Ecumenismo

IndiceA

Sommario

I. La chiesa cattolica nel movimento ecumenico:
1. Da un ecumenismo "cattolico" alla partecipazione dei cattolici all'ecumenismo;
2. P. Couturier e la preghiera per l'unità;
3. "Ecumenismo spirituale".
II. Oltre l'ecumenismo spirituale:
1. Dall' "ecumenismo spirituale" a una spiritualità ecumenica;
2. L'apporto delle confessioni a una spiritualità ecumenica:
a. Le chiese orientali,
b. Chiese e comunità ecclesiali della riforma.
III. Le dimensioni di una spiritualità ecumenica:
1. Conversione;
2. Dialogo:
a. Il dialogo come momento di spiritualità cristiana,
b. La chiesa, segno di fraternità dialogante;
3. Servizio.

La tattica dello Spirito santo rivela una costante: la gradualità.

« Firmiter et suaviter ». Non segue la via della violenza, ma: quella della dolcezza.

Non per questo la sua azione è meno efficace.

Un test tra i più evidenti è la trasformazione della chiesa sotto il soffio dell'ecumenismo.

Non turbine e terremoto, ma brezza leggera; eppure il gelo accumulatesi per secoli si è sciolto, è irrevocabilmente.

L'assimilazione della mentalità ecumenica ha prodotto trasformazioni in ogni campo della vita delle chiese cristiane: dall'edificio dottrinale, alla pratica del culto, ai rapporti di vita quotidiana tra appartenenti a confessioni diverse.

Anche la spiritualità ne è stata investita; ne è risultato un rinnovamento al di là di ogni previsione.

Per troppo tempo, infatti, la spiritualità è stata proprio uno dei maggiori fattori di divisione.

L'identificazione assoluta con la propria confessione e il distanziamento dalle altre era una delle esigenze fondamentali che ogni chiesa poneva ai propri fedeli.

È stata la "spiritualità" che ha fatto sì che l'ortodossia [ v. Oriente cristiano ] si strutturasse come chiesa della tradizione, il ( v. ) protestantesimo come comunità della bibbia e il cattolicesimo come la chiesa dei sacramenti e della gerarchia.

La volontà di dare alla propria confessione una fisionomia ben evidenziata e inconfondibile ha portato a isolare un aspetto, a privilegiarlo in maniera esclusiva, a ingigantirlo a detrimento di altri.

Il vento di primavera dell'ecumenismo ha portato il disgelo.

Senza detrimento dell'identità confessionale, i cristiani hanno imparato a far tesoro del patrimonio delle altre confessioni che deriva dalla comune sorgente evangelica.

L'arricchimento non è avvenuto solo per apporti dall'esterno.

Accettando l'altro in quanto altro, i cristiani hanno imparato anche a meglio conoscere la propria tradizione confessionale; rivolgendosi unanimemente verso il Cristo, hanno appreso l'arte spirituale del dialogo; il loro servizio comune al mondo ha dato al messaggio evangelico un impatto e una credibilità maggiori.

I - La Chiesa cattolica nel movimento ecumenico

1. Da un ecumenismo "Cattolico" alla partecipazione dei cattolici all'ecumenismo

Il cammino dei discepoli di Cristo nella storia è segnato da ferite inflitte alla fraternità e da lacerazioni dell'unità.

Alcune sono state temporanee, altre hanno scavato tra le comunità cristiane fossati apparentemente incolmabili.

Tuttavia la speranza dell'unità non ha mai completamente abbandonato la chiesa; la storia delle divisioni è doppiata da una serie corrispondente di tentativi di riunificazione.1

Con il costituirsi del Movimento ecumenico gli interventi sporadici hanno acquistato organicità.

L'utopia dell'unità della chiesa è diventata forza creatrice.

Una serie di istituzioni ha dato corpo all'ispirazione ideale dei pionieri: il Consiglio internazionale delle Missioni, Vita e Azione, Fede e Costituzione e, infine, a coronamento, il Consiglio ecumenico delle chiese.2

L'orientamento ecumenico si estendeva contagiosamente alle diverse confessioni cristiane.

Infine anche la chiesa cattolica faceva cadere la sua diffidenza nei confronti del Movimento ecumenico e vi aderiva cordialmente col Vat II.

L'affermarsi dell'idea ecumenica nella chiesa cattolica è stato lento.

Per molti anni il magistero pontificio ha riaffermato con intransigenza una concezione della riunificazione basata sul "ritorno" degli eretici e scismatici ( « Non si può altrimenti fomentare l'unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all'unica vera chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente si allontanarono »: Mortalium animos del 1928 ).3

Ancora nel 1949 un'istruzione del s. Uffizio metteva in guardia i fedeli cattolici contro i pericoli dell'ecumenismo.

La partecipazione ad adunanze miste, a conferenze e riunioni di preghiera era sconsigliata senza mezzi termini: « I fedeli non intervengano a quelle riunioni senza uno speciale permesso dell'Autorità ecclesiastica »; per partecipare a tali riunioni era sempre necessario « il permesso preventivo e speciale nei singoli casi della Santa Sede ».

Il documento indicava anche che i criteri con cui potevano essere concesse tali autorizzazioni erano dei più restrittivi: « siccome l'esperienza insegna che le grandi riunioni di questo genere portano poco frutto e molto pericolo, non si devono permettere se non dopo un esame accuratissimo ».4

Più che le implicazioni teologiche, di queste proclamazioni di ordine dottrinale ci interessa l'atteggiamento spirituale che le dettava.

Finché la chiesa cattolica si lasciò ispirare nel campo ecumenico dall'ideologia del "ritorno", continuò a restare chiusa in se stessa come un castello assediato.

Se qualche ponte levatoio veniva calato, era per invitare coloro che si erano allontanati a tornare; mai per mettersi essa stessa in cammino.

Le esortazioni al ritorno contenute nelle encicliche "ecumeniche" di Pio XI e Pio XII suonano intollerabilmente dure.

« Il papa si rivolgeva agli "eretici" e agli "scismatici", tendeva loro la mano, li scongiurava paternamente di rientrare nel grembo della chiesa.

Quante ferite ha causato quello stile ispirato, in buona fede, alla parabola del figliol prodigo, senza preoccupazioni non solo delle leggi psicologiche, ma anche della verità.

Come se le responsabilità iniziali non fossero state comuni, come se i figli dei riformatori potessero essere oggi "colpevoli", e come se non fossero radunati in comunità alle quali sono debitori della loro conoscenza di Gesù Cristo e del loro ideale cristiano, nelle quali in conseguenza bisogna fare affidamento per rifare l'unione ».5

Questa impostazione dell' "ecumenismo" perdurò in ambito cattolico fino al Vat II.

Anche Giovanni XXIII, pur con tutto il suo slancio di carità e la sua volontà di dialogo, restò sostanzialmente fermo alla concezione tradizionale.

Lo schema di decreto discusso nella seconda sessione conciliare girava ancora in questa orbita: la chiesa cattolica parlava dell'ecumenismo a partire da se stessa, considerata come centro; le altre chiese e comunità cristiane venivano confrontate con la sua "pienezza" e giudicate quantitativamente ( vale a dire: una comunità separata era misurata dal numero di elementi cattolico-romani che ancora possiede o che ha scartato ).

Questa concezione venne a confronto con quella propugnata dalle chiese raggruppate nel Consiglio ecumenico delle chiese e difesa da alcuni pochi ecumenisti cattolici di avanguardia; possiamo chiamare la seconda "ecumenismo di dialogo".

Fu questa che prevalse nel concilio, tanto che mai nel decreto si fa ricorso al termine o al concetto di "ritorno".

Dal punto di vista dottrinale ciò comportava la rinuncia a un ecumenismo "cattolico", alternativo a quello promosso dalle altre chiese cristiane.

Veniva cosi abbandonato l'insegnamento ufficiale della chiesa cattolica, secondo il quale esistevano due movimenti ecumenici totalmente diversi: quello della chiesa cattolica, che aveva per scopo il ritorno dei fratelli separati, e quello delle altre chiese, che tendeva al recupero dell'unità mediante l'integrazione reciproca.

