La città di Dio

Indice

La religione della salvezza

Concetti attinenti alla vera religione

1.1 - Gli angeli e il culto religioso

È opinione generale di coloro i quali possono a qualsiasi livello usare la ragione che tutti gli uomini vogliono essere felici.1

Al contrario, nell'atto che l'insufficienza umana si pone il problema del soggetto che è felice e dell'oggetto da cui lo diviene, sono sorte molte e grandi controversie.

In esse i filosofi hanno profuso studio e tempo.

Ma è lungo e non necessario citarle ed esaminarle.

Se il lettore richiama il criterio che nel libro ottavo abbiamo esposto nello scegliere i filosofi con cui trattare il problema della felicità che sopraggiungerà dopo la morte, se cioè possiamo raggiungerla col servizio religioso e rituale a un solo vero Dio, che è anche creatore degli dèi, o a più dèi, non si aspetti che tali concetti siano ripetuti, tanto più che se li ha dimenticati, può aiutare la memoria rileggendoli.2

Abbiamo infatti scelto i platonici, i più illustri meritatamente di tutti i filosofi, appunto perché sono riusciti a stabilire filosoficamente che l'anima dell'uomo, sebbene immortale e ragionevole o intelligente, può essere felice soltanto nella partecipazione del lume di quel Dio da cui sono stati creati essa e il mondo.

Affermano quindi che non si conseguirà il bene che tutti desiderano, cioè la felicità, se non ci si unisce in purezza di casto amore all'unico sommo bene che è il Dio immutevole.3

Tuttavia anche essi, sia per adattarsi alla ubbia ed errore popolare, sia perché, come dice l'Apostolo, sragionarono nei propri pensieri, ( Rm 1,21 ) credettero o lasciarono credere che si devono adorare molti dèi.

Alcuni di loro anzi ritennero che i divini onori dei misteri e dei sacrifici si devono tributare anche ai demoni.

A costoro abbiamo risposto abbastanza esaurientemente.

Ora nella trattazione si deve esaminare, per quanto Dio lo concede, in qual senso si deve ritenere che gli esseri immortali e felici stabiliti nella sede, nel dominio, nel primato e nel potere del cielo, ( Col 1,16 ) che i platonici chiamano dèi e di essi alcuni demoni buoni o anche, con noi cristiani, angeli,4 vogliono che da noi siano praticate la religione e la pietà.

Per dirlo più apertamente, si cerca se piace a loro che compiamo misteri e sacrifici, che consacriamo con riti religiosi alcune cose nostre o noi stessi anche a loro o soltanto al loro Dio che è anche il nostro.

1.2 - Latria e culto

Questo è infatti il culto dovuto alla divinità, o, per esprimersi più propriamente, alla deità.

Per indicarlo con una sola parola, poiché non me ne sovviene una latina abbastanza appropriata, manifesto il mio pensiero, dove è necessario, con una parola greca.

I nostri scrittori, in qualsiasi passo della Scrittura si trovi, tradussero λατρεία con "servizio". ( Es 12,25; Dt 6,13; Mt 4,10; Lc 4,8; Rm 1,25; Eb 9,12 )

Ma il servizio che è dovuto agli uomini, in virtù del quale, come ordina l'Apostolo, i servi devono essere soggetti ai propri padroni, ( Ef 6,5; Tt 2,9; Col 3,22 ) di solito si designa con un altro vocabolo greco;5 al contrario, per λατρεία secondo l'uso con cui hanno parlato coloro che ci hanno trasmesso la parola divina, s'intende o sempre o così frequentemente che è quasi sempre quel servizio che appartiene al culto di Dio.6

Pertanto, se si vuol indicare soltanto il culto per sé, è chiaro che non è dovuto soltanto a Dio.

Si dice anche che si onorano ( colere ) gli uomini che vengono esaltati in un ricordo o in una manifestazione celebrativa.

E non solo per quegli oggetti, ai quali ci assoggettiamo con religiosa umiltà, ma anche per oggetti a noi sottoposti, si adopera la parola colere.

Da questa parola sono denominati gli agricoltori, i coloni e gli abitanti ( incolae ).

I pagani chiamano gli dèi stessi celicoli per il solo motivo che onorano il cielo, non certo adorandolo ma abitandovi, quasi come coloni del cielo.7

E questo non nel senso dei coloni che debbono la propria condizione al suolo in cui sono nati per l'esercizio dell'agricoltura sotto il dominio dei proprietari, ma nel senso indicato da un grande autore della lingua latina: Vi fu un'antica città fondata dai coloni di Tiro.8

Li ha chiamati "coloni" da incolere ( abitare ) e non da agricoltura.

Per questo le città fondate da città più grandi, come da uno sciamare dei cittadini, si chiamano colonie.

È quindi proprio vero che il culto nel significato originario della parola è dovuto soltanto a Dio, ma poiché culto significa anche altri oggetti, non si può in latino con una sola parola indicare il culto dovuto a Dio.

