La Trinità

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Libro XI

6.10 - Il fine vero della volontà

Forse possiamo dire a ragione che, almeno in questo caso preciso, la visione è il fine e il riposo della volontà.

Infatti non perché vede ciò che voleva vedere, ne consegue che non voglia null'altro.

Non è dunque nel modo più assoluto la volontà umana, che non ha per fine se non la beatitudine,5 ma, in questo caso preciso, è la volontà divenuta momentaneamente volontà di vedere questa sola cosa, che ha per fine soltanto la visione, la riferisca o no a qualche altra cosa.

Se infatti la volontà non riferirà la visione ad altra cosa, ma ha soltanto voluto vedere, non sarà necessario dimostrare come sia la visione il fine della volontà: è una cosa evidente.

Se invece la riferirà ad altra cosa, allora vuole certamente un'altra cosa e così non sarà più semplice volontà di vedere o se è volontà di vedere, non è volontà di vedere questa cosa.

È ciò che accade quando uno, per esempio, vuole vedere una cicatrice per provare che c'è stata una ferita, o vuol vedere una finestra per guardare, attraverso la finestra, i passanti.

Tutti questi atti di volontà ed altri simili hanno i loro propri fini, che sono riferiti al fine di quella volontà in virtù della quale vogliamo vivere beati6 e giungere a quella vita che non si riferisca ad altra cosa, ma che basti essa stessa di per sé a colui che la ama.

La volontà di vedere ha dunque come fine la visione, e la volontà di vedere questa cosa ha come fine la visione di questa cosa.

Così la volontà di vedere una cicatrice, tende al suo fine, cioè alla visione della cicatrice, e ciò che è al di fuori non la riguarda, perché la volontà di provare che ci fu una ferita è un'altra volontà che, sebbene vincolata alla prima, ha come fine di provare l'esistenza della ferita.

E la volontà di vedere la finestra ha come fine la visione della finestra; perché è un'altra la volontà di osservare i passanti attraverso la finestra, volontà che, legata alla prima, ha come fine la visione dei passanti.

Rette sono queste volontà e tutte ben unite tra loro, se è buona la volontà alla quale tutte si riferiscono; se invece questa è cattiva, tutte sono cattive.

E perciò la connessione delle volontà rette è una specie di itinerario di ascesa alla beatitudine, itinerario che si compie, per così dire, con passi sicuri.

Al contrario, l'intricarsi delle volontà cattive e sviate è un legame che incatena chi fa il male, perché sia gettato nelle tenebre esteriori. ( Mt 8,12; Mt 22,13; Mt 25,30 )

Beati dunque coloro che con le loro opere e i loro costumi cantano il cantico delle ascensioni; ( Sal 120-134 ) e guai a coloro che trascinano i loro peccati come una lunga corda. ( Is 5,18 )

Questo riposo della volontà, che chiamiamo fine, è paragonabile, se viene riferito a sua volta ad altra cosa, al riposo del piede nel camminare, quando lo si posa per permettere all'altro piede di appoggiarsi quando si avanza camminando.

Se poi qualcosa piace al punto che la volontà vi si riposi con qualche compiacenza, non è tuttavia il fine al quale si tende, ma è rapportato ad un altro fine; appaia non come la patria per il cittadino, ma come una sosta, o una tappa per il viaggiatore.

7.11 - Le relazioni fra i tre elementi della seconda trinità

La seconda trinità, è vero, è più interiore di quella che risiede nelle cose sensibili e nei sensi, ma tuttavia da qui trae la sua origine.

Non è più il corpo esteriore che informa il senso corporeo, ma la memoria che informa lo sguardo dell'anima, una volta che si è fissata in essa l'immagine del corpo percepito esteriormente; questa immagine presente alla memoria noi chiamiamo quasi genitrice di quella che si produce nell'immaginazione del soggetto che pensa.

Essa esisteva infatti nella memoria anche prima che fosse pensata da noi, come il corpo esisteva nello spazio anche prima che fosse percepito per produrre la visione.

Ma quando si pensa, l'immagine, che la memoria conserva, si riproduce nello sguardo del soggetto pensante e tramite il ricordo si forma quell'immagine che è quasi la prole di quella che la memoria conserva.