Il decreto conciliare ha rifiutato il parallelismo di un doppio ecumenismo.

La posizione è stata sancita dal cambiamento del titolo del primo capitolo, secondo le richieste avanzate nella discussione in aula durante la seconda sessione.

Nella stesura finale il capitolo non è più intitolato: « Principi dell'ecumenismo cattolico », bensì: « Principi cattolici sull'ecumenismo ».

Questo spostamento di una parola non è una correzione stilistica; è piuttosto la rinuncia da parte della chiesa cattolica a un ecumenismo da gestire in proprio.

Vuoi dire che esiste un solo ecumenismo, che ha però diversi punti di partenza, perché diverse sono le basi storiche e dottrinali delle varie chiese.

Perciò la chiesa cattolica si riserva di partecipare a questo movimento secondo quanto esplicita nei suoi "principi", - derivanti dalla propria ecclesiologia; ma riconosce nel movimento stesso qualcosa di diverso dal lungamente sollecitato "ritorno a Roma".

L'aspirazione ecumenica è definita come quel « movimento di giorno in giorno più grande per il ripristino dell'unità di tutti i cristiani » che una « grazia dello Spirito santo » ha fatto sorgere « tra i nostri fratelli separati » ( UR 1 ).

Di maggior peso sono per noi le implicazioni spirituali di questa precisa scelta ecumenica del Vat II.

L'idea di ecumenismo che la chiesa cattolica ha fatto propria costituisce un salto qualitativo enorme rispetto al passato anche prossimo.

Qualcuno ha parlato di "rivoluzione copernicana".

L'immagine è delle più appropriate.

Chi parla di ecumenismo di "ritorno" considera la propria confessione al centro, come ia terra nel sistema tolemaico; gli altri raggruppamenti cristiani girano attorno, a distanza più o meno ravvicinata.

Dopo la rivoluzione copernicana, invece, il centro dell'universo cristiano non è più occupato dalla propria chiesa, ma dal Cristo.

E tutte le chiese acquistano lo statuto di pianeti che ricevono luce dalla stella fissa, il Cristo, « luce delle genti ».

Non si tratta solo di una svolta teologica, ma di un vero rivoluzionamento dell'atteggiamento spirituale più profondo.

Questo è il presupposto indispensabile per una spiritualità ecumenica.

2. P. Couturie e la preghiera per l'unità

L'apertura della chiesa cattolica all'ecumenismo di dialogo non è avvenuta dall'oggi al domani.

Alcuni uomini profetici prepararono la svolta.

Furono grandi coscienze cristiane, abitate dalla passione per l'unità della chiesa; spesero la loro vita per l'Una Sancta e dalla loro fiamma si accesero altre fiamme.

I profeti del dialogo ecumenico ebbero vita difficile nella chiesa, conobbero ostilità e censure.

Eppure la causa ecumenica si affermò proprio perché essi riuscirono a comunicare all'intera chiesa con la loro testimonianza la passione per l'unità dei cristiani.

Alcuni lo fecero con gli incontri ( vedi la vicenda esemplare di P. Portai e Lord Halifax ), altri con gli scritti ( come P. Congar con il suo libro fondamentale Chrétiens désunis ), altri ancora con la preghiera.

A questo ultimo gruppo appartiene la figura luminosa dell'abbé Couturier.

P. Congar ha reso una vibrante testimonianza all'apporto di Paul Couturier alla causa ecumenica: « A ciascuno il suo ruolo e la sua via nella storia santa che Dio scrive.

Per ciascuno, il più bello è ciò che gli è stato assegnato: solo compiendolo fedelmente sarà veramente grande, fecondo e finalmente felice.

Non ci si ingrandirà diminuendo gli altri, invidiando il loro destino, ma al contrario aprendosi e comunicando gioiosamente ciò che Dio ha dato di essere e di compiere.

Io ho forse ricevuto - con altri - il compito d'un servizio dottrinale all'ecumenismo…

Fu la grazia e la vocazione dell'abbé Paul Couturier di aprire per l'ecumenismo la via spirituale, di dargli il suo cuore di amore e di preghiera ».6

In quest'umile sacerdote di Lione molti hanno riconosciuto il profeta dell'unità cristiana di cui il XX sec. aveva bisogno, suscitato da Dio come quei "fratelli universali" - Francesco d'Assisi, Vincenzo de' Paoli, Charles de Foucauld - che segnano le grandi svolte della storia dello Spirito.

Il nome di P. Couturier è legato soprattutto alla « Settimana della preghiera universale per l'unità ».

Egli non ne è propriamente il fondatore, ma il rivoluzionatore.

Ciò che esisteva precedentemente era un « Ottavario per l'unità della chiesa », dal 18 al 25 gennaio, iniziato da Paul Wattson, approvato da Pio X e dotato di indulgenze dai pontefici successivi.

L'ottavario era concepito come una specie di crociata spirituale per la conversione dei non cattolici.

La prospettiva era esplicitamente quella del "ritorno" di tutte le pecore smarrite all'unico ovile di Pietro.

Giorno dopo giorno, i cattolici pregavano per la "conversione" e il "ritorno" di tutti i cristiani dissidenti, come pure per la "conversione" dei musulmani, dei pagani e degli ebrei.

È chiaro che tale preghiera non poteva essere una preghiera veramente ecumenica, nel senso di essere una preghiera di tutti i cristiani: ad essa non potevano certamente unirsi coloro per i quali si domandava la conversione!

L'abbé Couturier ha rivoluzionato la settimana di preghiere liberandola dalla prospettiva controversista e di proselitismo, senza per questo cadere nell'indifferentismo paventato dal magistero.

Il pensiero di P. Couturier fu diffuso da due importanti articoli apparsi nella Revue apologétique.7

Egli proclamava la necessità, affinché si abbia una preghiera veramente ecumenica, di garantire uno spirito in cui tutti i cristiani si sentissero a loro agio: « Noi comprendiamo questo ottavario come una convergenza di preghiere di ogni confessione cristiana in piena libertà e indipendenza, verso il Cristo che noi amiamo, adoriamo e predichiamo…

Fare l'ottavario è prepararsi spiritualmente alla riunione supplicata, prepararvisi attraverso questa stessa supplica…

L'ottavario ha per scopo una riunione d'insieme di cui non sappiamo nient'altro che Dio la vuole, perché il Cristo ha pregato per l'unità.

Si tratta di fare l'atto di completo abbandono e di assoluta fiducia nell'infinita bontà e nell'infinita potenza del Cristo risorto ».

Per Couturier non c'è che una sola azione adeguata all'altezza dell'ideale dell'unità voluta da Dio nel Cristo: « l'azione della preghiera ».

Si tratta perciò per ogni cristiano di lasciarsi condurre da una fede viva verso la persona del Cristo; ma ciascuno nella propria confessione, cioè là dove ha imparato ad amare il Cristo.

Il centro della preghiera ecumenica non può essere il singolo cristiano, nella sua situazione ecclesiale, ma il Cristo stesso, o piuttosto la preghiera stessa di Cristo per l'unità.

Il Cristo orante, il Cristo che prega ora la sua preghiera sacerdotale, è il luogo in cui possono incontrarsi tutti i cristiani.

Il rivoluzionamento operato da P. Couturier consiste nel fatto che non si prega più per il ritorno degli "altri", bensì per la "santificazione" di tutti.

Il problema ecumenico, ricondotto alla sua essenza, è che tutti ci avviciniamo di più al Cristo, mediante la conversione del cuore, fedeli alla conoscenza del Cristo che si ha nella propria chiesa.

Ciò che si domanda a ciascuno è di andare fino in fondo alla propria fedeltà, quale già ora la vive.

Ogni discepolo di Gesù può entrare in quella preghiera, che diventa così veramente universale, ecumenica, cessando di essere un proselitismo mascherato.

E questa preghiera convergente e unanime comincia già a realizzare, malgrado le divisioni, il miracolo dell'unità.

