Martire

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Sommario

I. Storia e teologia del martirio:
1. Il termine "martire";
2. Il concetto del martirio;
3. Il numero dei martiri;
4. Teologia del martirio;
5. Il culto dei martiri;
6. Il martirio fuori della chiesa cattolica.
II. Spiritualità odierna del martirio.

I - Storia e teologia del martirio

1. Il termine "Martire"

Il termine "martire" deriva dal greco "màrtus" che, nella lingua profana, significa "testimone".

Nella terminologia teologica però lo stesso termine - già fin dal II-III sec. - designa una persona che ha dato testimonianza per Cristo e per la sua dottrina con il sacrificio della vita.

Sorge così il problema di come, in un tempo relativamente breve, il termine "martire" abbia acquistato questo significato così particolare.

Nel NT, infatti, il termine ricorre spesso nel senso ordinario di testimone ( Mc 14,63; At 6,13 ), ma designa soprattutto un tipo particolare di testimoni e cioè gli apostoli che possono testimoniare, per esperienza propria, della vita, della morte e, specialmente, della risurrezione di Gesù ( At 1,22; Lc 24,48; At 1,8; At 2,32; At 10,39.41; At 26,16; 1 Cor 14,15 ).

Gli apostoli sono dunque i testimoni autorizzati e, per così dire, ufficiali della missione e della risurrezione di Cristo, senza che il termine stesso implichi che abbiano dato testimonianza a Cristo anche con il sacrificio della loro vita.

Ci sono tuttavia dei testi in cui il termine "màrtus" e i suoi derivati si avvicinano di più a quest'ultimo significato.

Questo si riscontra, per esempio, nel testo di Marco 15,9: «Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per rendere testimonianza [ martyrion ] davanti a loro».

In altri testi ancora, il termine "màrtus" viene usato per designare delle persone che effettivamente hanno testimoniato per Cristo con il sacrificio della loro vita.

Ad esempio, At 22,20, dove si parla del « sangue di Stefano, tuo testimone [ màrtyros ] », o Ap 2,13, dove Antipa è chiamato « mio fedele testimone [ màrtus ] messo a morte nella vostra città ».

In questi e in altri simili testi ( Ap 11,3; Ap 11,7; Ap 17,6 ) non è tuttavia certo se il termine "màrtus" viene usato formalmente per indicare che i testimoni in questione hanno versato il loro sangue per Cristo o se viene adoperato nel senso molto più generico di testimone.

Si deve dunque concludere che il NT non fornisce alcun esempio chiaro in cui il termine "màrtus" venga usato nel significato più restrittivo che ebbe poi a partire dal II-III sec.

Specialmente nel nostro secolo, gli studiosi hanno tentato di spiegare come, in un tempo relativamente breve, la parola "màrtus" abbia acquistato esclusivamente il significato tecnico di "martire".

A tale scopo vari tentativi sono stati fatti per scoprire un legame interno tra il concetto di "testimone" e quello di "martire", ricorrendo all'ellenismo e, in specie, alla filosofia della Stoa, ovvero alle categorie di pensiero manifestate nell'AT e nel NT.

Questi tentativi non hanno portato a una soluzione definitiva del problema, anche se da essi sono emersi elementi che certamente hanno la loro importanza.

Ci riferiamo al fatto che, già nell'ellenismo, la parola "màrtus" e i suoi derivati non furono unicamente adoperati per designare una attestazione verbale, ma anche la testimonianza data con l'azione e con tutta la vita ( il caso di Epitteto ).

Importante è pure il fatto che il termine "testimone di Dio" ( màrtus tou theou ) nella teologia ebraica fu adoperato per designare i profeti, ossia i testimoni privilegiati di Dio, molti dei quali testimoniarono non solo con le parole ma anche con l'esempio della vita e persino con le sofferenze e la morte.

Per quanto riguarda i tentativi di stabilire un'interna connessione tra il termine "testimone" e quello di "martire" procedendo dal NT, i seguenti suggerimenti meritano una particolare considerazione:

- i martiri ebbero un'opportunità privilegiata di testimoniare la loro fede negli interrogatori che ordinariamente precedevano la condanna a morte;

- il martire è testimone di Cristo non solo con la professione di fede, ma anche con la sua vita e la sua morte, e imita così l'opera e la morte salvifica del Redentore.

Egli è dunque un testimone per eccellenza;

- la testimonianza dei martiri non è soltanto una manifestazione umana, ma una attestazione dello stesso Spirito santo e perciò particolarmente preziosa ( Mt 10,19-20 );

- psicologicamente parlando, la testimonianza del martirio acquista una particolare efficacia in quanto la professione orale viene confermata con la vita e soprattutto con la morte.

Anche se tutte queste considerazioni hanno un valore, si deve tuttavia dubitare se esse possano, nel loro insieme, spiegare il fatto che il termine "màrtus" acquistò, in un tempo così breve, il significato esclusivo di "martire".

Come ha osservato H. Delehaye riferendosi a queste discussioni, la lingua non si sviluppa secondo un'interna logica, e può accadere che un termine perda il suo significato primitivo e ne acquisti un altro, e ciò a motivo di una serie di fatti e circostanze.

Ci si può dunque chiedere se non è possibile che il termine "màrtus" = "testimone" abbia acquistato il significato di martire proprio quando il martirio era un fatto frequente nella vita della chiesa e quando la testimonianza per eccellenza, per Cristo e per la sua dottrina, era data nel modo più evidente da coloro che venivano uccisi per la fede in lui.

D'altra parte questo sviluppo può essere stato ulteriormente accelerato dal fatto che nelle lotte contro il docetismo, che negava la realtà del corpo di Cristo e, con ciò, la realtà della sua passione e morte, la testimonianza che i martiri avevano dato proprio con la loro morte fu considerata una prova particolarmente preziosa e convincente contro siffatte teorie.

Comunque sia, anche se il problema terminologico rimane ancora oggi alquanto enimmatico e forse non potrà mai essere risolto definitivamente, il fatto è che, a partire dalla metà del II sec. il termine "màrtus" possiede già frequentemente l'attuale significato di martire, che ben presto diventerà l'unico.

