Consigli

IndiceA

… evangelici

Sommario

I. I consigli evangelici e il dato biblico:
1. La chiamata di tutti i cristiani alla perfezione evangelica:
a. Il contenuto del discorso della montagna,
b. La visione paolina dell'essere-cristiano;
2. La pericope del giovane ricco e la risposta di Cristo;
3. I "consigli" evangelici di povertà e di obbedienza:
a. In altri testi del NT si parla di un "consiglio" di povertà?
b. Nel NT si trova l'affermazione di un "consiglio" di obbedienza?
4. Il "consiglio" del "celibato per il regno dei celi":
a. L'insegnamento di Paolo sui vantaggi della "verginità",
b. La pericope di Mt ( 19,10-12 ) sugli « eunuchi in vista del regno dei cieli »;
5. Il fondamento evangelico della vita detta "secondo i consigli":
a. Un certo appello al radicalismo,
b. Alcuni modelli evangelici,
c. Un modo limitato di vivere la vocazione cristiana.
II. I consigli evangelici nella vita cristiana:
1. La riflessione teologica post-conciliare;
2. Recupero dei consigli evangelici in prospettiva sapienziale:
a. Alla scuola del Maestro di sapienza,
b. Finalità e significato dei consigli evangelici,
c. Il dono sapienziale del consiglio.

Nominare i "consigli evangelici" e riferirsi alla vita religiosa è ancora per molti cristiani un'abitudine spontanea e scontata.

Questa associazione è dovuta al presupposto che esistano due vie per entrare nel regno dei cieli: quella comune, consistente nella pratica dei comandamenti e sufficiente per la salvezza, e quella speciale, riservata a quanti si impegnano a vivere i consigli evangelici onde raggiungere la perfezione.

Contro questa tendenza, che oscura la vocazione universale dei fedeli alla santità [ v. Santo ], introduce classi privilegiate nella chiesa e condanna i laici [ v. Laico ] ad essere cristiani in senso diminuito, il Vat II afferma: « La santità della chiesa è in modo speciale favorita dai molteplici consigli che il Signore nel vangelo propone all'osservanza dei suoi discepoli » ( LG 42 ).

Tale testo conciliare mette in luce l'estensione dei consigli evangelici, che sono più numerosi della triade classica stabilita dai teologi e la cui pratica non è monopolio di una categoria, ma è offerta a tutti i cristiani, quale mezzo efficace di perfezione.

Sulla scia dell'indicazione del Vat II, occorre approfondire la riflessione su questo argomento non solo per appurare i fondamenti biblici della vita religiosa [ I ], tradizionalmente presentata come vita "secondo i consigli", ma anche per comprendere la funzione dei consigli evangelici nel complesso dinamico dell'esistenza cristiana [ II ].

Ne scaturirà una visione più ampia della santità della chiesa, in un contesto di complementarietà dei doni e degli appelli dispensati dallo Spirito per rendere ogni uomo perfetto in Gesù Cristo ( 1 Cor 7,7; Col 1,28 ).

I - I consigli evangelici e il dato biblico

La dottrina classica dei "consigli evangelici" scaturisce immediatamente ed esplicitamente dal vangelo o non è piuttosto il frutto di una intelligenza "teologica" degli elementi biblici, dal momento che non si desume da un'interpretazione letterale di essi, ma dalla comprensione globale del fatto cristiano?

E non potrebbe risultare al termine di una successiva lettura?

1. La chiamata di tutti i cristiani alla perfezione evangelica

Un primo punto sembra oggi ammesso definitivamente da tutti: per la tradizione evangelica non esiste che una perfezione, e Cristo non presenta gerarchie nell'ideale che propone.

È certo difficile presentare qui sinteticamente questa nozione biblica della "perfezione": essa non si deduce soltanto dallo studio di alcuni termini ( teleios, teleiotès ), ma ci perviene, con sfumature molto importanti, da tutto un complesso di vocaboli ( per es.: dikaios, alèthinos, osios, amòmos, ecc. ).

Presenteremo quindi gli elementi atti a chiarire direttamente la questione dei "consigli".

a. Il contenuto del discorso della montagna

Riferendo le parole di Gesù, Matteo vuole mostrare che Cristo rifiuta una rottura con le esigenze morali dell'antica alleanza, prodotta dalla nuova ( Mt 5,18-19 ) ed esige invece un grado di perfezione superiore a quello della legge ebraica.

Le antitesi del discorso della montagna dimostrano l'insufficienza delle esigenze mosaiche per chiunque voglia realmente essere discepolo di Cristo.

La legge deve far posto a un ideale più rigoroso: quello concernente l'interno stesso del cuore, non più soltanto dei comportamenti esteriori ( v. ciò nella grande prospettiva dei famosi testi di Ger 31,31ss sull'alleanza interiore ).

A questo punto la distinzione fra "precetti" che sarebbero imposti e "consigli" che sarebbero suggeriti non ha ragione di essere: si tratta di un dinamismo che è proprio della stessa vita nuova.

Queste parole evangeliche sono molto esigenti.

Come comprendere tale esigenza?

Innanzitutto bisogna tener presente la caratteristica dello stile aramaico, che utilizza l'iperbole e il paradosso: in tale stile viene espressa la necessità di uno sforzo, di una tensione verso il compimento sempre più perfetto della volontà del Padre, non già l'enumerazione degli articoli di una legislazione che contempla casi particolari.

Se nessuno può vantarsi di riuscire a realizzare integralmente l'ideale proposto, nessuno può rifiutarsi di vivere quotidianamente in una tensione realistica e completa verso tale adempimento: si tratta di un obbligo comune a ogni discepolo di Cristo.

Questo significa che il vangelo esige da tutti una risposta radicale e che a tutti offre la garanzia della grazia divina per raggiungere un compimento sempre più grande di queste ideale in un incessante sforzo di superamento: la "perfezione" è la stessa vita cristiana come viene presentata da Mt.

b. La visione paolina dell'essere cristiano

La stessa prospettiva d'insieme si ritrova in Paolo.1

Se esiste opposizione tra due stati, non si tratta di quella che distingue cristiani superiori da cristiani di seconda classe.

All'interno di un dinamismo teso verso un fine unico si distinguono, da una parte, i nepioi, cioè i bambini la cui crescita en Christo non ha ancora raggiunto la statura piena, che non può cessare di tendere verso di lui; dall'altra, i teleioi, cioè gli adulti che hanno già raggiunto un grado apprezzabile di maturità, che tuttavia deve ancora superarsi ( 1 Cor 2,6; 1 Cor 5,1-2; 1 Cor 13,10-11; 1 Cor 14,20; Col 1,28; Ef 4,13; Fil 3,12-15 ).

L'ideale ha un bell'essere arduo, ma tutti devono cercare di raggiungerlo nella grazia dello Spirito.

Paolo sottolinea poi che, di fatto, questo ideale non viene mai realizzato e che il cristiano è continuamente teso verso un compimento ( feleiòsis ) dell'opera dello Spirito in lui ( Fil 3,12-15 ): si trova perciò, nella posizione di marcia verso, nello stato di ricerca della pienezza dell'opera di Cristo.

Ciò definisce la sua condizione cristiana come tale.

Qui non si tratta di una prestazione riservata a una élite ( in questa prospettiva, 1 Cor 6,1-19; Fil 3,1-21 ): la vita nuova si presenta come l'alleanza di due caratteristiche inseparabili: quella della grazia di Dio, la prima, che non cessa di sostenere la povertà dell'uomo, misteriosamente chiamato a diventare nello Spirito suo "figlio adottivo"; quella dell'uomo che cerca di rispondere a questo invito che il Padre gli rivolge.

La vita cristiana, per la sua stessa definizione, si presenta perciò come contenuta nel mistero della "perfezione".

Nella parenesi dei cc 4-6 di Ef si trova esplicitata questa legge inferiore dell'esistenza di "morte al peccato" e di "vita per Iddio" che Rm 6,10-13 presenta come il dinamismo stesso dell'essere battesimale.

Ora, questi capitoli hanno il loro nocciolo nelle seguenti affermazioni: « Siate dunque imitatori di Dio come figli diletti, e vivete nell'amore sull'esempio del come Cristo ci ha amati e per noi ha sacrificato se stesso a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave odore » ( Ef 5,1-2 ).

L'ideale raggiunge così le prospettive che abbiamo incontrato sopra in Mt: bisogna entrare nel dinamismo stesso del mistero di Gesù, collocato esso stesso all'interno del mistero dell'amore del Padre.

Si sa che Mt 5,48 parlava di "perfezione" laddove Lc 6,36 preferisce parlare di "misericordia" ( nel significato biblico del termine hesed ).

2. La pericope del giovane ricco e la risposta di Cristo

Qual è, dunque, rispetto a questo assoluto della vocazione battesimale, il significato delle parole di Gesù al giovane ricco: « Se vuoi essere perfetto ( ei theleis teleios einai ), va', vendi quanto hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » ( Mt 19,21 )?

Questo è il passo più frequentemente citato a sostegno di una dottrina dei "consigli" come base della "vita religiosa".

Su questo punto l'esegesi non è unanime.

L'interpretazione cattolica tradizionale è contestata specialmente da S. Legasse2 di cui presentiamo qui le conclusioni che facciamo nostre perché rispecchiano la nostra interpretazione personale sull'insieme di questo problema.

Lo studio approfondito sull'identità, per Mt, dell'agathon ( il "buono" ) con il teleion ( il "perfetto" ) porta all'identificazione dell'flgaróon poiein con il teleios einai.