« Perché - scriveva in uno degli opuscoli preparati annualmente per la settimana - è vano voler pensare che si realizzi dapprima l'unità degli spiriti nella verità e poi l'unità dei cuori nella carità.

La carità è l'araldo della verità ».

3. "Ecumenismo spirituale"

La visione ecumenica di P. Couturier ebbe una risonanza eccezionale.

Fin dal 1933 egli iniziò quella preghiera per l'unità alla quale tutti i cristiani avrebbero potuto associarsi in piena indipendenza spirituale.

Alla sua morte, nel 1953, la preghiera universale aveva conquistato moltitudini di cristiani di tutte le confessioni, diffondendosi progressivamente in tutto il mondo.

Essa si era rivelata uno dei canali privilegiati per la diffusione dell'esigenza ecumenica; attraverso di essa l'aspirazione all'unità era passata dall'ambito dei pionieri e dei teologi alle masse cristiane.

Allo stesso tempo la preghiera per l'unità aveva veicolato una specifica concezione dell'unità della chiesa.

Questa si stacca dall'approccio dottrinale, che affronta l'unità cristiana partendo dal problema di divergenze dottrinali e istituzionali da capire e da conciliare.

È certo che noi non possiamo prescindere dalle nostre convinzioni particolari, ne ci è chiesto di rinunciare alla fedeltà alla nostra confessione.

Ma quando ci accostiamo alla preghiera di Cristo diventiamo coscienti che la sua intenzione supera tutto ciò che noi, individualmente e ecclesialmente, possiamo pensare.

Di conseguenza, la preghiera ecumenica non può domandare di ridurre gli altri alla nostra unità, bensì che Dio realizzi « l'unità che egli vorrà, attraverso i mezzi che egli vorrà ».

Questa formula incisiva riassume meglio di ogni altra il dinamismo che la preghiera dell'abbé Couturier seppe imprimere alla concezione ecumenica dell'unità della chiesa.

Per i cristiani divisi si tratta di ricongiungersi, ma non al punto in cui si sono separati.

Devono piuttosto progredire parallelamente, cercando di rendere più autentica la propria vita cristiana mediante un contatto rinnovato con la fonte unica.

Gli sguardi dei nostri fratelli di confessioni differenti, posandosi su di noi, ci obbligano a scoprire i punti precisi in cui si deve operare una purificazione.

Il riassorbimento delle divisioni avverrà solo quando i cristiani, procedendo parallelamente incontro al Signore in una conversione progressiva, stimolati da contatti reciproci, saranno entrati pienamente nella preghiera di Cristo stesso per l'unità della sua chiesa.

La pratica della « settimana di preghiera universale per l'unità cristiana » e la concezione ecclesiologica che la sottende hanno assunto il nome di ecumenismo spirituale.8

Il Vat II stesso nel decreto sull'ecumenismo ha fatto sua questa terminologia: « Questa conversione del cuore e questa santità di vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l'unità dei cristiani, si devono ritenere come l'anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale» ( UR 16 ).

II - Oltre l'Ecumenismo spirituale

1. Dall' "Ecumenismo spirituale" a una spiritualità ecumenica

Nessun cristiano sensibile ai problemi della chiesa potrà negare il contributo prezioso della corrente di pensiero e di azione nota col nome di "ecumenismo spirituale" alla causa ecumenica in generale.

È invalsa l'abitudine di considerarlo come un apporto all'unità dei cristiani specifico e irriducibile alle altre forme di attività ecumenica, cioè gli incontri istituzionali e le discussioni teologiche.

L'apporto dell' "ecumenismo spirituale" è indubbiamente rilevante.

C'è anzitutto il fatto stesso della settimana di preghiera, che mobilita ogni anno il mondo cristiano.

Cattolici, anglicani, protestanti e ortodossi vivono un "tempo forte" spirituale che mette sotto i loro occhi la responsabilità di tutti i cristiani nei confronti dell'unità e verso il mondo, che resta stupito, anzi scandalizzato, dalle loro divisioni.

La settimana fa comprendere che nessuna confessione ha il diritto di trar profitto dalla disgrazia delle rotture.

La preghiera di ogni chiesa è autentica quando emerge da uno spirito penitenziale.

La pratica della preghiera per l'unità, nel senso conferitole dall'abbé Couturier, è stato uno degli elementi che ha maggiormente contribuito a diffondere a tutti i livelli del popolo cristiano il rifiuto dello "ecclesiocentrismo".

Le chiese hanno cessato di mettere se stesse al centro dell'universo religioso e di misurare le altre con la propria misura.

Hanno messo al centro il Cristo e, misurandosi con la sua grazia e le sue esigenze, si sono trovate tutte mancanti.

Infine dobbiamo all'ecumenismo spirituale l'approfondimento dell'idea stessa di unità della chiesa.

L'unità della chiesa come "mistero" e non come "problema"; l'unità dei cristiani come partecipazione all'unità trinitaria: « E al mistero dell'essere stesso della chiesa che i cristiani devono "comunicare", non solo per vivere nell'unità, ma più esattamente per vivere dell'unità.

Ogni cristiano è quindi costretto ad affermare: l'unità non mi è estranea.

Non è una ricchezza che acquisterò, con la gioia di condividerla tra fratelli.

L'unità costituisce il mio essere cristiano stesso, come pure il loro; vi sono impegnato, come essi.

Impossibile oggettivarla perfettamente per sottometterla alla mia presa e alla loro.

Ne vivo; ne voglio vivere; come voglio che gli altri ne vivano; come gli altri ne vogliono vivere ».9

Tutti questi meriti indubbi dell'ecumenismo spirituale non impediscono tuttavia interrogativi critici nei suoi confronti.

Sorgono riserve sulla terminologia.

Sembra abusivo infatti monopolizzare il termine "spirituale" per alcune attività specifiche tra quelle che fanno parte dell'impegno ecumenico.

Tutto l'ecumenismo è "spirituale", cioè frutto dello Spirito.

Lo ha riconosciuto esplicitamente il Vat II quando ha attribuito alla grazia dello Spirito santo il sorgere di un « movimento ogni giorno più ampio per il ristabilimento dell'unità di tutti i cristiani » ( UR 1 ).

In questo senso le attività sociali di SODEPAX, per fare un esempio, non sono meno "spirituali" della settimana di preghiera.

Quest'ultima si è lodevolmente diffusa.

Si può dire che non ci sia oggi parrocchia cattolica o comunità religiosa che non la celebri.

La preghiera per l'unità è diventata un'abituale pratica di pietà.

Forse però proprio il suo successo ha portato a restringere la portata dell'ecumenismo, a ridurlo ad una pratica di pietà tra le altre; a confinarlo nei gruppi di devoti; a fare degli oranti per l'unità una specie di "monastero invisibile", per usare un'espressione dell'abbé Couturier.

Non si tratta di mettere al bando l' "ecumenismo spirituale", ne di contestare alla preghiera la sua centralità nella vita cristiana.

Il Vat II stesso, abbiamo visto, definisce questo impegno spirituale come « l'anima di tutto il movimento ecumenico ».

La preoccupazione è solo quella di evitare un'espressione che può avere esiti restrittivi e che, ad ogni modo, non è adeguata per esprimere tutto ciò che l'ecumenismo è diventato.

Positivamente, ci sembra di poter affermare che alla scuola della preghiera i cristiani hanno acquisito una comprensione più profonda, più "spirituale" - cioè più consona allo Spirito di Gesù - della propria esistenza.

Pregare non basta: bisogna pregare "bene".

Di ciò erano consci i discepoli quando domandarono a Gesù: « Maestro, insegnaci a pregare » ( Lc 11,1 ).

Evidentemente non cercavano una formula migliore delle altre, magari migliore delle preghiere che Giovanni Battista aveva insegnato ai suoi discepoli.

Domandavano uno "spirito", quello che intravedevano nella vita e nella preghiera di Gesù e che sentivano agli antipodi del proprio "spirito".

I cristiani hanno molto pregato per l'unità della chiesa.

Spesso hanno pregato male.

E pregavano male perché vivevano male il proprio riferimento a Cristo.