La storia di questo rapido sviluppo può essere seguita innanzitutto attraverso lo studio della terminologia usata nella prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi, negli Atti del martirio di Policarpo, e negli scritti di Ireneo, Clemente di Alessandria e di Origene, e, per quanto riguarda la letteratura latina, in quelli di Tertulliano e Lattanzio.

Un'ultima chiarificazione nei riguardi del significato del termine "martire" viene apportata con l'andare del tempo e diviene di comune accettazione nel IV sec.: essa consiste nella distinzione tra coloro che avevano sofferto per la loro fede ( confessores fidei ) e quelli che avevano sacrificato la vita per essa.

Soltanto questi ultimi vengono designati con il termine "martire".

2. Il concetto di martirio

Quanto complicata è la storia del termine "màrtus", altrettanto chiara è la realtà che esso designa: la morte subita da un cristiano per la sua fede.

Si può trattare della fede in tutta la rivelazione, ovvero in una parte di essa, ossia in un dogma particolare.

Si può e si deve pure parlare di martirio quando il cristiano, a motivo della sua fede, si è rifiutato di trasgredire un comandamento ( per es., contro la giustizia o contro la castità ).

Mentre da parte del cristiano è determinante che egli, per amore di Dio e pur rendendosi conto delle conseguenze alle quali va incontro, non voglia far nulla che sia in contrasto con la sua fede, da parte di chi gli infligge la morte non è necessario che agisca direttamente e formalmente per odio contro Dio, contro la persona di Cristo, la sua dottrina o la sua chiesa.

Basta che per motivi ideologici o per altri motivi voglia forzare il cristiano a commettere atti che questi non può fare senza peccare.

Se, dunque, in questo contesto si parla di "odium fidei" da parte di colui che uccide il cristiano, si vuole intendere, con questo termine, l'atteggiamento di ostilità verso il cristianesimo in quanto questo impedisce il raggiungimento del fine che il persecutore si è proposto.

Tutti gli elementi su indicati si riscontrano, con particolare chiarezza, nelle relazioni degli antichi martiri, come per es., nella copia degli Atti proconsolari dei Martiri Scillitani, che ci informano del procedimento giuridico istruito contro di essi il 17 luglio dell'anno 180.

L'accusa formulata dal Proconsole Saturnino riguarda il fatto che i cristiani in questione si erano rifiutati di vivere secondo il costume tornano e di tributare all'imperatore certi onori che, a loro giudizio, erano formalmente in contrasto con là loro fede monoteistica.

Essi vengono in seguito ammoniti ad abbandonare la loro fede, e, dopo il loro rifiuto, sono condannati alla decapitazione: « Allora Saturnino, proconsole, prese le sue tavolette e lesse la sentenza: "Sperata, Narzalo, Cittino, Donata, Vestia, Seconda e altri hanno confessato di voler vivere alla maniera dei cristiani e poiché, nonostante la nostra offerta di tornare a vivere secondo i costumi dei romani, si sono ostinati nella loro decisione, perciò noi li condanniamo a morire di spada"…

Subito dopo vennero condotti al luogo del martirio, ove si inginocchiarono e pregarono insieme.

Poi venne ad ognuno tagliata la testa ».

Non è tuttavia sempre così facile scoprire tutti gli elementi di un martirio.

Spesso e specialmente al giorno d'oggi, i cristiani che non vogliono cedere alle pretese di un dittatore non vengono ufficialmente perseguitati perché cristiani, ma accusati di crimini comuni e, in modo particolare, bollati quali traditori o sovvertitori dell'ordine pubblico.

Molte volte, poi, non ha luogo un regolare processo, ma essi vengono eliminati di nascosto.

Accade pure frequentemente che essi non vengono direttamente uccisi, ma - come già accadeva nell'antichità con coloro che venivano condannati ai lavori forzati nelle miniere ( damnati ad metalla ) - sono messi in condizioni tali che arrivano alla morte a causa delle privazioni e degli stenti sofferti.

Ne va dimenticato che al giorno d'oggi esistono mezzi e possibilità per far sì che la personalità di un uomo venga distrutta senza che gli sia tolta la vita fisica.

Infine, la discernibilità del martirio è resa spesso più difficile perché di regola non viene più offerta ai cristiani una scelta tra l'apostasia e la morte, ma essi vengono semplicemente uccisi perché, con la loro vita, hanno dimostrato di essere così profondamente fermi nella fede che il persecutore dispera di farli rinunciare ad essa.

Queste forme di martirio, che spesso non possono ufficialmente essere riconosciute come tali, pongono dei problemi particolari, come quello, ad es., di determinare in quale senso la volontà abituale di vivere il cristianesimo anche di fronte alla minaccia di morte, o il desiderio del martirio, possano essere considerati sostitutivi della decisione di chi - come nel caso dei Martiri Scillitani - viene posto esplicitamente dinanzi alla scelta tra l'apostasia e la morte.

Nelle seguenti nostre spiegazioni terremo presenti anche questi casi, senza peraltro entrare nelle ulteriori spiegazioni che essi, di per sé, richiederebbero.

3. Il numero dei martiri

Già per i motivi or ora esposti, è ovviamente impossibile accertare con precisione il numero dei martiri e questa difficoltà viene ulteriormente aggravata dal fatto che non abbiamo nessuna certezza che nell'antichità siano state stese relazioni su tutti i martiri e che tutte le relazioni eventualmente esistenti siano giunte fino a noi.

Nei racconti pervenutici non di rado, poi, si riscontrano indicazioni piuttosto vaghe, come, per es., l'affermazione che, in una determinata circostanza, il numero dei martiri era "ingente".

D'altra parte, si sa con certezza che nelle sole persecuzioni roma-ne parecchie migliaia di cristiani furono uccisi per la loro fede ( le opinioni degli specialisti in materia variano notevolmente e vanno da un minimo di 10.000 ad un massimo di circa 100.000 ).

Sappiamo pure che l'evangelizzazione dei paesi dell'Europa costò la vita a non pochi cristiani e che lo stesso deve dirsi nei riguardi degli inizi della propagazione della fede in quasi tutte le terre di missione.

