Eucaristia

IndiceA

Sommario

I. Spiritualità di un mistero:
1. Eucaristia e memoriale;
2. Eucaristia banchetto;
3. Eucaristia sacrificio.
II. Spiritualità di una presenza:
1. Alogia cristiana, dialogo e diaconia;
2. Ubbidienza e missione.
III. Spiritualità di una celebrazione:
1. Celebrazione, culto ed edificazione;
2. Celebrazione, culto e carità.

I - Spiritualità di un mistero

1. Eucaristia e memoriale

Il linguaggio liturgico, espressione di una qualificata tradizione cristiana, parla dell'eucaristia come del "mysterium fidei" per eccellenza.

Secondo una convinzione facilmente riscontrabile anche al di fuori del mondo dei semplici fedeli, la ragione per cui l'eucaristia merita questo appellativo deriva dal fatto che, nella sua realtà profonda, essa trascende da ogni punto di vista le capacità di comprensione umana e le possibilità di una semplice spiegazione razionale.

In realtà la ragione più vera è un'altra: l'eucaristia merita di essere considerata il "mysterium fidei" perché esprime in termini particolarmente vistosi e realizza in misura massimale l'economia salvifica con cui il Dio cristiano si manifesta e opera nella storia.

Da questo punto di vista la tradizione liturgica, che focalizza la sua attenzione sull'eucaristia, non è affatto in contrasto con la tradizione catechistica secondo la quale i misteri principali della fede sono quello della Trinità e quello dell'incarnazione del Verbo.

Le due tradizioni sono perfettamente convergenti perché, se è vero che i misteri della Trinità e dell'incarnazione sono le sorgenti e le strutture portanti della storia della salvezza, l'eucaristia è il più sicuro criterio ermeneutico del mistero dell'incarnazione e, per logica conseguenza, dello stesso mistero trinitario.

L'indicazione che, per una lettura autentica, globale ed unitaria delle fondamentali verità cristiane, bisogna seguire un'unica traiettoria logica che risale dall'eucaristia all'incarnazione e, quindi, alla Trinità, ci viene dallo stesso insegnamento neotestamentario.

L'esegesi contemporanea fa giustamente rilevare che tutti i racconti sinottici dell'istituzione dell'eucaristia intendono farci cogliere nel gesto eucaristico l'esplicitazione del significato del mistero pasquale ( dalla passione, alla morte e alla risurrezione ) e di tutta la logica salvifica.

Ma questo intendimento è particolarmente evidente nel racconto di Luca ( Lc 22 ): infatti, staccandosi dalla tradizione di Marco e di Matteo, secondo un disegno teologico ben preciso, egli colloca l'episodio della disputa tra gli apostoli, che volevano stabilire chi di loro fosse il più grande, subito dopo il racconto dell'istituzione eucaristica.

La lezione che Gesù imparte a tutti è la chiave interpretativa dell'eucaristia: « Gesù disse loro: i re delle nazioni le dominano e quelli che hanno autorità su di esse sono chiamati benefattori.

Per voi però non deve essere così, ma il maggiore di voi sia come il più giovane e chi comanda come colui che serve.

Infatti chi è più grande, chi siede a mensa o colui che serve?

Non è forse colui che siede a mensa?

Eppure io sono in mezzo a voi come uno che serve » ( Lc 22,25-27 ).

In queste affermazioni di Gesù, nelle quali si potrebbe essere tentati di cogliere solo un forte richiamo all'esercizio dell'umiltà, c'è invece l'indicazione della logica che ha portato Gesù ad istituire l'eucaristia e, mediante l'eucaristia, a darci il punto di vista dal quale deve essere letto il mistero dell'incarnazione e di Dio stesso.

Ripensando, a distanza di secoli, alle radici profonde da cui sono germogliate le più clamorose eresie dei primi secoli cristiani - come il docetismo e l'arianesimo - è possibile rendersi conto che tutto deriva da una distorsione prospettica.

Se si cerca di interpretare l'essere e l'operare di Dio da un punto di vista puramente razionale, non si può fare a meno di concludere che un "essere trascendente", come lo è Dio, non può entrare effettivamente nella storia e nel mondo, fino ad accettare un'autentica dimensione umana, senza cessare di essere se stesso.

Ne consegue che, se la scrittura parla di un Dio che si fa uomo, in realtà bisogna concludere che è un Dio che finge di essere uomo ( docetismo ), o, più logicamente, che è soltanto una creatura che esercita le funzioni di un Dio.

Insomma, quando si usa la logica umana come supremo ed esclusivo criterio interpretativo dei misteri della salvezza non si riesce ad accettare e tanto meno a comprendere quello che la parola di Dio insegna e quello che l'azione di Dio fa nella storia.

Per conseguenza si usa violenza alla parola di Dio e si altera la storia pur di farla rientrare negli schemi della nostra razionalità.

In questo modo la fede non è più accettazione ma è dominio.

Il mistero eucaristico sovverte questa distorsione prospettica e mette in risalto che il Dio di Cristo afferma la sua trascendenza, non prendendo le distanze dagli uomini, ma offrendo loro la propria alleanza; è un Dio che manda il proprio Figlio nel mondo e nella storia, non per dominarla e farsi servire, ma per servire gli uomini fino a diventare il loro cibo e la sorgente della loro salvezza.

L'eucaristia, quindi, è l'estremo gesto di fedeltà ad un'economia salvifica promanante da un Dio che non si regola secondo la logica del potere e del dominio ma del servizio e della donazione.

Accostando il mistero eucaristico da questo angolo di visuale è possibile desumerne indicazioni preziose per stabilire alcuni aspetti specifici della religiosità e della spiritualità cristiana.

a. Innanzi tutto si riscontra la caratteristica più tipica e profonda della fede cristiana.

Quella cristiana, infatti, a differenza di ogni altra fede religiosa, non consiste soltanto nell'accettazione di verità che trascendono le capacità d'indagine razionale e che, quindi, possono nascere solo da una rivelazione divina; la fede cristiana è innanzi tutto accettazione di una logica nuova.

Anche la nostra fede comporta una fondamentale apertura della ragione all'ascolto e all'accettazione di informazioni che non derivano dall'esperienza e dalla speculazione umana, ma questa apertura, per quanto necessaria, non è sufficiente, perché - una volta accettate - le verità rivelate potrebbero essere lette e interpretate secondo una logica umana; è esattamente quanto hanno fatto le correnti gnostiche di cui si diceva più sopra: pur accettando le informazioni che venivano offerte dalla rivelazione ne stravolgevano il senso e ne annullavano il valore salvifico.

Non sempre si riflette abbastanza sul fatto che la prima e più radicale conversione del cristiano è quella della fede e che la "metanoia" che essa comporta non è riducibile al rinnovamento del giudizio e del comportamento etico, ma è prima ancora un ribaltamento di prospettiva nella lettura e nell'interpretazione del reale.

b. A questo punto è possibile rendersi conto che la stessa nozione di "mistero", inteso solo come « verità superiore ma non contraria alla nostra ragione, che noi crediamo perché Dio ce l'ha rivelata », è una nozione riduttiva e più conforme alla cultura ellenica che alla mentalità biblica.

Secondo questa accezione il mistero diventa il contesto di un inevitabile scontro tra un Dio che non si lascia scoprire e un uomo che vuol saperne di più; la teologia, a sua volta, corre il pericolo di fraintendere la vera natura del servizio che deve prestare alla fede: infatti, invece di proporsi l'enucleazione della nuova logica salvifica e delle nuove prospettive di vita di cui i contenuti della fede sono portatori, presume di servire la fede trasformandosi in una ricerca curiosa, illuministica e per nulla affatto formativa.

È proprio l'eucaristia ad informarci che il "mistero", prima di essere una verità su cui indagare, è un evento salvifico da cui lasciarsi coinvolgere; è il gesto di un Dio alleato il cui amore è tanto grande da sconvolgere e superare gli schemi razionali dell'uomo, non un "rebus" davanti al quale le capacità speculative dell'uomo debbono arrendersi; la misteriosità di Dio suscita fiducia, non concorrenza.

L'eucaristia ci dice che per arrivare ad una conoscenza vera e a una dottrina corretta su Dio bisogna partire dalla storia dei suoi gesti di salvezza, non dal tentativo di far rientrare la storia salvifica negli schemi di una dottrina prefabbricata.

Se si aggancia il mistero alla storia, prima che alla dottrina, l'eucaristia si lascia scoprire anche nel suo aspetto più importante, cioè nel suo essere il "memoriale" per eccellenza.

c. L'importanza del ruolo della "memoria" all'interno della religiosità cristiana è già implicitamente proclamata dall'affermazione che la nostra fede si rifà ad una storia, prima e più che ad una dottrina; ma, anche a questo proposito, occorre sottolineare che la memoria cristiana risponde ad una logica propria che non trova riscontro in altri contesti.

Tutte le religioni positive danno un notevole peso alla memoria: anche la loro fede si rifà all'insegnamento di un fondatore o di un profeta, ai gesti da loro compiuti e i documenti scritti, in cui i loro insegnamenti e gesti sono contenuti e trasmessi, sono considerati sacri e normativi.

In alcune religioni primitive la memoria costituisce la base dell'attività culto-rituale e, nell'ambito delle religiosità magiche, la fedeltà alla tradizione nella ripetizione dei gesti rituali è addirittura condizione indispensabile per la loro efficacia salvifica.