Si possono dunque leggere parallelamente le due grandi sezioni della pericope ( Mt 19,16-26 ) dopo aver ricordato che, per Mt, essere perfetto vuoi dire osservare la legge, ma una legge rinnovata dall'interno e informata dalla carità.

Si costata allora che le due risposte di Gesù alle rispettive domande del giovane ricco si sovrappongono ( Mt 19,17.21 ).

E ciò spiega inoltre la continuazione del racconto: ai vv 23 e 24, dopo la sua risposta attinente alla "perfezione".

Gesù parla di nuovo del semplice ingresso nel regno dei cieli, ciò che risponde alla sua prima affermazione circa il "buono", e i discepoli si interrogano a loro volta sulla possibilità della salvezza come tale ( Mt 19,25 ).

Come si deve allora interpretare la duplice fase della spiegazione che Mt pone sulle labbra di Gesù?

Il ricco ha già osservato ciò di cui il discorso della montagna fa la caratteristica essenziale della perfezione evangelica ( Mt 5,20.47 ).

Nella sua ultima risposta Gesù enuncia un'applicazione concreta della perfezione ordinata alla vita eterna; in altri termini: « Osservare i comandamenti vuoi dire, per il ricco, essere perfetto.

A ciò si aggiunge, nella seconda proposizione, soltanto una modalità di obbedienza alla Torà rinnovata, in altre parole, della perfezione ».3

Infatti, questa esige i sacrifici più coraggiosi: ogni qualvolta l'unità profonda del suo essere evangelico si trova in pericolo, il cristiano deve compiere gesti violenti, laceranti; Mt, nel suo stile, parla dell'amputazione del membro che causa lo scandalo ( Mt 5,29-30; Mt 18,8-9 ).

In circostanze identiche bisogna sapersi spogliare senza pietà dei propri beni, ciò che può imporsi quando, senza tale rinunzia, l'ingresso nel regno sarebbe compromesso: tutto infatti dev'essere compiuto per salvaguardare l'unità del cuore e della vita.

Si tratta perciò non di una strada migliore e più sicura, semplicemente proposta alla libertà, ma della «condizione assoluta della perfezione obbligatoria ogni qualvolta la conservazione dei beni diventi un ostacolo alla salvezza ».4

Siamo quindi nell'ordine dei mezzi, ma di quelli che possono corrispondere a un comando formale, non a una semplice proposta "utile"; in altri termini, non si tratta soltanto del bene esse, ma dell'esse simpliciter.

Ciò è confermato dal significato dell'espressione ei theleis, « se vuoi ».

Anziché vedervi l'espressione di una libera scelta, bisogna comprenderla così: « Per diventare perfetto, ecco ciò che devi fare », esattamente come è detto: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti », « ecco ciò che bisogna fare ».

È perciò difficile vedere nella pericope del giovane ricco la proposta fatta da Gesù di una "via" che conduce ad una "perfezione" più grande; il mezzo proposto al giovane ricco non è un "consiglio" nel senso tradizionale: è imposto a ogni cristiano ogni qualvolta lo esige la perfezione voluta dal vangelo e nella quale tutti devono impegnarsi; non apre dunque un cammino facoltativo per tendere meglio e più facilmente alla perfezione.

3. I "consigli" evangelici di povertà e di obbedienza

a. In altri testi del NT si parla di un "consiglio" di povertà?

Quello di Mt 19,16-22 costituisce il testo classico per affermare il "consiglio" di povertà.

Abbiamo visto cosa pensarne.

I testi paralleli, Mc 10,21 e Lc 18,22, si presentano come narrazioni di un caso concreto, esemplare sì, ma dal quale risulta difficile dedurre per generalizzazione una dottrina astratta del consiglio.

Bisogna fare lo stesso rilievo per il gesto degli apostoli che abbandonano tutto e seguono Gesù ( Mc 10,28 e par ).

b. Nel NT si trova l'affermazione di un "consiglio" di obbedienza?

L'obbedienza evangelica totale, imposta a ogni cristiano in quanto designa una delle grandi linee strutturali della vita secondo lo Spirito, non ha niente a che vedere con un consiglio semplicemente proposto ad alcuni.

L'obbedienza di Gesù, profondamente inserita nell'intimità del ( v. ) mistero pasquale, è altresì offerta a tutti come origine e modello insieme dell'obbedienza radicale esigila dal vangelo.

Del resto, quando si parla di un "consiglio" di obbedienza, non si pensa a questo tipo generico: si tratta allora non del rapporto uomo-Dio, ma del rapporto uomo-autorità umana [ v. Obbedienza ].

È vero che la s. scrittura parla, a questo livello, dell'obbedienza civica, domestica, coniugale, filiale, ecclesiastica, però in un modo che vale per ogni cristiano nelle situazioni suddette.

In nessun testo, ci sembra, si fa menzione chiara ed esplicita di un'obbedienza concepita come sottomissione totale della volontà a un uomo e che sarebbe proposta soltanto ad alcuni, non già a tutti i credenti.

4. Il "consiglio" del "celibato per il regno dei cieli"

Da quando il problema del fondamento evangelico dei "consigli" è stato largamente discusso negli ambienti cattolici, molti credono di poter sostenere che una lettura onesta e seria farebbe trovare nella s. scrittura almeno un "consiglio" evangelico, esplicitamente e direttamente attestato: quello del « celibato per il regno dei cieli » o di "verginità".

Da ciò deducono che questo sarebbe il solo elemento proprio della vita religiosa.

a. L'insegnamento di Paolo sui vantaggi della "verginità".

Lo stesso Lutero era colpito dalla lettura del termine consiglio ( gnòme ) in un testo esplicitamente consacrato alla verginità ( 1 Cor 7,25 ): « Riguardo alle vergini non ho nessun ordine ( epitagè ) da parte del Signore, ma do un consiglio ( gnòme ), come uno che per misericordia del Signore è degno di fiducia ».

Del resto, il binomio gnómè-epitagè si presenta già all'inizio di tutto lo svolgimento, ma questa volta in rapporto al matrimonio ( 1 Cor 7,6 ).

Si tratta di "consiglio" nel senso che gli darà la tradizione?

Ci sembra difficile dare qui un simile significato al termine "consiglio".

Paolo si limita a dare il suo parere « come un cristiano che riflette, ma senza riferirsi alla propria autorità apostolica particolare », a fortiori senza identificare il « consiglio » dato con un « consiglio del Signore ».

Per lui, il Signore non ha detto nulla che possa far legge nel caso che intende chiarire: ne precetto ne consiglio.

Rilevando che gli si può dare credito, Paolo si arrischia a presentare il proprio punto di vista tutto personale ( per un raffronto: 1 Cor 7,12 ).

Inoltre è importante collocare l'uso di questo termine nel contesto della concezione paolina dei "carismi", poiché è in esso che si presenta detto termine.5

Per Paolo, il carisma non è ne un puro ornamento accidentale semplicemente aggiunto alla realtà della grazia, ne un elemento estrinseco alla comunicazione che Dio fa di se stesso nello Spirito.

Esso svolge un compito importante nella realizzazione concreta della chiesa: come separare concretamente, per es., nello stesso Paolo, la sua esperienza di Gesù Cristo e il suo "carisma" di apostolo dei gentili?

Non si capisce bene come, nella sua lettera ai Corinzi, Paolo possa vedere nel carisma un semplice suggerimento da accettare liberamente o meno; l'impossibilità in cui egli si trova di dare una risposta categorica e assoluta che chiarirebbe la situazione in parola, non equivale alla affermazione che in tale situazione ciascuno è libero di seguire o meno il suggerimento ricevuto dallo Spirito.

Quando egli dice: « Se non vi sentite di vivere nella verginità sposatevi: non è un peccato», non bisogna concludere che egli sottintende: « Poiché la verginità è un consiglio al quale nessuno è legato e che perciò si può liberamente accettare o rifiutare ».

Sembra piuttosto che voglia dire: « Questa impossibilità di vivere nella verginità costituisce il segno che tale stato non è quello cui è chiamata la persona in oggetto, perciò che questo non è il suo carisma ».

Sembra quindi difficile precisare in quale senso si possa parlare qui di un "consiglio" evangelico in senso stretto e riallacciarlo allo stesso Cristo.

Il giudizio positivo di Paolo sulla "verginità" e il non risposarsi.

Paolo mette a confronto le due categorie di cristiani che sono a Corinto - persone sposate e persone non sposate ( celibi e vergini, vedovi e vedove ) - e crede che i secondi si trovino in uno stato preferibile a quello dei primi, anche se quest'ultimo è buono e santificante.6

Paolo trova la ragione di questa preferenza nella indivisione del cuore e della vita, estremamente secondata dal celibato.

Per una esatta interpretazione della prospettiva paolina bisogna rilevare due punti.

Innanzitutto, quando raccomanda la verginità come più "eccellente", Paolo ha presente la tensione che esiste tra il matrimonio-realtà pienamente integrabile nell'amore di Dio ( Ef 5,21-33 ) e il matrimonio realtà che cerca faticosamente di realizzare in concreto questa integrazione.

Il celibato non conosce tensioni del genere.

Paolo non dice che di per sé il matrimonio sarebbe fondamentalmente fautore di divisione: si limita a costatare che, nella realtà, simile integrazione non è facile e che si può arrivare all'amore di Dio "accanto" a tutto il resto o parallelamente al resto.7

Del resto, numerosi esegeti riconoscono che qui Paolo usa il termine carisma per lo stato matrimoniale e per quello celibe.8

Se consiglia ai celibi di sposarsi qualora Dio non abbia accordato loro il dono della continenza ( 1 Cor 7,9 ), ciò manifesta che per lui, lo stato matrimoniale offre ad alcuni - quelli che non hanno l'altro "carisma" - una condizione migliore.