Nel periodo poi della Riforma, come in quello della Rivoluzione Francese e, ancora di più, sotto le dittature del nostro secolo, moltissimi altri hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà a Cristo e alla sua chiesa, anche se è difficile accertarne il numero.

Una stima prudente porta a poter dire che, dalla fondazione della chiesa fino ad oggi, i cristiani che hanno subito il martirio in tutte le parti del mondo assommano per lo meno ad alcune centinaia di migliaia.

Questo fatto suggerisce già da sé solo che un fenomeno così frequente e costante non può essere soltanto casuale, ma che vi deve essere una connessione interna tra la vita della chiesa e il martiri?.

Non può dunque far meraviglia che il Vat II abbia affermato che alcuni cristiani « saranno sempre chiamati a rendere questa testimonianza d'amore davanti agli uomini » ( LG 42 ), basando questo insegnamento non già su un calcolo delle probabilità, bensì sulla verità teologica che il martirio fa parte integrante della vita della chiesa.

4. Teologia del martirio

La teologia del martirio è interamente fondata sulla morte di Cristo e sul suo significato.

Cristo infatti è il prototipo dei martiri: « Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce » ( Fil 2,6-8 ).

Cristo è il servo sofferente di Jahve, annunciato da Isaia ( Is 52,13-15; Is 53 ), che deve soffrire e morire per giustificare moltitudini ( Is 53,11 ), che è venuto per dare la sua vita in riscatto per molti ( Mt 20,28 ).

La salvezza del mondo deve essere compiuta attraverso la sofferenza e la morte del testimone del Padre ( Mt 16,21; Mt 26,54.56; Lc 17,25; Lc 22,37; Lc 24,7.26.44 ), perché senza lo spargimento di sangue non esiste perdono ( Eb 9,22 ).

Il Signore « venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto» ( Gv 1,11 ); ma egli «li amò sino alla fine » ( Gv 13,1 ); fu tradito ( Gv 18,2 ), condannato a morte ( Gv 19,7s ) e crocifisso ( Gv 19,18 ).

In questo modo consumò il sacrificio dell'amore ( Gv 19,30 ) affinché noi avessimo la vita ( Gv 10,10 ).

In verità, la morte sacrificale di Cristo è il tema centrale di tutto il NT e viene elaborato da ogni autore sacro secondo la sua propria personalità e il fine specifico del suo scritto.

Si fa riferimento esplicito a questa morte o essa viene per lo meno tacitamente presupposta quando si tratta della persona, della vita e dell'opera di Cristo e quando un insegnamento viene proposto nei riguardi di questioni così fondamentali come la volontà salvifica di Dio e la storia della salvezza; l'incarnazione e la redenzione; la fondazione della chiesa, la sua natura e la sua missione; i sacramenti ( in modo particolare il battesimo e l'eucaristia ), e, naturalmente, la sofferenza, morte e risurrezione, e altre verità rivelate riferentesi ai novissimi e alla dimensione escatologica della nostra esistenza.

Proprio perché la morte salvifica di Cristo sulla croce è di una importanza così fondamentale, si comprende agevolmente perché vi sono sempre stati dei martiri nella chiesa e perché - come conferma il Vat II - ve ne saranno sempre.

Infatti, Cristo ha esortato ripetutamente i fedeli a prendere la loro croce e a seguirlo nella via regale della sua passione: « Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.

Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà » ( Mt 10,38-39 e par. ).

E ancora: « In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.

Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.

Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo » ( Gv 12,24-26 ).

Queste e simili parole del Signore rivelano chiaramente la necessità del sacrificio e della mortificazione nella vita di tutti i fedeli, che sono stati iniziati alla vita cristiana quando furono battezzati nella morte di Gesù ( Rm 6,3s ).

Al tempo stesso però la comprensione di ciò che questo inserimento in Cristo comporta rende evidente che tutti i cristiani, in virtù del loro battesimo, devono essere sempre pronti a morire per Cristo e che quindi l'essere a lui associati nella donazione di sé fino alla morte è il modo più nobile di seguirlo.

Infatti « avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che da la vita per lui e per i suoi fratelli ( 1 Gv 3,16; Gv 15,13 ) » ( LG 42 ).

Ma - ed è questo di capitale importanza per una comprensione teologica della realtà sotto considerazione - il martirio « col quale il discepolo è reso simile al Maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e a lui si conforma nella effusione del sangue, è stimato dalla chiesa dono insigne e suprema prova della carità » ( LG 42 ).

Il martirio e la vocazione ad esso non sono il frutto di uno sforzo e deliberazione umana, bensì la risposta ad una iniziativa e chiamata di Dio che, invitando a tale testimonianza di amore, plasma l'essere del chiamato conferendogli la capacità di vivere tale disposizione di amore.

È infatti proprio in virtù dell'unione che Cristo graziosamente stabilisce con gli uomini, rendendoli partecipi della sua vita e quindi della sua carità, facendoli così membra del suo corpo che è la chiesa e distribuendo ai singoli secondo il beneplacito del suo volere la misura della grazia, che Cristo stesso continua a vivere - in alcune persone da lui scelte e che liberamente corrispondono al suo Spirito - vari aspetti della sua vita e della sua attività redentrice e, in specie, questa suprema prova di amore.

Precisamente per questa unione vitale fra Cristo e i martiri, membra del suo corpo, è Cristo stesso che, mediante il suo Spirito, parla ed agisce in loro: « Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi » ( Mt 10,19-20 ).

Ma è precisamente in virtù di questa stessa unione che le persecuzioni non mancheranno mai alla chiesa ( LG 42 ): «Beati voi quando vi insulteranno e perseguiteranno… siate nella gioia e rallegratevi: hanno perseguitato i profeti che vi hanno preceduto» ( Mt 5,11-12; Lc 6,22-23 ).

« Il discepolo non è al di sopra del suo maestro… al discepolo basta di divenire come il maestro » ( Mt 10,24-25; Lc 6,40 ).

« Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi » ( Gv 15,20 ).

È la vita di Cristo che continua nella sua chiesa.

Il martirio è dunque reso possibile innanzitutto dalla grazia del Signore, la cui potenza si manifesta pienamente nella debolezza ( 2 Cor 12,9 ), e ciò spiega il coraggio e la perseveranza sovrumani manifestati da tanti martiri.