Del resto ogni civiltà ha le sue epopee in cui le figure e le gesta degli eroi sono conservate e tramandate come un patrimonio da custodire gelosamente e al quale non è possibile rinunciare.

Tuttavia, ad un'analisi attenta risulta che, in questi contesti, il ruolo attribuito alla memoria non è mai un gesto di vera fedeltà alla storia.

Anche quando questa memoria non è ridotta ad un atteggiamento nostalgico con cui ci si consola di fronte ad un presente deludente, richiamando alla memoria tempi felici e gloriosi ormai irrimediabilmente passati, si tratta comunque di una memoria la cui funzione è di pura conservazione di alcuni valori irrinunciabili perché sotto ogni aspetto insuperabili.

Insomma, nei contesti di cui sopra, la memoria o ha una funzione alienante, come può esserlo il tentativo di rendere accettabile il presente con il ricordo del passato, o ha la funzione di precludere alla storia qualsiasi apertura sul futuro perché si ritiene che l'unica via per godere di un oggi e di un domani soddisfacenti è quella di regolare l'oggi e il domani sulla base dell'esperienza di ieri.

Il memoriale cristiano si pone al di fuori di questa visuale per più di una ragione:

innanzitutto non è solo un ricordo nostalgico ma un'effettiva ripresentazione dell'evento salvifico così da coinvolgere, nell'evento stesso, coloro che ne fanno memoria;

in secondo luogo ciò di cui si fa memoria non è semplicemente un'esperienza umana meritevole di essere ripresa perché ritenuta valida, ma l'esperienza di un incontro Dio-uomo la cui validità non può essere giudicata ad un livello puramente fenomenologico;

in terzo luogo perché il memoriale cristiano non è un ritorno al passato solo per imitarlo, ma per farne un giudizio salvifico del presente al fine di una valida programmazione del futuro.

Tutti i sacramenti cristiani sono un memoriale, ma i sinottici e s. Paolo riconnettono la memoria cristiana particolarmente all'eucaristia e la ragione è quella a cui si accennava più sopra: l'eucaristia esplicita l'economia d'incarnazione e di salvezza più di ogni altro mistero e, pertanto, diventa la norma a cui ogni discepolo deve configurarsi per potersi inserire nella direttrice salvifica tracciata da Cristo.

Già s. Tommaso, che in sintonia con l'insegnamento teologico più corrente al suo tempo coglieva in ogni segno sacramentale un'apertura sul passato ( signum rememorativum ), sul presente ( signum indicativum ) e sul futuro ( signum prognosticum ), insegnava che questa triplice significazione è particolarmente evidente nell'eucaristia, nella quale si fa memoria della passione di Cristo ( « recolitur memoria passionis eius » ), si attinge la giustizia cristiana ( « mens impletur grafia » ) e ci si pone in cammino verso l'escatologia ( « et futurae gloriae nobis pignus datur » ).

Ma più autorevolmente di s. Tommaso - anche se da lui mutua i testi - è la stessa liturgia che ci presenta il mistero eucaristico come il classico esempio di "memoriale cristiano".

L'importante, però, è rendersi conto che il memoriale non è mai solo uno strumento offerto al singolo per consentirgli di verificare il suo giusto inserimento nella vicenda salvifica, ma è prima ancora un momento costitutivo della stessa comunità di salvezza.

Comandando di celebrare l'eucaristia in sua memoria, Cristo ha inteso offrire alla comunità dei suoi discepoli la migliore occasione per sottoporsi al giudizio salvifico di Dio; ha voluto dotarla del criterio più valido per verificare fino a che punto si edifica ed agisce secondo la logica salvifica che Dio ha introdotto nella storia.

Ma a questo punto occorre analizzare nei dettagli i contenuti della memoria eucaristica per cogliere sotto quali aspetti Dio verifica e giudica l'autenticità della collaborazione storica della chiesa e dei singoli cristiani.

2. Eucaristia banchetto

Ciò di cui si fa memoria in ogni sacramento sono i misteri della vita di Cristo; tuttavia la diversità dei segni sacramentali specifica gli aspetti particolari sotto i quali i misteri di Cristo sono commemorati e ripresentati.

È di fondamentale importanza, a questo proposito, rendersi conto che il memoriale eucaristico è celebrato in forma conviviale.

La riflessione teologica e la stessa pietà dei fedeli non hanno mai dimenticato il ruolo significativo che il pane e il vino esercitano nell'ambito della celebrazione eucaristica, tuttavia, da molto tempo a questa parte, la significatività di questi elementi è stata teorizzata soprattutto in rapporto alla presenza reale di Cristo e al suo farsi nutrimento spirituale per noi, lasciando cadere in ombra il fatto che il pane e il vino fanno della celebrazione eucaristica innanzitutto un banchetto.

Indubbiamente non c'è banchetto senza cibo, ma il significato di un banchetto non può essere ridotto al gesto di assumere un nutrimento per assicurarsi la sopravvivenza.

Il mangiare dell'uomo è qualcosa di diverso dall'assunzione del cibo da parte di un animale: il mangiare perviene alla sua forma umana diventando banchetto e la dimensione umana del mangiare è palese solo quando avviene in comune.

La mensa esprime e crea comunione innanzi tutto tra i commensali ma, attraverso il cibo imbandito, stabilisce un vincolo di solidarietà con la realtà infraumana in tutti quegli aspetti ( sapore, profumo, colore, forma, ecc. ) di cui l'uomo può impossessarsi e farsi interprete per affermare valori ben più alti di quelli che sono propri della realtà stessa.

E per questo che l'altissimo valore simbolico della mensa è stato utilizzato in tutti i contesti religiosi per esprimere, assieme alla comunione degli uomini con le cose e degli uomini tra loro, la comunione degli uomini con Dio.

Il banchetto eucaristico conserva tutta questa carica simbolica umano-cosmico-religiosa e il nuovo rito della messa lo esprime magnificamente là dove, riecheggiando la "berakah" giudaica, ci fa dire: « Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane [ vino ], frutto della terra [ vite ] e del lavoro dell'uomo.

Lo presentiamo a tè perché diventi per noi cibo [ bevanda ] di vita eterna ».

D'altra parte il simbolismo del banchetto eucaristico trascende di gran lunga il già ricco simbolismo naturale.

Prescindendo dalla questione se l'ultima cena sia stata o no un banchetto pasquale, resta comunque vero che i racconti neotestamentari dell'istituzione leggono il banchetto eucaristico nella prospettiva del mistero pasquale di Cristo, che è la vera realizzazione di tutti i valori preannunciati nella pasqua giudaica.

Se la pasqua giudaica era la memoria rituale dell'epopea dell'esodo che, oltre alla liberazione dalla schiavitù, aveva visto la nascita del popolo di Dio e soprattutto la stipulazione dell'alleanza, l'eucaristia è la celebrazione della nuova ed eterna alleanza che è stata pattuita nel sangue di Cristo.

Da questo punto di vista la dimensione conviviale è senza dubbio l'aspetto più determinante del memoriale eucaristico: esprime, infatti, il primo e più fondamentale effetto dell'azione salvifica divina, che è la convocazione in Cristo degli uomini nuovi nell'unica grande famiglia di cui Dio è padre e Cristo il primogenito di molti fratelli.

Il banchetto eucaristico è innanzi tutto memoria di questo mistero di convocazione comunitaria che Dio ha compiuto in Cristo; ma, nel momento stesso in cui il convito eucaristico è memoria attualizzante dell'evento di ieri, diventa criterio verificazionale della comunione ecclesiale di oggi.

Leggendogli Alti degli Apostoli ci si rende conto che i discepoli dei primi tempi, fermamente convinti di essere stati convocati da Dio in un'unica comunità, erano altrettanto persuasi che la forma più significativa per testimoniare la loro sequela di Cristo e il loro impegno a dar gloria a Dio consisteva proprio nel fare fraternità-comunione.

Com'era inevitabile, questa loro determinazione non fu esente da tentazioni e sono sempre gli Atti a renderci noto che alcuni, invece di costruire la loro comunità attorno a Cristo, cioè attorno ad una realtà che non consente discriminazioni di sorta, intesero costruirla sulla base di un clan familiare ( i parenti di Gesù ), oppure sulla base razziale ( cristiani di origine ebraica in opposizione ai cristiani di origine ellenistica ) ( At 6 ).

Ma, ai fini della nostra ricerca, è particolarmente interessante prendere in esame la tentazione che, secondo la testimonianza di Paolo ( 1 Cor 11,17-34 ), si manifestava all'interno della stessa celebrazione eucaristica.

Convenendo assieme in nome della medesima fede in Cristo per il medesimo scopo di far memoria della morte di lui, i cristiani di Corinto si trovano uniti in una medesima celebrazione; e questo sembra a loro bastare.

Essi credono che la loro comunità-comunione sia sufficientemente espressa e realizzata dalla convergenza in un'unità strutturale anche se la loro vita è divisa.

Le loro discriminazioni durante l'agape fraterna ( chi mangia troppo e chi mangia troppo poco ), già disdicevoli perché smentiscono il significato del gesto rituale compiuto, lo diventano molto di più perché sono un segno evidente di una divisione più profonda che sussiste già nella vita quotidiana.

L'unità rituale e la stessa unità nella fede non sono ancora la comunità-comunione cristiana; per questo il banchetto eucaristico diventa un giudizio sulla chiesa di Corinto che, mangiando dell'unico pane e bevendo dell'unico calice senza essere un'effettiva comunità fraterna, mangia e beve la propria condanna.