Tuttavia, Paolo, alla luce della propria esperienza, è condotto a pensare che, tutto ben ponderato, il celibato implica minori pericoli di divisioni almeno per colui che vi è chiamato.

Ma è esagerato dedurre da ciò che, per lui, questo sarebbe oggettivamente uno stato superiore di perfezione evangelica il cui percorso si troverebbe tracciato da un "consiglio" del Signore, semplicemente "proposto" ad alcuni.

L'altro punto da notare è il contesto escatologico nel quale va collocato questo passo.

La parusia sembra vicina con la grande prova escatologica che l'accompagnerà ( 1 Cor 7,26 ).

Perché dunque preoccuparsi di mutare la propria condizione sociale?

È meglio accettare quella in cui ciascuno si è trovato al momento della conversione ( matrimonio o celibato, schiavitù o libertà ), poiché tali situazioni conosceranno presto una profonda trasformazione.

Paolo consiglia di anticipare questo avvento escatologico usando del mondo come se non se ne godesse ( 1 Cor 7,31 ): questa è sapienza ( simili cose stanno per scomparire e si rischia di dividere inutilmente il proprio cuore ).

Coloro che hanno ricevuto il carisma della continenza, si vedono qui come i più favoriti.

È chiaro dunque che Paolo non dice che in sé la rinuncia al matrimonio costituisca la migliore possibilità di un perfetto amore di Dio, come se il solo fatto di conservare la verginità potesse assicurare un superamento in questo cammino.

Sottolinea invece la diversità dei carismi e sembra dire che, nella difficoltà incontrata da alcuni nel vivere la verginità o la vedovanza, bisogna vedere il segno di una chiamata del Signore a un altro stile di vita in cui possono trasferirsi senza pericolo.

Tuttavia, egli scorge nel celibato una condizione che - nelle circostanze di un mondo in attesa di una vicina parusia e data la difficoltà che prova il cristiano sposato di realizzare la piena integrazione dell'amore di Dio con quello degli uomini - gli sembra più adatta a superare la tensione che rischia di dividere il cuore in un mondo prossimo a scomparire.

Ci pare difficile dedurre di più da questo testo paolino.

b. La pericope di Mt 19,10-12 sugli « eunuchi in vista del regno dei celi »

È oggi il testo più frequentemente citato come fondamento esplicito del "consiglio" di « celibato per il regno » e come unica testimonianza evidente di una intenzione di Cristo circa la vita religiosa.

Tuttavia, le conclusioni dell'analisi esegetica non ci permettono di affermarlo con altrettanta certezza.

Il termine in questione ( Mt 19,12 ) è proferito da Gesù come una constatazione; non lo si può comprendere che alla luce dell'insieme dei vv 1-11: nel clima instaurato dal dialogo che precede e dall'osservazione dei discepoli.

Gesù registra, approvandolo e inserendolo nelle esigenze del regno, il fatto che alcuni si sono resi da sé inabili al matrimonio « in vista del regno dei cieli ».

Il termine eunuco suona qui molto strano: alcuni pensano che l'eunuco il quale si rende volontariamente cosi « per il regno » è innanzitutto il marito separato dalla moglie ( di cui si parla nei vv precedenti ) e che comprende, di fronte agli imperativi del vangelo, di non potersi risposare.

Questa interpretazione ci sembra in armonia profonda con l'insieme del c. 19; inoltre salvaguarda l'omogeneità del blocco formato dai vv 1-12, poco rispettati dall'esegesi corrente.

La struttura della nostra pericope corrisponde a quella dell'episodio del giovane ricco, narrato poco più avanti; il tema da illustrare è sostanzialmente sulla stessa linea: in alcune circostanze il regno esige anche dall'uomo sposato che arrivi fino a vivere nella continenza totale.

L'osservazione misteriosa che « non tutti capiscono questa parola, ma soltanto quelli ai quali è stato concesso » ( Mt 19,11 ) rimanda perciò non alle parole dei discepoli, ma a quelle di Gesù: « Chi rimanda la propria moglie - eccetto in caso di fornicazione - e ne sposa un'altra, commette adulterio » ( Mt 19,9 ), che avevano provocato la reazione dei discepoli ( Mt 19,10 ).

Si tratta sempre delle esigenze relative al matrimonio e più profonde di quelle esigile dalla legge ( quanto abbiamo detto sopra sul discorso della montagna ).

Non tutti ne afferrano la profondità; esistono però uomini che diventano capaci, nonostante tutto e nelle situazioni più difficili, di restare fedeli all'unica persona cui si sono consacrati con il matrimonio.

Separati da essa, non si sposano e vivono come "eunuchi".

Questa spiegazione è coerente con la tecnica redazionale degli evangelisti.

I vv 1-10 riguardano la grandezza e la santità del matrimonio: il vincolo che unisce un uomo e una sola donna è l'espressione di una volontà divina.

La frase dei discepoli contiene un giudizio severo ed eccessivo sulla esigenza radicale da essi percepita nella situazione precisa prospettata da Gesù.

Se si ammette che i vv 11-12 costituiscono un appello al celibato, bisogna dedurne un improvviso cambiamento di pensiero: Gesù accetta la posizione dei discepoli e comincia a insegnare che, in realtà, è meglio non sposarsi; ciò che non corrisponde allo stile normale di Mt.

Così, l'episodio del giovane ricco rotea intorno a una parola dura del Signore ( Mt 19,21 ) che provoca un giudizio severo ed eccessivo dei discepoli ( Mt 19,25 ) e che si conclude con l'osservazione - prolungamento della prima frase di Cristo - che « questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile » ( Mt 19,26 ).

Il discorso sugli eunuchi contiene, quindi, un'affermazione dura dell'esigenza evangelica nell'ambito dell'unione indissolubile dell'uomo con la donna ( 1 Cor 7,10 ) e, al di là, sottolinea la necessità eventuale di sacrificare, per il regno dei cieli, le esigenze essenziali delle forze di vita e di fecondità.

Ogni cristiano dev'essere pronto alle decisioni più radicali in tutti i settori in cui è chiamato in causa il mistero del regno nella propria vita personale; il cristiano sposato come gli altri.

Per lui, il fatto di diventare simile all'eunuco, oggetto di compassione e di disprezzo, rientra nell'elenco delle possibili azioni radicali come « tagliarsi la mano», «cavarsi l'occhio», «perdere la vita ».

5. Il fondamento evangelico della vita detta "secondo i consigli"

Sembra dunque impossibile trovare nella s. scrittura l'affermazione esplicita e immediata della dottrina detta dei "consigli evangelici".

Lo stesso "consiglio" di celibato per il regno dei cieli non è ancora proposto nel contesto di uno stato di vita stabile e comunitario, regolato dai voti.

Se la vita religiosa è fondata sulla parola del Signore, occorre la mediazione della chiesa e dei santi per esplicitare le condizioni delle scelte evangeliche.

a. Un certo appello al radicalismo

La vita religiosa ha nondimeno una matrice evangelica.

Ricordiamo che i testi evangelici citati più frequentemente nelle grandi programmazioni religiose delle origini sono quelli contrassegnati da una dimensione di assoluto: Lc 14,26 (« Se uno viene a me e non odia - cioè non ama meno di me - il padre e la madre, e la moglie e i figli, e i fratelli e le sorelle, e anche la sua vita, non può essere mio discepolo » ), At 2,44-54; At 4,32-35; At 5,12-16 ( la comunione dei beni ), Mt 19 ( specialmente le parole al giovane ricco ), ecc.

È da questo appello al radicalismo, contenuto nell'esperienza di fede come tale, che scaturisce la vita religiosa.

Non si tratta di scegliere questo o quel testo, tale e talaltro "consiglio", bensì di una certa lettura del contenuto globale del vangelo.

Ne risulta una specie di eccesso, di concentramento sulla dimensione radicale in cui viene coinvolto ogni cristiano con l'accettazione del vangelo.

Investito soprattutto dal « per Iddio in Cristo Gesù » suggellato nel battesimo, si sentirà spinto a manifestare e approfondire questo « per Iddio » attraverso un ripiegamento, che cercherà di sviluppare nel modo più ampio possibile, di fronte agli altri beni.

Parleremmo volentieri di un modo energico e deciso di vivere la vocazione comune.

Dicevamo, infatti, che il vangelo presenta la perfezione del regno come il fine che tutti devono raggiungere con quel mezzo necessario, anche se radicale e assoluto, che la situazione esige ogni volta.

Questo legame tra il fine e il mezzo radicale rivela un'affinità particolare con il regno e la legge del "tutto o niente".

Nel programma di vita religiosa si sceglie di vivere in una, situazione esistenziale in cui questo atteggiamento radicale diventa norma; si tratta solo di rendere più continuo, istituzionalizzandolo, il radicalismo evangelico.

Siffatta concentrazione sul "radicale" costituisce l'oggetto di una scelta libera senza chiamare in causa l'obbligo stretto che ha ogni cristiano di usare tale mezzo ogniqualvolta lo esiga la situazione: scelta esistenziale di un tipo di vita in cui il radicalismo evangelico possa estrinsecarsi.

Inizialmente non si tratta quindi di precisare tal "consiglio" o di fermarsi sui tre grandi atti radicali specifici.

La riflessione teologica farà più tardi queste discriminazioni per comprendere la struttura di questa particolare esistenza, dopo secoli di vita religiosa.