Questa verità fu già compresa nei primi tempi del cristianesimo, come risulta non solo dagli Atti dei martiri, ma anche dalla prescrizione di non cercare il martirio o esporsi avventatamente, ma di lasciare ogni iniziativa a Dio che solo può dare la forza necessaria per affrontare questa prova.

Nella stessa prospettiva i padri della chiesa ci invitano a vedere nelle passioni dei martiri altrettante fasi della guerra tra Cristo e le potenze del male, e a guardare ammirati le battaglie che il Signore sostiene nelle persone dei suoi fedeli soldati.1

Il fatto che il martirio è un dono e una grazia di Dio non significa però che la personalità umana del martire e la sua più preziosa prerogativa, la libertà, vengano soppresse o diminuite dalla grazia stessa.

Al contrario, secondo i principi generali che governano la vita del corpo mistico di Cristo, le possibilità della libertà umana e dell'amore spontaneo vengono arricchite e nobilitate in modo eminente dalla grazia: è proprio nel martirio che la persona umana attua, sotto l'impulso della grazia, la sua più autentica possibilità di libertà e di amore, in quanto cioè, in un atto unico onnicomprensivo ed irrevocabile, dona a Dio tutta la sua esistenza terrena e, in un atto supremo di fede, speranza e carità, si abbandona radicalmente e totalmente nelle mani del suo creatore e redentore.

La grandezza unica di questa completa donazione di sé diventa ancora più manifesta se si considera che il martire non solo affronta liberamente la tragica e terrificante esperienza della morte che egli, con una parola o un solo gesto, potrebbe facilmente posporre e spogliare degli elementi di violenza dolorosa inerenti al martirio, ma anche e ancora di più, che egli accetta con tutto il cuore e gioiosamente questa morte come un mezzo eminente di essere associato, in modo assoluto e radicale, alla morte sacrificale di Cristo sulla croce.

S. Paolo allude a questa verità quando ci ammonisce circa il carattere preliminare del nostro impegno cristiano finché non abbiamo ancora resistito fino al sangue nella nostra lotta contro il peccato ( Eb 12,4 ), mentre nostro Signore sottolinea la grandezza dell'amore eroico dei martiri quando, riferendosi direttamente alla sua morte, afferma: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » ( Gv 15,13 ).

Proprio perché il martirio è il più grande atto di amore, esso costituisce la via più nobile alla santità.

Infatti, seguendo Cristo fino al sacrificio volontario della vita, il martire, più di ogni altra persona, viene consacrato e unito al Verbo Incarnato e trasformato nell'immagine del suo Maestro.

Alla luce di queste considerazioni, si capisce agevolmente perché la chiesa, già in un tempo in cui non si era ancora sviluppata la riflessione teologica, abbia riconosciuto l'insuperabile valore meritorio del martirio ed i suoi effetti tipici di giustificazione e santificazione.

Infatti, fin dai primi tempi dell'era cristiana, fu comunemente creduto che i catecumeni che subivano il martirio prima di essere battezzati nell'acqua, erano stati efficacemente battezzati con il proprio sangue, versato per Cristo e per il suo regno ( battesimo di sangue ).

Nello stesso senso va interpretato il fatto che persino quei teologi dei primi tempi che non avevano ancora chiaramente compreso che tutti gli uomini vengono giudicati da Dio al momento della loro morte e ricevono allora la loro retribuzione, ammettevano tuttavia che il martire veniva immediatamente liberato da qualsiasi effetto del peccato e subito ammesso alla visione beatifica della ss. Trinità.

Infine, è sempre stata comune credenza che nessuno è più vicino a Dio e partecipa in modo più intimo della gloria del Cristo risorto di quelli che sono morti per lui, con lui e in lui.

La teologia sistematica, sviluppata dai grandi scolastici e dai teologi moderni, ha approfondito la teologia del martirio ricorrendo soprattutto alla teologia delle virtù infuse, teologali e cardinali.

Essa ha, innanzitutto, messo in luce che il martirio presuppone una fede profonda in Dio, e cioè non soltanto un'accettazione intellettuale della sua esistenza e rivelazione, ma una fede viva, cioè un'adesione personale che impegna tutta l'esistenza dell'uomo.

In base ad essa il martire pone tutta la sua speranza in Dio e abbandona fiduciosamente a lui tutto ciò che gli è caro.

È evidente che questi atteggiamenti non possono sussistere se non sono ispirati e sostenuti da un intenso amore per Dio, amato per se stesso e sopra ogni cosa, e che questo amore, come ogni autentico atto di carità, non abbraccia soltanto Dio, ma si estende pure a tutto ciò che è suo e dunque implica anche l'amore per la chiesa e per tutta l'umanità.

Ma nel martirio vengono pure esercitate tutte le virtù cardinali.

La scelta drammatica che il martire deve fare tra Dio e la vita terrena è, infatti, una scelta prudente, in quanto è ispirata a un saggio apprezzamento dei valori.

Al tempo stesso attribuisce a Dio ciò che gli è dovuto, ed è quindi sommamente giusta.

È un trionfo dello spirito sulla debolezza della carne, e dunque una sublime manifestazione della virtù della temperanza.

È la manifestazione di una fortezza eroica, perché ad essa si oppongono tutte le tendenze dell'uomo a conservare la propria vita.

Nel martirio, poi, l'uomo sperimenta e accetta umilmente la sua totale impotenza e l'assoluta necessità di essere sorretto dalla grazia di Dio; obbedisce fino in fondo alla volontà di Dio e liberamente si lascia privare di tutto ciò che possedeva sulla terra, partecipando così all'estrema povertà di Cristo sulla croce.

Infine, l'amore del martire è un amore "casto".

Nella sua donazione totale a Dio, egli infatti ama il Signore nel modo più puro e intenso possibile, con cuore indiviso e come l'unica cosa necessaria.

Questa considerazione, più di ogni altra, ci introduce nel mistero di amore vissuto dal martire e, al tempo stesso, ci fa intuire la recondita bellezza del suo eroismo.