Ma la più profonda originalità del significato del banchetto eucaristico non si esaurisce a questo punto.

Sottolineando che la comunità nasce non tanto dal convergere degli uomini in un'unica ideologia religiosa o in una comune tradizione rituale, ma dalla comune accettazione di una vita fraterna che deve inevitabilmente instaurarsi tra coloro che accettano Dio come padre comune e Cristo come fratello primogenito, non abbiamo ancora stabilito i criteri ultimi a cui questa comunità si ispira e su cui si regge.

Se il banchetto eucaristico comportasse solo un richiamo a trasformare la comunità religiosa in un'effettiva comunione di vita degli uomini con Dio e degli uomini tra loro, ci darebbe un'informazione certamente preziosa ma sostanzialmente non diversa da quella che può essere trasmessa dai gesti cultuali di altre religiosità evolute.

Anche in questo caso l'originalità della fede cristiana, più ancora che nella novità dell'informazione, sta nell'originalità della logica con cui l'informazione deve essere interpretata.

I valori della "comunità", oltre che in un contesto religioso, sono chiaramente recepibili anche alla semplice considerazione razionale; le istanze della socialità non sono mai state tanto teorizzate - dalla filosofia, dalle scienze dell'uomo e soprattutto dalla politica - quanto ai nostri giorni.

In questi contesti, tuttavia, la comunità resta per lo più un valore in qualche modo strumentale: fare comunità "per" raggiungere qualcosa diversamente irraggiungibile, fosse pure un valore più alto come potrebbe essere una maggiore giustizia; in altre parole si tratta di una comunità che si pone e si regge sulla logica dell'avere di più per essere di più.

Il banchetto eucaristico ribalta questa logica almeno sotto due aspetti: innanzitutto perché struttura la comunità non sulla logica dell'avere per essere ma del dare per essere; in secondo luogo perché non progetta la comunità come il mezzo più efficace per realizzare una maggiore giustizia, ma ci informa che il vero modo di essere giusti, secondo il piano di Dio, sta nel fare comunità.

Nella prospettiva eucaristica non è la giustizia che norma la comunità, ma la comunità che norma la giustizia.

La comunità, pertanto, non è qualcosa che può essere perseguito e voluto in termini minimali - cioè tanto quanto basta per raggiungere uno scopo -, ma in termini massimali, perché la comunità è la giustizia dell'uomo e la gloria di Dio già presente nel mondo e nella storia.

Tuttavia per comprendere meglio questa verità occorre passare dalla considerazione dell'eucaristia-banchetto a quella dell'eucaristia-sacrificio.

3. Eucaristia sacrificio

Nella riflessione teologica occidentale la considerazione dell'eucaristia sacrificio è certamente prevalsa sulla considerazione dell'eucaristia banchetto e, in ogni caso, le due considerazioni sono state sviluppate in forma eccessivamente autonoma come se si trattasse di due aspetti non necessariamente interdipendenti o, comunque, rapportabili solo estrinsecamente.

Il fatto che l'aspetto sacrificale sia stato tenuto in maggiore considerazione, sebbene non del tutto giustificabile, è però largamente comprensibile: infatti i racconti neotestamentari dell'istituzione danno risalto allo strettissimo rapporto che intercorre tra il gesto eucaristico e la morte di Cristo e, fin dalle origini, la celebrazione eucaristica è sempre stata ritenuta il "memoriale" del sacrificio del Calvario.

Tuttavia la formulazione di una nozione non specificamente cristiana di sacrificio, oltre a rendere problematica la dimostrazione che la celebrazione eucaristica è essa stessa un sacrificio e non solo il ricordo di un sacrificio, ha reso difficile l'individuazione del profondo legame che vincola la dimensione sacrificale a quella conviviale dell'eucaristia.

Questo dato è particolarmente rilevabile nella riflessione teologica posteriore all'epoca della riforma protestante.

Di fronte alla contestazione della natura sacrificale dell'eucaristia, portata avanti dal protestantesimo delle origini, la teologia cattolica ha ritenuto che la via migliore per smantellare ogni opinione contraria fosse quella di precisare la nozione di sacrificio per passare poi a dimostrarne l'applicabilità alla celebrazione eucaristica.

A parte ogni considerazione sull'opportunità o meno di questo modo di procedere, resta il fatto che la riflessione teologica, nella presunzione che la nozione di sacrificio fosse sostanzialmente omogenea in tutti i contesti religiosi, invece di desumere quest'ultima dal contesto biblico l'ha ricavata dalla storia delle religioni: involontariamente si cedeva ancora una volta alla tentazione di interpretare un dato di fede con una logica non del tutto conforme alla logica della fede.

Ne sono derivate innumerevoli discussioni per stabilire se l'elemento più specifico del sacrificio fosse l'oblazione o l'immolazione.

Queste discussioni oggi sono in buona misura superate e, ai fini della nostra ricerca, non sono interessanti, ma intanto, avendo lasciato in ombra l'insegnamento biblico, che fa di ogni sacrificio sempre e soprattutto un gesto di alleanza, il valore espiatorio e propiziatorio del sacrificio prese il sopravvento su altri valori non meno importanti.

Accentuando l'aspetto espiatorio del sacrificio del Calvario la riflessione teologica ha potuto credere di dare un giusto risalto all'economia di alleanza facendo rilevare come il Figlio di Dio e nostro fratello, che espia sulla croce ogni nostro peccato, sia simultaneamente il più grande segno dell'amore di Dio per noi ( 1 Gv 4,9-10 ) e la più eccelsa testimonianza dell'amore dell'uomo per Dio.

Ma se ci si limita a vedere nella croce un fatto di espiazione è notevolmente difficile capirla anche come il più grande segno dell'amore di Dio per il suo Cristo; nei confronti di lui il Padre, più che amore, sembra dimostrare una giustizia inflessibile e, almeno sotto questo aspetto, la croce sembra incapace di conciliare le esigenze dell'amore con quelle della giustizia.

In realtà la prospettiva cambia completamente se lo stesso mistero del Calvario è letto secondo la logica già evidenziata dall'eucaristia: la logica del diventare grandi facendosi piccoli e del realizzarsi donandosi.

Poiché questa è la logica a cui corrisponde l'essere stesso ed ogni operare di Dio, la croce è veramente la "gloria" di Dio nel mondo e la crocifissione è la massima esaltazione che il Padre possa fare del Figlio nella storia.

La croce non è solo il grande segno dell'amore di Dio e di Cristo per noi e dell'amore di Cristo per il Padre, ma anche il più grande segno dell'amore del Padre per il Cristo.

Ora, il rapporto profondo che lega indissolubilmente l'aspetto sacrificale a quello conviviale dell'eucaristia è dato da questa logica della croce; oltre ad essere il fondamentale principio di vita a cui ogni cristiano deve rifarsi, la logica della croce diventa la struttura portante della comunità cristiana e il criterio verificazionale della sua autenticità.

Se l'eucaristia banchetto proclama che la salvezza sta nel fare comunità, l'eucaristia sacrificio insegna come questa comunità deve essere fatta per poter essere salvifica.

In questa prospettiva il sacrificio di Cristo diventa una vera sorgente di liberazione nei confronti della comunità stessa oltre che nei confronti dei singoli individui.

Le comunità umane, anche quando nascono da convinzioni nobili e profonde, come ad es. dalla volontà sincera di vicendevole accettazione, dei propri simili, non possono regolarsi che sulla base di un compromesso: non sapendo come conciliare il bene comune con la libertà individuale, la razionalità umana impone dei limiti alla libertà dei singoli per garantire uno spazio indispensabile alla libertà di tutti.

La comunità cristiana, invece, risolve il problema dell'apparente inconciliabilità tra le esigenze del bene comune e l'esigenza dell'autoaffermazione del singolo costruendosi secondo l'insegnamento e l'esempio di Cristo che indica nella massima donazione di sé al prossimo, per amore di Dio, l'unica via percorribile per attingere le vette dell'autoaffermazione.

Le comunità umane, per salvare una situazione di compromesso, che si regge su un equilibrio notevolmente instabile, hanno bisogno di proteggerla con leggi e strutture che, anche quando non sono repressive, sono comunque limitative.

La comunità cristiana, nella misura in cui è veramente se stessa e si costruisce attorno a Cristo, è sovranamente libera perché normata solo dall'amore di donazione.

È estremamente indicativo il fatto che l'apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, dopo aver parlato del significato comunitario della memoria eucaristica della morte di Cristo ( 1 Cor 11 ), dopo averne desunto che i diversi carismi vincono la dialettica concorrenziale accettando e cercando di essere massimamente se stessi per poter prestare in termini ottimali il loro servizio agli altri e alla comunità ( 1 Cor 12 ), conclude con il suo magnifico inno all'amore ( 1 Cor 13 ).

Forse nessun documento neotestamentario ha saputo cogliere con tanta incisività il rapporto tra eucaristia-sacrificio ed eucaristia-banchetto per desumerne il dinamismo vitale della comunità cristiana.

Ma procedendo secondo questo ordine di idee è più facile cogliere anche il vero significato dell'aspetto espiatorio del sacrificio di Cristo.

Nella cultura largamente dominante fino a qualche tempo fa, la pena era considerata fonte di espiazione perché corrispondente alla legge del contrappasso: colui che sbaglia deve ripercorrere a ritroso la via precedentemente imboccata; un abuso di libertà deve essere risanato mediante una coartazione della libertà e la ricerca disordinata della propria soddisfazione deve essere ripagata con la sopportazione di una sofferenza.