Fondamentalmente si tratta di optare per il crinale del radicalismo evangelico: ciò che può spiegare l'attecchimento di questa vita nel clima di un certo encratismo ancora ortodosso, le sue forti interferenze con i grandi movimenti di penitenza che attraversano la storia della chiesa, le sue simpatie per alcuni eccessi talvolta pericolosi.

Ricordiamo che, nella scelta di un tale stile di vita cristiana, il problema del temperamento svolge un compito importante troppo trascurato dallo studio della teologia.

Anche sul piano naturale esistono temperamenti che, senza essere per questo più "perfetti" - si accompagnano spesso a un certo gusto dell'eccesso -, sono più focosi, più passionali, meno portati ad accontentarsi di un modo "ordinario" o "medio" di vivere.

Aggiungiamo che tale scelta va normalmente di pari passo con l'impossibilità di realizzare in pieno altri valori ugualmente cristiani.

In concreto, chi può pretendere di realizzare in sé tutto l'umano?

Si dirà forse che il poeta o il metafisico sono più umani o meno umani del contadino o del meccanico?

La natura stessa impone scelte fondate su tutt'altra cosa che non sia l'intenzione di essere più o meno perfetti.

La prospettiva è quindi diversa da quella della scelta di un mezzo facoltativo offerto alla libertà senza esserle imposto e che permette l'accesso più diretto alla perfezione.

Si tratta di inserirsi in una delle esigenze della "legge comune", ma concentrandosi su di essa in modo da farla maggiormente risaltare sulla totalità dell'esperienza cristiana.

b. Alcuni modelli evangelici

Lo studio dei grandi documenti storici dimostra che, ai suoi albori, la vita religiosa intende spesso riallacciarsi a due tipi di esperienza presenti nella s. scrittura.9

Il gruppo di coloro che « seguono Gesù ».

Non tutti quelli che hanno accolto la parola di Gesù e l'hanno messa in pratica nella loro vita, hanno realizzato l'atteggiamento radicale di coloro che, per accompagnarlo nella predicazione e nel ministero, hanno lasciato tutto onde poterlo « seguire » ( epakolouthein ) - è il caso di Maria la madre di Gesù, di Marta, Lazzaro, Maria, Zaccheo, Nicodemo, ecc. - e non per questo vengono considerati meno perfetti dalla tradizione cristiana.

Ma il gruppo di coloro che « seguono Gesù » si distingue, tra le persone che aderiscono a lui, per l'adozione di uno stile di vita contrassegnato da uno strappo autentico al modo ordinario di condurre l'esistenza umana.

Il cammino dietro Gesù, con quanto esso comporta in fatto di taglio completo con lo stile ordinario di vita anche fervente, proclama esistenzialmente il rapporto assoluto che il vangelo mantiene con l'essere-uomo, l'ascendente totale che su questi esercita la parola di Dio rivelata in Gesù.

Ciò significa "credere ostensibilmente", "intendere dimostrativamente", "dichiararsi apertamente per lui".

Con la propria esistenza centrata in Cristo, considerato "l'unico necessario" e sperimentato come tale, il gruppo apostolico si pone così in uno stato permanente di professione della fede.

Prima di predicare la buona novella, questo gruppo proclama con la vita sia la rivendicazione di Dio per tutto l'uomo, sia il fatto che la parola di Dio in Gesù colma la profondità della vita stessa.

Si scopre in tal modo il ruolo privilegiato che svolge in tale "apertura" la dimensione di radicale e di assoluto propria dello statuto esistenziale in cui, liberamente, il gruppo apostolico accetta di collocarsi per rispondere alla particolare attrattiva esercitata da Gesù su di esso.

" Una volta scomparso Gesù, questo "seguito di Cristo" non può più conservare lo stesso volto: se l'esperienza di vita rimane, esso deve cambiare forma, e ciò conduce a una possibilità di universalizzazione ( non si tratta più di seguire Gesù fisicamente presente soltanto in un luogo ) e a una necessità di interiorizzazione.

Cristo è presente e agisce en Pneumati ( nello Spirito santo ) e la sua parola resta operante.

Può così manifestarsi il desiderio di trasferire la forma di vita radicale di coloro che "seguivano" Gesù in questa nuova situazione, che è tuttavia legata misteriosamente a quella storica.

Investiti dallo Spirito, alcuni non troveranno la pace profonda e la gioia intima della loro vita evangelica se non rinunciando ai rapporti abituali con il mondo per "seguire Cristo", nella fede e nello Spirito santo, nell'oggi pieno del popolo di Dio.

Formalmente non sarà quindi una scelta in vista dell'imitazione morale di Cristo: ciò s'identifica con l'ideale stesso di ogni vita cristiana ( 1 Cor 11,1; Gv 13,15; 1 Gv 2,6; 1 Pt 2,21 ); sarà l'inserimento nel tracciato tipico - quello del "gruppo apostolico" chiamato a ciò dallo stesso Gesù - accettando di rispondere all'attrattiva profonda esercitata dalla sua persona e dalla sua parola.

È chiara la sfumatura che ci sembra essenziale.

La scelta delle misure radicali non equivale perciò a una selezione all'interno della totalità evangelica o a una volontà di superarla: questa scelta determina un modo, non un contenuto.

La comunità primitiva degli At.

La descrizione "ideale e idealizzata" di questa comunità primitiva ci viene offerta nei "sommari" inseriti sulla trama del libro degli At ( At 2,42-47; At 4,32-35; At 5,12-16 ).

Essi mettono in primo piano due valori che risulteranno essenziali allo sforzo monastico ( e "religioso" ) di trasposizione della sequela Christi, cioè: che la presenza del Signore - sperimentata nell'ascolto assiduo della parola, nella preghiera, nella liturgia, nella frazione del pane - costituisce il punto di unificazione che lega la comunità dei discepoli in una vera "fraternità" allo stesso modo in cui la presenza fisica di Gesù costituiva il punto di unificazione di quanti lo "seguivano": ora si tratta della sua presenza in Pneumati; in secondo luogo, che tale unità saldata intorno a Gesù vuole esprimersi normalmente in una koinònia totale che rende necessaria, quando si tratta del settore materiale che tuttavia non è l'unico, la comunione e la divisione dei beni.

Per "seguire" Gesù, gli apostoli hanno abbandonato ta idia ( le proprie cose ), la chiesa di Gerusalemme è caratterizzata dal fatto che ciascuno rinuncia a far suo ( idion ) quanto gli appartiene ( At 4,32 ): lo lascia a vantaggio della comunità fraterna nella quale tutti hanno « un cuor solo e un'anima sola ».

Le parole di Gesù a coloro che, per "seguirlo", devono abbandonare i loro beni, sono così trasferite nella prospettiva della koinònia pentecostale.

Il distacco per "seguire" Cristo è fecondo: esso costruisce concretamente la koinònia.

Questo quadro sembra rappresentare anche un ideale che lo stesso Luca riconosce non completamente realizzato ne realizzabile in ogni elemento: l'episodio di Anania e Saffira dimostra che l'offerta di tutti i beni alla comunità non è un'esigenza assoluta, esattamente come il rilievo dato al gesto di Barnaba ( At 4,36-37 ).

Bisogna sottolineare che, nella chiesa, rimane sempre una tensione, un appello profondo proveniente dallo Spirito, orientato a realizzare qualcosa che si avvicini il più possibile alla koinònia presentata dai sommari degli At.

Ci sembra che la vita religiosa sia da collocarsi esattamente all'interno di questa tensione della chiesa verso siffatto ideale comunitario, di questa "nostalgia" di un cristianesimo che mette in piena luce l'asse della koinònia pasquale; ma essa vi si colloca a suo modo e non lo fa ingenuamente: sa che il suo tipo di esistenza non potrebbe applicarsi universalmente.

D'altra parte, laddove si esprimono serenamente, i suoi membri non sono pronti a rifiutare agli altri cristiani il titolo di « discepoli di Cristo ».

La vita religiosa si propone soltanto il tentativo di esaurire in sé, nella sua povera misura, la tensione profonda presente nella chiesa.

c. Un modo limitato di vivere la vocazione cristiana

È chiaro che questo modo di vivere la vocazione cristiana non può pretendere di abbracciare tutta l'esperienza evangelica: esso implica necessariamente una scelta e una "rinuncia" a certi rapporti, a un certo tipo d'inserimento nella creazione e nel mondo, appartenenti anch'essi al mistero del regno di Dio.

Un certo modo di vivere il rapporto chiesa-mondo.

Noi oggi scopriamo che il regno di Dio non è una realtà estranea al mondo, che fa astrazione da questo o che lo considera solo come un ostacolo da superare.

Il dominio di Gesù abbraccia tutta la profondità della creazione.

Perciò, la chiesa - nella sua tensione verso l'avvento pieno del regno - si manifesta sempre più non come un'entità aggiunta al mondo, ma come l'impregnazione progressiva dei valori del mondo mediante la potenza trascendente di Dio, di cui la Pasqua ( che assume la creazione ) costituisce la manifestazione.

La chiesa peregrinante dice rapporto sia a questa manifestazione trascendente ( e supra-mondana ) della potenza di Dio, sia alla profondità e all'interiorità più estrema del mondo.

Uno sguardo esistenziale volto su di essa la coglie nell'incontro inseparabile della sua relazione alla trascendenza di Dio e all'immanenza nel mondo.