Non è per caso che già nei primi secoli della chiesa si intuì l'esistenza di un intimo legame tra l'amore tipico del martirio e quello verginale, e che l'eccellenza della verginità venne spiegata affermando che essa implica un martirio incruento.

La teologia del corpo mistico di Cristo e quella della carità teologale fanno pure comprendere le dimensioni sociali ed ecclesiali del martirio.

Se ogni atto buono compiuto da un membro del corpo mistico torna a beneficio di questo, tanto più ciò vale per il martirio, atto supremo di carità.

È infatti il martirio l'atto privilegiato nel quale Cristo rivive la sua salutare passione e la sua morte per la chiesa.

Le sofferenze del martire sono dunque, in un vero senso, le sofferenze di Cristo stesso sostenute da lui non già nella sua natura umana individua, ipostaticamente assunta dalla Persona del Verbo, ma nelle persone umane che sono state incorporate nella sua umanità e vivono della sua vita.

In questo senso il martire completa nella sua carne, più di qualunque altro fedele, « quello che manca ai patimenti di Cristo » ( Col 1,24 ) e così facendo coopera eminentemente con l'opera salvifica del nostro redentore.

Ciò non vuoi dire, ovviamente, che il martirio aggiunga alcunché ai meriti di Cristo, che sono per la loro stessa natura infiniti; ma il fatto stesso che il martire viene così intimamente conformato a Cristo, contribuisce alla maggiore santificazione di tutto il popolo di Dio e favorisce perciò l'applicazione dei meriti del redentore: « Sebbene infatti il Salvator nostro con le sue durissime pene e la sua acerba morte abbia meritato alla sua chiesa un tesoro addirittura infinito di grazie, per disposizione però della provvidenza di Dio, esse solo partitamente ci vengono distribuite: e la loro minore o maggiore dovizia non poco dipende anche dalle nostre buone opere, dalle quali una vera pioggia di celesti doni volontariamente largita da Dio, viene attirata sulle anime umane ».2

La storia della chiesa nascente e delle missioni conferma la straordinaria fertilità apostolica del martirio e dimostra la verità dell'esclamazione di Tertulliano: « Diventiamo più numerosi, tutte le volte che veniamo uccisi; il sangue dei cristiani è un seme ».3

Un'altra importante funzione ecclesiale del martirio consiste nel sua valore di segno.

Il fatto che una persona è disposta a sacrificare la sua vita per la sua fede depone fortemente in favore della serietà delle sue convinzioni.

Se poi molte migliaia di persone, serie e sobrie, di tutte le età e condizioni, affrontano liberamente e coraggiosamente la morte per la loro religione, ciò costituisce un importante segno apologetico che non solo testimonia della santità della comunità religiosa in questione, ma anche del valore intrinseco della religione stessa e della sua credibilità.

Il martirio è anche un segno escatologico, in quanto attesta in modo particolarmente convincente che i seguaci di Cristo crocifisso e gloriosamente risorto non hanno «quaggiù una città stabile», ma cercano e devono cercare quella futura ( Eb 13,14 ).

Infine, il martirio dimostra a tutti gli uomini la forza vittoriosa di Cristo che ha superato la morte, e l'eminente potenza del suo Spirito che anima e sostiene il suo corpo mistico, la chiesa, nella lotta contro le potenze delle tenebre e del male.

5. Il culto dei martiri

L'eminente santità dei martiri fu riconosciuta già dai primi cristiani.

Fu proprio la percezione, da parte dei fedeli, dell'intima unione fra Cristo e i martiri che indusse i cristiani, ancora perseguitati, a rivolgersi a questi affinché essi pregassero per loro e intercedessero presso Dio per ottenere la grazia di imitarli nella professione integra ed inconcussa della fede.

La certezza della vita eterna in Cristo che i martiri si erano acquistata con le sofferenze da loro ammirevolmente sopportate; il saperli santi e perfetti per aver essi dato la prova maggiore di amore donando per Cristo la vita; il riconoscerli amici di Cristo, e, nello stesso tempo, sempre vicini a coloro che ancora sono sulla terra; il credere perciò nel loro potere di intercessione furono proprio il fondamento e l'anima del culto ai santi quale sorse e si sviluppò in seno alla chiesa primitiva.

Sono questi principi che ci danno spiegazione delle celebrazioni alle sepolture dei martiri ( celebrazioni tenute ogni anno, non già, come presso i pagani, il giorno della nascita temporale del defunto, ma il giorno anniversario del martirio, cioè della nascita celeste del cristiano; celebrazioni che, per questo stesso motivo, hanno il carattere di feste anziché di lutti ), del sempre più esteso introdursi del loro ricordo nel sacrificio eucaristico, delle preghiere e invocazioni a loro indirizzate, in una parola, delle varie manifestazioni del culto autentico non solo privato ma anche pubblico perché riconosciuto, accettato e incorporato dalla chiesa stessa nella sua glorificazione di Cristo e di Dio.

Soltanto attraverso un processo molto lento questo culto fu esteso ai cosiddetti "confessori della fede", ossia a coloro che avevano sofferto fisicamente per Cristo, senza però subire la morte; poi a chi aveva vissuto nella verginità e, infine, ad altri che si erano distinti per l' ( v. ) eroismo delle loro virtù.

È però significativo che, nella storia della chiesa, il culto originariamente riservato ai martiri, sia stato esteso ai non martiri e, in primo luogo, alle vergini, soltanto in virtù di una esplicita argomentazione teologica, secondo la quale questa forma di vita si avvicina, senza peraltro raggiungerla, alla perfezione del martirio.

Questo infatti fu considerato e sarà sempre considerato ( LG 42 ) la forma più alta e il modello più sublime della santità cristiana.

6. Il martirio fuori della Chiesa cattolica

Nel corso della storia dell'umanità e fino ai giorni d'oggi un considerevole numero di persone che non appartenevano alla chiesa cattolica sono morte per le loro convinzioni religiose in circostanze simili a quelle in cui morirono i nostri martiri.

Ovviamente il loro sacrificio merita ogni stima e riverenza, ma si può dire che anch'essi sono dei veri martiri?