Ma tuttavia né questa è vera genitrice, né quella è vera prole.

Perché lo sguardo dell'anima che è informato ad opera della memoria, quando ricordando pensiamo qualcosa, non procede da quella forma che ricordiamo d'aver vista; senza dubbio sarebbe impossibile ricordarci di quelle cose, se non le avessimo viste, ma lo sguardo dell'anima, che è informato ad opera del ricordo, esisteva anche prima che vedessimo il corpo di cui ci ricordiamo; a maggior ragione esisteva prima che se ne fissasse l'immagine nella memoria.

Sebbene dunque la forma che si produce nello sguardo del soggetto che ricorda provenga da quella che è immanente alla memoria, tuttavia lo sguardo non trae da essa la sua origine, ma esisteva prima di ciò.

Ne consegue così che, se quella non è vera genitrice, nemmeno questa è prole.

Ma quella, che è quasi genitrice, e questa, che è quasi prole, suggeriscono qualcosa a partire da cui si possono vedere in maniera più certa e sicura delle realtà più interiori e più vere.

7.12 È ora più difficile discernere bene se la volontà che unisce la visione alla memoria non abbia con qualcuna delle due un rapporto di paternità e di filiazione.

Ciò che rende difficile questa distinzione è la parità e l'eguaglianza di natura e di sostanza.

Infatti qui non accade come nella conoscenza di un oggetto esterno, dove è facile distinguere il senso informato e il corpo sensibile e la volontà dall'uno e dall'altro, a motivo della differenza di natura che oppone tra loro tutti questi tre elementi, come abbiamo sufficientemente spiegato prima.

Sebbene la trinità, di cui ora si tratta, sia stata introdotta dall'esterno nell'anima, tuttavia si attua nell'interno e nessuno dei suoi elementi è estraneo alla natura dell'anima stessa.

In qual maniera dunque si può dimostrare che la volontà non è quasi genitrice, neppure quasi prole, né dell'immagine corporea contenuta nella memoria, né di quella che quando ricordiamo ne è l'espressione, dato che la volontà nell'atto di pensare unisce l'una all'altra in modo tale che appaia un qualcosa di singolare ed unico, i cui elementi non si possono discernere se non con la ragione?

E bisogna rilevare anzitutto che non potrebbe esistere la volontà di ricordare, se non conservassimo nelle profondità più riposte della memoria tutta o in parte la cosa che vogliamo ricordare. Infatti quando ci siamo dimenticati in modo totale ed assoluto di una cosa, non ha origine nemmeno la volontà di ricordarla, perché di qualsiasi cosa che vogliamo ricordare, ci ricordiamo già che essa esiste o esisteva nella nostra memoria.

Per esempio, se voglio ricordare che cosa abbia mangiato ieri sera a cena, mi ricordo già che ho cenato, o se questo ricordo mi sfugge ancora, mi ricordo almeno qualche circostanza relativa all'ora di cena; non foss'altro, almeno, mi ricordo il giorno di ieri, la parte del giorno in cui si ha l'abitudine di cenare, e che cosa sia cenare.

Perché se non mi ricordassi niente di simile, non potrei voler ricordare che cosa abbia mangiato ieri a cena.

Da queste cose si può comprendere che la volontà di ricordare procede dalle immagini contenute nella memoria, alle quali vengono ad aggiungersi quelle che ne sono l'espressione nella visione che produce l'evocazione del ricordo, cioè essa procede dall'unione tra la cosa che ricordiamo e la visione che ne scaturisce nello sguardo del pensiero, quando evochiamo il ricordo.

La stessa volontà che unisce questi due elementi ne esige un terzo, che è, in qualche modo, vicino e prossimo a colui che ricorda.

Vi sono dunque tante trinità di questo genere, quanti sono gli atti di ricordare, perché è impossibile alcun ricordo se non ci sono questi tre elementi: ciò che è latente nella memoria anche prima che lo si pensi, ciò che si produce nel pensiero quando lo si guarda, e la volontà che unisce l'uno all'altro e che, terzo termine, aggiungentesi agli altri due, fa dell'insieme un tutto compiuto.