Ma al nostro tempo è stata fatta grazia: « Ora il Signore dei secoli, il quale con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l'inferiore ravvedimento e il desiderio dell'unione » ( UR 1 ).

Lo ha fatto anche mediante la preghiera di uomini di preghiera.

E questa loro preghiera è stata esaudita ben oltre la richiesta degli oranti.

Alla chiesa intera è stata fatta grazia secondo la misura evangelica: colma, ben pressata, traboccante.

Uno dei frutti migliori della preghiera è proprio il fatto che gli oranti sono sospinti verso un impegno più globale che quello della sola preghiera.

L' "ecumenismo spirituale", in quanto attività specifica nella ricerca dell'unità, è chiamato a superarsi.

Tutta la "spiritualità" - cioè la vita di fede, speranza e amore nello Spirito di Cristo - deve acquistare una, dimensione ecumenica.

La fedeltà confessionale è però tutt'altro che priva di significato.

Ogni tradizione particolare, privilegiando certi valori, ha dato una fisionomia inimitabile al modo concreto di tradurre nella vita il vangelo.

Il primo passo verso una spiritualità ecumenica consiste nell'accettare la pluralità delle spiritualità, conoscerle, apprezzarle e assimilarle nella misura del possibile.

La spiritualità ecumenica verso cui le chiese sono spinte non è una riduzione al minimo comun denominatore cristiano, in cui andrebbero perse le singolarità delle diverse confessioni.

È proprio il Vat II che ci invita a tener nella massima considerazione le spiritualità delle altre confessioni.

2. L'apporto delle confessioni a una spiritualità ecumenica

«Per unirsi bisogna amarsi », soleva dire il cardinal Mercier; e continuava: « per amarsi bisogna conoscersi ».

L'amore del Cristo da la limpidità di sguardo necessaria per conoscere l'altro nel suo mistero; ma l'amore stesso si nutre di conoscenza, se non vuoi scadere in vago sentimentalismo.

Questo elemento intellettuale è parte integrante di una vera spiritualità ecumenica.

Non si tratta di conoscere solo la dottrina delle altre chiese.

Secondo il Vat II, « bisogna conoscere l'animo dei fratelli separati…

I cattolici debitamente preparati devono acquistare una migliore conoscenza della dottrina e della storia, della vita spirituale e liturgica, della psicologia religiosa e della cultura propria dei fratelli » ( UR 9 ).

Una chiesa è più che un coacervo di dottrine; conoscersi è perciò qualcosa di diverso che un confronto di tesi a tesi.

Degli altri cristiani i cattolici sono invitati a conoscere l'animus, vale a dire lo spirito e la mentalità; la storia e tutti gli altri aspetti sono da studiare in quanto in essi si esprime l'animus.

L'approccio richiesto è perciò diverso da quello sufficiente per una conoscenza puramente nozionaie.

Non ci si può accostare alla dottrina dell'altro come a un semplice problema da risolvere, ma come a un aspetto di un mistero profondo della grazia di Dio e di fedeltà umana al Cristo, che si esprimono nella vita concreta delle altre chiese.

a. Le chiese orientali

Ai cattolici il concilio richiede una « speciale considerazione » delle chiese orientali ( UR c. III, p. I ).

Da esse ci viene la testimonianza più esplicita sul ruolo dello Spirito nell'insieme dell'esperienza cristiana.

L' ( v. ) oriente cristiano è polarizzato sull'esperienza del Dio biblico, che si rivela in Gesù Cristo e si comunica mediante lo Spirito santo.

L'idea orientale di Dio è trinitaria; si esprime dinamicamente in quel circolo misterioso che sgorga dall'unità e sfocia di nuovo nella divina unità.

Il movimento che fluisce placidamente dal seno ineffabile del Padre raggiunge la sua pienezza nello Spirito santo.

Poiché nello Spirito si compie il circolo divino, egli è il portatore della matura, piena bellezza di Dio.

Il mondo ortodosso è conscio che, come non è possibile analizzare il profumo di un fiore, così lo Spirito santo è indefinibile.

Il credente non lo può afferrare e comprendere: può solo adorarlo e cantare davanti a lui.

Nell'oriente cristiano la penetrazione del mistero dello Spirito santo è stata tale, che troviamo pienamente giustificata l'affermazione di Bulgakov: « L'ortodossia è lo Spirito santo ».

La "teologia" - il canto della traboccante pienezza della vita trinitaria - è resa possibile dall' "economia", la disposizione sapiente di Dio per rivelarsi all'uomo.

Dio, intangibile nella sua trascendenza, si rende immanente nel cosmo, sua trasparenza, e nell'uomo, icona del Logos.

L'incarnazione del Figlio eleva il mondo alla meravigliosa vicinanza di Dio e gli offre l'incoronazione conclusiva.

Tutte le azioni di Gesù sono piene del profumo della santità di Dio, che si spande nel mondo già dal momento stesso dell'incarnazione.

L'intera apparizione di Cristo in questo mondo - insegnamento, attività miracolosa, morte in croce e risurrezione - tende al processo della divinizzazione dell'uomo ( "theosis" ): partecipazione alla vita divina, visione di Dio.

La divinizzazione raggiunge la sua espressione più radiosa nella risurrezione.

Questa è vista dalle chiese d'oriente come un fatto cosmico: in Cristo anche noi siamo risorti, la vita divina trionfa e il giubilo pasquale riempie tutte le creature.

Uno studioso delle religioni molto sensibile ha colto bene il posto centrale che la fede nella risurrezione occupa nella sensibilità spirituale del cristianesimo orientale: « La fede nel più sublime e più profondo mistero cristiano della salvezza, che costituisce il palpito della cristianità ortodossa, è cosi vitale, forte e illuminante, che non è diventata oggetto della speculazione teologica.

L'acutezza penetrante e l'abile dialettica, proprie della cristologia dogmatica dei greci, si sono velate il capo di fronte a questo mistero dei misteri, in adorante silenzio; la teologia ha qui ceduto alla viva devozione.

Precisamente in questo costante silenzio davanti al mistero della risurrezione, del quale la liturgia orientale canta e giubila ininterrottamente, si manifesta tutta la grandezza della teologia orientale, che indaga il mistero della rivelazione finché è indagabile, e il mistero non indagabile lo lascia alla chiesa orante ».10

L'infinita corrente di vita che fluisce dalla Trinità, traboccando nello Spirito santo, consacra l'umanità di Gesù mediante la divinità.

La vita divina bagna anche i credenti, che sono innestati in Cristo.

Così lo Spirito santo, la grazia increata, il vivente respiro della divinità, porta a compimento la filiazione divina degli uomini.

Condotto dallo Spirito al centro del cuore di Dio, il credente riceve ora un misterioso vibrare al ritmo della vita trinitaria, nell'attesa di poter contemplare la luce divina a volto svelato.

Con la fede nel regno venturo, lo sguardo fisso nell'eterno, lo slancio vitale verso la trasfigurazione, la voce mai stanca del servizio divino che celebra l'eucaristia con gli angeli, la chiesa orientale ricorda ai cristiani, di qualsiasi confessione, che è mediante la bellezza della sua gloria che Dio ha salvato il mondo.

b. Chiese e comunità ecclesiali della riforma

Anche le chiese nate dalla riforma protestante hanno un loro patrimonio spirituale che traggono dal comune vangelo e offrono a tutti i discepoli di Cristo, al di là delle delimitazioni confessionali.

Bisogna ammettere che in ambito cattolico si è poco sensibili alle ricchezze spirituali del ( v. ) protestantesimo.

La polemica ha strutturato i rapporti tra cattolici e protestanti fino al più recente passato.

Ci si è lasciati guidare dalla mentalità apologetica, che conosce solo le luci di casa propria e le ombre di quella altrui.

Non è questo lo spirito che anima il decreto conciliare sull'ecumenismo.

Possiamo verificarlo nei paragrafi che il decreto dedica alle chiese e comunità ecclesiali separate in occidente, nel c. III.

L'ultimo dei quattro paragrafi che trattano dei punti fondamentali che uniscono chiese della riforma e chiese di stampo cattolico si occupa della vita nello Spirito ( UR 23 ).