1.3 - Religione e pietà

Anche la religione per sé sembrerebbe indicare non un culto qualsiasi ma quello dovuto a Dio e per questo i nostri hanno tradotto con questo vocabolo la parola greca θρησκεία. ( Col 2,18; Gc 1,27 )

Tuttavia nell'uso linguistico latino, non degli analfabeti ma dei grandi letterati, si dice che la religione è dovuta ai vincoli umani di parentela, di affinità e di qualunque altro legame sociale.9

Dunque quando si tratta il problema del culto della deità, anche con la parola religione non si evita l'ambiguità in modo da poter dire con sicurezza che la religione è soltanto il culto a Dio, perché sembra che questa parola per eccezione si estenda ad indicare il rispetto dell'umana consanguineità.10

Anche la pietà, che i Greci chiamano εύσέβεια, propriamente significa di solito il culto a Dio.11

Tuttavia si trova scritto che per deferenza si ha anche verso i genitori.

Nel gergo popolare questa parola si usa anche per indicare le opere di misericordia. ( Sir 44,10; 2 Pt 3,11 )

Penso che il fatto si sia verificato perché Dio ordina che si compiano soprattutto queste opere e dichiara che gli sono gradite in luogo o a preferenza dei sacrifici.

Da questo modo di parlare è derivato che anche Dio è considerato pio. ( 2 Cr 30,9; Sir 2,13; Gdt 7,20 )

I Greci invece non lo considerano pio ( εύσεβεϊν ) a causa di un loro particolare modo di esprimersi, sebbene il loro volgo usi εύσέβειαν in luogo di misericordia. ( Os 6,6; Mt 9,13; Mt 12,7; 1 Tm 2,10 )

Perciò in alcuni passi della Scrittura, ( 1 Tm 6,6; 2 Pt 3,11 ) affinché la distinzione appaia più chiara, gli scrittori hanno preferito dire non εύσέβειαν che deriva per composizione dal culto buono θεοσέβειαν ma che deriva dal culto a Dio.12

Noi latini non possiamo esprimere ambedue i significati con una sola parola.

Dunque la parola greca λατρεία in latino si traduce "servizio", ma quello con cui onoriamo Dio; anche la parola greca in latino θρησκεία significa "religione", ma quella che abbiamo verso Dio.

Però noi non possiamo esprimere con una sola parola quella che essi chiamano θεοσέβειαν, ma possiamo chiamarla il culto di Dio.13

Affermiamo che essa è dovuta soltanto al Dio che è il vero Dio e rende dèi i suoi adoratori. ( Sal 82,6; Gv 10,34-35 )

Tutti gli esseri dunque che sono immortali e felici nelle dimore del cielo, se non ci amano e non vogliono che noi siamo felici, non si devono certamente adorare.

Se invece ci amano e ci vogliono felici, lo vogliono da quell'essere da cui anche essi sono felici.

Forse che da un essere sono felici essi e da un altro noi?

2 - Partecipazione in Plotino e all'inizio del quarto Vangelo

Ma per quanto riguarda questo problema, noi cristiani non abbiamo alcun dissenso con questi filosofi più eccellenti.

Compresero infatti e nei loro scritti insegnarono esaurientemente in molti modi che essi sono felici da quello stesso principio da cui lo siamo anche noi, nell'essere raggiunti da un lume intelligibile che per loro è Dio e che è altro da loro.

Da lui sono illuminati affinché risplendano e permangano perfetti e felici della partecipazione di lui.14

Plotino, spiegando il pensiero di Platone, spesso e diffusamente dichiara che anche quella che ritengono l'anima dell'universo è felice, come la nostra, da un medesimo principio e che esso è un lume altro da lei perché da esso è stata creata e di esso splende intelligibilmente perché intelligibilmente la illumina.15

Per chiarire queste realtà immateriali presenta anche un'analogia dai corpi luminosi e grandi del cielo visibile, come se egli sia il sole e lei la luna.16

Ritengono infatti che la luna sia illuminata dall'interporsi del sole.17

Il grande platonico parla dell'anima razionale, che più propriamente si dovrebbe chiamare intellettuale e stabilisce filosoficamente che anche le anime degli esseri immortali e felici sono del medesimo genere e non dubita che dimorino nelle sedi del cielo.

Egli dichiara appunto che l'anima non ha superiore a sé se non l'essenza di Dio, che ha creato il mondo e da cui anch'essa è stata creata, e che a quegli spiriti posti in alto soltanto dal medesimo principio, che elargisce anche a noi, vengono assicurati la felicità e il lume dell'intelligenza della verità.18

E in questo si accorda col Vangelo in cui si legge: Vi fu un uomo mandato da Dio che aveva nome Giovanni; questi venne in testimonianza, per offrire testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui.

Egli non era la luce ma era per rendere testimonianza alla luce.

Questi era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. ( Gv 1,6-10 )

Nella distinzione si mostra assai chiaramente che l'anima razionale, cioè intellettuale, quale era in Giovanni, non poteva essere luce a sé ma splendeva della partecipazione di un'altra luce vera.