Attualmente il valore educativo di questo procedimento è giustamente contestato, sia perché la pena ha spesse volte solo una funzione vendicativa, sia perché essa potrebbe essere comminata solo in rapporto al ristabilimento di un ordine precostituito al di fuori di un giudizio di merito sulla bontà dell'ordine stesso.

In ogni caso, in questo contesto culturale, si corre il pericolo di riconoscere un valore nella pena e nella sofferenza in quanto tali.

Il mistero eucaristico, mettendo in risalto il rapporto sacrificio-convito, da alla pena e all'espiazione un significato radicalmente diverso.

La sofferenza e la pena che accompagnano il sacrificio della croce sono un fatto di espiazione perché sono, in ogni caso, un gesto di amore oblativo per Dio e di servizio amoroso per la comunità; una croce che comportasse una sofferenza sconfinata ma che non si risolvesse effettivamente in un fatto di amore e di servizio non sarebbe cristiana.

Da questo punto di vista il rapporto sacrificio-convito del mistero eucaristico fa risaltare anche la linea di continuità che intercorre tra l'economia salvifica storica e quella escatologica.

All'interno della storia la logica della croce si accompagna normalmente alla sofferenza ma non si identifica con la sofferenza; se questa identificazione fosse assolutamente inevitabile la logica della croce si esaurirebbe nella storia e non potrebbe prolungarsi nell'escatologia.

In realtà, anche se nell'escatologia sarà eliminato ogni dolore, il pianto e la morte, la logica della croce continuerà e troverà la sua massima esaltazione: infatti, poiché la comunità escatologica sarà totalmente regolata dal principio cristiano dell'affermarsi donandosi, mai come nell'escatologia la croce sarà la "gloria di Dio".

Ma oltre a queste indicazioni che, per altro, ci consentono di affermare che una spiritualità eucaristica rettamente intesa è in grado di fornire all'ascesi e alla ricerca della perfezione cristiana una giusta prospettiva ecclesiale e storica, oltre che individuale ed escatologica, ci preme sottolineare che in una visione più completa dell'eucaristia-mistero è più facile individuare il significato salvifico della stessa presenza reale.

II - Spiritualità di una presenza

Già dall'epoca della controversia berengariana ( sec. XI ) e, quindi, molto prima della riforma protestante, il tema della presenza reale - in corpo, anima e divinità - di Cristo nell'eucaristia gode di una situazione privilegiata sia nell'insegnamento del magistero della chiesa che in quello della teologia.

Il fatto è comprensibile perché questa verità, riccamente e costantemente documentata da tutta la tradizione liturgica e dottrinale della chiesa, ha un significato e una funzione salvifica di primo piano.

Bisogna tuttavia riconoscere che l'esigenza di difendere integralmente il dogma di fronte ai reiterati attacchi ha spinto non solo la teologia ma anche la liturgia e là stessa pietà dei fedeli a sottolineare la realtà della presenza più nella sua oggettività che nella sua dimensione di presenza personale.

La storia della nascita e dello sviluppo di alcune forme di culto solenne all'eucaristia - ad es. la prassi di elevare l'ostia e il calice dopo la consacrazione ( inizi del XIII sec. ), la festa del Corpus Domini [ v. Storia della spiritualità III,13 ], le processioni, le quarantore, le ore di adorazione, ecc. - dimostra la fioritura ed i benefici effetti della pietà eucaristica che ha alimentato per secoli la comunità cristiana, ma suscita anche l'impressione che lo scopo prevalente di questa attività cultuale sia quella di affermare la preziosa realtà della presenza del corpo di Cristo.

La pietà eucaristica si è espressa egregiamente nell'adorazione e nella lode, nel ringraziamento e anche nella riparazione di eventuali offese o profanazioni arrecate all'eucaristia, meno egregiamente in un clima di incontro e in forme dove l'eucaristia non è solo oggetto di culto ma sorgente e promotrice di dialogo.

Nella considerazione di numerosi fedeli, specialmente di quelli meno provveduti, la stessa comunione eucaristica assume la parvenza di possesso e quasi di catturazione del corpo di Cristo più che di un incontro di persone o, almeno, di un incontro dove il Cristo non ha solo la funzione di ascoltare.

Ma ciò che è più sorprendente è che alcuni grandi maestri di spiritualità, presentando la contemplazione come la via maestra per attingere l'esperienza mistica, hanno potuto sottacere la via sacramentale e, in specie, quella eucaristica.

Fu con sorpresa che alcuni centri di spiritualità hanno scoperto, sulle indicazioni di s. Bonaventura e soprattutto attraverso le trattazioni di Tommaso di Gesù ( 1564-1627 ) e dei suoi discepoli, la via eucaristica come la seconda sorgente di esperienza mistica.

Tuttavia è ancor più sorprendente che « …i teorici della contemplazione ignorino l'eucaristia »,1 perché se è vero che ci possono essere vie diverse per raggiungere l'esperienza mistica, è altrettanto vero che la spiritualità eucaristica non può essere disgiunta dalla contemplazione.

Anzi, se c'è un mistero che, oltre ad essere oggetto di contemplazione, può aiutarci a comprendere la vera natura della contemplazione cristiana, che non è mai riducibile ad una pura ammirazione estetica o estatica ma è sempre compartecipazione dialogica, questo mistero è proprio l'eucaristia.

Forse una delle ragioni che potrebbero spiegare come mai la presenza reale ha potuto essere creduta e teologicamente interpretata anche senza ricorrere all'analogia dell'incontro intersoggettivo e personale sta nel fatto che la presenza eucaristica è stata ritenuta muta, come se il Cristo eucaristico fosse qualcuno a cui si può parlare ma che non si può ascoltare.

Tutto questo deriva, a sua volta, da una limitata capacità di lettura dei segni sacramentali e, più a monte, da una interpretazione non corretta della funzione della teologia alla quale viene affidato il compito di indagare e di sviscerare il mistero più che di ascoltarne il messaggio e di tradurlo a servizio della fede.

1. Alogia cristiana, dialogo e diaconia

Nelle osservazioni precedentemente formulate sulla vera natura dei misteri cristiani [ sopra I,1 ] si rilevava che essi sono eventi in cui lasciarsi coinvolgere prima e più che verità sulle quali indagare.

Purtroppo la mente umana, specialmente nel nostro contesto culturale, anche quando non specula su delle verità astratte non cessa di considerare la realtà con preoccupazioni efficientistiche.

Anche quando l'uomo non si domanda brutalmente: « a che cosa serve? » e si accontenta di chiedersi più semplicemente: « che cosa è? », resta il fatto che egli, di fronte ad una qualsiasi realtà, preferisce assumere l'atteggiamento dell'indagine e non della contemplazione gratuita e dell'ammirazione.

La realtà non gli interessa per se stessa ma per il vantaggio che da o per l'utilizzazione che se ne può fare o, al massimo, per la spiegazione che se ne può dare.

È, insomma, un atteggiamento di dominio, non di semplice accettazione e di solidarietà.

Da questa tendenziale e quasi esclusiva maniera di accostare la realtà ne esce compromessa la stessa capacità di dialogo.

Spesso è difficile stabilire se, tra due persone che si parlano, prevale la volontà di ascolto vicendevole, il bisogno di conoscersi e di accettarsi, o non piuttosto la volontà di imporre le proprie idee e di far valere le proprie ragioni come le più giuste e le più valide.

Anche la più o meno piccola parte di ascolto che: l'una persona presta all'altra è, a volte, inficiata dal desiderio di cogliere solo i punti deboli del discorso altrui o, più facilmente, i punti di convergenza con le proprie convinzioni.

Ne consegue che, non infrequentemente, la capacità e il desiderio di ricerca dell'uomo si risolvono in un cattivo servizio alla verità e in una fonte di divisione tra gli uomini, soprattutto quando si tratta di ricerca e di formazione religiosa.

Quanto questo atteggiamento sia in contrasto con la logica dell' "alleanza" e della fede, lo insegnava già eloquentemente l'epilogo del libro di Giobbe.

A Giobbe e al gruppo di amici che si erano arrabattati in mille modi, ma inutilmente, per individuare come la giustizia di Dio fosse conciliabile con le calamità e le sofferenze di un giusto.

Dio rivolge i suoi interrogativi con sottile sarcasmo: « Chi è costui che oscura il mio consiglio con parole prive di sapere? » ( Gb 38,2 ); « Chi ha mosso causa a Shaddai si da per vinto? il censore d'Iddio ha altro da dire? » ( Gb 40,2 ).

Giobbe comprenderà la lezione ed esclamerà: « Ecco sono piccino, cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano alla bocca » ( Gb 40,4 ); « Ho proferito dunque senza discernimento cose troppo ardue per me, che io non capisco » ( Gb 42,3 ).

A volte, e in particolare quando si tratta della presenza reale, si ha l'impressione che anche la riflessione teologica sia responsabile della medesima presunzione di Giobbe.

Preoccupata di stabilirne la natura, il modo e il quando, ha trascurato troppo vistosamente di descriverne il "perché"; gli stessi segni sacramentali ( il pane e il vino per un banchetto ) che qualificano la presenza di Cristo come presenza per un incontro, per un dialogo salvifico e, quindi, per un servizio, sono stati preferibilmente utilizzati solo per individuare il "dove" della presenza reale.