La risposta a questa domanda dipende essenzialmente da quanto già abbiamo detto e cioè che secondo la dottrina cattolica il martirio è innanzitutto un dono di Dio e che soltanto la grazia lo rende possibile.

Di conseguenza dobbiamo distinguere vari casi.

Innanzi tutto dunque consideriamo quello di una persona che è morta per difendere una credenza che è in formale contrasto con ciò che la rivelazione divina insegna: se questo è il caso non si può presumere che essa abbia agito sotto l'impulso dello Spirito santo.

Sarebbe dunque fuori luogo di parlare in tali casi di un martirio nel senso vero e proprio della parola.

Lo stesso ragionamento va pure fatto nei confronti di quei cristiani non cattolici che subirono la morte precisamente per difendere una dottrina o una prassi condannata dalla chiesa, poiché, per volere di Dio, « la chiesa cattolica è in possesso di tutta la verità rivelata da Dio » ( UR 4 ) e perché Dio non si contraddice.

Passando a considerare il caso dei cristiani separati che sigillarono con la morte la loro fede in Cristo, si impone una soluzione ben diversa.

Mentre nell'antichità, specie sotto l'influsso delle lotte contro i montanisti e in base alle concezioni ecclesiologiche di s. Cipriano e di s. Agostino il titolo di martire gli veniva generalmente denegato, una più sfumata interpretazione dell'adagio « extra ecclesiam nulla salus » ha aperto la via ad una soluzione più equilibrata e giusta.

Interessante è in questo contesto il fatto che Prospero Lambertini ( Benedetto XIV, 1675-1758 ), occupandosi della questione nel suo famoso trattato De Servorum Dei Beatificatione et Beatorum Canonizatione ( lib. III, c. 20,3 ), enunciò il problema nei seguenti termini: « se sia veramente martire, chi è invincibilmente eretico e muore per un articolo vero di fede » e poi, associandosi alla sentenza già comune nei suoi tempi, rispose che un tale cristiano poté essere un martire coram Deo, sed non coram ecclesia.

Ai nostri giorni, la dottrina secondo la quale anche tra i fratelli separati vi possono essere dei veri martiri è ufficialmente insegnata dal magistero della chiesa.

Mentre Pio XII formulò questa convinzione nei riguardi dei martiri delle chiese orientali,4 il Vat II, parlando dei fratelli separati in genere, affermò che « è necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramene cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati.

Riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo, talora sino all'effusione del sangue, è cosa giusta e salutare: perché Dio è sempre mirabile e sublime nelle sue opere » ( UR 4 ).

Oggi alcuni cattolici vorrebbero che la chiesa procedesse alla beatificazione e canonizzazione di questi martiri.

Per motivi più che evidenti ciò non è, tuttavia, possibile ed è pure ovvio che la stragrande maggioranza dei fratelli separati non gradirebbe una tale iniziativa.

II - Spiritualità odierna del martirio

Il martirio non si è introdotto nel mondo spirituale cristiano con la morte di Stefano ad opera del sinedrio, ne si è concluso con la pace costantiniana.

Anche se storicamente il "martirio" è stato prerogativa dei credenti ai quali la fedeltà al Cristo è costata la vita, il valore semantico del termine è più ampio.

Come è stato dimostrato [ sopra I,1 ], la nozione di "testimonianza", più fondamentale e originaria, include quella di martirio.

La testimonianza è connaturale alle fede cristiana, in quanto questa implica l'attestazione di quella verità non astratta ma concreta che per il cristiano si identifica con la persona e la storia di Gesù.

È connaturale anche il martirio?

Esso dà piuttosto l'impressione di essere una modalità contingente della testimonianza, destinata a scomparire là dove prevalgono la tolleranza civile, il principio della libertà di coscienza e i valori del pluralismo.

Se vogliamo basarci sull'uso linguistico, abbiamo un'indicazione favorevole all'attualità della testimonianza.

Mentre infatti la « testimonianza » gode tutte le simpatie dei cristiani del nostro tempo ( fino magari a un uso inflazionistico del termine nell'ambito delle spiritualità attivistiche ), il "martirio" è considerato piuttosto con distacco: più un fenomeno storico del passato che un fatto emblematico del presente.

Si sa che in epoca patristica, e soprattutto nei primi due secoli, il martire ha costituito il modello del cristiano perfetto.

Oggi, pur con tutto l'interesse per un cristianesimo testimoniante, non si saprebbe come costruire una spiritualità cristiana sul martirio.

A qualcuno questa emarginazione del martirio dall'orizzonte spirituale del cristiano appare sospetta.

All'indomani del Vat II la voce di un noto teologo richiamava la comunità cattolica, entusiasmata dal dialogo con il mondo, al martirio come "caso serio" della fede cristiana.

Hans Urs von Balthasar additava polemicamente in Cordula - la giovane di cui racconta la leggenda delle undicimila vergini; sfuggita dapprima alla morte, era uscita poi spontaneamente dal nascondiglio e si era offerta volontariamente al martirio - l'antitesi di molti cristiani contemporanei.

Capo d'accusa nei loro confronti è l'aver cessato di considerare il cristianesimo come "caso serio" ( questa espressione, traduzione letterale del termine tedesco Ernstfall, è inadeguata a rendere tutte le risonanze dell'originale; esso indica l'elemento essenziale di una Weltanschauung che coinvolge esistenzialmente, e quindi l'impegno assoluto con cui si risponde a una percezione nuova della realtà, o ancora il caso di emergenza in cui bisogna giocare il tutto per il tutto ).

Lo svuotamento della "serietà" del caso posto dalla croce e dalla risurrezione di Cristo provocherebbe il dimezzamento del mistero, la perdita dell'identità cristiana, la fuga in avanti utopica sul fronte del futuro del mondo; insieme alla disponibilità al martirio, i cristiani moderni perderebbero anche la legittima fierezza del nome cristiano, preferendo l'anonimato.

La liquidazione del martirio non era nelle intenzioni del concilio.

Oltre al testo della LG 42 - citato da von Balthasar in apertura del volume -, che presenta il martirio come una prospettiva sempre aperta per la chiesa di Cristo, si potrebbe richiamare la dichiarazione sulla libertà religiosa, in cui si esorta i cristiani a « diffondere la luce della vita con ogni fiducia ( At 4,29 ), fino all'effusione del sangue » ( DH 14 ).