Che un'esistenza cristiana sia più imperniata sulla dimensione trascendente ( com'è il caso della vita religiosa ) o su quella di immanenza nel mondo non implica, perciò, in tale prospettiva e di fronte alla globalità del fatto ecclesiale, una perfezione maggiore: si tratta di equilibri diversi.

Per concentrarsi sulla radicalità della rivendicazione dell'esistenza da parte del Dio di Gesù Cristo, la vita religiosa si astiene da una prospettiva di realtà pienamente integrabili nel regno, il quale vuole e deve assumerle.

Essa quindi non s'identifica con la totalità dell'esperienza evangelica.

D'altra parte, anche il cristiano impegnato nello sforzo di immanenza nel mondo ( fin nella sua carne per tutto ciò che è inerente al matrimonio e alla procreazione ), realizza una dimensione essenziale del regno, anche se in senso inverso sottolinea meno chiaramente il rapporto trascendente con Dio.

Il risalto dell'opzione di fede.

La vita religiosa ha però una propria caratteristica: porre in pieno risalto l'opzione di fede esistenzialmente.

Infatti, la vita del cristiano nel mondo ha una sua consistenza che, anche fuori dell'opzione di fede, è già molto ricca in se stessa, degna di riempire da sola un'esistenza generosa e retta.

In tutte le civiltà e fuori del cristianesimo, uomini e donne trovano la gioia e la pienezza della loro vita nella costruzione di un focolare felice e nella sistemazione della città degli uomini.

Nella globalità dell'opzione del laico cristiano nel mondo, bisogna distinguere due dimensioni che si compenetrano: quella formalmente e specificamente cristiana ( che non si potrebbe avere fuori della fede ) sopraggiunge in seno a un dato che si basa sugli imperativi dell'essere-uomo.

Pur venendo meno la fede in questo cristiano, restano il tessuto della vita familiare come tale e la finalità primaria dell'impegno professionale, dando così ancora un senso alla vita.

Quando un cristiano s'impegna nell'immanenza nel mondo in nome della propria fede, manifesta che il regno di Dio abbraccia la creazione e che questa dice un rapporto essenziale e fondamentale alla signoria di Gesù.

Nella vita religiosa, le cose stanno diversamente: in essa, tutta l'esistenza si fonda e si organizza intorno a ciò che l'opzione di fede ha di specifico e per l'opzione di fede; tutto s'impernia sull'intenzione di far risaltare in pieno la dimensione di radicalità e di assoluto del fatto ( che soltanto la fede conosce ) che in Gesù Cristo si è impegnato per l'uomo Dio medesimo, che il regno ha la sua origine e il suo centro dinamico in questa iniziativa di Dio la cui trascendenza è tale da poter veramente rivendicare tutta l'esistenza e tutta l'attenzione dell'uomo.

La vita religiosa è perciò un "raccogliersi" su tale relazione a Dio percepita non certo come l'unico bene ( nelle altre realtà, pur provenienti da Dio, viene riconosciuta la presenza di una densità e bontà tutte proprie ), ma come "l'unico necessario".

La separazione attuata nei confronti degli altri beni - quando si tratta non del servizio degli altri uomini, ma di un proprio uso e di una ricerca di pienezza personale - tende nel contempo a manifestare e a far sentire esistenzialmente questo riconoscimento dell' "unico necessario", capace di soddisfare l'appello dell'uomo.

Se al religioso viene meno la fede, la sua vita non ha più senso: diventa assurda.

Su questo piano, la vita religiosa si manifesta in seno a tutto il popolo di Dio come la forma di vita cristiana che evidenzia in maniera più sicura e incarna nel modo più espressivo i lineamenti vitali della fede intorno a cui si costruisce l'esperienza cristiana in ciò che essa possiede di veramente caratteristico e formale.

Ogni cristiano può raggiungere la perfezione nella sua forma di vita.

In queste prospettive assume tutto il suo significato l'affermazione tradizionale ( Cassiano, Giovanni Crisostomo, Tommaso d'Aquino, Lutero ) secondo cui l'ingresso nella vita religiosa non è di per sé garanzia di accesso a una perfezione più grande.

Infatti, se questo è vero sul piano della fedeltà personale al "carisma" ricevuto - poiché ciascuno può inserirsi nell'appello del Signore con una generosità più o meno grande -, lo è pure sul piano di diversi equilibri presentati dalle forme stesse di vita.

Se la vita religiosa pone maggiormente l'accento sul profilo trascendente del mistero della chiesa, e ciò a costo di decisioni radicali in quanto si esige molta fede, lo fa allontanandosi necessariamente dall'immanenza cristiana nel mondo: immanenza che richiede anch'essa, se vuole realizzarsi in piena fedeltà al vangelo, molta fede e coraggio, e che vuole un superamento costante dell'amore.

Secondo la nuova visione della chiesa circa le implicazioni e il valore essenzialmente cristologico della vocazione del cristiano-nel-mondo, ci sembra difficile affermare senza sfumature che la vita religiosa offra lo stile, di per sé migliore, di vita cristiana e i mezzi di per sé più adatti per raggiungere sicuramente e facilmente la perfezione.

Secondo l'esegesi, da noi presentata, delle parole di Paolo ai Corinzi, questo stile di vita è il migliore per colui che vi è chiamato dal Signore.

II - I Consigli evangelici nella vita cristiana

L'ampio studio esegetico, condotto da I.-M. R. Tillard sulla scorta di eminenti biblisti, può essere apparso troppo demitizzante e deludente in quanto ha interpretato i testi solitamente invocati come fondamento dei consigli evangelici in prospettiva di esigenze radicali e di appelli normativi.

Pur trovando nuove basi evangeliche per la vita religiosa, Tillard ha dato l'impressione che il concetto stesso di consiglio sia alieno dalla visione biblica della perfezione cristiana: « Le ricerche esegetiche più serie - riassume egli stesso altrove - mostrano quanto sia difficile interpretare rigorosamente ciò che tradizionalmente è stato presentato come una distinzione tra precetti, che traccerebbero la via comune fuori della quale è impossibile l'ingresso nel regno, e consigli, che delineerebbero una via facoltativa semplicemente proposta a quelli che si sentono spinti ad andare oltre l'obbligatorio e penetrare nel "cammino della perfezione".

La perfezione della carità non è forse il fine al quale ogni cristiano deve tendere, se ha compreso il "siate perfetti come il Padre vostro è perfetto" e se prende sul serio il discorso della montagna? ».10

Dopo aver fatto il punto dell'attuale riflessione teologica circa questo « campo seminato di difficoltà e di controversie, ma di importanza vitale per ogni cristiano» [ I ],11 tenteremo di far progredire il discorso operando un recupero dei consigli e della loro significativa funzione nel dinamismo della vita spirituale [ sotto, 2-3 ].

1. La riflessione teologica post-conciliare

Nei vari studi apparsi dopo il Vat II circa i consigli evangelici è individuabile una duplice tendenza: la prima privilegia il carattere radicale della chiamata quasi al punto di eliminare tutto ciò che non è obbligante ( riduzione dei consigli ai precetti ), la seconda invece opta per una formulazione esistenziale che superi la normativa precetti consigli mediante le categorie di appello, invito, dono ( riduzione dei precetti ai consigli ).

Vale la pena esaminare meno schematicamente queste due correnti.

a. Muovendo dalla predicazione di Gesù,

R. Schnackenburg sottolinea le « esigenze radicali, che valgono per tutti coloro che vogliono entrare nel regno di Dio.

Di queste fa parte quanto si trova nel discorso della montagna non nel senso di un elenco esauriente, ma piuttosto di un'illustrazione dell'obbedienza radicale, a cui sono tenuti tutti quelli che ascoltano il messaggio di Gesù, nei confronti del Dio santo, che adesso offre loro la salvezza ».12

Gesù, nel suo zelo di instaurare la volontà di Dio nella sua totalità e genuinità originaria, esige un di più rispetto alla legge mosaica e al comportamento dell'uomo naturale: « Questo "di più" consiste nell'amore illimitato, disinteressato, esteso anche ai nemici, sull'esempio del Padre misericordioso…

Dio è infinito nella sua bontà ed esige quindi una misura di amore che supera l'ordinario e richiede controllo e superamento di sé ».13

Poiché occorre lasciare alle affermazioni di Gesù tutta la loro durezza e severità, « sarebbe un errore limitare le esigenze del discorso della montagna a un ristretto circolo di discepoli o considerarli solo come "consigli"…

Gesù vuole che le sue esigenze vengano intese come veri precetti, i quali devono venire tradotti in pratica.

Mediante le sue formule paradossali, non soltanto egli vuole strappare dal letargo morale i suoi ascoltatori, destarli dal consuetudinarismo e dalla contentezza di sé, non soltanto creare un nuovo "atteggiamento", ma anche dare, se non un nuovo codice di leggi, certo nuovi indirizzi e obbligare ad un comportamento concreto ».14

Quantunque Schnackenburg ammetta il fondamento biblico della distinzione tra precetto e consiglio, in quanto le singole prescrizioni riguardano non tutti gli uomini, ma solo quelli che vi sono chiamati,15 non dimostra tuttavia come le esigenze di Gesù con il loro carattere imperativo possano considerarsi consigli.

Alla stessa conclusione di obbligatorietà giunge anche D. Lanfranconi16 partendo dalla legge morale considerata in prospettiva personale, ossia non come serie di doveri aprioristicamente determinati, ma come esigenza dell'intimo dell'uomo concreto e risposta alla vocazione divina nella propria condizione esistenziale.

Con il suo carattere totalizzante la legge personale esprime sia le esigenze universali che quelle individuali: essa assorbisce quindi nell'obbligatorietà lo spazio dei consigli, quando questi sono percepiti come concretamente necessari per il conseguimento della perfezione, cioè della comunione piena e totale con Dio.