A meno che non si voglia vedere qui una sola trinità generica, così da chiamare una unità generica tutte le forme corporee latenti nella memoria, e poi un'altra unità la visione generale dell'anima che tali cose ricorda e pensa, all'unione delle quali due unità si aggiunge la volontà unificante, come terzo elemento, in modo che da questi tre termini si formi un tutto unico.

8 - Memoria ed immaginazione

Ma poiché l'occhio dell'anima non può abbracciare con un solo sguardo tutto insieme ciò che la memoria ritiene, si alternano di volta in volta, cedendo il posto e succedendosi le trinità degli atti di pensiero, e così ha origine questa trinità innumerevolmente numerosa: non infinita tuttavia, se non si supera il numero delle cose racchiuse nella memoria.

Infatti, a partire dal momento in cui ciascuno ha cominciato a sentire i corpi grazie all'uno o all'altro dei sensi corporei, anche se potesse aggiungervi tutto ciò che ha dimenticato, il numero dei ricordi sarebbe fisso e determinato, ancorché innumerevole.

Noi infatti chiamiamo innumerevoli non solo le cose infinite, ma anche le quantità finite che superano la nostra capacità di contare.

8.13 A partire da queste riflessioni si può rilevare in maniera un po' più chiara che una cosa è ciò che è tenuto occulto nella memoria, altra cosa ciò che se ne esprime nel pensiero dell'uomo che ricorda, sebbene, quando si verifica la loro unione, sembrino costituire una cosa unica ed identica, perché non possiamo ricordarci delle forme corporee, se non in base al numero, all'intensità e al modo delle nostre sensazioni; infatti è a partire dal senso corporeo che l'anima si impregna di queste forme incidendole nella memoria: tuttavia tutte quelle visioni di coloro che pensano hanno certo come punto di partenza queste cose che sono presenti nella memoria, ma si moltiplicano e si diversificano in maniera innumerevole e veramente infinita.

Io ricordo un sole solo, perché non ne ho visto che uno, come è in realtà, ma, se lo voglio, ne immagino due, o tre, o quanti ne voglio, ma il mio sguardo che ne pensa molti è informato ad opera della stessa memoria che me ne fa ricordare uno solo.

Le dimensioni del sole che ricordo, sono identiche a quelle di quel sole che ho visto.

Perché se me lo ricordo maggiore o minore di quello che ho visto, non mi ricordo più ciò che ho visto, e dunque non me ne ricordo.

Ma poiché me ne ricordo, lo ricordo con le dimensioni identiche alle dimensioni di quello che ho visto, ma posso a mio piacimento rappresentarmelo sia maggiore che minore.

Ed ancora, lo ricordo come l'ho visto, ma me lo rappresento in movimento come mi piace, immobile dove mi piace, veniente dal luogo che voglio, dirigentesi verso il luogo che voglio.

Rappresentarmelo anche quadrato è in mio potere, sebbene lo ricordi rotondo e posso rappresentarmelo con qualsiasi colore, benché non abbia mai visto un sole verde, e perciò non me lo possa ricordare così.

Ciò che vale per il sole, si può affermare per le altre cose.

Ora, poiché queste forme delle cose sono corporee e sensibili, l'anima erra quando ritiene che esse esistano esteriormente nella stessa maniera in cui essa se le rappresenta interiormente, sia quando sono scomparse all'esterno, e sono ancora conservate nella memoria, sia anche quando ce ne formiamo un'immagine diversa da quella che ricordiamo, basandoci non sulla fedeltà del ricordo ma sul gioco della rappresentazione.

8.14 Si potrebbe obiettare che molto spesso crediamo a coloro che ci narrano delle cose vere, che essi stessi hanno percepito con i loro sensi.

Poiché il semplice udire la narrazione di queste cose provoca in noi la rappresentazione, non sembra che lo sguardo dell'anima faccia ritorno sulla memoria per produrre le visioni della rappresentazione.

Non è infatti secondo i nostri ricordi che le pensiamo, ma secondo la narrazione di un altro; allora sembra che qui non si realizzi quella trinità di elementi, che esiste quando la forma latente nella memoria e la visione di colui che ricorda sono uniti da un terzo elemento: la volontà.

Infatti non ciò che era latente nella mia memoria, ma ciò che odo, penso, quando mi si narra qualcosa.

