturgica, l'impoverimento della nozione di testimonianza ha, a sua volta, determinato l'impoverimento di quella particolare azione liturgica che è il sacramento della confermazione.

Infatti le prime manifestazioni della crisi della prassi ( oltre che della teologia ) della confermazione coincidono con l'affermarsi del processo di privatizzazione della salvezza e della giustizia cristiana e con la conseguente riduzione dei sacramenti a semplici mezzi produttivi della grazia.

Se i sacramenti, perdendo la loro prima e fondamentale caratteristica di celebrazione dei misteri della vita di Cristo in vista di una loro attualizzazione nella testimonianza, sono ridotti al rango di mezzi di produzione o di aumento della grazia, la confermazione diventa un sacramento pressoché inutile.

Conferita dal battesimo, la grazia può essere accresciuta dall'eucaristia e, a chi l'avesse persa con il peccato, la grazia può essere ridonata dal sacramento della penitenza; in conclusione non si vede quale possa essere l'effettivo ruolo del sacramento della confermazione.

Il famoso discorso di Fausto vescovo di Rietz, che viene considerato il punto d'avvio di una riflessione teologica sistematica sulla confermazione, registra un clima di disaffezione nei confronti di questo sacramento già alla fine del sec. V: « Dopo il mistero del battesimo a che mai può servirmi il mistero di chi mi conferma? ».

È noto che Fausto di Rietz, nel tentativo di superare questa mentalità distorta, cercherà di presentare la confermazione come il sacramento che, facendoci soldati di Cristo, da la fortezza necessaria per una professione aperta della fede e il coraggio indispensabile per difenderla e diffonderla.

Ma anche prescindendo dal fatto che questa teologia della confermazione contribuirà in buona misura a far identificare la missione con il proselitismo e la testimonianza con il buon esempio, resta vero che determinerà un offuscamento ulteriore della caratteristica più tipica della confermazione, cioè quella di essere il sacramento delle vocazioni cristiane.

Il dono dello Spirito, che nel battesimo fa dell'uomo un figlio di Dio, è "confermato" nel secondo evento sacramentale per indicare che ogni figlio di Dio ha ricevuto e, quindi, deve cercare e trovare il ruolo specifico per cui è stato "vocato" a far parte dell'unica grande famiglia ecclesiale.

La comunità di salvezza, che è "una" a motivo della fraternità in Cristo e dell'animazione dell'unico Spirito, trova solo nella "molteplicità" delle vocazioni la capacità di testimoniare, attualizzandola, la infinita ricchezza del mistero di Cristo e del dono dello Spirito.

In altre parole, riagganciandole al sacramento della confermazione, le vocazioni cristiane e la loro spiritualità riscoprono sia la nativa destinazione alla testimonianza, sia quella giusta dimensione ecclesiale che impedisce di ridurre la vocazione entro l'ambito di un privilegio riservato ad un'elite.

3. Contemplazione e liturgia

Da tutto quanto è stato fin qui stabilito sul rapporto che lega la liturgia alla vita della chiesa e, più precisamente, alla sua missione e, quindi, alle diverse vocazioni e testimonianze cristiane, sembra inevitabile concludere che la spiritualità liturgica, almeno nella misura in cui spinge verso un incontro con Dio nella storia, è una spiritualità orientata all'azione.

In questa prospettiva la spiritualità liturgica verrebbe a collocarsi nell'occhio del ciclone del dibattutissimo problema circa il rapporto tra contemplazione ed azione [ v. Contemplazione I,2; II,3 ].

Ma, oltre a questa pregiudiziale, la spiritualità liturgica è stata clamorosamente messa in discussione, verso la fine degli anni cinquanta,1 perché non sarebbe sufficientemente in grado di salvaguardare alcuni valori cristiani quali l'interiorità, la preghiera personale, la meditazione e, in particolare, la contemplazione.

Questa apparente antinomia tra liturgia e contemplazione è già stata smentita, sebbene in termini indiretti e abbastanza allusivi, da alcuni documenti del magistero, come la Mediator Dei ( c. 1, § 2 ) di Pio XII, la costituzione SC del Vat II (n. 12) e l'Institutio generalis della liturgia delle ore ( n. 9 ); comunque, in una visione teologicamente corretta della liturgia, è possibile trovare numerosi elementi che favoriscono una spiritualità contemplativa.