Se i consigli non obbligassero « si ridurrebbero a un sovrappiù facoltativo raccomandato a chi vuoi essere perfetto in opposizione a chi si accontenta del minimo imposto dalla legge.

Si ricadrebbe in tal modo in quella deprecata morale che distingueva cristiani di serie A e cristiani di serie B; non solo, ma si finirebbe con l'essere infedeli al vangelo, dal momento che Gesù Cristo ha chiamato tutti ad essere perfetti…

Pertanto se il modo di conseguire la perfezione per una persona richiede l'osservanza dei consigli, tale osservanza per quella persona è obbligatoria ».17

La legge personale include dunque anche i consigli, « tuttavia i consigli si distinguono dalla legge perché questa propone valori corrispondenti ad esigenze universali, quelli invece propongono valori corrispondenti ad esigenze individualipersonali ».18

Ancora sulla stessa linea dobbiamo segnalare il contributo di K. V. Truhiar,19 per il quale il consiglio, pur riferendosi ad « un'opera migliore che va al di là del precetto generale », non è tuttavia un'opera supererogatoria nel senso che il cristiano non è obbligato a compierla, « ma soltanto nel senso che, in quest'opera, Dio richiede al cristiano qualcosa che supera la legge generale, proposta comunemente a tutti ».20

Basandosi sulla dottrina di s. Tommaso e di s. Francesco di Sales circa la carità regolatrice di ogni espressione della vita cristiana, Truhiar conclude che il consiglio « può diventare un atto di precetto in virtù della natura precettiva della stessa carità, se, in una situazione concreta, il movimento della carità ha bisogno di quest'atto per esprimersi, per vivere ».21

b. Con sfumature e impostazioni diverse,

altri autori convergono nella tendenza ad inserire i consigli e anche i precetti in categorie più ampie onde evitare il pericolo del legalismo.

G. Philips, cercando di comporre i consigli, che vanno oltre l'obbligo, con la serietà della chiamata alla perfezione, afferma prudenzialmente: « È quindi meglio attenersi al vangelo: i consigli non sono precetti; sono inviti: ma li comprendono e li seguono soltanto coloro ai quali il Signore accorda questo dono.

Anche per colui che ne ha sentito la chiamata, un consiglio resta un consiglio, ma gli occorre un motivo serio per declinare l'offerta.

Colui che, dopo matura riflessione, acquista la certezza di essere chiamato a questo genere di vita, come potrebbe rifiutare una tale grazia senza colpa? ».22

Allargando maggiormente la prospettiva, B. Haring si richiama innanzitutto alla « dottrina della legge di grazia, nella quale, sulle orme di s. Paolo, i grandi teologi, come Agostino e Tommaso d'Aquino, vedono il cuore della morale della nuova alleanza ».23

Se il cristiano deve vivere secondo la legge interiore della grazia di Cristo, che è legge dello Spirito di vita, di amore filiale e di liberazione da ogni regime di leggi esteriori ( Rm 8,2-16 ), ne consegue che ogni comandamento va vissuto non come imposto dall'esterno, statico e limitativo: esso diviene una missione e una responsabilità.

Coloro che, senza esservi costretti da una legge universale e imposta dall'esterno, scelgono la via dei consigli evangelici, hanno potuto seguire nella gioia questa chiamata proprio perché hanno detto sì alla legge di grazia di tutti i cristiani: « Se hanno potuto attuare tale vocazione è perché essa è la porzione assegnata loro da Dio e perché hanno dato prova di quella docilità all'azione della grazia dello Spirito santo che è il contrassegno di tutti i veri discepoli di Cristo ».24

Poiché « il grande dono che Cristo ha immesso nei nostri cuori è lo Spirito santo », B. Haring conclude che « in questa prospettiva dobbiamo guardare tutti i doni di Dio, creatore e redentore, includendo pienamente i doni individuali dati per il servizio degli altri ».25

In questa visuale liberante egli asserisce: « I consigli sono molti, poiché ogni grazia di Dio, ogni dono di Dio, diviene un "consiglio".

Messo di fronte a un dono di tal genere, un amico di Cristo potrebbe dire: I tuoi doni Signore, non mi legano; ti sei dimenticato di farne una legge?

Ma questo è il ragionamento di un uomo servile.

Nel NT Dio "legifera" principalmente con i suoi doni; è proprio della natura del nuovo patto che l'uomo accetti i doni di Dio come legge interiore e personale, come legge della sua vita.

Tutta la vita cristiana è gratitudine, cioè grato riconoscimento dei doni di Dio attraverso il nostro contributo di servizi necessari hic et nunc ».26

Senza rinunciare al radicalismo dell'impegno richiesto da Gesù a ogni cristiano e al carattere vincolante dei cosiddetti consigli evangelici, L. Gutiérrez Vega tende a passare da una formulazione etica di precetti e consigli ad una formulazione esistenziale di vita in Cristo: « Per chi legga il vangelo senza schemi concettuali previ risulta ovvio che in primo piano indiscusso appare una nuova legge di vita: …la legge d'amore che è Cristo stesso, accettato con tutte le conseguenze per iniziare un vivere in lui tutte le situazioni esistenziali dell'uomo…

Varieranno i modi di esistenza umana, ma non varierà la dimensione radicale per la quale si vivono tutti questi modi di esistenza in Cristo e come figli del medesimo Padre ».27

0gnuno dovrà quindi costruirsi un progetto di vita, come modo di esistenza umano-cristiana e particolare sequela di Cristo.28

c. Dando uno sguardo valutativo alle suesposte correnti teologiche,

dobbiamo onestamente ammetterne il valore e lodarne l'impegno per districare in modo nuovo il campo spinoso dei consigli evangelici.

La prima corrente ha il merito di insistere sulle esigenze radicali della sequela evangelica, valide per ogni cristiano, sia pure con applicazioni specifiche diverse.

Essa toglie ogni fondamento alla teoria delle due classi di cristiani, che riserva la perfezione ai religiosi e condanna i laici ad una mediocrità o prestazione minima contrastante frontalmente con la chiamata universale alla santità e con il precetto di amare Dio con tutto il cuore.

Tale orientamento assume importanza ecumenica, in quanto coincide in parte con la protesta di Lutero contro l'interpretazione facoltativa del discorso della montagna e la conseguente distinzione dei cristiani che seguono i precetti e di quelli che seguono i consigli: « Chi avrà l'audacia di parlare di consigli là dove Cristo, moltiplicando gli insegnamenti e i comandamenti, obbliga con tante e sì gravi minacce a osservare tutto quello che qui è scritto? ».29

Similmente la riflessione cattolica sui testi evangelici si incontra con la celebre arringa di D. Bonhoeffer circa la grazia a caro prezzo: « La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della nostra chiesa.

Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo ».30

Bisogna riconoscere che la vita monastica con il suo quotidiano esercizio nella sequela dei severi comandamenti di Gesù « divenne una protesta vivente contro la secolarizzazione del cristianesimo, contro il rinvilimento della grazia »; ma il monachesimo - secondo Bonhoeffer - fu responsabile della fatale limitazione a una classe particolare di ciò che costituiva un comando divino rivolto a tutti i cristani: « La vita monastica divenne una particolare opera meritoria di singoli, alla quale il popolo non poteva essere impegnato in massa».31

L'impostazione di radicalità universale del messaggio evangelico trova consenzienti cattolici e riformati, anche se i primi ammettono i consigli interpretandoli come appelli personalmente obbligatori.

Questa corrente dovrebbe tuttavia ammettere che la nozione di consiglio come prestazione facoltativa al di là del dovuto ne risulta del tutto eliminata senza tentativi di recupero.

La seconda corrente ha il vantaggio di non fermarsi all'esegesi di singoli testi evangelici e di inserire comandi, prescrizioni e consigli nel contesto più vasto della vita dello Spirito e della legge della grazia.

Il radicalismo evangelico esigente perde il suo volto severo e ogni interpretazione legalista, perché le norme esteriori sono interiorizzate e superate dal cuore cristiano rinnovato dallo Spirito e reso capace di compiere d'istinto e per amore la volontà di Dio.

Come osserva S. Lyon net, « la legge dello Spirito non si distingue dalle legge mosaica… soltanto perché proporrebbe un ideale più elevato, imporrebbe esigenze maggiori o addirittura, ma questo sarebbe un vero scandalo, offrirebbe una salvezza a minor prezzo, come se al giogo insopportabile della legislazione sinaitica il Cristo Gesù avesse sostituito una "morale facile".

Invece la differenza sta nella natura stessa della legge dello Spirito; questa non è più un codice…, non è una semplice norma d'azione, esteriore, ma, come nessuna legislazione in quanto tale può essere, un principio d'azione, un dinamismo nuovo, interiore ».32

L'appello ad una condizione di vita particolare, con i suoi impegni ed esigenze, diviene per la stessa ragione un dono interiore, un carisma da accogliere con gratitudine e da esercitare con gioia come segno della presenza santificatrice di Dio nel mondo.

Giustamente il Vat II afferma in riferimento ai religiosi che « la pratica dei consigli, abbracciata da molti cristiani per impulso dello Spirito santo… porta e deve portare nel mondo una splendida testimonianza e un magnifico esempio di santità » ( LG 39 ).

Conformemente al regime della grazia e dell'amore, « il Signore ha voluto guidare i suoi discepoli non tanto col moltiplicare i precetti che sono molto poco numerosi, osservano s. Agostino e s. Tommaso, quanto col proporre dei consigli alla loro prudenza soprannaturale.