Contro quei cristiani che identificano il compito dell'ora presente con l'adattamento al mondo, il teologo di Basilea riconosce come volontà del concilio l'« esposizione inerme della chiesa al mondo.

Demolizione dei bastioni; i baluardi spianati in viali.

E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo trionfalismo, dopo che l'antico è divenuto impraticabile.

Non pensare che, quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Uffizio, sono stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell'evoluzione tra lo sventolare delle palme ».

L'aggiornamento della chiesa non dovrebbe dunque mirare alla definitiva evacuazione del martirio dalla vita spirituale del cristiano, bensì a un martirio reso quasi più ovvio.

Il richiamo alla "serietà" della fede cristiana e al martirio che ne è il suggello può essere opportuno.

Esso non va inteso però come proposta di un cristiano come martire nel senso di un modello eroico [ v. Modelli spirituali I ].

L'epoca in cui viviamo non è più stagione di eroi, anche se alcune caratteristiche di ciò che in passato era appannaggio degli eroi continuano a essere attuali.

Se consideriamo eroico ciò che dipende da una eccezionale abilità, sviluppata mediante uno sforzo straordinario, troviamo anche nella nostra cultura figure eminenti che attraggono l'ammirazione comune.

Ma da questo angolo visuale ci precludiamo ogni possibilità di capire ciò che è tipico del santo cristiano.

La vita del santo non è un exploit di grandezza umana, bensì un exploit del Dio dell'alleanza.

Essa non è adatta a celebrare la grandezza dell'uomo, ma piuttosto ad annunciare la fedeltà di Dio.

L'uso apologetico deteriore come autocelebrazione della comunità confessionale che può essere fatto dell'eroismo dei santi - in particolare di quello dei martiri - muore sul nascere quando consideriamo che la chiesa è tanto poco padrona dei santi quanto lo è della parola di Dio.

Non può servirsene per la propria glorificazione, ne per qualsiasi forma di trionfalismo e autocompiacimento.

Non è dunque nel potere della chiesa il programmare i martiri.

Anche l'autocandidatura al "martirio" - nelle forme più blande del vituperio e dell'essere discriminati - dei gruppi integralisti è piuttosto sospetta; e, in ogni caso, non può pretendere di essere l'unica forma di vivere consequenzialmente l'impegno cristiano.

Pienamente legittima è invece l'accentuazione della fortezza come virtù che accompagna e rende possibile la fede.

Oggi come in passato. Non si tratta di riproporre con Nietzsche un superuomo che viva "pericolosamente"; ciò che importa è condurre una "buona" vita.

Orbene, da due millenni nella tradizione culturale dell'Occidente la vita dell'uomo eticamente realizzato è vista attraverso uno spettro di quattro colori, costituito dalle virtù della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.

Tutte le forze originali dell'Occidente - greci e romani, giudaismo e cristianesimo - hanno contribuito a mettere a punto questo schema della struttura etica che permette all'uomo di realizzarsi.

La teologia cristiana, accettandolo, ammetteva che il bene non si realizza da solo, ma richiede lo sforzo dell'individuo disposto a lottare e, se necessario, a sacrificarsi per esso.

Nei casi limite può essere richiesto anche di rinunciare alla vita.

Nel filone tradizionale dell'Occidente questa prospettiva ha prodotto il principio della libertà di coscienza e una considerazione reverenziale per coloro che subiscono violenza a causa della fedeltà a principi etici e religiosi.

Per la religione della libertà di coscienza sono martiri tanto Socrate che Cristo.

Entrambi hanno realizzato un ideale di bontà-verità-bellezza e con fortezza vi hanno aderito; è stato più facile staccarli dalla vita che da quel mondo di valori.

Fin dall'inizio i cristiani hanno preso coscienza che con lo stesso atto con cui aderivano al Cristo dovevano contrapporsi al "secolo", dal momento che in esso agivano "potenze" antitetiche alla salvezza che Dio offriva in Cristo.

La morte stessa di Gesù, il "martire" per eccellenza, è stata vista come il tragico esito di una lotta tra forze antagoniste.

La fortezza necessaria ai testimoni della fede non è quella esemplata sullo stampo eroico.

Lo vediamo nello stile in cui avviene la testimonianza.

La forza dei testimoni non è quella di un arco che si tende, ma piuttosto quella di un getto di fonte che prorompe irrefrenabile.

Posti in situazione di scontro frontale con le potenze antievangeliche, mostrano fiducia, sicurezza gioiosa, fierezza.

Due termini greci, in particolare, sono stati piegati a esprimere la novità cristiana: parresia e kàuchesis.

La parresia si manifesta esteriormente nel comportamento di chi, in piedi, a faccia alta, parla apertamente, con piena libertà di linguaggio, del proprio incontro con la "potenza"; interiormente essa da al testimone/martire una sicurezza indefettibile per annunciare in tutta libertà la parola di Dio.

Dall'incontro è nata infatti una leale consacrazione alla parola stessa.

Riflesso della fiducia è la kàuchesis, cioè il fatto di gloriarsi di qualcosa, dopo aver fatto di essa il fondamento delle proprie scelte esistenziali.

I cristiani hanno sempre riconosciuto in questo comportamento non tanto una grandezza etica da proporre a modello ai pochi uomini forti che potrebbero assumerlo come proprio, quanto piuttosto un vissuto mistico, vale a dire un'esperienza inferiore e personale della salvezza.

Freud ha affermato che la maggior parte dell'eroismo deriva dall'istintiva convinzione che « niente può capitare a me ».

Egli intendeva smascherare in questo tipo di comportamento un ingenuo narcisismo, proprio dell' "io" che non si è ancora confrontato col "principio della realtà".

Forse però la sua osservazione è vera anche in un senso più profondo, che il padre della psicanalisi non aveva in mente.

L'esperienza personale della salvezza amplia i confini del proprio "io"; in questo "io" più grande il credente sperimenta un senso di preservazione, di tutela, di sicura garanzia.