Giovanni stesso lo conferma quando rendendogli testimonianza afferma: Noi tutti abbiamo ricevuto della sua pienezza. ( Gv 1,16 )

3.1 - Platonici fra politeismo e monoteismo

Stando così le cose, se i platonici e tutti gli altri che la pensassero così, dopo aver conosciuto Dio, lo onorassero come Dio, lo ringraziassero, non sragionassero nei propri pensieri, ( Rm 1,21 ) non divenissero da una parte fautori dei pregiudizi popolari e dall'altra non osassero opporvisi, affermerebbero certamente che tanto dagli spiriti immortali e felici come da noi mortali e infelici, per poter essere immortali e felici, si deve adorare l'unico Dio degli dèi che è il nostro e il loro.

3.2 - Vera religione e salvezza

A lui dobbiamo il servizio, che in greco si dice λατρεία, tanto nelle varie pratiche rituali come nelle nostre coscienze.

Tutti insieme e ciascuno di noi siamo suoi templi, ( 1 Cor 3,16-17 ) perché si degna di essere presente nell'unione comunitaria di tutti e in ciascuno, non più grande in tutti che in ciascuno, perché non si accresce nell'estensione e non diminuisce per divisibilità.

Quando il nostro cuore è presso di lui diviene il suo altare; lo plachiamo mediante il sacerdozio del suo Unigenito; gli offriamo vittime cruenti se combattiamo fino al sangue per la sua verità; bruciamo per lui un incenso dal profumo delicato19 quando bruciamo di pio e santo amore alla sua presenza; promettiamo e rendiamo a lui i suoi doni in noi e noi stessi; gli dedichiamo e consacriamo il ricordo dei suoi benefici nelle celebrazioni festive e nei giorni stabiliti, affinché col trascorrere del tempo non sopravvenga l'ingrato oblio; a lui sacrifichiamo nell'altare del cuore l'offerta dell'umiliazione e della lode fervente del fuoco della carità. ( Sal 116,17 )

Per averne visione, come potrà aversene, e per unirci a lui, ci purifichiamo da ogni contaminazione dei peccati e delle passioni disoneste e ci consideriamo cose divine nel suo nome.

Egli è infatti principio della nostra felicità, egli fine di ogni desiderio.

Scegliendolo, anzi scegliendolo di nuovo, perché l'avevamo perduto scartandolo dalla nostra scelta; scegliendolo di nuovo ( religere ) dunque, poiché proprio da questo si fa derivare religione,20 tendiamo a lui con una scelta di amore per cessare dall'affanno all'arrivo, felici appunto perché in possesso della pienezza in quel fine.

Il nostro bene infatti, sul cui fine fra i filosofi esiste una grande controversia, non è altro che vivere in unione con lui, perché l'anima intellettuale si riempie e si feconda delle vere virtù soltanto nell'abbraccio incorporeo, se si può dire, di lui.

Ci viene comandato di amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la virtù.

Dobbiamo inoltre esser condotti a questo bene da coloro che ci amano e condurvi coloro che amiamo.

Così sono adempiuti i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso. ( Dt 6,5; Lv 19,18; Mt 22,37; 1 Gv 4,20-21 )

Perché infatti l'uomo sapesse amare se stesso, gli fu stabilito un fine al quale dirigere tutte le sue azioni per essere felice; chi si ama infatti non vuole altro che essere felice.

E questo fine è unirsi a Dio. ( Sal 73,28 )

Dunque a chi sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, gli si comanda soltanto che, per quanto gli è possibile, lo sproni ad amare Dio.

Questo è il culto di Dio, questa la vera religione, questa la retta pietà, questo il servizio dovuto soltanto a Dio.

Quindi qualunque spirito immortale, di qualsiasi valore sia insignito, se ci ama come ama se stesso, vuole che noi, per esser felici, siamo soggetti a colui al quale anche egli è soggetto.

Se dunque non adora Dio è infelice perché è privo di Dio; se poi adora Dio, non vuole essere adorato in luogo di Dio.

Piuttosto accetta e favorisce con la forza dell'amore la parola di Dio che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto. ( Es 22,20 )

4 - Culto divino e culto umano

Per tacere ora di altre cose che sono pertinenti all'ossequio religioso con cui si adora Dio, non v'è alcuno il quale osi dire che il sacrificio non è dovuto soltanto a Dio.

Molti atti poi sono stati usurpati dal culto per essere deferiti a onori umani o per eccessiva umiltà o per detestabile adulazione.

Tuttavia coloro ai quali vengono deferiti sono considerati uomini, ritenuti degni di onore e di venerazione e, se si riconosce loro molto, anche di adorazione.

Ma chi ha potuto ritenere di dover sacrificare se non a colui che ha riconosciuto o pensato o immaginato come dio?