Basterà ricordare che la liturgia è tra le vie più sicure di accesso alla contemplazione del Dio invisibile, è compartecipazione al silenzio di Dio, è profonda esperienza delle gratificazioni divine.

La visione di Dio è l'essenza stessa della beatitudine eterna, ma questa meta è raggiungibile solo dopo la morte.

Nella vita presente la visione di Dio costituisce l'oggetto principale della virtù della speranza ed anche di un profondo desiderio naturale di cui ci parla già la teologia classica, anche se con molte indeterminazioni, ma intanto Dio può essere contemplato solo di visione riflessa, come in uno specchio ( 1 Cor 13,12 ).

La storia della salvezza registra numerose "epifanie" di Dio, dalla creazione alla vocazione di Abramo e dei patriarchi, dagli eventi di liberazione e di formazione del popolo di Dio alle rivelazioni profetiche, fino alla massima epifania che si è realizzata in Cristo e nell'effusione del suo Spirito per la "ricreazione" degli uomini e della terra.

Queste manifestazioni, sebbene di natura diversa e diversamente importanti ai fini dell'incontro Dio-uomo, hanno tutte in comune un duplice fattore: quello di essere manifestazioni di Dio mediante la realtà creaturale che diventa segno di una presenza trascendente, e quello di essere leggibili solo alla luce della fede.

Anche quando queste manifestazioni si rivestono di forme visibili straordinarie e, quindi, tali da sembrare leggibili anche solo alla luce dell'esperienza, in realtà per una loro comprensione, non solo adeguata, ma soprattutto salvifica, richiedono la fede.

La fede viene quindi a trovarsi al centro di questo dinamismo salvifico e, mentre per un verso spinge l'uomo ad andare al di là della realtà significante per cogliere la realtà significata ( Dio, la sua presenza e la sua azione salvifica ), per l'altro verso spinge l'uomo a solidarizzare al massimo con la realtà creata per non lasciarsi sfuggire nulla di quanto può essere mezzo di significazione e di incontro.

L'animazione di fede, pertanto, mentre tende all'immediatezza e all'interiorizzazione del rapporto con Dio, è anche, nello stesso tempo, esigenza di un contesto esperienziale che rende verificabile il rapporto stesso.

In ultima analisi si tratta di quella tensione dialettica che nel c. 6 di Gv è descritta come tensione tra carne e spirito.

La carne di Cristo e la sua manducazione è necessaria come l'unica via di accesso alla vita con Dio: « Se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita » ( Gv 6,53 ); d'altra parte: « è lo spirito che vivifica, la carne non giova a nulla: le parole che io vi dico sono spirito e vita.

Ma ci sono alcuni tra voi che non credono » ( Gv 6,63-64 ); mangiare e bere al di fuori dello spirito di fede non ha alcun significato salvifico.

La contemplazione può trovare dei momenti intensi che sembrano sottrarre l'uomo alla sua stessa condizione storica ed è comprensibile che l'uomo li ricerchi con profonda nostalgia, ma in realtà nessuna contemplazione, che non sia ancora quella della visione beatifica, è realizzabile senza una qualche mediazione creata.

Pretendere il contrario sarebbe impossibile e comunque pericoloso come lo sarebbe la riduzione della salvezza alla fede e della fede alla gnosi.

Proprio per questo la celebrazione liturgica, senza ostacolare in alcun modo i momenti di contemplazione più intensa - l'esperienza di molti santi lo dimostra -, senza pretendere di essere l'unico contesto di esperienza contemplativa, fornisce però le connotazioni più importanti per l'esercizio di una contemplazione autenticamente cristiana.

È indubbio che non tutte le forme con cui la celebrazione liturgica si esprime sono ugualmente stimolanti la contemplazione, ma questo è un problema che concerne la ritualità e non la sostanza dell'azione liturgica.

Ma, al di là di tutto questo, la liturgia è in stretto rapporto con la contemplazione in forza della sua dimensione misterica che introduce nel grande silenzio di Dio.

Sebbene stabilisca un incontro dialogico dove l'uomo si apre alla parola di Dio che lo illumina e all'azione divina che lo santifica, l'azione liturgica resta sempre un incontro misterioso con un Dio misterioso.

Anche le celebrazioni meglio riuscite e più perfettamente rispondenti alla natura della religiosità cristiana lasciano dei larghi margini di insoddisfazione; quanto più sono in grado di stabilire un incontro intersoggettivo e ne lasciano in qualche misura sperimentare la ricchezza e il fascino, tanto più le celebrazioni liturgiche rimandano all'incontro escatologico che sarà totalmente realizzante perché non avrà più bisogno di mediazioni simboliche.