Che l'atteggiamento di ascolto abbia un'importanza fondamentale per ogni religione rivelata è abbastanza evidente, ma nel caso della religiosità biblica lo è in maniera particolare.

Fra le esperienze religiose del popolo d'Israele una delle più rilevanti è stata quella di aver incontrato un Dio che parla e, mentre da una parte gli ebrei erano giustamente orgogliosi di mettere a confronto la grandezza del loro Dio con la nullità degli "dèi muti" delle altre nazioni, dall'altra erano profondamente consapevoli che il silenzio di Dio era il più grosso castigo che poteva essere loro inflitto.

Infatti nella parola di Dio è contenuta la promessa della salvezza e, poiché la parola divina è fedele ed efficace, l'uomo trova in essa non solo luce, sostegno e guida, ma la caparra della salvezza; per contrapposto il silenzio di Dio significa rottura e, quindi, condanna.

Tutto questo, però, sembra rendere problematica ed illogica la presenza silenziosa del Cristo eucaristico; ma questa problematicità si dissolve quando si tiene presente che Cristo è l'amen del Padre, è l'ultima parola che, oltre a dare senso compiuto a tutto il discorso salvifico che l'ha preceduto, ne diventa il criterio ermeneutico.

Dopo di Cristo non è più possibile alcun discorso salvifico più ricco o diverso da quello che ci è stato detto in lui e il suo stesso silenzio è eloquente ed emblematico almeno per due motivi.

Innanzi tutto perché diventa un silenzio interpellante: il Cristo è una parola definitivamente e irrevocabilmente pronunciata che provoca l'uomo ad una risposta di assenso o di rifiuto; in secondo luogo perché crea l'unico spazio entro il quale può situarsi il dialogo dell'uomo con il suo Dio: Cristo è l'unico vero oggetto del dialogo religioso e qualunque tema che, direttamente o indirettamente, non vi si aggancia sarebbe un tema non pertinente.

Il Cristo silenzioso dell'eucaristia è, in definitiva, una proposta salvifica che il cristiano deve soppesare e approfondire in ogni suo contenuto perché, accettandola nel fare comunione con Cristo, deve esplicitarla e attualizzarla in ogni tempo e in ogni luogo.

L'a-logia ( silenzio ) eucaristica, che possiamo anche considerare il supremo gesto di fedeltà di Cristo alla logica della croce, diventa, quindi, un ulteriore servizio alla comunità credente per indicarle la modalità con cui anch'essa deve espletare il suo servizio a beneficio di tutti gli uomini.

Se il dialogo silenzioso tra il credente e il Cristo eucaristico sta ad indicare che l'uomo può incontrarsi veramente con il suo Salvatore solo in un atteggiamento di vicendevole "gratuita" accettazione ( il Cristo deve essere accettato per quello che è, prima ancora che per quello che dice o per quello che fa, così come il Cristo ha accettato gli uomini ), diventa per ciò stesso anche la norma ultima a cui i credenti devono attenersi nello svolgere la loro missione salvifica nel mondo.

La ragion d'essere della chiesa nel mondo è senza dubbio quella di significare la presenza dell'azione salvifica divina nel tempo e nello spazio e di orientare il mondo ad aprirsi all'azione di Dio; ma è proprio la presenza eucaristica ad insegnare che il punto di partenza della significazione e dell'orientamento salvifico è l'accettazione gratuita, perché amorosa, di ogni uomo e di ogni realtà.

Il cristiano, dall'affermazione che c'è un solo ed unico Dio, desume la convinzione che tutti gli uomini sono fratelli, al di là di ogni distinzione di razza o di sesso, di classe sociale o di cultura, ma questa convinzione è ulteriormente confermata e specificata dal mistero eucaristico.

La diaconia che la chiesa e, per conseguenza, ogni cristiano deve esercitare nel mondo è innanzitutto
un servizio di accoglienza e di ascolto dei bisogni di tutti e, in particolare, di coloro che non hanno voce per farsi ascoltare o peso politico per farsi valere.

Il tema della povertà della chiesa trova nell'eucaristia il suo significato più profondo: educata all'ascolto del suo Salvatore silenzioso, la chiesa, più ancora che nella povertà delle ricchezze e dei mezzi, esprime la sua povertà nella capacità di ascolto di ogni invocazione umana la più flebile.

La prima salvezza che essa può offrire al mondo è quella di garantire a tutti i deboli - nello spirito e nel corpo - la liberante possibilità di essere ascoltati.

La missionarietà della chiesa, prima che nel dire, si attua nell'ascellare ; prima che in un annuncio si realizza in un'accettazione.

2. Ubbidienza e missione

Nel linguaggio cristiano è giustamente ricorrente l'affermazione che Gesù Cristo è il Signore e il Figlio di Dio fatto uomo; tuttavia se si volesse individuare l'aspetto sotto il quale Gesù stesso ha amato qualificarsi lo si dovrebbe identificare nel suo presentarsi come il "mandato" dal Padre.

In effetti si tratta dell'aspetto più qualificante sia della funzione che della stessa personalità del Cristo e, in ultima analisi, la riflessione cristiana riesce a cogliere nel Cristo la vera dignità di Figlio di Dio solo partendo dalla nozione di "missione".

Gesù mette ogni cura nel sottolineare che la sua ragion d'essere nel mondo e per il mondo consiste nel fare la volontà del Padre ( Gv 4,34 ).

Cristo non gestisce in proprio ne la sua esistenza ne la sua attività; e tutti i misteri della sua vita, dall'incarnazione alla passione e morte, sono, un gesto di autentica obbedienza al Padre.

In questa prospettiva il mistero eucaristico non è altro che l'ultima conseguenza della missione-ubbidienza che da senso all'essere e all'agire di Gesù.

Mandato come supremo segno dell'amore del Padre per tutta l'umanità.

Gesù esprime e realizza totalmente nell'eucaristia questa logica di donazione.

Ma questo non è tutto.

La fede cristiana trasferisce integralmente la nozione di "missione" in quella di "apostolato"; ora, se apostolo significa mandato.

Cristo è apostolo prima e più di ogni altro e, siccome la ragione fondamentale per cui è stato mandato è quella di rendere testimonianza al Padre, è logico concludere che quello che Cristo è, assieme a quanto fa ed insegna, è sostanzialmente una testimonianza della persona, dell'opera e della parola del Padre.

In Cristo apostolato e testimonianza sono in strettissima connessione e hanno un costante vicendevole riferimento: in lui l'apostolato, più che opera di proselitismo, è profetismo e la sua testimonianza non è solo coerenza ma anticipazione.

Ne deriva che l'eucaristia, nel suo essere sommo gesto di missione e di ubbidienza, diventa anche suprema forma di testimonianza profetica e anticipatrice: profetica perché annuncia e racchiude in sé tutta la promessa salvifica del Padre, anticipatrice perché offre una pregustazione della salvezza escatologica che consisterà nella perfetta comunione, in Cristo, degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro.

Con questo l'eucaristia propone un'ulteriore informazione paradigmatica sulla vocazione missionaria della chiesa.

Mentre il Cristo silenzioso impegna la chiesa ad essere missionaria in un atteggiamento di gratuita accoglienza e di amoroso ascolto di ogni uomo, il Cristo apostolo-testimone fa obbligo alla chiesa di svolgere la sua missione nel mondo in termini di apostolato-testimonianza.

Purtroppo, lungo il corso dei secoli, la nozione e, quindi, l'impegno di apostolato e di testimonianza sono stati indebitamente disgiunti e quasi fatalmente impoveriti; mentre, da una parte, la testimonianza è stata spesso ridotta alla semplice coerenza con la quale si cerca di agire in conformità a quanto si pensa, dall'altra l'apostolato è diventato prevalentemente una forma di proselitismo religioso.

Anche prescindendo dal fatto che, intesi in questo modo, la testimonianza: e soprattutto l'apostolato hanno perso, almeno parzialmente, la fisionomia di un servizio, ne sono derivate due spiacevoli conseguenze.

Mentre si è continuato a chiedere a tutti l'impegno della testimonianza, l'apostolato fu ritenuto una missione che poteva essere limitata ad alcuni.

In secondo luogo mentre la testimonianza, intesa come coerenza e buon esempio, diventava solo una testimonianza di se stessi - cioè delle convinzioni che si hanno e della capacità di tradurre in atto ciò che si pensa - invece che testimonianza del Padre e del suo Cristo, l'apostolato è diventato solo "diffusione di un messaggio" invece che offerta di una anticipazione profetica della salvezza fino a consentire la reale, anche se parziale, esperienza storica della bellezza e della validità del piano e della logica salvifica divina.

Da questo punto di vista la celebrazione eucaristica non è solo un giudizio di Dio nei confronti dell'autenticità cristiana dei singoli ( 1 Cor 11,28-34 ), ma prima ancora della fedeltà con cui la chiesa adempie la sua missione.

Oltre tutto l'eucaristia insegna alla chiesa e ai singoli fedeli che l'ubbidienza cristiana non è tanto l'accettazione passiva di una volontà superiore fino alla rinuncia dei valori più grandi della propria personalità, quanto il coinvolgimento in un piano salvifico che impegna ad essere massimamente se stessi per essere massimamente testimoni di Colui che li ha mandati.

III - Spiritualità di una celebrazione

Nonostante la ricchezza dei suoi contenuti, anche l'eucaristia è pur sempre una celebrazione e, almeno da questo punto di vista, sembra accomunabile alle celebrazioni che trovano largo spazio in ogni contesto religioso.