Quanto infine sia antico il culto di Dio mediante il sacrificio lo indicano sufficientemente i due fratelli Caino ed Abele, perché Dio riprovò il sacrificio del maggiore di essi e accolse quello del minore.21

5 - Religione e sacrificio

Chi è poi tanto sciocco da ritenere che le cose offerte nei sacrifici siano indispensabili ad alcuni bisogni di Dio?

La Scrittura lo dichiara in molti passi.

Per non farla lunga, basterà citare da un salmo il versicolo: Ho detto al Signore: tu sei il mio Dio perché non hai bisogno dei miei beni. ( Sal 16,2 )

Si deve dunque ammettere che Dio non solo non ha bisogno di un animale o di altra cosa corruttibile e terrena ma neanche dell'onestà dell'uomo.

Tutto ciò che riguarda il culto di Dio giova all'uomo e non a Dio.

Non si potrà certamente dire di aver provveduto alla sorgente se si beve o alla luce se si vede.

Dagli antichi Patriarchi furono offerti altri sacrifici immolando come vittime gli animali. ( Gen 8,20; Gen 12,7; Gen 14,18-20; Gen 22,13-14; Gen 26,24; Gen 33,19-20 )

Ora il popolo di Dio li conosce leggendo nella Scrittura ma non li offre più.

In proposito si deve intendere soltanto che con quei riti furono significati gli atti che si compiono nella nostra coscienza affinché ci uniamo a Dio e per lo stesso fine veniamo in aiuto al prossimo.

Dunque il sacrificio visibile è sacramento, cioè segno sacro di un sacrificio invisibile.

Per questo il penitente nel profeta o lo stesso profeta, che vuole avere Dio clemente ai propri peccati, dice: Se tu avessi voluto un sacrificio, te lo avrei offerto ma tu non prendi diletto degli olocausti.

È sacrificio a Dio un cuore contrito; Dio non sprezzerà un cuore contrito e umiliato. ( Sal 51,18-19 )

Osserviamo come in un medesimo passo dice che Dio non vuole e vuole il sacrificio.

Non vuole dunque il sacrificio dell'animale ucciso e vuole il sacrificio del cuore contrito.

Ha detto dunque che Dio non vuole il primo ma con esso viene indicato quello che, come ha soggiunto, egli vuole.

Dio ha detto di non volere quei sacrifici nel senso con cui si ritiene dagli insipienti che egli li voglia quasi in vista di una sua soddisfazione.

Ci sono dei sacrifici che egli vuole, fra cui uno è il cuore contrito e umiliato dal dolore del pentimento.

Se egli però non volesse che fossero significati dagli altri che, come si è pensato, avrebbe desiderato come apportatori di piacere per sé, certamente nell'antica Legge non avrebbe prescritto di offrirli. ( Es 20,22-26; Dt 12,4-28 )

Dovevano perciò essere cambiati al momento opportuno affinché non si ritenesse che fossero oggetto di desiderio da parte di Dio e di propiziazione per noi anziché le realtà che essi significavano.

Perciò dice in un passo di un altro salmo: Se avessi fame, non lo direi a te, perché mia è la terra e quanto contiene.

Forse che dovrò mangiare le carni dei tori e bere il sangue dei capri?. ( Sal 50,12-13 )

Sembra che voglia dire: "Se ne avessi bisogno, non chiederei a te le cose che ho in potere".

Poi, spiegando il significato delle parole, soggiunge: Offri a Dio il sacrificio della lode e rendi all'Altissimo le tue offerte e invocami nel giorno della sofferenza, io te ne libererò e tu mi darai gloria. ( Sal 50,14-15 )

In un altro profeta si dice: Mediante che cosa raggiungerò il Signore e afferrerò il mio Dio altissimo?

Lo raggiungerò forse mediante gli olocausti e gli agnelli di un anno?

Forseché il Signore gradirà mille arieti o diecimila capri grassi?

Forse dovrò dare per la mia empietà i primogeniti dei miei animali e per il mio peccato il figlio delle mie viscere?

Ma, o uomo, ti è stato annunziato che cos'è il bene, ovvero che cosa il Signore richiederà da te?

Soltanto operare la giustizia, praticare il bene ed essere pronto a camminare col Signore tuo Dio. ( Mi 6,6-8 )

Nelle parole di questo profeta è distinto e chiaramente determinato l'uno e l'altro, e cioè che Dio non richiede i sacrifici visibili e che con essi sono indicati i sacrifici interiori che Dio richiede.

Nella lettera intestata agli Ebrei l'autore dice: Non dimenticare di fare il bene e di comunicarlo con gli altri; con questi sacrifici si è graditi a Dio. ( Eb 13,16 )

Quindi nella frase della Scrittura: Preferisco opere di bene al sacrificio ( Os 6,6; Mt 9,13; Mt 12,7 ) si deve intendere soltanto che un sacrificio è preferito all'altro, perché quello che comunemente è considerato sacrificio è segno del vero sacrificio.

Pertanto, fare il bene è dunque il vero sacrificio.

Per questo è stata scritta la frase che ho citato poco fa: Con tali sacrifici si è graditi a Dio.