Il Dio che si incontra nella celebrazione sacramentale e l'azione salvifica da cui si è raggiunti restano sempre e solo una pregustazione; sono un assaggio autentico ma non tale da costituire un'esperienza piena.

L'esperienza sacramentale, poiché deve in ogni caso subire l'impatto con l'esperienza storica che sembra smentire la prima, lascia sempre il bisogno di una verifica più palese.

Ma, proprio per questo, l'incontro con un Dio e con una salvezza misteriosi non blocca ma stimola il cammino verso la visione.

Per di più, nonostante la sua fisionomia dinamica e gestuale, il contesto liturgico manifesta la sua affinità alla contemplazione per due altri motivi.

Il Dio che si incontra nella liturgia è un Dio misterioso come quello di cui ci parla il libro di Giobbe ( Gb 40,1-4 ); un Dio che dimostra la sua fedeltà all'uomo non lasciandosi incapsulare negli schematismi della speculazione e della curiosità umana.

È un Dio che, mentre denuncia la presunzione dell'uomo che pensa di sapere e, quindi, di stabilire come Dio deve essere e comportarsi, insegna all'uomo che la miglior lode è il silenzio: « Tibi silentium laus » ( Sal 65,2 vers. d'Aquila ).

La liturgia sa ritualizzare anche il silenzio, ma in ogni caso non bisogna dimenticare che il linguaggio e la gestualità rituale, nella loro simbolicità, sono una "a-logia", cioè un'espressione tipica di chi sa di non potersi esprimere; un comunicare al di là delle possibilità dei mezzi usati per la comunicazione; sono insomma il silenzio eloquente di chi si incontra e si comprende in una amorosa vicendevole accettazione.

In questo senso e per questa ragione l'azione liturgica risponde alla logica gratuita del gioco e, mentre rende possibile, come nella contemplazione, l'esperienza delle innumerevoli gratificazioni di cui Dio arricchisce l'uomo e di cui lo fa gioire, trasforma l'atteggiamento dell'uomo in un rendimento di grazie non meno di quanto possa avvenire in ogni altro momento contemplativo.

III - Celebrazione e dialogicità

Già all'inizio della nostra trattazione, quando si cercava di mettere in risalto gli aspetti che accomunano la celebrazione cristiana con l'attività celebrativa umana in genere così da poter affermare che la vita del culto è anche il culto della vita, si faceva però osservare che la celebrazione cristiana, nonostante questa convergenza, si specifica nettamente rispetto ad ogni altra celebrazione in forza di una sua originalità inconfondibile [ Introduzione 1 ].

Il fattore più determinante di questa originalità è dato dal fatto che la celebrazione cristiana nasce da una religiosità storica di alleanza e non semplicemente da una religiosità cosmica.

Le celebrazioni rituali di una religiosità cosmica sono unidirezionali; si muovono cioè solo in una linea verticale che, per di più, è solo ascensionale: dal basso all'alto, dall'uomo a Dio.

In questo contesto l'attività celebrativa, oltre a nascere solo dall'iniziativa umana, esprime solamente la dipendenza dell'uomo da Dio e il tentativo che l'uomo fa di stabilire un rapporto corretto e possibilmente ottimale con una realtà che lo trascende e lo domina.

Per questo motivo l'attività celebrativa non cristiana è solo culto nel senso più ristretto del termine; è fortemente sacralizzante nel senso meno accettabile della parola e, in conclusione, non è per nulla dialogica.

L'attività celebrativa cristiana, invece, oltre a muoversi in linea verticale, che però non è solo ascendente ma anche e principalmente discendente, ha una chiara dimensione orizzontale.

La celebrazione cristiana, nella misura in cui si rifà ad un evento salvifico, cioè ad una presenza, a un'azione e a un effettivo impegnarsi di Dio nella storia, nasce da un'iniziativa divina prima che da un'iniziativa umana.

Non è il tentativo aleatorio con cui l'uomo cerca di farsi accettare da Dio, ma un aprirsi dell'uomo alla gratuita iniziativa divina che raggiunge l'uomo nella storia per salvarlo.