Indubbiamente, come abbiamo già rilevato parlando dell'eucaristia banchetto [ sopra I,2 ], le celebrazioni cristiane non ripudiano ma assumono tutti i valori positivi che sono intrinseci ai gesti simbolici con cui gli uomini attingono ed esprimono i principi fondamentali dell'esistenza e i molteplici rapporti che legano l'uomo alla trascendenza e alla realtà infraumana [ v. Celebrazione liturgica ].

Tuttavia l'eucaristia, che è il vertice di ogni celebrazione cristiana, ha una sua innegabile originalità che non è riducibile solo alla specificità dei suoi significati ma si estende alla sua particolare efficacia formativa.

1. Celebrazione, culto ed edificazione

La celebrazione cultuale, in qualunque contesto religioso, sottende sempre e simultaneamente una duplice intenzionalità: l'una è la volontà di tributare un doveroso omaggio alla divinità, l'altra è quella di esprimere una concezione globale ed organica della realtà; infatti è in questa concezione che è implicitamente inscritta ogni norma utile per una gestione salvifica della storia.

Nella celebrazione religiosa, pertanto, mito e gnosi si incontrano inevitabilmente e il gesto cultuale è simultaneamente accettazione di una realtà trascendente, inesprimibile al di fuori di un linguaggio mitico-rituale, e progettazione di una storia che non può essere costruita in termini positivi se non in rapporto con la trascendenza stessa.

Ma è già a questo punto che la celebrazione cristiana incomincia a specificarsi rispetto alle altre celebrazioni religiose.

Se si tiene presente che anche il mito, sebbene configurabile come genere culturale e letterario a sé stante, è comunque una forma di gnosi, non è difficile concludere che dietro all'attività cultuale delle religiosità non cristiane ( non bibliche ), c'è solo lo sforzo umano di trovare una situazione ottimale sia nei confronti della divinità che nei confronti della storia.

L'efficacia salvifica attribuibile alla gnosi che sorregge l'attività cultuale è, pertanto, un risultato dell'impegno umano; è un tentativo di dare un assetto ordinato alla realtà e all'esistenza ricollegando l'una e l'altra alle sorgenti dell'essere.

In queste attività cultuali c'è sempre il desiderio di instaurare una situazione di solidarietà con la divinità e con il cosmo, ma si tratta di una solidarietà cercata e non offerta; è una solidarietà che corrisponde ad una aspirazione umana profonda ma che, tuttavia, non può diventare un'effettiva speranza almeno nella misura in cui non ha di fronte un'altrettanto effettiva promessa da parte della divinità.

Si tratta, insomma, di un'attività che, non nascendo in un clima di dichiarata e profonda alleanza; può solo formare ad un atteggiamento di dipendenza e, in ultima analisi, di concorrenza.

È in questo contesto che si forma e cresce la nozione esasperata di "sacro" ( separato, destinato esclusivamente alla divinità ) e un'animazione sacralizzante che, oltre ad alienare dall'impegno storico, introduce nella storia un principio di notevole discriminazione tra uomini sacri e non sacri, tra realtà sacre e realtà profane.

Al contrario, l'eucaristia - che come si diceva è il vertice di ogni celebrazione cristiana - da l'esatta e più esauriente visione della capacità edificante dell'attività cultuale della chiesa.

È noto che per una lunga ed ormai assodata tradizione catechetica, oltre che teologica, la comunità cristiana proclama di perseguire, nella celebrazione eucaristica, un quadruplice fine: l'adorazione, il ringraziamento, la propiziazione e l'impetrazione.

Non è questa la sede per introdurre una valutazione critica di questo schema quaternario e per cogliere il vero senso di una celebrazione finalizzata dell'eucaristia; sarà sufficiente mettere in risalto che ognuno dei quattro fini sopra elencati edifica una situazione di alleanza e non di concorrenza.

a. Tra i diversi atteggiamenti religiosi, l'adorazione è quello che esprime con maggiore evidenza la totale dipendenza dell'uomo da Dio di cui si afferma l'assoluta sovranità.

Già l'AT aveva affermato con insistenza che il culto di adorazione non deve essere tributato ad alcuno che non sia l'unico vero Dio, ed è in questa prospettiva che la bibbia ci parla frequentemente della gelosia di Dio.

Tuttavia è lo stesso AT, prima ancora che il NT, a fornirci il significato antropologico di questo primo e fondamentale comandamento del decalogo.

La gelosia di Dio non nasce da una volontà egemonica o dal desiderio egoistico di non dividere con altri un omaggio di cui vuole disporre in maniera esclusiva, ma da un atteggiamento di fedeltà all'uomo e dal desiderio di liberare l'uomo da dipendenze umilianti e quindi non promozionali.

Fabbricandosi idoli e adorandoli, l'uomo diventerebbe schiavo o di creature che in realtà debbono essere soggette all'uomo, o di persone umane che non hanno una dignità e un essere maggiore o diverso da quello che è comune a tutti gli uomini.

Dio ci ha insegnato fin dall'inizio a rifiutare il "culto della personalità".

Ma il culto cristiano di adorazione è edificante e promozionale dell'uomo per una ragione anche più profonda.

Adorare Dio significa glorificarlo; eppure il mondo cristiano, sulla scorta dell'insegnamento biblico, ha sempre capito ed affermato che la gloria di Dio è la grandezza dell'uomo: « Gloria Dei, vivens homo ».2

L'adorazione eucaristica è, in questo senso, emblematica, perché, avendo come oggetto l'unica persona del Figlio di Dio fatto uomo, che afferma la sua signoria in un atteggiamento di totale donazione all'uomo, diventa l'espressione più chiara della sintesi gloria di Dio-liberazione e promozione umana.

In sostanza il mistero eucaristico ci insegna che ciò per cui Dio deve essere glorificato si intreccia mirabilmente con quello per cui Dio deve essere ringraziato; gloria e grazia sono come l'ordito e la trama di un unico tessuto religioso salvifico e non è senza ragione che il linguaggio cristiano ha trovato nell'appellativo "eucaristia" ( rendimento di grazie ) quello più adatto ad esprimere uno degli aspetti più specifici del mistero e, in ultima analisi, tutto il mistero nella sua globalità.

b. Ma, anche a proposito di questo aspetto della celebrazione eucaristica, occorre mettere in risalto i risvolti edificanti e promozionali.

Sebbene la gratitudine sia un sentimento e un atteggiamento che sottende una certa dipendenza del beneficato dal benefattore, non può certo essere considerata un atteggiamento umiliante; al contrario onora l'uomo che la professa.

Tuttavia il "rendimento di grazie" del linguaggio liturgico cristiano dice molto di più del semplice "ringraziamento"; infatti sottolinea ancora una volta e sotto un aspetto nuovo la dialogicità dell'incontro salvifico Dio-uomo.

Mentre, da una parte, il credente ha la profonda convinzione di vivere come soffuso in un universo di gratuità: tutto è grazia perché tutto è dono del Padre di ogni bene; dall'altra è consapevole di essere chiamato dal Padre a sprigionare da ogni realtà ricevuta tutti i valori positivi che vi sono racchiusi al fine di testimoniare e di rendere percepibile la bontà e la graziosita dei doni divini.

Per fare questo l'uomo deve usare e realizzare i doni ricevuti con la stessa logica di gratuità con cui Dio li ha offerti.

L'uomo che utilizza e si serve delle cose in un atteggiamento di possesso egoistico e di logica efficientistica, oltre a non rendere grazie a Dio, manca di rispetto alle persone e alle cose e impedisce loro di manifestarci la loro origine graziosa.

Se l'umanità vivesse una spiritualità eucaristica sarebbe un'umanità fraternamente più giusta ed eliminerebbe alla base ogni problema ecologico [ v. Ecologia ].

La liturgia eucaristica lo proclama egregiamente quando, proprio all'inizio della grande prece eucologica, ci fa dire che il rendere grazie sempre e in ogni luogo al Signore, Padre santo.

Dio onnipotente ed eterno, non solo è nostro dovere, ma è veramente cosa buona e giusta e fonte di salvezza.

c. Procedendo in questo ordine di considerazioni, il mistero eucaristico da un senso evidentemente promozionale anche al fine propiziatorio.

A questo proposito sarebbe sufficiente rifarsi a quanto è stato detto sull'eucaristia sacrificio [ sopra I,3 ] ; è doveroso tuttavia ricordare che l'eucaristia non ci consente di ridurre la propiziazione ad un mero gesto di espiazione o ad una richiesta di perdono ad una divinità giustamente corrucciata per l'offesa ricevuta.

Mettendo in risalto lo strettissimo rapporto che unisce la gloria di Dio alla realizzazione di tutta la realtà creata, l'eucaristia, oltre a confermare l'idea cristiana che il peccato ha sempre e simultaneamente una dimensione verticale ( offesa a Dio ) ed una orizzontale ( disordine cosmico ), insegna che la propiziazione comporta, assieme al giusto riconoscimento della sovranità divina, un riordinamento del mondo e della storia.

La giustizia divina, accettando un sacrificio come espiazione del peccato, non si adegua alla logica della legge del contrappasso, ma intende sprigionare l'esigenza dell'amore di donazione come unica via di superamento dell'egoismo e di realizzazione di un mondo giusto.

Il fatto poi che la celebrazione eucaristica coinvolga in un atteggiamento di propiziazione non solo i peccatori, ma anche i giusti, dice chiaramente che la penitenza cristiana e l'impegno di riordinamento, oltre ad esigere l'eliminazione del male, richiede uno sforzo costante di progressione nel bene.

d. Ma da questa rilevazione si apre un nuovo discorso anche sul significato che il cristianesimo da alla preghiera di impetrazione.