Tutte le prescrizioni dunque che in merito al ministero del tabernacolo e del tempio, come si legge nella Scrittura, sono state in varie maniere ordinate da Dio riguardo ai sacrifici, si riferiscono ad indicare l'amore di Dio e del prossimo.

A questi due comandamenti infatti, come è stato scritto, si riducono tutta la Legge e i Profeti. ( Mt 22,40; Mt 7,12; Rm 13,10; Gal 5,14 )

6 - Sacrificio e spirito comunitario

Dunque vero sacrificio è ogni opera con cui ci si impegna ad unirci in santa comunione a Dio, in modo che sia riferita al bene ultimo per cui possiamo essere veramente felici.

Quindi anche il bene con cui si soccorre l'uomo, se non si compie in relazione a Dio, non è sacrificio.

Infatti, sebbene il sacrificio sia compiuto e offerto dall'uomo, è cosa divina; tanto è vero che anche i vecchi Latini l'hanno chiamato così.22

Pertanto l'uomo stesso consacrato nel nome di Dio e a lui promesso, in quanto muore al mondo per vivere di Dio, è un sacrificio.

Anche questo appartiene al bene che l'uomo compie in favore di se stesso.

Perciò è stato scritto: Abbi pietà della tua anima col renderti gradito a Dio. ( Sir 30,24 )

Quando castighiamo anche il nostro corpo con la temperanza, se lo facciamo, come è dovere, in relazione a Dio per non offrire le nostre membra come armi d'iniquità al peccato, ma come armi di giustizia a Dio, ( Rm 6,13 ) anche questo è un sacrificio.

Ad esso esortandoci l'Apostolo dice: Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi come offerta viva, santa, gradita a Dio, come vostro ossequio ragionevole. ( Rm 12,1 )

Allora il corpo che per la sua debolezza l'anima usa come un servo o uno strumento, quando il suo impiego morale e onesto si riferisce a Dio, è un sacrificio.

A più forte ragione dunque diviene un sacrificio l'anima stessa quando si pone in relazione con Dio affinché, accesa dal fuoco del suo amore, perda la forma della terrena passione e sottomessa si riformi a lui come a forma che non muta, resa quindi a lui gradita perché ha ricevuto della sua bellezza.

L'Apostolo citato esprime questo pensiero soggiungendo: Non conformatevi a questo mondo che passa, ma riformatevi in un rinnovamento della coscienza, per rendervi consapevoli qual è il volere di Dio, l'azione buona, gradita, perfetta. ( Rm 12,2 )

Ora i veri sacrifici sono le opere di misericordia verso noi stessi e verso il prossimo che sono riferite a Dio.

Le opere di misericordia inoltre si compiono per liberarsi dalla infelicità e così divenire felici; e questo si ottiene solamente con quel bene di cui è stato detto: Il mio bene è unirmi a Dio. ( Sal 73,28 )

Ne consegue dunque che tutta la città redenta, cioè l'assemblea comunitaria dei santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale per la mediazione del sacerdote grande che nella passione offrì anche se stesso per noi nella forma di servo perché fossimo il corpo di un capo così grande. ( Fil 2,7; Col 2,19; Ef 4,16 )

Ha immolato la forma di servo, in essa è stato immolato, perché in essa è mediatore, sacerdote e sacrificio.

L'Apostolo dunque ci ha esortato a presentare il nostro corpo come offerta viva, santa e gradita a Dio, come nostro ossequio ragionevole, a non conformarci al mondo che passa ma a riformarci nel rinnovamento della coscienza, per renderci consapevoli qual è la volontà di Dio, l'azione buona, gradita e perfetta.

E questo sacrificio siamo noi stessi.

Poi soggiunge: Dico nella grazia di Dio, che mi è stata data, a tutti quelli che sono nella vostra comunità di non esaltarvi più di quanto è necessario, ma di valutare con moderazione, nel modo con cui Dio ha distribuito a ciascuno la regola della fede.

Come infatti nel corpo abbiamo molte membra che non hanno tutte la medesima funzione, così molti siamo in Cristo un solo corpo e ciascuno è membro dell'altro perché abbiamo carismi diversi secondo la grazia che ci è stata data. ( Rm 12,3-5 )

Questo è il sacrificio dei cristiani: Molti e un solo corpo in Cristo.

La Chiesa celebra questo mistero col sacramento dell'altare, noto ai fedeli, perché in esso le si rivela che nella cosa che offre essa stessa è offerta.

7 - Gli angeli nel disegno della salvezza

Dunque gli spiriti immortali e felici, stabiliti nelle sedi del cielo, che godono della partecipazione del loro Creatore, perché sono stabili della sua eternità, certi della sua verità, santi nel suo servizio, usano misericordia nell'amare noi mortali e infelici, affinché diveniamo immortali e felici.

Giustamente quindi non vogliono che noi sacrifichiamo a loro ma a colui del quale sanno di essere sacrificio assieme a noi.

Assieme a loro infatti siamo un'unica città di Dio.