Non parlo qui delle parole che sento pronunciare, perché qualcuno non creda che io sia uscito dal mio argomento per alludere alla trinità che si realizza esteriormente nelle cose sensibili e nei sensi; no, ciò a cui penso sono le immagini corporee che colui che narra suggerisce con le sue parole, con i suoni; immagini che penso, evidentemente, non basandomi sui miei ricordi, ma su ciò che odo raccontare.

Tuttavia, nemmeno in questo caso, se si considera la cosa con maggior diligenza, si superano i limiti della memoria.

Infatti non potrei nemmeno comprendere colui che narra, se le cose di cui parla, supponendo anche che le udissi per la prima volta unite in una stessa narrazione, non rispondessero tuttavia, prese singolarmente, ad un ricordo generico.

Colui che, per esempio, mi parla nella sua narrazione di un monte spoglio di foreste o popolato di ulivi, lo narra a me che ho nella memoria le immagini dei monti, delle foreste e degli ulivi; se me le fossi dimenticate non comprenderei assolutamente che cosa dice e perciò non potrei pensare ciò che dice nella sua narrazione.

Così chiunque pensi delle cose corporee, sia che lui stesso si crei l'immagine di qualche oggetto, sia che oda o legga la narrazione di cose passate o l'annuncio di cose future,7 ricorre alla sua memoria per trovarvi la misura e la regola di tutte le forme che il suo pensiero contempla.

Infatti nessuno può assolutamente pensare né un colore, né una forma corporea che non ha mai visto, né un suono che mai ha udito, né un sapore che non ha mai gustato, né un odore che non ha mai sentito, né un contatto corporeo che non ha mai provato.

Se dunque nessuno può pensare qualcosa di corporeo senza averlo sentito, perché lo stesso ricordo di un oggetto corporeo suppone la percezione sensibile, ne consegue che, come i corpi lo sono della percezione, la memoria è la misura del pensiero.

Infatti il corpo riceve la forma dal corpo che sentiamo e dal senso la riceve la memoria; dalla memoria poi lo sguardo di colui che pensa.

8.15 - Compito della volontà

La volontà infine come applica il senso al corpo così applica la memoria al senso e lo sguardo di colui che pensa alla memoria.

Ma questa volontà che ravvicina queste cose e le congiunge, è essa stessa che anche le distingue e le separa.

Ma è con un movimento del corpo che essa separa i sensi corporei dagli oggetti sensibili per impedire la percezione di qualcosa o per interromperla, come accade quando distogliamo gli occhi da ciò che non vogliamo vedere e li chiudiamo, come le orecchie se si tratta di suoni, le narici se si tratta di odori.

Così pure chiudendo la bocca o sputando fuori qualcosa che vi teniamo, ci manteniamo lontani dai sapori.

Così anche per quanto concerne il tatto, ci distanziamo dal corpo che non vogliamo toccare; se già lo toccavamo, lo gettiamo lontano e lo respingiamo.

È dunque con un movimento del corpo che la volontà impedisce l'unione del senso corporeo con gli oggetti sensibili.

Essa lo impedisce nella misura in cui lo può, perché, quando per la nostra condizione inferiore e mortale essa in questa sua azione patisce delle difficoltà, ne consegue una sofferenza corporea, cosicché non le resta che il ricorso alla pazienza.

La volontà invece distoglie la memoria dal senso quando, fissando altrove l'attenzione, non le permette di unirsi agli oggetti presenti.

È un'esperienza facile a farsi quando, avendo il pensiero intento ad altra cosa, ci pare di non aver udito qualcuno che parla in nostra presenza.

Ma non è vero; noi infatti abbiamo udito, ma non ricordiamo, perché le parole non facevano che scivolare attraverso le orecchie, essendo rivolta altrove l'attenzione della volontà, che ordinariamente le incide nella memoria.

Sarebbe più giusto dire, quando accade qualcosa di simile: "Non ricordiamo", invece che: "Non abbiamo udito".

Infatti lo stesso accade a coloro che leggono; a me stesso accade assai di frequente di terminare la lettura di una pagina o di una lettera senza sapere che cosa abbia letto e di ricominciare da capo.

Essendo intenta altrove l'attenzione della volontà, la memoria non si è applicata al senso del corpo, come invece il senso si è applicato alle lettere.