Le informazioni che il mistero eucaristico ci offre su questo tema sono numerose e ricche; nell'imbarazzo della scelta basterà sottolinearne alcune tra le più importanti.

Una delle obiezioni più ricorrenti nei confronti della preghiera di domanda deriva dal fatto che essa sembra sottendere una concezione mitologica di Dio.

La domanda che l'uomo rivolge al suo Dio sembra fondarsi sulla duplice insostenibile presunzione che la preghiera dell'uomo sia sufficiente per modificare in meglio la storia e, soprattutto, che questo sia possibile perché l'uomo riesce, con la sua preghiera, a far mutare a Dio i suoi piani.

Ma l'impetrazione eucaristica cammina in direzioni decisamente diverse.

Mentre, per un verso, la preghiera eucaristica fonda e legittima la domanda dell'uomo perché lo impegna a professare la sua certezza di fede che tutto è grazia e dono di Dio, per l'altro lo impegna a riconoscere che tutto ci è già stato donato in Cristo.

Ogni altra grazia che il credente chiede al Padre non può essere altro che un prolungamento ed un'attualizzazione di ciò che fa del Cristo la pienezza e la totalità della grazia.

In altre parole, il chiedere nuove grazie a Dio non significa proporgli un mutamento d'azione, ma il prolungamento - per il qui e per l'adesso - della perenne economia d'incarnazione.

Il rinnovarsi quotidiano dell'impetrazione eucaristica non ha lo scopo di piegare la volontà divina all'insistenza della nostra richiesta, ma di aprire pazientemente la nostra intelligenza ad una progressiva comprensione del grande dono che è Cristo e di impegnare la nostra volontà ad amare e a volere quello che Dio ha amato ed ha voluto in Cristo.

In questo senso l'impetrazione eucaristica, lungi dall'essere un alienante tentativo di scaricare sull'onnipotenza divina la soluzione dei nostri problemi, è assunzione di responsabilità.

2. Celebrazione, culto e carità

Per almeno dieci secoli la comunità cristiana non ha conosciuto altra forma di culto eucaristico che fosse in qualche modo diversa o distinta dalla celebrazione sacrificale: la messa.

Il fatto che le specie eucaristiche fossero devotamente conservate per poter amministrare il viatico agli ammalati o che le specie eucaristiche fossero, a volte, inviate da una chiesa locale all'altra in segno di unità e di comunione di vita, non aveva suscitato particolari attività cultuali comunitarie o forme devozionali individuali nei confronti dell'eucaristia.

La prassi di conservare le specie consacrate anche dopo la celebrazione eucaristica è una prova irrefutabile della tradizionale convinzione di fede che la presenza reale perdura anche dopo la celebrazione della messa, ma questa presenza reale non era oggetto di culto.

In fondo questa prassi testimonia che la comunità cristiana non sentiva il bisogno di nuove forme di culto eucaristico perché nella messa si vedeva una sintesi sufficientemente ricca e, quindi, onnicomprensiva di ogni significato religioso e di ogni efficacia formativa che il culto eucaristico può e deve avere.

Sebbene ci siano opinioni divergenti circa le circostanze che hanno dato il via alla nascita e allo sviluppo di molteplici attività cultuali eucaristiche, in sede storica resta vero che l'apparizione di un culto eucaristico distinto dalla messa coincide con l'insorgere delle prime controversie circa la realtà della presenza di Cristo nell'eucaristia.

Non è questa la sede per analizzare dettagliatamente la cronistoria e la natura delle più note forme di culto e di pietà eucaristica; basterà ricordare che dalle prime e solenni "ostensioni" del pane consacrato durante la messa, si è passati alle "esposizioni" e alle adorazioni solenni dell'eucaristia al di fuori della messa; da queste deriveranno sia le attività cultuali pubbliche e comunitarie ( festa del Corpus Domini, benedizioni eucaristiche, processioni eucaristiche, ss. quarantore e, più recentemente, congressi eucaristici ) sia le forme di culto e di pietà privata ( ore di adorazione, visita al ss. Sacramento, comunione Spirituale, ecc. ).

È indubbio che queste attività cultuali, favorite e incrementate dall'autorità ecclesiastica, sono diventate altrettante sorgenti di spiritualità e di vita cristiana, sia individuale che associata.

Molti santi hanno potuto strutturare la loro vita ascetica, orientare il loro cammino di perfezione e raggiungere l'esperienza mistica nell'esercizio di questo culto; inoltre molte associazioni di ispirazione eucaristica ( confraternite del ss. Sacramento, congregazione religiose, leghe eucaristiche, ecc. ) sono state autentiche scuole di formazione cristiana.

Resta vero però che la coincidenza tra la necessità di sottolineare la fede nella presenza reale e la nascita delle nuove forme di culto eucaristico ha potuto condizionare in forma non del tutto positiva la pietà cristiana.

Fra i condizionamenti di maggior rilievo dobbiamo ricordare il processo di oggettivizzazione della presenta reale, diventata quasi fine a se stessa e, per conseguenza, l'affermarsi di un certo trionfalismo eucaristico e di alcune forme devozionali ispirate al sentimentalismo più che alle grandi verità della fede.

Nella solenne esposizione eucaristica, ad es., si vide l'equivalente di un "Cristo che troneggia sugli altari", nelle processioni una marcia trionfale di Cristo; le ore di adorazione e le visite al ss. Sacramento furono a volte suggerite con l'intendimento di sottrarre "il divin Prigioniero" degli altari ad una solitudine deprimente.

In questo linguaggio, ormai superato, di alcuni libri di pietà o di certa oratoria, si potrebbe scorgere anche solamente una buona dose di intemperanza verbale che non compromette in alcun modo la nobiltà delle intenzioni e lo slancio di una fede sincera, ma è innegabile che la pietà eucaristica ne usciva in qualche misura alterata e incapace di cogliere il significato più profondo e formativo della presenza reale.

Tanto più che questo fatto ha permesso, in tempi più recenti, che si equivocasse tra una giusta contestazione delle deformazioni pietistiche e una meno giusta contestazione di attività cultuali e di pratiche di pietà che, in se stesse, conservano la loro validità educativa.

Le esposizioni solenni, le processioni e le adorazioni private sono giustamente ricuperabili nella misura in cui non comportano alcuna contraddizione con l'economia salvifica a cui corrisponde l'istituzione dell'eucaristia e nella misura in cui sono aperte ad una giusta sottolineatura antropologica.

Mentre, da una parte, bisogna ridare a queste attività cultuali il dovuto rapporto con la messa - analogamente a quanto l'istruzione Eucharìsticum Mysteriutn ( 1967 ) stabilisce a proposito della comunione sacramentale fatta "extra Missam" -, dall'altra occorre enucleare con molta chiarezza il messaggio salvifico che comportano per il nostro presente.

Come la comunione sacramentale, in qualunque momento sia fatta, è sempre un coinvolgimento nell'azione sacrificale eucaristica e non può essere strumentalizzata a scopi puramente privati, per quanto nobili essi siano, così ogni attività cultuale e ogni pratica di pietà eucaristica deve essere un prolungamento dell'incontro dialogico i cui contenuti sono già stati fissati dal Cristo istitutore dell'eucaristia.

In questo senso l'esposizione e l'adorazione solenne deve significare, per coloro che vi prendono parte, riconoscimento ed esaltazione della logica che ha portato Cristo a rendersi presente nell'eucaristia: la logica del diventare grandi facendosi piccoli, dell'affermarsi donandosi, del guadagnare la propria vita spendendola [ sopra I,3 ].

Le processioni eucaristiche debbono essere a loro volta una proclamazione della nostra volontà di adeguare alla logica del Cristo non solo le nostre scelte e le nostre attività, ma anche le nostre strutture e i nostri contesti di vita, come le strade, le piazze, gli ambienti di lavoro, ecc., dove il Cristo eucaristico è portato.

In una parola, bisogna ridare ad ogni forma di culto eucaristico la possibilità di trasformarsi in un giudizio salvifico su di noi, sul nostro tempo, sul nostro mondo, sulla nostra quotidianità.

Per raggiungere questo scopo, tuttavia, sarà necessario ricordarsi che quella eucaristica non è l'unica ne l'esclusiva presenza reale di Cristo nella sua chiesa.

Rifacendosi a quanto era già stato insegnato nella costituzione « Sacrosanctum concilium » ( c. 1, n. 7 ) del Vat II, l'enciclica Mysterium fidei ( 1965 ) di Paolo VI afferma che la presenza reale di Cristo nella sua chiesa è molteplice: è realmente presente nella preghiera della chiesa, nel suo esercitare le opere di misericordia, nella sua tensione escatologica animata dalla fede e dalla azione dello Spirito di carità, nell'annuncio della parola, nell'azione di governo e di guida del popolo di Dio mediante la gerarchia, nella celebrazione dei sacramenti e in particolare nell'eucaristia.

La peculiarità della presenza eucaristica non toglie nulla alla realtà delle altre presenze le quali, mentre da una parte sono d'aiuto nell'esplicitare la vera ragione della presenza reale eucaristica, dall'altra trovano la loro finalizzazione nella celebrazione eucaristica che segnerà l'incontro comunitario, non solo di tutti i figli di Dio, ma di tutte le vocazioni cristiane e della loro testimonianza storica.