Della cristianità protestante vengono dette cose sommamente positive, facendole risalire all'opera della grazia.

Non si tratta, in fondo, che dell'applicazione coerente del principio stabilito nella prima parte del decreto: le chiese e comunità ecclesiali non sono spoglie di significato nel mistero della salvezza; di esse si serve lo Spirito di Cristo come di strumenti della grazia divina agli uomini ( UR 3 ).

Anche la santità di vita che si può ammirare in queste chiese non fiorisce "nonostante" le chiese, ma "in esse" e "grazie ad esse".

Anche nelle chiese separate dalla sede romana l'unica chiesa di Cristo è presente con la sua efficacia, per produrre frutti di vita cristiana sia nell'ambito individuale che in quello sociale.

Le più rilevanti di queste ricchezze sono individuate dal concilio nella fede in Cristo, aiutata dalla grazia del battesimo e dalla parola di Dio ascoltata; nella preghiera privata, nella meditazione della bibbia, nella vita della famiglia cristiana, nel culto della comunità riunita a lodare Dio.

A ciò si aggiunse il vivo senso della giustizia e la sincera carità verso il prossimo.

« E questa fede operosa - nota il decreto conciliare - ha pure creato non poche istituzioni per sollevare la miseria spirituale e corporale, per coltivare l'educazione della gioventù, per rendere più umane le condizioni sociali della vita, per ristabilire la pace universale » ( UR 23 ).

Sarebbe un travisamento dell'intenzione del concilio vedere nelle affermazioni sulla "fede operosa" un'intenzione polemica, come se si volesse attribuire alle chiese protestanti, malgrado la loro dottrina della "sola fede", una giustizia che viene dalle opere.

Il linguaggio del concilio è piuttosto uno stimolo per i cattolici a verificare se i clichés correnti della dottrina sulla giustificazione attribuita ai protestanti corrispondono veramente al pensiero e alla pratica dei nostri fratelli.

È vero che alcuni discepoli di Lutero hanno portato all'estremo il suo rifiuto del sistema religioso-morale della teologia tardo-medievale, che faceva dell'azione umana una condizione di necessità per la salvezza divina.

In questa direzione del rifiuto Nicola di Amsdorf è giunto fino alla tesi che le buone opere siano addirittura dannose per la salvezza.

Questa è l'immagine caricaturale che circola di più in ambito cattolico.

Ma tale non era il pensiero di Lutero e degli altri riformatori.

Si può dire che fede e buone opere sono viste come inerenti l'una alle altre, in maniera tale che senza buone opere non si raggiunge la salvezza, benché non si guadagni la salvezza per mezzo delle buone opere.

È certo comunque che i protestanti non considerano il principio della "sola fede" come se la fede non dovesse diventare fruttuosa nella vita del credente.

È incontestabile, del resto, che le varie ondate di "risvegli" che storicamente hanno attraversato il mondo protestante si sono occupate di dare all'esistenza cristiana una dimensione anche sociale e umanitaria.

L'impegno per la giustizia sociale fu incrementato dalla spinta del protestantesimo liberale, il quale tendeva a rendere il cristianesimo immanente a questo mondo, come religione sociale.

Il protestantesimo conobbe così un movimento sociale analogo a quello prodotto dal cattolicesimo a partire dalla fine del secolo scorso.

Ad esso si deve la creazione di opere benefiche di ogni genere, tutte volte a combattere le piaghe sociali, a favore dei più diseredati: opere per l'infanzia, per i prigionieri, per i malati ( dalla fondazione della "Croce rossa internazionale" a Ginevra nel 1868, ad opera del calvinista H. Dunant, fino all'istituzione delle infermiere per i soldati feriti, le nurses di Florence Nightingale ).

Non è senza significato che una delle figure più note del mondo protestante e rappresentative della sua vita spirituale sia il dott. A. Schweitzer, aureolato dal suo ospedale africano di Lambaréné.

Questa scia di carità, che i cristiani della riforma hanno lasciato dietro di sé, in Europa come nei paesi di missione, la chiesa cattolica la considera senza gelosia, ma piuttosto rendendo grazie a Colui che continua a effondere il suo Spirito nel mondo attraverso i credenti di ogni appartenenza confessionale che operano in suo nome.

Grazie agli apporti di tutte le tradizioni confessionali, è possibile salutare ora l'inizio di un'epoca in cui la cristianità saprà vivere la differenza sotto il segno del pluralismo che arricchisce.

La vita spirituale dei credenti avrà un respiro più ampio: sarà ecumenica.

Di questa spiritualità in formazione possiamo già intravedere i tratti più caratteristici.

Noi li raggruppiamo sotto tre esponenti: la conversione, il dialogo e il servizio.

III - Le dimensioni di una spiritualità ecumenica

1. Conversione

Nel corso di mezzo secolo di ecumenismo sono emersi progressivamente aspetti diversi della ricerca dell'unità ecclesiale.

Ci si è resi conto che questa comporta un dialogo dottrinale sul contenzioso teologico antico e recente, un servizio comune dei cristiani verso il mondo e specialmente i poveri, la preghiera di tutti perché il Cristo stesso ristabilisca l'unità visibile per le vie che egli vorrà.

Queste rimangono dimensioni permanenti del movimento ecumenico.

Ma sempre più si sente la necessità di trovare all'ecumenismo un centro di gravitazione.

Ora che la causa ecumenica da lavoro di un'élite è diventata la preoccupazione di una moltitudine di cristiani; ora che il moltiplicarsi delle attività ecumeniche fa paventare il rischio di una dissipazione dello spirito in un "attivismo ecumenico"; ora che i giovani all'interno stesso della chiesa provocano delle rimesse in discussione radicali, si rende necessaria una concentrazione sull'essenziale.

Il decreto conciliare sull'ecumenismo viene incontro a questa preoccupazione.

Parlando dell'esercizio dell'ecumenismo ( c. II ) tratta di tutto ciò che si può fare insieme, dai dialoghi teologici specializzati alla cooperazione sul piano sociale; ma ha cura di far precedere questa elencazione dalle considerazioni sull'ecumenismo come riforma della chiesa e come rinnovamento dei singoli cristiani.

Ci richiama così che l'ecumenismo, prima di essere un insieme di « cose da fare », è un atteggiamento interiore, uno spirito, una disposizione d'animo.

È questo il nucleo dell'ecumenismo, il suo centro di gravitazione.

Senza questo sale ogni attività ecumenica prima o poi si corrompe.

Siamo così messi in guardia da un certo "trionfalismo ecumenico", che potrebbe insinuarsi quando ci si accontenta di alcune manifestazioni solenni ed esteriori di unità, ma che non si traducono nell'acquisto di una nuova mentalità.

« Ecumenismo vero non c'è senza interiore conversione; poiché il desiderio dell'unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall'abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità» ( UR 7 ).

La conversione che matura in seno alla spiritualità ecumenica non è ristretta alla trasformazione morale dei costumi.

È relazionata piuttosto a quell'evento spirituale che il greco del NT chiama metanoia, la quale comporta l'abbandono dell'umana autosufficienza e della ricerca di sé, il radicale rivolgersi a Dio nella pronta disposizione a compiere la sua volontà, il cambiamento del modo di pensare e il rovesciamento, a partire dalla fede, della gerarchia dei valori.

A questo livello l'ecumenismo ci appare come un movimento che è spirituale nella sua intima essenza; "spirituale", cioè operato dallo Spirito.

La metanoia non è il prodotto della buona volontà dell'uomo e deve essere chiesta nella preghiera.

Rinnovamento, riforma, conversione, santità, comunione con Dio: tutto questo, e non meno di questo, è domandato alla chiesa che accetti di camminare per la via dell'ecumenismo.

Ci apparirà più facilmente come ciò sia l'essenziale di una spiritualità ecumenica se consideriamo che la conversione, tradotta in positivo, significa concentrazione sul Cristo.

Così è già della metanoia evangelica: vuoi dire un invertire rotta nella vita per andare dietro a Gesù che chiama [ v. Conversione II-III ].