Ad essa si dice in un salmo: Di te si narrano imprese molto gloriose, o città di Dio. ( Sal 87,3 )

Una sua parte è esule in noi, l'altra ci viene in soccorso con loro.

Dalla celeste città, in cui la volontà di Dio è legge intelligibile e immutabile, da essa che in certo senso è la curia celeste, perché in essa si ha cura di noi, proviene a noi, somministrata mediante gli angeli santi, la Scrittura che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto. ( Es 22,20 )

Grandi prodigi hanno comprovato questo passo della Scrittura, questa legge, simili comandamenti.

È manifesto dunque a chi vogliono che noi sacrifichiamo gli spiriti eternamente felici i quali desiderano per noi il medesimo bene che per se stessi.

8 - Prodigi nell'Antico Testamento

Infatti se richiamo i fatti più antichi, potrà sembrare che torno indietro più di quanto si richiede per ricordare i miracoli avvenuti a comprovare le promesse di Dio con cui migliaia di anni prima predisse ad Abramo che nel suo seme tutti i popoli avrebbero ricevuto benedizione. ( Gen 18,18 )

Ognuno infatti si meraviglia che la moglie sterile generò ad Abramo un figlio in quel periodo della vecchiaia in cui neanche una donna feconda potrebbe più generare. ( Gen 21,1-2 )

Inoltre in un sacrificio che Abramo offrì, una fiamma venuta dal cielo passò fra le vittime divise a metà.23

Al medesimo Abramo fu predetto, per mezzo di angeli in forma umana che aveva ospitato, il prodigioso incendio di Sodoma e da essi ebbe la conferma della promessa fatta da Dio sul figlio che doveva nascere. ( Gen 18,14-21 )

Inoltre, essendo imminente l'incendio, c'è la prodigiosa liberazione di Loth, figlio di un fratello di Abramo, per mezzo dei medesimi angeli, mentre sua moglie, voltatasi indietro e divenuta immediatamente di sale, ( Gen 19,15-26 ) stava ad ammonire, con un grande prodigio, che nella via della propria liberazione non si deve avere nostalgia del passato.

Molti e grandi sono i prodigi, strepitosamente compiuti mediante Mosè in Egitto, per liberare il popolo di Dio dalla schiavitù.

Fu consentito ai maghi del faraone, cioè del re di Egitto, che opprimeva tirannicamente il popolo, di compiere alcune azioni strepitose affinché fossero più strepitosamente sconfitti.

Essi le compivano con stregonerie e incantesimi ai quali sono dediti gli angeli cattivi, cioè i demoni.

Mosè li superò facilmente, attraverso il ministero degli angeli, con potere pari alla giustizia nel nome di Dio che ha fatto il cielo e la terra. ( Es 7,1-13; Es 8,12 )

Infine, essendo stati superati i maghi alla terza piaga, mediante Mosè, attraverso uno straordinario susseguirsi di avvenimenti arcani, furono condotte a termine le dieci piaghe con cui il duro cuore del faraone e degli Egiziani fu piegato a lasciar andare il popolo di Dio.

Se ne pentì subito il faraone e tentò d'inseguire gli ebrei che si allontanavano; ma mentre essi, divisosi il mare, passarono sull'asciutto, gli Egiziani furono travolti e sommersi dalle acque che si riunirono dall'una e dall'altra parte. ( Es 12,14 )

Che dire di quei miracoli che si moltiplicarono per uno straordinario intervento divino mentre il popolo era guidato nel deserto?

Acque non potabili con l'immersione di un bastone, come Dio aveva ordinato, perdettero il sapore amaro e dissetarono gli ebrei assetati. ( Es 15,23-25 )

Poiché avevano fame, venne dal cielo la manna ed essendo stata stabilita una misura nel raccoglierla, qualora se ne raccoglieva di più, marciva per i vermi, ma raccolta il doppio nel giorno prima del sabato, dato che di sabato era proibito raccoglierla, era immune da imputridimento. ( Es 16,4-36 )

Quando desiderarono cibarsi di carne, anche se sembrava impossibile averne a sufficienza per un popolo tanto numeroso, le tende si riempirono di uccelli e l'ardente desiderio finì nell'uggia. ( Nm 11,31-32 )

I nemici, venuti incontro per impedire il passaggio con azioni militari, furono sconfitti senza che alcun ebreo cadesse, mentre Mosè pregava con le braccia distese in forma di croce. ( Es 17,8-16 )

I sediziosi nel popolo di Dio, che operavano scissioni in una società ordinata per intervento divino, furono inghiottiti vivi dalla terra apertasi improvvisamente ad esempio visibile di una pena invisibile. ( Nm 16,23-34 )

Una pietra colpita da una verga sgorgò acque abbondanti per una così grande moltitudine. ( Es 17,6-7; Nm 20,8-13 )

I morsi letali di serpenti, giusta pena di peccati, furono guariti col guardare un serpente di bronzo innalzato sopra un'asta di legno, perché fosse soccorso il popolo colpito e perché la morte sconfitta dalla morte fosse figurata quasi nell'analogia della morte sulla croce. ( Nm 21,6-9 )

E quando il popolo incorso nell'errore cominciò ad adorare come idolo il serpente di bronzo conservato a ricordo del fatto, Ezechia, sovrano che esercitò il potere a servizio di Dio, con gesto altamente benemerito per la religione lo distrusse. ( 2 Re 18, 4 )

9.1 - Teurgia e magia

Questi fatti ed altri simili, che è troppo lungo enumerare, avvenivano per inculcare l'adorazione di un solo Dio e impedire quella di molti e falsi dèi.