Più sopra si faceva osservare che accentuando in maniera esasperata la realtà della presenza eucaristica, fin quasi a renderla fine a se stessa, si da al culto e alla pietà eucaristici un tono trionfalistico che contraddice l'economia salvifica a cui il mistero dell'eucaristia corrisponde.

La teologia contemporanea, approfondendo ed allargando la comprensione di quella che si è convenuto di chiamare la "via alla presenza reale", cioè la transustanziazione, ha fatto giustamente rilevare che la mutazione reale del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo comporta necessariamente anche una mutazione reale del significato ( transignificazione ) e del fine ( transfinalizzazione ) degli elementi che costituiscono il segno sacramentale.

Se il discorso di fede si limitasse a rilevare la dimensione ontologica della misteriosa mutazione che avviene nel sacramento eucaristico, sarebbe incompleto e non formativo.

D'altra parte non è possibile parlare in maniera costruttiva di transignificazione e di transfinalizzazione se non si danno degli effettivi contenuti al nuovo significato e al nuovo fine attribuibile al pane e al vino eucaristico.

Questi contenuti, che non possono essere il prodotto della fede soggettiva, sono appunto indicati dalle diverse forme di presenza reale che Cristo stabilisce nella sua chiesa.

Gesù Cristo è presente in anima e corpo nell'eucaristia per significarci che le nostre opere di misericordia lo rendono veramente presente nella storia quando non si esauriscono nella cura delle necessità dello spirito, ma quando si estendono alla realizzazione dell'uomo integrale; per significarci che l'annuncio della sua parola lo rende realmente presente quando consente, assieme all'ascolto della promessa di salvezza, una parziale ma effettiva esperienza della salvezza che lui è venuto a portare; e quello che è stato detto esemplificativamente della presenza leale nelle opere di misericordia e nell'annuncio di evangelizzazione può essere facilmente applicabile alla presenza reale nell'azione pastorale della gerarchia e nella tensione escatologica di tutto il popolo di Dio.

Ma poiché le diverse presenze reali di Cristo nella vita della chiesa si estendono, in definitiva, a tutte le forme di autentica vita cristiana con cui i battezzati introducono la salvezza nella storia, cioè a tutte le vocazioni cristiane che attualizzano, ciascuna secondo la specifica mozione dello Spirito e in comunione tra loro, la ricchezza del mistero di Cristo salvatore [ v. Vocazione ], ne consegue che la presenza reale eucaristica, mentre da a ciascuna vocazione un suo giusto significato, esprime anche il fine a cui ognuna è orientata.

La struttura dell'iniziazione cristiana,3 che pone l'eucaristia al vertice, è già un'indicazione chiara in questo senso.

Lo Spirito di Cristo, che fa di ogni battezzato un uomo nuovo e suscita nella confermazione i germi della vocazione con cui ognuno eserciterà il suo ruolo di testimone della salvezza nella storia, è uno Spirito di unità che orienta ogni vocazione alla comunità-comunione.

L'eucaristia è la celebrazione di questa convergenza e, mentre insegna che ogni vocazione deve essere se stessa per esprimere la massima fedeltà allo Spirito, proclama che l'unica via aperta alla massima realizzazione del proprio carisma è quella di farne un servizio agli altri carismi.

Da questo punto di vista l'eucaristia ci aiuta a capire meglio due caratteristiche fondamentali delle diverse vocazioni cristiane: l'una - la più evidente - è quella che esige da ogni vocazione una radicale apertura ecclesiale: la molteplicità delle vocazioni è per l'unità della chiesa; l'altra è quella che impegna ogni vocazione ad essere un segno della cattolicità pur nella sua specificità: cioè a dare una testimonianza che pur consistendo nell'affermazione di determinati valori che sono propri ed esclusivi di una vocazione, è però evocativa anche dei valori che sono propri delle altre.

L'esempio più facile può essere individuato in due vocazioni apparentemente così disparate quali sono la verginità e il matrimonio.

L'affermazione che la verginità e il matrimonio debbono essere un momento di edificazione della chiesa sembra del tutto pacifica, ma in realtà occorre sottolineare che ne la verginità ne il matrimonio danno un'effettiva testimonianza cristiana quando si pongono solo come fedeltà all'ideale di vita che l'una e l'altro comportano.

Il matrimonio è veramente cristiano quando, oltre a realizzare l'unione coniugale secondo il progetto cristiano, mantiene la coppia aperta sulle esigenze di tutta la comunità ecclesiale e non solo su quelle della comunità coniugale o familiare; la verginità è veramente cristiana quando, oltre a non comportare alcuna infedeltà all'ideale verginale, non si chiude in se stessa ma diventa un servizio ecclesiale.

Su questa apertura ecclesiale delle singole vocazioni si innesta poi la loro cattolicità: la verginità, pur distinguendosi dal matrimonio nel suo essere rinuncia all'amore coniugale, deve diventare evocativa della vocazione matrimoniale ponendosi come atteggiamento amoroso capace di attuare, sia pure in forma diversa, tutti i valori positivi racchiusi nell'amore coniugale; a sua volta l'amore coniugale, sebbene nella sua modalità specifica, deve essere in grado di significare tutti i valori positivi che sono impliciti nella vocazione verginale [ v. Celibato e verginità; Famiglia; Celebrazione liturgica II,2,b ].

Purtroppo queste indicazioni, che derivano alle vocazioni cristiane dalla loro finalizzazione eucaristica, non sono sempre state tenute nella giusta considerazione e, come nel caso della verginità e del matrimonio, ne è derivata una lettura di contrapposizione e quasi antagonistica che legittima più del necessario l'affermazione dell'una come stato di perfezione di santità privilegiata e fa dell'altro solo una situazione, certamente onesta e salvifica, ma di perfezione mancata.

Tuttavia l'esempio più pertinente per dimostrare le conseguenze negative che derivano da una mancata sottolineatura della finalizzazione di tutte le vocazioni all'eucaristia è un altro.

E noto che il sacerdozio ministeriale ( più esattamente bisognerebbe dire il ministero sacerdotale ) è stato considerato per molto tempo l'unica vera forma di sacerdozio nella chiesa, mentre quello comune a tutto il popolo di Dio fu ritenuto un sacerdozio quasi solo metaforico.

Non è improbabile che queste convinzioni derivassero da una reazione polemica contro le tesi dei riformatori più che da una riflessione di fede; ma resta il fatto che la presidenza eucaristica - giustamente riservata ai sacerdoti ministri - ha potuto essere teorizzata autonomamente dal sacerdozio che ogni fedele esercita nell'esercizio della propria vocazione; il che ha ulteriormente contribuito ad operare l'indebita frattura tra clero e laicato che il Vat II ha cercato di rinsaldare.

Se nell'eucaristia non convergessero le testimonianze di tutte le vocazioni cristiane, alla celebrazione eucaristica mancherebbe ciò che fa di essa il sacrificio della chiesa assieme al sacrificio di Cristo.

La presidenza eucaristica è certamente "un" carisma, ma lo è come servizio agli altri carismi che nella celebrazione eucaristica danno gloria a Dio realizzando il mistero della chiesa "una nella molteplicità".

Celebrazione
Esercizi pt.
… come annuncio Celebrazione II,2
… e il Cristo Celebrazione II,2
… e mistero pasquale Mistero IV,3
… e martirio del vescovo Chiesa I,1b
… nella vita comunitaria Comunità VII
… e fraternità Fraternità III,1c
Nella famiglia Famiglia V,3
Pietà eucaristica Esercizi pt. III,3
Preghiera IV
Preghiera VI
… e neocatecumenato Neocatecumenato VI,2b
Nel protestantesimo Protestantesimo III,4

S. G. B. de La Salle

Istituzione del Sacramento dell'Eucarestia MD 26
Festa del SS.mo Sacramento MD 47
Gesù eucaristico è un Pane per nutrire le nostre anime MD 48
Gesù eucaristico è un cibo che conserva la vita delle nostre anime MD 49
Dio ci fa un grande onore, invitandoci a ricevere Gesù Cristo nell'Eucarestia MD 50
Dispensarsi dalla Comunione è un errore, perché essa è il rimedio per tutte le infermità della nostra anima MD 51
La cattiva comunione: cause e rimedi MD 52
Le comunioni poco utili: cause e rimedi MD 53
La Comunione frequente MD 54
Pretesti che molti adducono per non comunicarsi spesso MD 55
I religiosi debbono essere più virtuosi dei laici MD 58,2
Immacolata Concezione della SS.ma Vergine MF 82,2
Vigilia di Natale MF 85,2-3
Riflettere sulle colpe commesse durante quest'anno verso voi stessi e verso la regolarità MF 92,1
San Marco MF 116,3
Santa Maria Maddalena dei Pazzi MF 130,2
Visitazione della SS.ma Vergine MF 141,3
Santa Maria Maddalena MF 144,3
Santa Marta MF 147,1-2
San Luigi re di Francia MF 160,1
Commemorazione delle anime del Purgatorio MF 185,3
Dedicazione della chiesa MF 188
Cosa dovete fare per rendere il vostro ministero utile alla Chiesa MR 200,2
Cose riguardanti l'impiego, su cui dovrà rendere conto un Fratello delle Scuole Cristiane MR 206,1

1 V. M. Breton, La vie de prière, Parigi 1948, 106
2 S. Ireneo, Adv. Haereses, c. IV
3 E. Ruffini, IniMiione cristiana in N.BT, 658-690