A differenza di quanto avviene nell'ideale eroico, il testimone della fede non fa riferimento alla propria virtù individuale, bensì alla "potenza" con la quale si sente in intima comunione.

In questa più grande realtà, con la quale il suo "io" si confonde, la morte non è più il male più grave; anzi, non è neppure interamente un male.

Paolo ci ha lasciato la celebrazione lirica più toccante di questa interiore fiducia del credente, quasi la fotografia interiore di una fede aperta al martirio ( Rm 8,35-39 ).

Il carattere particolare, mistico più che etico, della fortezza cristiana, giustifica il legame essenziale tra cristianesimo e martirio.

Allo stesso tempo ci permette di specificare in quale senso sia attuale per i cristiani del XX sec. il richiamo al martirio.

Non si tratta di rispolverare i modelli eroici passati, o di sobillare un gruppo confessionale contro i principi civili della tolleranza e del pluralismo.

È legittimo e urgente, invece, perorare una professione del cristianesimo basata sull'esperienza personale della salvezza, più che sui riferimenti culturali.

Come direbbe von Balthasar, il cristianesimo che da i martiri non è quello dei "professori", ma quello dei confessori.

Là dove si incontra e si esperimenta la salvezza il cristianesimo è il "caso serio"; altrimenti può diventare tutt'al più "un caso interessante".

Il martirio, in quanto habitus permanente di una autentica spiritualità cristiana, porta dunque il credente a interrogarsi su che cosa è fondata la propria fede.

Un ulteriore motivo dell'attualità del discorso sul martirio è il valore kerygmatico che anche oggi possiede.

Valore kerygmatico, non apologetico.

Il martirio annuncia un mondo nuovo futuro, eppure già sostanzialmente presente.

La predicazione cristiana non batte la via della conversione morale, come quella di Giovanni Battista, ne della previsione della catastrofe cosmica, come l'apocalittica giudaica.

La predicazione del regno di Dio fatta da Gesù è partita dall'annuncio delle beatitudini.

Anche il martirio è una beatitudine: « Beati siete voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni male contro di voi per causa mia.

Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli » ( Mt 5,11-12 ).

Il martirio diventa segno del regno di Dio solo nella logica delle beatitudini.

Il suo contenuto è una felicità che ha l'attesa come sua dimensione essenziale, perché partecipa della tensione tra il "già" e il "non ancora" che è propria del regno di Dio.

La felicità del cristiano è fondata su una promessa.

Coloro che sono dichiarati "beati" nelle beatitudini non lo sono in forza della loro situazione, bensì in seguito alla volontà di Dio di riservar loro il regno.

Ne la povertà, ne la fame, ne l'afflizione, ne il martirio danno la beatitudine.

Solo la condizione nuova che risulterà dal rovesciamento del disordine attuale farà dei diseredati di oggi i destinatari della ricchezza del regno, in cui Dio sazierà la fame e asciugherà le lacrime.

L'annuncio di una beatitudine legata agli stati di povertà, di tristezza, di oppressione violenta è possibile solo in un orizzonte di speranza escatologica.

In assenza di questa, il sentirsi felici in quelle situazioni sarebbe masochismo e favorirebbe l'alienazione sociale.

La beatitudine in situazione di tribolazione ha un effetto kerygmatico: annunzia e mostra che le ideologie che mantengono l'oppressione sono tigri di carta.

Gli esseri umani toccati da questo tipo di beatitudine sono di una tempra speciale.

Anche se non sono protagonisti di una rivolta diretta contro le potenze oppressive, le minacciano ben più pericolosamente dei rivoluzionari.

I martiri protestano contro una situazione in cui domina il male.

Essi sanno vedere però che non solo gli oppressi, ma anche gli oppressori sono vittime di esso.

Anticipano così un rovesciamento radicale della condizione umana.

Il vincitore di oggi sarà vinto a sua volta: non da una rivincita del martire, ma da quella "potenza" che lo sostiene e costituisce il "più grande io" a cui il martire si è abbandonato; una vittoria che non umilia il vinto, ma lo libera a sua volta.

Il martirio è annuncio della fedeltà di Dio, fatto di fronte e contro un mondo in cui l'ingiustizia trionfante è diventata endemica e istituzionalizzata.

Tenere il martirio davanti agli occhi significa per la chiesa d'oggi assumere l'atteggiamento giusto di fronte al mondo: ne quello della resa accomodante, ne quello della provocazione autocompiaciuta.

L'atteggiamento, appunto, dei martiri di tutti i tempi, i quali hanno saputo trovare nella promessa la luce sufficiente per camminare incontro al Signore che viene, sopportando la tribolazione, senza mai spegnere il canto.

Il canto dei martiri, che abbiano a subire la prova cruenta o quella incruenta, è quello intonato da Giobbe: « Sì, io lo so: il mio redentore vive, e alla fine sulla terra si ergerà, e, dopo che sarà straziata la mia pelle, nunzio di buone novelle per me, vedrò Dio.

Lo vedrò io, proprio io: lo mireranno i miei occhi non più avversario!

Mi si strugge il cuore in petto! » ( Gb 19,25-27 ).

Nella sequela del Cristo Apostolato III
Suo senso ecclesiale Chiesa I
… e amore Carità IV,6
… ed eroismo Eroismo I
Eroismo II,1
… e verginità Chiesa I
… ed escatologia Escatologia III,2

S. G. B. de La Salle

San Tommaso apostolo MF 84,3
Santo Stefano protomartire MF 87,3
I Santi innocenti MF 89
Martirio di san Giovanni Evangelista MF 124,2-3
San Germano vescovo di Parigi MF 131,3
Sant'Antonio di Padova MF 135,2
San Lorenzo MF 154,2-3
San Cassiano vescovo e martire MF 155,2-3
San Bartolomeo apostolo MF 159,2-3
San Dionigi MF 175,3

1 s. Agostino, Sermo CCCXIII, II, 2, PL 38, 1423
2 Pio XII, Mystici Corporis
3 Apologeticus. 50 - PL 1, 534
4 Enc. Sempiternus Rex, dell'8 ottobre 1951, AAS 43 [ 1951 ] 642-643;
Pio XII, Orientales Ecclesias