Avvenivano mediante la schietta e confidente fede religiosa e non con incantesimi e formule composte con l'arte di un'infame curiosità che chiamano magia, o con termine più detestabile stregoneria o con uno più accettabile teurgìa.24

I pagani pretendono di discriminare queste pratiche e vogliono far apparire degni di condanna individui dediti ad arti illecite, perché anche il volgo li considera operatori di maleficio.

Sono quelli che, dicono, si dedicano alla stregoneria.

Fanno apparire invece degni di lode gli altri che considerano dediti alla teurgia.

Eppure gli uni e gli altri sono asserviti ai falsi riti dei demoni sotto il nome di angeli.

9.2 - Teurgia catartica e le incertezze di Porfirio

Anche Porfirio promette una determinata catarsi dell'anima mediante la teurgia; ma lo fa con esitazione e con discorso piuttosto riguardoso.

Afferma al contrario che questa pratica non offre ad alcuno il ritorno a Dio.

Puoi rilevare quindi che egli con espressioni date ora in un senso ora nell'altro si destreggia fra la colpa di una sacrilega curiosità e la professione della filosofia.

Talora infatti ammonisce che questa arte si deve evitare come falsa, pericolosa nella pratica e vietata dalle leggi.

Talora invece, assentendo ai suoi sostenitori, la considera utile per la catarsi di una parte dell'anima, non di quella intellettuale, con la quale si conosce con certezza la verità degli oggetti intelligibili che non hanno alcuna analogia con i sensibili, ma di quella pneumatica con cui si percepisce la forma degli oggetti sensibili.

Egli afferma che mediante alcune cerimonie teurgiche, che chiamano iniziazioni, l'anima diviene perfetta, disposta ad accogliere gli spiriti e gli angeli e a vedere gli dèi.25

Tuttavia confessa che da queste iniziazioni teurgiche non si aggiunge alcuna purificazione all'anima intellettuale che la renda idonea a vedere il suo Dio e ad avere conoscenza degli oggetti che sono veri.

Se ne può dedurre di quali dèi parli e quale visione si abbia, mediante i riti teurgici, poiché con essa non si avrebbe visione degli oggetti che sono veri.

Afferma inoltre che l'anima razionale o, come preferisce dire, intellettuale può elevarsi nel suo cielo anche se ciò che in lei v'è di pneumatico non è stato purgato con alcuna pratica teurgica; che anzi anche la pneumatica dall'operatore di teurgia è limitatamente purgata, ma non per questo può giungere alla sfera delle cose immortali ed eterne.

Egli comunque separa gli angeli dai demoni dimostrando che la sfera dell'aria è dei demoni e quella dell'etere o empireo degli angeli, esorta a valersi dell'amicizia di qualche demone, con la cui forza elevatrice ci si può innalzare un tantino da terra dopo la morte, ma dichiara che altra è la via per giungere alla più alta comunione con gli angeli.

Afferma tuttavia piuttosto espressamente che il rapporto con i demoni deve esser evitato, là dove dice che dopo la morte l'anima, per scontare la pena, ha in orrore il culto dei demoni dai quali era raggirata.

Non poté inoltre negare che la stessa teurgia, che esalta come conciliatrice degli angeli e degli dèi, agisce nei confronti di alcuni spiriti in modo che anche essi ostacolino la catarsi dell'anima o agevolino le pratiche di coloro che la ostacolano.

In proposito riferisce la lamentela di non saprei quale caldeo.

Un buon uomo della Caldea, egli dice, lamenta che in un suo grande impegno per purificare l'anima i risultati furono resi vani, perché un uomo competente nelle medesime pratiche, preso dall'invidia, legò con pratiche misteriche gli spiriti supplicati in modo che non concedessero i favori richiesti.

Dunque uno legò, l'altro non sciolse.

Con questa indicazione venne ad affermare che la teurgia si configura come disciplina del fare tanto il bene quanto il male, sia presso gli dèi come presso gli uomini.

Anche gli dèi, secondo lui, sono condizionati e sono indotti a quelle perturbazioni o passioni che Apuleio ritiene comuni ai demoni e agli uomini.26

Apuleio tuttavia divide gli dèi dagli altri per l'altezza della sede nell'etere e in questa differenziazione ricalca l'opinione di Platone.27

10 - Teurgia che impedisce il favore degli dèi

Comunque l'altro platonico che dicono più dotto, Porfirio, afferma che mediante non saprei quale teurgica disciplina anche gli dèi sono condizionati alle passioni e alle perturbazioni.