Tale pedagogia conviene alla libertà dei figli di Dio e possiamo costatare, sia nel NT che nella tradizione della chiesa, che la pratica dei consigli è una scuola efficace di crescita spirituale e di libertà filiale, e che tale scuola è perfettamente adatta ai bisogni della chiesa d'oggi ».33

L'accentuazione del carattere liberante dell'esistenza cristiana animata dallo Spirito va senza dubbio conservata e valorizzata, a patto di non attutire i radicali imperativi evangelici.

Senza dimenticare l'apporto positivo delle due correnti qui analizzate, ci sembra urgente arricchirne le prospettive in una visione sapienziale oggi troppo spesso dimenticata.

2. Recupero dei consigli evangelici in prospettiva sapienziale

La storia della chiesa documenta come i libri sapienziali siano stati abbondantemente valorizzati dai padri, teologi e mistici.

Negli ultimi secoli tuttavia è raro incontrare presentazioni di Cristo e della vita cristiana in prospettiva di sapienza,34 anche perché non si ha avuto coscienza del sustrato sapienziale che sta alla base dei vangeli e dei libri del NT.

Le ricerche esegetiche del nostro tempo ci aprono un varco verso una maggiore comprensione di Cristo e del suo messaggio in chiave di sapienza35 e ci aiutano a recuperare i consigli evangelici in un significato inedito e attuale.

a. Alla scuola del maestro di sapienza

Nell'AT i biblisti riconoscono almeno tre forze che hanno un influsso determinante nella storia di Israele e sono all'origine della bibbia:

1) i sacerdoti, il cui compito consiste nel promuovere la santità nel popolo di Dio tenendo vivo il senso dell'alleanza mediante il ministero del culto e della parola.

Essi si pongono dalla parte di Dio e si rifanno al carattere assoluto della legge;

2) i ( v. ) profeti sono suscitati come guide spirituali del popolo per richiamare il monoteismo e svelare il disegno di Dio negli avvenimenti della storia.

Di fronte alle infedeltà di Israele essi intervengono autoritativamente a nome di Dio ( « oracolo del Signore » ) preannunciando giudizio e castigo e incitando alla conversione;

3) i sapienti si situano su un piano più esperienziale ed umanistico.

Sorgono sotto il regno di Davide e di Salomone come esperti in ogni questione, non per risolvere i problemi ultimi dell'esistenza, ma per insegnare a riuscire nella vita e a ottenere la felicità.

Essi partono dall'esperienza e dalle vicende umane in cui scoprono la volontà di Dio, ma operano anche un'umanizzazione della parola divina onde possa regolare la vita quotidiana.

A differenza dei sacerdoti e dei profeti, i sapienti si dirigono all'individuo interpellato personalmente ( « Figlio mio, ascolta… » Pr 1,8; Pr 2,1; Pr 3,1 ) e si esprimono nel "consiglio" fondato sulla riflessione razionale, in proverbi e sentenze popolari, in parabole ed enigmi.

« Il tono dei sapienti, lungi dall'essere perentorio e veemente come nella legge e nei profeti, è insinuante e pacato.

Sulla loro bocca, l'imperativo non esprime ordini propriamente detti, ma soltanto raccomandazioni che si impongono al buon senso ».36

Ad ogni occasione i sapienti fanno appello all'intelligenza perché scopra l'ordine interno esistente tra l'azione e il suo effetto ( Pr 10,2.4.15.30; Pr 11,21; Pr 12,14; Pr 13,5 ) e comprenda dove si trova la vera felicità ( Pr 2,1-9; Sal 111,10 ).

In questa visuale il castigo non è un colpo assestato dall'esterno, ma il frutto di una cattiva decisione, in una parola: della follia ( Pr 1,29-33 ) [ v. Esperienza spirituale nella bibbia I,5 ].

A noi sembra sufficiente provare che lo stile sapienziale, veicolante l'arte di vivere bene mediante il "consiglio", sia stato adottato da Cristo perché i consigli prendano consistenza evangelica ed interpellino tutti i cristiani.

Ora, quantunque a fatica e senza attribuire a questo fatto l'importanza che meriterebbe, i biblisti sono concordi nel vedere in Cristo non soltanto il compimento della legge, del sacerdozio e dei profeti, ma anche il vertice e il coronamento del movimento sapienziale israelitico.

Gli scrittori del NT identificano la sapienza con Cristo ( 1 Cor 1,24; Col 2,3 ), cui applicano con un sottile e frequente gioco di riferimenti gli appellativi della sapienza veterotestamentaria: immagine del Dio invisibile, primogenito della creazione, riflesso della gloria di Dio, parola incarnata ( Col 1,15-20; Eb 1,3; Gv 1,1-18 con riferimento a Pr 8,22-31; Sap 7,25-26; Sir 24,2-17 ).

Pur distinguendosi dagli scribi, non avendo seguito il curriculum formativo di teologo specialista37 e svolgendo insieme l'ufficio di profeta, legislatore e taumaturgo ( Mc 1,22-27 ), Gesù presenta se stesso come saggio più grande del sapiente per eccellenza: « Ecco, ora qui c'è più di Salomone » ( Mt 12,42 ).

Egli adotta il genere letterario sapienziale: discorso persuasivo in parabole ( Mt 13,34-35 ), beatitudini o promesse di felicità e riuscita in ordine al regno ( Mt 5,3-11; Mt 11,6; Mt 13,16; Lc 11,27-28 ), sentenze, paragoni, proverbi, regole di vita, enigmi risolti a livello profondo ( Lc 9,25; Mt 11,16-19; Gv 3,8; Gv 5,35; Mc 10,2-12; Mc 12,13-34 ).

Come la Sapienza biblica, Gesù tratta i suoi discepoli quali amici ( Lc 12,2-4; Gv 15,15; Sap 7,23; Sap 8,18 ), figli ( Lc 7,35; Gv 13,33; Pr 8,32 ) e commensali ( Lc 14,15-24; Pr 9,1-6 ); e invita quanti sono sotto il fardello della legge e delle osservanze farisaiche a prendere il suo giogo soave e liberatore ( Mt 11,28-30 ).

Gesù era « un narratore pubblico » che « attingeva alle esperienze proprie e altrui, trasformandole in esperienze di coloro che lo ascoltavano, mosso in tutto questo da un interesse spiccatamente pratico e dalla volontà di consigliare, di aiutare tutti gli uomini ».38

Infatti « il narratore è un uomo che consiglia l'ascoltatore »39 e lo coinvolge nell'esperienza narrata.

Ogni volta che Gesù narra o parla il linguaggio sapienziale, cioè nella maggior parte dei vangeli, egli offre i suoi "consigli evangelici" intesi in un ambito quanto mai vasto e universale, rivolti a tutti ma in modo personalizzato e persuasivo.

Il loro contenuto non si può riassumere perché abbraccia tutto il messaggio evangelico: si pensi alla fecondità di insegnamento delle parabole, in cui Gesù illustra la realtà del regno di Dio, la presa di posizione dell'uomo di fronte ad esso, il modo di agire di Dio, il contegno richiesto verso il prossimo, l'atteggiamento di vigilanza e di fedeltà.40

In questa prospettiva è aperto un modo nuovo di accostarsi al vangelo e di mettersi alla scuola di Gesù, consigliere ammirabile ( Is 9,6 ) e maestro di sapienza.

Per il nostro scopo ci sembra sufficiente indicare l'atteggiamento globale che ci rende discepoli non fallimentari di Cristo e ci fa cogliere il senso dei suoi consigli.

b. Finalità e significato dei consigli evangelici

Conseguenza dell'adozione del genere letterario sapienziale, i consigli evangelici non si riducono a pura forma espressiva.

Essi sono caratterizzati da alcune note così individuabili:

1) Il tono di amicizia.

I consigli presuppongono un rapporto di intimità tra la persona che li da e quella che li riceve, tra Cristo maestro e il suo discepolo: solo in un'atmosfera di comunione e donazione, di relazione profonda e definitiva è possibile superare le distinzioni tra obbligo e opzione facoltativa per mettersi in atteggiamento di completa sintonia con Gesù.

La vita cristiana diviene risposta di amore agli appelli rivolti da Cristo alla libertà umana, atteggiamento discepolare di apertura alla sapienza incarnata, in dimensione non doveristica, ma di gioiosa e disarmata fiducia;

2) La personalizzazione

Il discorso sapienziale si dirige all'individuo e sollecita la sua partecipazione nella ricerca dell'autentica saggezza e nella sua attualizzazione.

L'identico appello a mettere Dio sopra ogni cosa e compiere la sua volontà si concretizza in diverse opzioni a secondadella propria missione e situazione concreta: si segue Gesù sia con la fedeltà al matrimonio indissolubile che con il celibato per il regno, sia dando tutto ai poveri che offrendo solo la metà degli averi ( Mc 10,21 ), sia abbandonando tutto per stare con lui che rimanendo nel proprio ambiente ( Mt 19,27; Lc 8,38-39 ).

Il consiglio non tende ad imporre, ne a livellare, ma a persuadere, convincere, far verificare personalmente e impegnare con libera decisione.

A differenza della perentorietà del comando, qui si punta a far capire dall'interno il significato di ciò che viene proposto in modo che il suo compimento non sia forzato, ma frutto di coscienza illuminata e responsabile;

3) La riuscita dell'uomo

Lo scopo dei consigli evangelici, come di quelli dei sapienti dell'AT, è decisamente umanistico.