Nel linguaggio dei teologi questo atteggiamento che deve animare le chiese aperte all'ecumenismo è detto "cristocentrismo".

La preoccupazione di assicurare al Cristo il posto centrale nella dottrina, nella predicazione e nella vita della chiesa è uno dei frutti più preziosi della spiritualità ecumenica.

L'orientamento cristocentrico non si assicura accontentandosi di ripetere le formule venerande della fede cristiana stabilite dai concili del IV e V sec., sulle quali esiste un sostanziale accordo tra le differenti confessioni cristiane.

Le formulazioni dottrinali su Gesù Cristo come vero Dio e vero uomo in una sola persona devono diventare il punto di partenza e l'inizio di una nuova e attuale comprensione della sua persona e della sua opera.

Tutte le chiese devono rispondere con onestà intellettuale alla domanda: Chi è per noi ( v. ) Gesù Cristo oggi?

Le vecchie polemiche confessionali diventano assolutamente anacronistiche quando i cristiani si pongono di fronte il problema che li riguarda tutti: come portare insieme al mondo attuale, nel suo proprio linguaggio, l'annuncio della salvezza di Gesù Cristo?

Per proclamare fedelmente e credibilmente il messaggio della salvezza cristiana al mondo d'oggi non ci vuole meno che le forze congiunte di tutta la cristianità.

La conversione ecumenica del cuore rende possibile il superamento del geloso particolarismo con cui ogni confessione conserva i propri doni e l'apertura alle integrazioni di altri cristiani.

2. Dialogo

a. Il dialogo come momento di spiritualità cristiana

Non ci proponiamo di presentare la dottrina cattolica sul dialogo ecumenico nel suo insieme.

Il decreto conciliare e successivamente i documenti elaborati dal Segretariato per l'unità dei cristiani hanno messo a punto con chiarezza i principi dottrinali e le norme pratiche che regolano l'incontro tra cristiani di confessioni diverse.

Qui vogliamo piuttosto considerare il dialogo ecumenico dal punto di vista della spiritualità cristiana.

Escludiamo una concezione "elitaria" che vorrebbe vedere nel dialogo un'attività specialistica da riservare agli addetti ai lavori o una specie di lusso spirituale, privilegio delle anime elette, il dialogo ecumenico è compito di tutti i cristiani.

È una scuola esigente nella quale si imparano le leggi fondamentali dell'esistenza «nello Spirito».

Il dialogo è un luogo privilegiato nel quale il cristiano si scopre « nuova creatura », generato dal dono dello Spirito santo, e impara a conoscere le "regole del gioco" che reggono ogni esperienza religiosa che si muove sulle tracce del Cristo.

La prima caratteristica del dialogo è il suo carattere interpersonale.

È un incontro tra persone; si fonda sul riconoscimento del valore e della dignità dell'altro in quanto persona.

« Nel riconoscimento e nell'accettazione dell'altro come persona si compie l'avvenimento interpersonale, che implica, come base, un atteggiamento di apertura e di comprensione, una situazione di reciprocità nella sincerità e nella generosità, un vicendevole arricchimento e fondamentalmente un clima di libertà e di rispetto.

Un incontro tra due persone è un avvenimento interpersonale in quanto si ha l'incontro di due coscienze e di due libertà che si ergono e si realizzano come coscienza e come libertà proprio in quell'incontro ».11

La reciprocità dell'ascoltare e del rispondere, dell'interrogare e del lasciarsi interrogare, del mettersi a disposizione e dell'accogliere coinvolge ugualmente i partners del dialogo.

Può esistere reciprocità solo se ci si mette su una base di uguaglianza.

È lo stesso decreto conciliare sull'ecumenismo che usa l'espressione « da pari a pari ».

Ciò non vuoi dire che ai partecipanti al dialogo sia richiesta la rinuncia alla convinzione intima di una più grande autenticità e pienezza della propria chiesa.

Condizione per il dialogo non è l'indifferentismo dottrinale, ma l'astensione dal formulare giudizi sulla volontà di fedeltà degli uni e degli altri al vangelo.

Anzi, gli interlocutori si riconoscono a vicenda come incorporati in Cristo, e in una certa comunione reciproca.12

Parità dal punto di vista del dialogo vuoi dire che a tutti spetta la stessa posizione: nessuno è privilegiato.

Il processo spirituale messo in moto da queste costatazioni non deve esaurirsi nell'arida formulazione di regole empiriche per un buon dialogo, al fine di evitare che una parte sopraffaccia l'altra.

La reciprocità, che deriva dal carattere interpersonale dell'incontro, ci apre piuttosto sul mistero.

Nella reciprocità avviene infatti l'evento fondamentale dell'esperienza religiosa: l'incontro nella fede con Dio che si rivela.

La costituzione sulla divina rivelazione del Vat II ha fatto ricorso appunto a categorie di tipo personalista per descrivere la natura della rivelazione: « Con la rivelazione Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé » ( DV 2 ).

La logica del dialogo è dunque la logica stessa del colloquium salutis che Dio conduce con l'uomo.

Per comprendere l'altro è necessario un animo ben disposto e un atteggiamento di simpatia e di disponibilità.

Chi non rinuncia a un atteggiamento di potenza e di autoaffermazione non arriverà mai a stabilire un incontro vero.

Non si banalizzi però questa esigenza del dialogo, pensando che si tratti in fondo solo di un po' di buona volontà da una parte e dall'altra.

A questa disposizione spirituale si accede solamente mediante l'offerta di se stessi allo Spirito di Dio, che solo può rovesciare di segno la naturale tendenza dell'uomo a riferire tutto a se stesso.

Solo la metànoia, che abbiamo già presentato come l'asse portante della spiritualità ecumenica, rende possibile la trasformazione interiore, indispensabile per incontrare l'altro come altro.

Il primo frutto di questo rinnovamento spirituale di conversione è la rinuncia all'apologetica prepotente, che cela le colpe e gli errori della propria chiesa, ma li evidenzia nelle altre chiese.

Fa parte della spiritualità ecumenica il riconoscimento delle proprie colpe.

Seguendo l'esempio di Paolo VI - nel discorso di apertura della seconda sessione del Vat II e, qualche settimana più tardi, in un'allocuzione agli osservatori non cattolici - la chiesa cattolica intera è entrata nell'atteggiamento penitenziale di domanda e offerta di perdono ( UR 7 ).

Il dialogo ecumenico costituisce la migliore scuola di conversione.

Da una parte, come abbiamo visto, il dialogo esige la conversione come condizione preliminare per incontrare l'altro nella sua verità.

Dall'altra, proprio dialogando s'impara cos'è concretamente la conversione.

Essa richiede che ci si accosti all'altro rinunciando a porre se stesso - la propria chiesa, la propria teologia, la propria spiritualità - come parametro di confronto.

Si capisce la conversione attraverso il suo contrario, che è la tentazione di farsi centro, di tutto riferire a sé.

« Il vero dialogo - che non è semplice scambio di vedute, ma ricerca e comunicazione sui valori essenziali della nostra vita - può dare innumerevoli frutti di grazia.

Esso conduce a un'autentica conversione della persona e della comunità.

È solo attraverso l'esercizio paziente e continuo di dialogo, con tutto ciò che esso implica di preparazione, di ascolto, di dono, di riflessione, che si può arrivare alla comunione ».13

È il dialogo dunque, che ci dischiude il senso dell'esperienza cristiana fondamentale, cioè della conversione.

La conoscenza dell'altro che si raggiunge col dialogo, infine, mette il credente in una dimensione di crescita.

Anche in ciò il dialogo è l'antitesi della polemica.

Nella polemica si attribuisce pregiudizialmente al proprio pensiero la qualità di essere giusto.

Perciò non si nota mai nei polemisti lo sforzo di superare il proprio pensiero.

Il dialogo invece si protende verso il futuro aperto.

Demolendo pregiudizi e clichés, permette di acquisire migliori informazioni sull'altro; sulla sua fede, sulle sue tradizioni, sulle sue ricchezze di vita cristiana.