Così quelli che camminano, avendo la volontà intenta ad altre cose, non sanno per dove siano passati; tuttavia se non avessero visto non avrebbero camminato, o avrebbero camminato a tastoni con maggiore attenzione, soprattutto se fossero avanzati in luoghi sconosciuti; ma, poiché hanno camminato senza difficoltà, hanno visto di certo.

In quanto però, mentre la loro vista era in contatto con i luoghi che attraversavano, la loro memoria non era unita al senso, non hanno potuto assolutamente ricordare ciò che hanno visto, anche soltanto un istante prima.

Si vede dunque che voler distogliere lo sguardo dell'anima da ciò che è contenuto nella memoria equivale a non pensarlo.

9.16 - L'ordine delle quattro forme della conoscenza sensibile

Dunque in questa analisi, che a partire dalla forma corporea giunge fino alla forma che si produce nello sguardo del pensiero, abbiamo scoperto quattro forme nate quasi gradualmente l'una dall'altra; la seconda dalla prima, la terza dalla seconda, la quarta dalla terza.

Dalla forma del corpo percepito, nasce quella che si produce nel senso di colui che vede; da essa quella che si produce nella memoria; da quest'ultima quella che si produce nello sguardo del pensiero.

Perciò la volontà, a tre riprese, unisce dei termini che sono in qualche modo nel rapporto di generante e generato; in un primo momento la forma del corpo con quella che questa genera nel senso corporeo; in un secondo momento questa seconda con quella da essa prodotta nella memoria; in un terzo momento infine questa con quella da questa generata nello sguardo di colui che pensa l'oggetto.

Ma l'unione intermedia - la seconda -, sebbene più prossima, non è altrettanto simile alla prima come lo è alla terza.

Vi sono infatti due visioni: l'una di chi sente, l'altra di chi pensa.

Ora perché possa esistere la visione del pensiero, nasce nella memoria, prodotta dalla visione del senso, una certa similitudine, verso cui si volge, nel pensare, lo sguardo dell'anima, come nel vedere si volge verso il corpo lo sguardo degli occhi.

Ecco perché ho voluto menzionare due trinità in questo genere di realtà; una, quando la visione di colui che pensa è informata dal corpo; un'altra, quando la visione di colui che pensa è informata dalla memoria.

Non ho voluto menzionare la trinità intermedia, perché ordinariamente non si dice che c'è visione, quando si affida alla memoria la forma che si produce nel senso di colui che vede.

In tutti questi momenti tuttavia la volontà non appare che come elemento di unione di due elementi che sono, in qualche modo, in rapporto di generante e generato, e perciò da qualunque fonte proceda non si può chiamare né generante né generata.

10.17 - L'immaginazione

Ma se non ci ricordiamo che di ciò che abbiamo percepito, né pensiamo se non ciò che ricordiamo, perché molto spesso pensiamo cose false, mentre non sono falsi i nostri ricordi di ciò che abbiamo percepito?

Il motivo va ricercato nel fatto che la volontà, che ha la funzione di unire e separare le realtà di questo genere, come mi sono sforzato di dimostrare per quanto ho potuto, conduce a suo piacimento lo sguardo di chi pensa, per informarlo attraverso i ricordi latenti della memoria e, al fine di fargli pensare delle cose che non sono nella memoria a partire da quelle che vi si trovano, lo spinge a prendere un elemento di qui, un altro di là.

Questi elementi riuniti in una sola visione costituiscono un tutto che si giudica falso, perché o non esiste al di fuori, nella natura delle cose corporee, o non è espressione del ricordo latente nella memoria, dato che non ci ricordiamo di aver percepito qualcosa di simile.

Chi infatti ha mai visto un cigno nero? Dunque non c'è nessuno che ricorda un cigno nero, ma chi non può pensarlo?

È facile infatti rivestire quella figura, che conosciamo per averla vista, di colore nero, che noi abbiamo ugualmente visto in altri corpi; e, poiché abbiamo visto l'uno e l'altro, dell'uno e dell'altro abbiamo il ricordo.