La celebrazione cristiana è un "sì" dell'uomo, ma ad un'interpellanza divina che lo anticipa: senza l'interpellanza divina il "sì" umano non avrebbe ne senso ne giustificazione; è un movimento ascensionale dall'uomo a Dio, e in questo senso è anche un gesto cultuale, ma prima di tutto è un movimento discendente, un'offerta di grazia.

La celebrazione cristiana è teocentrica, non antropocentrica; è "eucaristica", cioè un rendimento di grazie a chi ha offerto la grazia; è insomma un fatto decisamente dialogico.

Ma, ciò che fa della celebrazione cristiana un fatto dialogico in senso verticale, la rende dialogica anche in senso orizzontale.

Il mondo cristiano celebra un'iniziativa salvifica divina che è rivolta a tutti gli uomini indistintamente, e tutti coloro che, nella celebrazione e conseguentemente nella vita, danno una risposta affermativa all'interpellanza divina, si trovano affratellati in forza del loro comune convergere intorno ad un unico Dio che è ugualmente salvatore per tutti.

Poiché nasce da una convergenza su un Dio che è unico per tutti, la fraternità e la vicendevole capacità dialogica tra gli uomini trova, nella celebrazione cristiana, una base e una garanzia molto più valida di quanto possa essere data da qualunque altro fattore storico ( la razza, la cultura, l'ideologia, il compromesso, ecc. ) e, in ogni caso, è al sicuro da ogni pericolo di discriminazione.

1. Celebrazione e dialogo con Dio

L'iniziativa di Dio, di cui la celebrazione è un segno e un punto di incontro, consiste soprattutto nell'offerta della sua parola, portatrice di una promessa salvifica, e nell'offerta del suo Cristo che realizza la parola attuando la promessa.

Il rapporto annuncio-celebrazione è strettissimo; il libro degli Atti testimonia con larghezza che fin dall'età apostolica il kerigma non è solo una premessa didattica alla celebrazione e che, a sua volta, la celebrazione non è solo un gesto di obbedienza al kerigma.

L'annuncio della parola può essere fatto anche al di fuori di una celebrazione, ma nessuna celebrazione può prescindere dall'annuncio, perché la parola di Dio è una componente essenziale della celebrazione.

Questa sottolineatura è indispensabile, non solo per impedire che parola e sacramenti vengano concepiti come vie alternative o addirittura contrapposte di salvezza, ma per salvare la natura dialogica ( di alleanza ) della stessa salvezza cristiana oltre che della celebrazione.

Il primo e fondamentale incontro salvifico è quello che si realizza tra la parola di Dio e la fede dell'uomo, ma la natura dialogica di questo incontro è molto profonda.

La fede non è solo una risposta data dall'uomo ad una parola divina accettata e compresa; se fosse così, la fede sarebbe in qualche misura una conquista umana; in realtà la fede, prima che una risposta umana, è già un dono di Dio: nella parola di Dio che veicola la proposta di salvezza è già contenuta la salvezza e l'uomo che risponde con la fede e nella fede ne è già stato raggiunto.

Il concilio di Trento, molto opportunamente, insegna che la fede è « fundamentum et radix omnis justificationis ».2

D'altra parte, se è vero che la parola di Dio libera ed eleva le facoltà umane rendendole capaci di esprimersi nella fede, è anche vero che la fede libera la parola, perché essa diventa integralmente comprensibile e realmente efficace solo in chi la accoglie con fede.

Indubbiamente il dialogo tra Dio e l'uomo, nella fede, si realizza largamente anche al di fuori della celebrazione, tuttavia resta vero che nella celebrazione trova un momento di attuazione particolarmente intenso e, soprattutto, una garanzia di autenticità di cui non può godere al di fuori.

La celebrazione infatti, nella misura in cui è un fatto ecclesiale che impegna non solo la fede del singolo ma anche quella di tutta la comunità, esplicita i significati più veri della parola di Dio e conferisce a questa esplicitazione un grado di certezza di cui nessun singolo può disporre; per la medesima ragione anche la risposta dell'uomo assume, nella celebrazione, una pertinenza quale non potrebbe avere in nessun altro contesto.

Ma, oltre a tutto questo, il dialogo di fede che si attua nella celebrazione è del tutto privilegiato perché è destinato ad evolversi in una vera comunione di vita.

La parola di Dio, pur essendo già salvifica, conserva la sua caratteristica di veicolo della promessa; la celebrazione, invece, ripresentando il Cristo e i suoi misteri di salvezza, ne è l'attuazione.