« Da questo dialogo apparirà anche più chiaramente quale sia la vera situazione della chiesa cattolica » ( UR 9 ).

Attraverso il dialogo si perviene allo stesso tempo a una conoscenza migliore di se stessi.

Il dialogo ha in sé una dinamica di superamento dei limiti soggettivi.

Conoscendo l'altro si prende coscienza che questo o quell'aspetto del proprio patrimonio è unilaterale e deve essere completato da altri aspetti, meglio valorizzati da altre chiese.

Grazie al dialogo le chiese camminano verso una maggiore perfezione.

La chiesa che risponde al desiderio di unità del Cristo sarà diversa dalle immagini, storicamente condizionate, che ora ne conosciamo.

L'unità piena i cristiani si preparano ad accoglierla come il grande dono che Dio solo concederà, nel modo e nell'ora che vorrà; tuttavia la conoscenza reciproca maturata nel dialogo fa progredire le chiese nella partecipazione a questo mistero di unità.

Anche da questo punto di vista il dialogo insegna qualcosa di essenziale circa la struttura della fede cristiana.

In quanto chiamati alla speranza escatologica, i discepoli di Cristo sono presi in un movimento che fa loro trascendere le espressioni storiche contingenti della fede.

L'attualizzazione della "memoria" di Cristo in ogni epoca è un compito mai concluso.

Parafrasando le parole di Gesù a Natanaele ( Gv 1,50 ), possiamo dire che il dialogo fa risuonare la promessa: « Vedrete cose maggiori di queste ».

b. La chiesa, segno di fraternità dialogante

Il dialogo, nota caratteristica della chiesa che si è messa alla scuola di Giovanni XXIII, ha portato a una crescita qualitativa della chiesa stessa.

Dialogando, la chiesa ha preso coscienza in modo più adeguato del proprio mistero.

Il vissuto ecclesiale del dialogo è in qualche modo analogo a quello della preghiera.

Pregando - pregando "bene", cioè nello Spirito di Cristo - la chiesa ha capito meglio che cosa fosse il mistero di unità sul quale era fondata, al quale era chiamata.

I cristiani hanno cominciato col pregare perché gli altri si adeguassero al loro modello; e hanno finito col comprendere che pregare significa entrare nel dinamismo dello Spirito che vuole rendere tutti più simili al Cristo.

Qualcosa di analogo è avvenuto col dialogo.

È difficile negare che molti cristiani inizialmente abbiano compreso il dialogo come una tattica.

L'hanno adottato come lo strumento adatto ai tempi per poter continuare la missione della chiesa.

Ma entrati nel gioco del dialogo, la missione stessa della chiesa si è rivelata loro sotto una luce diversa.

Cerchiamo di vedere più da vicino questo processo.

Il dialogo può sembrare imporsi alla chiesa dall'esterno, come una necessità nell'attuale congiuntura culturale.

I cristiani di differenti confessioni non possono più pensare di rifare guerre di religione ( là dove ciò sembra avvenire, come in Irlanda, si tratta in realtà di mascheramento di conflitti sociali ).

Neppure la polemica sistematica è più concepibile in una società strutturata pluralisticamente.

La secolarizzazione minaccia ugualmente tutte le chiese.

Non si tratta più solo di cercar di coesistere pacificamente, ma di far fronte insieme al problema drammatico della sopravvivenza.

Gli stessi presupposti culturali rendono anacronistico l'atteggiamento di sdegnoso rifiuto o di competitività della chiesa nei confronti del ( v. ) mondo.

L'umanità dell'uomo è così minacciata, che il fronte comune di tutte le varie forme di umanesimo, religioso o laico, è assolutamente improrogabile.

Il dialogo come forma normale di approccio tra sistemi religiosi e ideologici diversi sembra aver preso il posto della guerra, calda o fredda che sia.

Tuttavia questa concezione del dialogo, per quanto lecita e valida in se stessa, non sembra rendere ragione di tutta la realtà antropologica del dialogo.

Già in campo filosofico qualcuno ha difeso il valore assoluto e incondizionato del dialogo, che su un piano etico non riceve una giustificazione estrinseca, bensì si autogiustifica per l'insopprimibile esigenza che ha ogni persona di essere compresa e di comprendere l'altro.14

Sul versante teologico il documento sul dialogo del Segretariato per i non credenti ( 28 agosto 1968 ) sembra sintonizzarsi con questa concezione.

Il dialogo non viene visto come un mezzo da usare per raggiungere i fini apostolici della chiesa; esso ha piuttosto una sua autogiustificazione, iscritta nella natura stessa dell'uomo: « Il dialogo deve scaturire dal dovere morale universale di cercare in ogni cosa, e specialmente nelle questioni religiose, la verità ».

Il dovere morale di ricercare la verità si traduce, dunque, nel dovere morale di dialogare.

Ciò non implica che il dialogo domandi preliminarmente di metter tra parentesi la verità, o di spostarla alla fine ipotetica della ricerca.

Il dialogo non si svolge alla luce crepuscolare dello scetticismo.

« Dal fatto che i singoli interlocutori - continua lo stesso documento - pensano di possedere la verità, non segue che il dialogo è inutile: infatti questa persuasione non è contraria alla natura del dialogo.

Il dialogo si instaura partendo da due diverse proposizioni con il proposito reciproco di enuclearle e per quanto è possibile avvicinarle; è sufficiente perciò che ciascuno degli interlocutori ritenga che la conoscenza della verità che possiede possa crescere mediante il dialogo con l'altro ».15

Dal dialogo con tutti gli uomini di buona volontà la chiesa si ripropone non solo « un riconoscimento più pieno dei valori umani », ma anche « un'intelligenza più profonda dei problemi religiosi ».

Per la chiesa il problema religioso per eccellenza è l'intelligenza della propria missione.

Il Vat II ha messo la chiesa cattolica in stato di riflessione circa il proprio mistero, ad intra, e circa il suo compito nel mondo, ad extra.

È proprio la fedeltà al mandato originario di « rendere discepole tutte le genti » ( Mt 28,19 ) che la obbliga a ripensare la sua missione nei contesti culturali concreti nei quali si trova a vivere.

È così che l'urgenza attuale di fondare la convivenza umana sul dialogo e la riflessione filosofico-etica degli spiriti più avvertiti, che vedono nel dialogo il tratto specificante dell'antropologia, portano la chiesa a integrare questa categoria nel proprio tentativo di autocomprensione.

Per questa via si è spinto notoriamente il Vat II con la costituzione pastorale Gaudium et spes.

Al termine del documento troviamo l'affermazione esplicita che il dialogo con il mondo contemporaneo, così come è stato inaugurato in quel testo, non vuoi essere un episodio isolato, ma un momento specificante dell'attività della chiesa: « La chiesa, in forza della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, stirpe e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo » ( GS 92 ).

Non è arbitrario attribuire alla parola "segno", in questo contesto, delle valenze sacramentali.

La chiesa, che comprende se stessa come sacramento fondamentale della salvezza, osa attribuirsi il compito di essere qualcosa di analogo a un "sacramento del dialogo".

Non pretende di averne il monopolio, ne di gestirlo; vuol piuttosto mostrarlo e servirlo, con lo stesso slancio con cui si sente mandata a portare il suo contributo all'umanità dell'uomo.

Per la chiesa il dialogo si fonda, teologicamente, sulla paternità di Dio: « Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati a essere fratelli.

E perciò, chiamati a questa stessa vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace » ( GS 92 ).

La chiesa, dunque, non usa il dialogo solo come un mezzo.

Essa si sente costituita per il dialogo.

E il dialogo non si esaurisce in un vuoto rapporto formale col mondo: esso fa corpo con la prassi ed è sostanziato di pace.

3. Servizio

Se i cristiani si impegnano, mediante la conversione e la riforma, la preghiera comune e il dialogo, a rendere più vera e più visibile l'unità della chiesa, non è per il proprio comfort spirituale, ne per star meglio insieme.

L'unità della chiesa è finalizzata al mondo, come testimonianza e come servizio all'uomo.