Non ho il ricordo di un uccello quadrupede, perché non l'ho mai visto, ma mi è molto facile farmene una rappresentazione immaginaria, quando alla forma di un volatile, quale l'ho vista, aggiungo altri due piedi, quali ne ho ugualmente visti.8

Perciò, quando pensiamo unite delle caratteristiche che ricordiamo di aver percepito separate, ci sembra di non pensare qualcosa che corrisponda al ricordo della nostra memoria; e tuttavia, facendo questo, agiamo sotto la guida della memoria, dalla quale attingiamo tutti gli elementi che, ad arbitrio, congiungiamo in maniera molteplice e varia.

Così non pensiamo nemmeno dei corpi con dimensioni che non abbiamo mai visto, senza l'aiuto della memoria.

Infatti quanto grande è lo spazio che può abbracciare lo sguardo, sviluppandosi nella grandezza dell'universo, altrettanto estendiamo le dimensioni dei corpi, quando li pensiamo più grandi possibile.

La ragione va oltre, ma l'immaginazione non la segue, come quando la ragione proclama l'infinità del numero che nessuna visione di chi pensa le cose corporee può attingere.

La stessa ragione ci insegna che sono divisibili all'infinito anche i corpuscoli più piccoli; tuttavia quando giungiamo a quei corpi così sottili e minuti di cui ci ricordiamo per averli visti, non possiamo immaginare particelle più piccole e più esigue, sebbene la ragione prosegua la sua opera di divisione.

Così gli oggetti corporei che pensiamo, non possono essere che quelli di cui ci ricordiamo o quelli formati a partire da questi di cui ci ricordiamo.

11.18 - Numero, peso e misura

Ma poiché possono essere pensati numerose volte dei ricordi che sono impressi una sola volta nella memoria, sembra che la misura appartenga alla memoria, il numero invece alla visione.

Perché, sebbene la moltitudine di tali visioni sia innumerevole, ciascuna di esse tuttavia trova nella memoria un limite insuperabile che la misura.

La misura appare dunque nella memoria, nelle visioni il numero; così c'è nei corpi visibili una certa misura su cui si regola, un gran numero di volte, il senso di coloro che li vedono, e un solo oggetto informa lo sguardo di molti che lo guardano, cosicché anche un solo uomo, perché ha due occhi, può vedere molto spesso una duplice immagine di uno stesso oggetto, come sopra abbiamo mostrato.

In questi oggetti dunque che danno origine alla visione, vi è una specie di misura, invece nelle visioni stesse il numero.

A sua volta la volontà che congiunge, ordina questi elementi e li unisce in una certa unità, e che, riposandovisi, non fissa il desiderio di percepire e di pensare se non sugli oggetti da cui prendono forma le visioni, è simile al peso.

Perciò anche in tutti gli altri esseri si incontrano questi tre attributi: misura, numero e peso. ( Sap 11,21 )

Per il momento ho dimostrato, come ho potuto, e con gli argomenti che ho potuto trovare, che la volontà che unisce l'oggetto visibile e la visione in una specie di rapporto di generante e generato, sia nella sensazione, sia nel pensiero, non si può chiamare né genitrice né prole.

È dunque tempo di cercare questa stessa trinità nell'uomo interiore, e a partire da questo uomo animale e carnale che è chiamato esteriore, e del quale ho parlato così a lungo, tendere verso le realtà interiori. ( 2 Cor 4,16 )

Dove speriamo di trovare l'immagine di Dio ( Gen 1,27; Gen 9,6; Sap 2,23; Sir 17,1 ) riflesso della sua Trinità, se Dio stesso aiuta i nostri sforzi, Lui che, come le cose stesse mostrano, e la stessa Scrittura santa attesta, ha ordinato ogni cosa con misura, numero e peso. ( Sap 11,21 )

Indice

5 Agostino, De b. vita 2, 10: NBA, III/1;
C. Acad. 1, 2, 5: NBA, III/1;
De lib. arb. 2,9,27ss;
De mor. Eccl. cath. 1, 3, 4: NBA, XIII/1;
Confess. 10,20,29-21,31I;
De civ. Dei 10,1;
Retract. 1,14;
C. Iul. op. imp. 6, 26: NBA, XVIII;
Ep. 104, 4, 12: NBA, XXI/2;
Cicerone, Tuscul. 5, 10, 28
6 Seneca, Vit. beat. 1, 1
7 Girolamo, In Hiez. 9, 30, 20-26
8 Agostino, Retract. 2,15,2