La risposta di fede che l'uomo da alla parola è già la risposta di un salvato, ma quella che da nella celebrazione è la stessa risposta di Cristo.

Il rapporto santificazione-culto, pur avendo altre possibilità di attuazione, trova nell'azione liturgica la sua massima espressione, per due motivi: prima di tutto perché nessun altro contesto coinvolge altrettanto attivamente la presenza di Cristo il quale è, simultaneamente, sorgente di salvezza e pontefice sommo del culto più perfetto che gli uomini possano tributare a Dio; in secondo luogo perché l'azione liturgica, se è intesa e vissuta nel senso più autenticamente cristiano, diventa normativa anche del dialogo che i fedeli debbono instaurare con l'umanità intera e con ogni altra realtà creata.

2. Celebrazione e dialogo con gli uomini

Per individuare nella celebrazione cristiana la sorgente di una spiritualità dialogica non solo con Dio, ma anche con gli uomini e con la realtà creata, basterebbe rifarsi a quanto è stato detto fin dall'inizio [ I ] a proposito della vita del culto e del culto della vita.

Questo tema trova però maggiori possibilità di sviluppo in due altre considerazioni.

Poiché la celebrazione cristiana è espressione di una religiosità che non consente la separazione di Dio dall'uomo ed è, nel contempo, fondazione di una missionarietà che consiste nel testimoniare il Cristo introducendo la sua logica in ogni settore di vita, la celebrazione non potrà mai essere solo un punto di arrivo religioso.

D'altra parte, siccome ogni forma di esistenza e ogni attività esercitata sulla misura di Cristo da gloria a Dio e rende cultuale anche quella che si considera vita profana, la celebrazione raggiunge la sua autenticità quando diventa anche punto di convergenza ed espressione simbolico-rituale di una vita vissuta non ritualmente.

Insomma, la celebrazione cristiana si caratterizza come un dinamismo che è, simultaneamente, centrifugo e centripeto e che in precedenza [ I,1 ] abbiamo descritto come movimento che va dalla celebrazione cultuale all'obbedienza storica e dall'obbedienza storica alla celebrazione cultuale.

Questa verità potrebbe essere riformulata in termini più accessibili ma ugualmente espressivi dicendo che, dato lo stretto rapporto intercorrente tra la liturgia e la vita, non basta far entrare la liturgia nella vita, ma occorre anche far entrare la vita nella liturgia.

Le possibilità di descrivere gli agganci della liturgia con la vita e, quindi, con un inserimento nella storia che renda capaci di dialogare con la comunità umana e con la realtà creaturale, sono molteplici; ci sembra tuttavia sufficiente rifarci a tre indicazioni che provengono dalla letteratura patristica.

« Se qualcuno è adultero, ladro, mentitore, che si converta.

Ecco in che cosa consiste la sua vera celebrazione del sabato ».3

L'insegnamento biblico mette in risalto fin dalle prime pagine che il peccato dell'uomo, oltre a comportare una rottura con Dio, comporta sempre anche una rottura con i fratelli, e che il terreno sul quale è possibile verificare la propria capacità di onorare Dio è quello sul quale ogni motivo di divisione, di discriminazione e di lotta tra gli uomini è superato.

Le scelte e l'attività con cui l'uomo deve superare il suo egoismo, che è alla base di ogni divisione, non sono certo riducibili ad un rito, ma il fatto che ogni celebrazione cristiana - compresa l'eucaristia - comporti sempre una connotazione penitenziale, dice che la giustificazione dell'uomo, connessa e derivata dalla celebrazione del mistero di Cristo, non può prescindere da un impegno di rappacificazione universale.

Se il mondo cristiano celebra la penitenza, non è per trovare una via facile di normalizzazione dei propri rapporti con Dio e con il prossimo, ma per desumere le norme da seguire per trasformare una storia sbagliata in una storia giusta.

La celebrazione dice all'uomo che il passaggio dall'ingiustizia alla giustizia è sempre un dono di Dio prima che una conquista umana e che, in ogni caso, i criteri per costruire una storia di pace non sono desumibili dalla sola esperienza ma dal mistero di Cristo di cui la celebrazione ci ha reso partecipi.

D'altra parte il dialogo con gli uomini di cui la celebrazione è Simultaneamente segno e stimolo non si limita all'eliminazione di ogni forma di contrasto.