Essi mirano a far riuscire nella vita mediante l'ingresso nel regno di Dio, promettono gioia, beatitudine, vita eterna.

Non sono per la diminuzione dell'uomo ma per la sua riuscita: quando è in gioco l'uomo, Gesù relativizza ogni realtà, compresi la legge, il culto, le istituzioni ( Mt 12,1-14; Mt 15,1-6 ).

Ma l'uomo per riuscire deve paradossalmente perdere la sua vita ( Mc 8,35-36 ) onde ritrovarla potenziata nel radicale orientamento verso Dio e l'amore oblativo verso i fratelli.

Tutto ciò che porta l'uomo ad evitare il fallimento religioso e a realizzarsi in pienezza secondo la volontà di Dio letta nella storia, rientra nella visione liberante dei consigli.

c. Il dono sapienziale del consiglio

L'assimilazione dei consigli del Signore mediante l'umile ascolto, la riflessione, la decisione e la verifica esperienziale, trasforma il cristiano in un uomo sapiente e spiritualmente maturo, a sua volta capace di aiutare gli altri con il consiglio.

Biblicamente sapienza e consiglio sono uniti in modo intimo sia tra loro che con il sapiente consiglio di Dio.

Poiché esiste sproporzione e talvolta contrasto fra la miope sapienza umana ed il misterioso e sconvolgente piano divino di salvezza ( 1 Cor 1,17-30; 1 Cor 2,1-16 ), la vera sapienza resta un dono di Dio che viene dall'alto ( Gv 3,17 ), cioè dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito santo ( Ef 1,7.17; 1 Cor 12,8 ): occorre dunque implorare questo dono nella preghiera ( Gc 1,5-6 ) e rendersi piccoli e disponibili a ricevere un'illuminazione superiore negata a chi si chiude nel proprio egoistico sapere umano ( Mt 11,25; Gv 3,15 ).

Il dono dello Spirito comunica la rivelazione del disegno divino nella sua ampiezza ( 1 Cor 2,7-8; Ef 1,9 ), ma anche un comportamento morale degno del Signore ( Col 1,10 ), una condotta ispirata a carità e franchezza: « La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia.

Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace » ( Gc 3,17-18 ).

Naturalmente il comportamento sapiente, dono di Dio, si afferma con l'esercizio della vita cristiana, che allena le facoltà del credente a distinguere come per istinto ciò che è bene ( Eb 5,14 ).

Il cristiano saggio si esercita a regolare rettamente e con previdenza la vita quotidiana ( Mt 7,24; Mt 25,1-12 ), a discernere da se stesso i ( v. ) segni dei tempi e della storia ( Lc 12,54-57 ), a utilizzare il tempo presente per evitare le tracce della condotta pagana ( Ef 5,15-20 ) e cogliere il momento favorevole alla testimonianza di Cristo in modo adatto alle condizioni del prossimo ( Col 4,5-6 ).

Proprio della sapienza cristiana è far riuscire l'uomo, cioè realizzare la sua salvezza integrale, un compito oggi particolarmente urgente: « L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte.

È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi » ( GS 15 ).

Aderendo al vangelo i cristiani divengono così il sale della terra ( Mt 5,13 ) dando sapore alla vita a livellò personale e comunitario.

La loro vita è una continuazione del racconto evangelico, una narrazione della vittoria della speranza, della comunione, della gioia e della vita sulla disperazione, sull'isolamento, sulla tristezza e sulla morte.

Religiosi
Vita c.
Nozione Celebrazione II,2b
Vita c. II,2
… negli istituti secolari Istituti III
… e amicizie Amicizia IX

La prima parte della presente voce riproduce sostanzialmente, per gentile consenso dell'autore e dei curatori dell'opera, l'ultimo paragrafo ( IV: « La dottrina tradizionale dei "consigli" e il dato evangelico », 1670-1685 ) dell'ampio articolo di J.-M. R. Tillard, Consigli evangelici, contenuto nel vol. II del Dizionario degli istituti di perfezione, diretto da G. Pelliccia e G. Rocca (Roma, Edizioni Paoline 1975, 1630-1685) - n.d.r.
1 S. Lyonnet, La vocalion chrétienne a la perfection selon st Paul in Aa. Vv., Laìcs et vie chrétienne par/alte. I, Roma, Herder 1963, 15-32
2 S. Legasse, L'appel du riche. Contribution a l'elude des fondements scripturaires de l'état religieux, Parigi, Beauchesne 1966
3 Ivi, 195-196
4 Ivi, 207
5 J. W. Glaser, Commands Counseis, a Fantine Teaching? in TS 1970, 275-287
6 X. Léon-Dufour, Mariage et virginità in Chr 41 (1964), 179-193; Id., Signification théologique du mariage et du célibat consacrò, Parigi 1965, 25-38; L. M. Weber, Sexualité, virginità, mariage et leur approche théologique, Parigi, Desclée de B. 1967
7 K. Rahner, Sui consigli evangelici in Aa. Vv., I religiosi oggi e domani. Problemi di vita religiosa, Roma, Edizioni Paoline 1968, 96
8 S. Lvonnet, a. e., 30-32; J. W. Glaser, a.' e., 279; K. Wenemer, Die charismatische Begabung der Kirche nach dem heiligen Paulus in Scholastik 34 (1959) 503-525, spec. 507.
9 J.-M. R. Tillard, Le fondement évangélique de la vie religieuse in NRT 101 (1969) 916-955; Id-, La pauvreté religieuse in NRT 102 (1970) 806-848, 906-941
10 J.-M. R. Tillard, Religiosi, perché?, Bologna, Dehoniane 1973, 18
11 G. Philips, La chiesa e il suo mistero nel Vat li, Milano, Jaca Book 1969, II, 97
12 R. Schnackenburg, Messaggio morale del NT, Alba, Edizioni Paoline 1971, 49
13 Ivi, 75
14 Ivi, 49 e 70
15 Ivi, 48-49 e 78
16 D. Lanfranconi, Legge morale in Dizionario teologico interdisciplinare, II, 356-362
17 Ivi, 361
18 Ivi, 361-362
19 K. V. Truhiar, Laici e consigli in Aa. Vv., Laici e vita cristiana perfetta, Milano, Edizioni Paoline 1967, 219-263
20 Ivi, 223 e 231
21 Ivi, 239-240
22 G. Philips, o. e., 105
23 B. Haring, La vocazione di tutti alla perfezione, caratteristica fondamentale della morale cristiana in Aa. Vv., o. e. alla nota 19, 168
24 Ivi, 209
25 B. Haring, I religiosi del futuro. Roma, Edizioni Paoline 1970, 43
26 Ivi, 44-45
27 L. Gutiérrez Vega, Teologia sistemàtica de la vida religiosa, Madrid, Instituto teològico de vida religiosa 1976, 182
28 Ivi, 210
29 M. Luther, Werke, Ed. Weimar, Vili, 582
30 D. Bonhoeffer. Sequela, Brescia, Queriniana 1975-, 21
31 Ivi, 25
32 S. Lyonnet, Libertà cristiana e legge dello Spirito secondo s. Paolo in I, De La Potterie-S. Lyonnet, La vita secondo lo Spirito condizione del cristiano, Roma, AVE 1967, 212
33 G. Huyghe, Come definire i religiosi? in Aa. Vv., o. e. alla nota 7, 33
34 Sebbene tutti i trattati di ascetica e mistica mostrino il dono della sapienza come il più perfetto dono dello Spirito santo, l'unico tentativo di presentare Cristo e la vita spirituale in prospettiva di sapienza ci consta sia dovuto a s. Luigi-Maria di Montfort (+ 1716) nella sua opera L'amore dell'eterna sapienza, pubblicata la prima volta nel 1876. Per un primo approccio all'idea di sapienza nella spiritualità cristiana da s. Paolo al nostro secolo, cf H. Huré, Introduction historique in Bx L. M. de Montfort, L'amour de la Sagesse eternelle.
Puissante synthèse de spiritualité, ed. "type", Pont-Chàteau, Librarne mariale 1929, nn. 1-85
35 A. Feuillet, Le Christ sagesse de Dieu d'après les épitres pauliniennes, Parigi, Gabalda 1966; P.-E. Bonnard, Cristo sapienza di Dio, Torino, LDC 1968; M. J. Le-Guillou, Le Christ et t'Eglise. Théologie du mystère, Parigi, Centurion 1963; M. Gilbert, Votante de Dieu et don de la Sagesse in NRT 93 (1971) 145-166; F. Festorazzi, Il valore dell'esperienza e la morale sapienziale in Aa. Vv., Fondamenti biblici della teologia morale, Brescia, Paideia 1973, 117-146. Circa la "sociologia" o dottrina riguardante la sapienza, che P. Evdokimov chiama « la gloria della teologia ortodossa attuale », cf L. Sertorius, La teologia ortodossa nel XX secolo in Bilancio della teologia del XX secolo. Roma, Città Nuova 1972, II, 212-217; B. Schuite, La mariologie sophianique russe in Marie (Du Manoir) VI, Parigi, Beauchesne 1961, 213-239
36 A. Robert, Genres littéraires de l'AT in Initiation biblique (A. Robert-A. Tricot), Tournai, Desclée 19593, 300
37 J. Jeremias, Teologia del NT, Brescia, Paideia 1972, I, 94
38 H. Kung, Essere cristiani, Milano, Mondadori 1976, 193
39 W. Benjamin, Der Erzdhler in Illuminationen, Francoforte 1961, 409
40 Cf O. Knoch, Le parabole, Roma, Città Nuova 1969, 25-27