Il movimento ecumenico, riflettendo sulla preghiera di Gesù ( « Che essi siano uno, affinché il mondo creda che tu mi hai inviato », Gv 17,21 ), ha portato in primo piano i concetti di martyrìa ( testimonianza ) e diakonia ( servizio ), quale finalità intrinseca degli sforzi verso l'unità.

L'ecumenismo tende perciò per natura sua a tradursi in azione e in segni visibili.

Molti cristiani oggi si domandano se nell'ecumenismo non si parli troppo e si agisca troppo poco.

C'è una quantità di obiettivi nel campo della comune confessione di fede e della cooperazione nel campo sociale che potrebbero essere conseguiti insieme, anche nello stato attuale di divisione tra le chiese.

La confessione di fede è una testimonianza data attraverso la parola.

I contenuti di fede comuni a tutti i cristiani - mistero trinitario, incarnazione salvatrice, speranza escatologica del regno - sono i più fondamentali, quelli il cui « nesso col fondamento della fede cristiana » è più stretto.

Nella comune testimonianza della fede un posto privilegiato spetta alla scrittura.

La traduzione e la diffusione comune della bibbia è l'impegno pratico primordiale comune a tutti i cristiani.

Purtroppo è ancora vivo il ricordo del tempo in cui le librerie cattoliche erano ermeticamente chiuse per le bibbie protestanti; anzi, la diffusione della bibbia appariva come l'attività tipica degli evangelici, quasi il loro monopolio.

Molti pregiudizi restano da abbattere e molto tempo perduto da recuperare.

Un'occasione unica per una pastorale ecumenica in tal senso è offerta oggi dalla traduzione comune della bibbia, la prima in lingua italiana.

La traduzione è portata avanti per iniziativa e sotto responsabilità dell'Alleanza biblica universale e del Centro catechistico salesiano di Torino-Leumann.

Il primo frutto del lavoro comune presentato al pubblico è stato l'opuscolo con la traduzione della lettera di Giacomo, col titolo « Poveri e ricchi » ( 1974 ).

Alcuni parroci l'hanno distribuita nelle visite domiciliari ai loro fedeli, trovando così l'opportunità di fare una catechesi sulla bibbia e di informare sul rapporto delle chiese cristiane con la scrittura.

L'esempio più autorevole di una catechesi biblico-ecumenica l'ha offerta lo stesso pontefice romano, distribuendo l'opuscolo ai pellegrini convenuti a Roma per l'anno santo 1975.

L'edizione completa del NT nella traduzione interconfessionale è apparsa nel 1976 e gode di una diffusione superiore a ogni attesa.

La cooperazione nel campo sociale è l'altro modo di testimoniare al mondo l'unica fede che unisce i cristiani, al di là delle loro divisioni confessionali.

Se per tutti gli uomini, e per i credenti in modo particolare, la condizione del fratello oppresso o bisognoso è un appello all'impegno, per il cristiano questo servizio è richiesto dalla fede stessa in Cristo: « la cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione che già vige tra di loro e pone in più piena luce il volto di Cristo-servo » ( UR 12 ).

I cristiani adempiono meglio questo mandato quando compiono il loro servizio all'uomo non confessionalmente divisi, ma in un lavoro comune.

La chiesa appare così come una comunità di servizio nella sequela di Cristo.

Per questa via dell'emulazione fraterna nel lavare i piedi degli ultimi, sull'esempio di Cristo, i credenti si riavvicinano reciprocamente e scoprono un'unità che le divergenze dottrinali non lascerebbero supporre.

Le possibilità di questa collaborazione sono illimitate: senza numero come i bisogni sempre nuovi degli uomini, e senza limiti come la fantasia creatrice guidata dall'amore.

Riesce difficile tuttavia dare dei suggerimenti concreti validi universalmente.

È piuttosto a livello locale che debbono essere individuate le necessità e proposti gli obiettivi da conseguire in cooperazione, proporzionatamente alla maturazione ecumenica raggiunta localmente.

È la chiesa locale il luogo in cui l'orientamento ecumenico generale della chiesa universale si particolarizza e si concretizza.

In questo contesto è necessario ricordare che il mondo evangelico italiano esprime la tendenza a posizioni radicali in campo politico.

I giovani in particolare dichiarano esplicitamente di voler vivere insieme militanza marxista e professione di fede cristiana.

Le posizioni più estreme sono quelle che si esprimono mediante la rivista « Gioventù evangelica », del gruppo « Movimento studenti cristiani », e il settimanale « Com-Nuovi Tempi ».

Queste posizioni massimaliste mettono un'ipoteca sulla possibilità di incontro all'interno delle istituzioni ecclesiali tradizionali.

Tuttavia anche tali contestazioni hanno la loro utilità.

Le voci che proclamano che si è entrati nel "post-ecumenismo" richiamano le chiese a interrogarsi se hanno preso sul serio l'ecumenismo stesso.

Sono costrette a rendersi conto che non possono limitarsi ad aggiungere la dimensione ecumenica come un'appendice alla propria struttura, lasciando invariato tutto il resto.

Il movimento ecumenico si universalizza, a spese del suo carattere ecclesiastico.

La nuova via implica un'apertura verso l'intero mondo abitato dagli uomini, senza limitare l'effettivo servizio della chiesa al mondo in quanto abitato da cristiani.

Essere ecumenici oggi esige che si entri in questa nuova sensibilità, che è poi l'orizzonte cristiano originario.

Fin dall'inizio, infatti, il vangelo è stato destinato all'oikumene, cioè all'intero mondo abitato.

Missione caritativa Apostolato II
Carità VII,3
Itinerario IV,3
… e verità Chiesa II,3f
… e fraternità Fraternità III,2d
Presso i carismatici Carismatici III,5
Martiri cristiani non-cattolici Martire I,6
… e Buddhismo Buddhismo VI

1 È significativo che l'opera monumentale di R. Rouse e S. C. Neill, A History of the Ecumenical Movement, Londra 1954 (tr. it.. Storta del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, Bologna 1973, 2 voll.) inizi lo studio degli sforzi per la riconciliazione fin dal 1517, l'anno del conflitto aperto tra Lutero e Roma
2 G. Pattaro, Ecumenismo in Nuovo dizionario di teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Alba, Edizioni Paoline 1977, 349-370
3 « Unità cristiana e movimento ecumenico », Testi e documenti, a cura di C. Boyer e D. Bellucci, Roma 1963, 115-125
4 Ivi, 211-217
5 M. Villain, Introduzione all'ecumenismo, tr. it., Milano 1965, 380
6 Y. Congar, Chrétiens en dialogue, Parigi 1964, XXIX
7 Tutti gli scritti di P. Couturier sono raccolti nel volume di M. Villain, Ecumenismo spirituale, tr., it., Alba, Edizioni Paoline 1965
8 Un'esposizione d'insieme si può trovare, oltre che negli scritti di P. Couturier, nell'opuscolo Oecuménisme spiritual, Lione 1960, di P. Michalon, discepolo e continuatore dell'opera dell'abbé Couturier
9 P. Michalon, Oeciiménisme spiritiiel, 8
10 F. Heiler, Vrkirche una Ostkirche, Monaco 1937, 204s
11 A. Molinaro, Eticità del dialogo in Aa. Vv., Dialogo a una svolta, Roma 1969, 160
12 La base dottrinale del dialogo ecumenico stabilita da K. Rahner nella voce Dialogo interconfessionale in Sacrafnentum mundi, tr. it., Brescia 1975, III, 32-37
13 J. De La Croix-Bonadio, Dialogo ecumenico, Bologna 1968, 115
14 Ci riferiamo alla posizione filosofica di G. Calogero, che riduce l'imperativo etico al principio dialogico: « L'indiscutibile (ciò che non posso sottoporre alla discussione altrui) è il dover discutere ». Cf G. Calogero, Filosofia del dialogo, Milano 1962, e numerose altre opere
15 Il documento è riprodotto nel volume Dialogo a una svolta, cit. alla nota 11, che raccoglie inoltre buoni saggi di commento e interpretazione