La pace non è solo superamento della guerra ma edificazione della giustizia; è creazione di un mondo più giusto, cioè più realizzato, perché lo stesso progresso nel dominio della realtà creaturale è inteso, cercato ed anche verificato in rapporto ad una maggiore umanizzazione dell'uomo e ad una situazione storica di maggior fraternità.

S. Ireneo di Lione vede giustamente nel riposo cultuale un chiaro segno di quella « tranquillitas ordinis » ( è la definizione che la teologia classica da della pace ) che è frutto dell'esercizio quotidiano della giustizia.

« Non esiste un'ingiunzione di rimanere senza far nulla durante un giorno di riposo per chi osserva il sabato tutti i giorni, ossia per chi rende un culto a Dio nel tempio di Dio che è il corpo dell'uomo e pratica la giustizia tutti i giorni ».4

È in questa prospettiva che le celebrazioni cristiane fanno evolvere la loro costante connotazione penitenziale in un atteggiamento eucologico e dossologico.

Non è senza significato il fatto che la liturgia eucaristica, vertice di ogni celebrazione cristiana, ricuperi, assieme alla lettera, tutto lo spirito e l'animazione religiosa della "berakah" giudaica: « Benedetto sei tu Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane ( vino ), frutto della terra ( vite ) e del lavoro dell'uomo; lo presentiamo a tè, perché diventi per noi cibo ( bevanda ) di vita eterna ».

Tutto l'itinerario della vicenda salvifica cristiana vi è chiaramente indicato, sia nei suoi momenti fondamentali che nella sua logica di sviluppo: tutto viene da Dio e, per questo, tutto è grazia; ma la graziosità degli interventi divini, incominciando dalla creazione, è sperimentabile solo nell'impegno-lavoro dell'uomo; dall'altra parte questo impegno-lavoro deve tornare a far riferimento a Dio, perché la suprema graziosità divina potrà essere sperimentata solo ad un livello che trascende la storia e l'impegno dell'uomo.

Un ultimo aspetto che caratterizza la celebrazione e che, nello stesso tempo, è un chiaro punto di riferimento allo stile di vita cristiano, è quello della festività.

« La vita in continuo accordo con il divino Logos non è una festa parziale, ma la festa completa e ininterrotta ».5

La celebrazione è sempre al centro della festa perché indica simbolicamente la logica profonda a cui la festività corrisponde.

Quello della festa è un tempo di gratuità e di libertà che consente all'uomo di vivere in comunione con il suo prossimo e di cercare la comunione per se stessa al di là di ogni altro interesse.

Proprio per questo il clima festivo è una delle forme più ricorrenti di religiosità e costituisce un indispensabile punto di riferimento per ogni società che voglia darsi un senso umanamente compiuto: « La società può ravvisare il senso che ha di sé soltanto a condizione di riunirsi ».6

Una delle funzioni principali della celebrazione cristiana è proprio quella di codificare, mediante il rito, l'economia salvifica cosi come ci è stata rivelata in Cristo e come diventa normativa per ogni forma di esistenza cristiana.

Il Cristo, oltre ad essere la massima espressione dell'amore gratuito con cui Dio si è impegnato nella storia, si pone al centro della storia come colui che ha ispirato ogni sua scelta non all'egoismo o al criterio dell'efficienza, ma alla logica della gratuità.

Egli è l'uomo sovranamente libero perché si afferma donandosi; la sua è una "libertà per", cioè una libertà che non è esaltazione di individualismo ma di fraternità.

La celebrazione dice al credente che la sua vita è sintonizzata su quella del divino Logos fattosi uomo quando si ispira al criterio della gratuità per l'edificazione della comunità.

La gloria di Dio sta nel fare fraternità; ma una fraternità che è gloria di Dio può anche essere celebrata.

Devozione
Liturgia
Esercizi pt.
Celebrare Cristo Gesù II,3
… ecclesiale Ascesi IV,2
… missionaria Celebrazione II,2
Laico IV,2
… ed edificazione Eucaristia III
… ed esercizi di pietà Esercizi pt. I,2

1 Raïssa e Jacques Maritain, Liturgie et contemplation in Spiritual Life, 1959
2 H. Denzinger 1532
3 Giustino, Dialogo con Tritone 12, 3
4 Dimostrazione della dottrina apostolica, 96
5 Origene, Contro Celsum 8, 23
6 E. Durkheim