È stato possibile infatti che con riti misterici siano stati scongiurati e costretti a non conferire la purificazione dell'anima e siano stati spaventati dall'individuo che ordinava il male da non poter essere, mediante la medesima pratica teurgica, sciolti dal timore con l'aiuto dell'altro che chiedeva il bene e lasciati liberi di concedere il beneficio.

Soltanto un individuo, che è loro sciaguratissimo schiavo e privo della grazia del vero liberatore, non riflette che queste sono suggestioni di demoni bugiardi.

Infatti se queste faccende si trattassero presso dèi buoni, varrebbe certamente in quella sede più un benefico datore di catarsi dell'anima che uno il quale per malevolenza la impedisce.

Ovvero se a dèi giusti sembrava immeritevole l'uomo, per cui si trattava la causa, dovevano negare la catarsi per libero giudizio e non perché spaventati da un individuo o perché impediti, come egli dice, dal timore di una divinità più potente.

C'è da meravigliarsi che quel caldeo dabbene, il quale desiderava purificare l'anima con misteri teurgici, non trovò un altro dio più bravo.

Costui poteva costringere gli dèi atterriti ad agir bene atterrendoli di più o allontanare da loro chi li atterriva affinché liberamente agissero bene; ma questo nel caso che al buon operatore di teurgia mancassero misteri con cui prima purificare dalla soggezione al timore gli dèi stessi che invocava come purificatori dell'anima.

Ma che discorso sarebbe questo infatti, che un dio più potente si possa impegnare perché siano da lui atterriti e non si possa perché siano liberati dal timore?

Si trova forse un dio che esaudisce l'invidioso e incute timore agli dèi perché non facciano il bene e non si trova un dio che esaudisca l'uomo benevolo e bandisca il timore dagli dèi affinché facciano il bene?

O illustre teurgia, o encomiabile catarsi dell'anima, in cui l'invidia spietata influisce di più di quanto ottenga l'onesto far del bene.

Piuttosto si deve evitare e detestare l'inganno degli spiriti maligni ed ascoltare la dottrina della salvezza.

Infatti che coloro, i quali compiono queste immonde purificazioni con riti sacrileghi, veggano ( se è vero che è così ), quasi nella condizione di uno spirito purificato, alcune immagini meravigliosamente belle, come narra Porfirio, di angeli o di dèi si spiega con quanto dice l'Apostolo: Che satana si è trasfigurato nelle sembianze di un angelo della luce. ( 2 Cor 11,14 )

Sono suoi quei fantasmi, perché egli desidera irretire anime disgraziate con i menzogneri misteri di molti e falsi dèi e allontanarle dal vero culto del vero Dio da cui solo sono mondate e guarite.

Si cambia cioè, come è stato detto di Proteo, in tutte le forme,28 perseguitando da nemico, soccorrendo da impostore, facendo del male nell'uno e nell'altro caso.

11.1 - Porfirio denuncia ad Anebon gli aspetti deteriori …

Questo Porfirio fu più saggio quando scrisse all'egiziano Anebon perché, da pari con chi lo interpellava e interrogava, dichiarò sacrileghe le arti teurgiche e le condannò.

Nella lettera riprova tutti i demoni perché afferma che per mancanza di conoscenza accolgono il soffio umido e che quindi non sono nell'etere ma nell'aria sublunare o anche nel globo stesso della luna; non osa tuttavia attribuire a tutti i demoni gli inganni, le malvagità e assurdità di cui è giustamente indignato.

Secondo il costume degli altri filosofi considera benigni alcuni demoni, sebbene ammetta che tutti in generale manchino di conoscenza.

Si meraviglia che non solo gli dèi siano allettati dalle vittime ma che siano anche indotti per costrizione a fare ciò che gli uomini vogliono.

Dato che gli dèi sono distinti dai demoni per soggezione o immunità dalla materia, si chiede anche in qual senso si deve intendere che sono dèi il sole, la luna e gli altri oggetti celesti visibili che indubbiamente ritiene corpi; e se sono dèi, in qual senso si afferma che alcuni sono benefici ed altri malefici e in qual senso, sebbene abbiano il corpo, si uniscano a quelli che non lo hanno.

Si chiede con perplessità se negli indovini e negli altri operatori di fatti straordinari siano le modificazioni dell'anima ovvero se vengano spiriti dal di fuori a determinare questi effetti.

Propende a opinare che provengano dal di fuori perché, usando pietre ed erbe, fanno cadere in trance alcuni individui, aprono porte chiuse o producono in modo fuori del comune effetti di questo genere.

Perciò, afferma Porfirio, altri filosofi ritengono che esistano spiriti di una certa categoria, il cui compito è di porsi in contatto con gli uomini.

Essi sono impostori per natura, assumono ogni figura e molti aspetti, scimmiottando dèi, demoni e anime dei defunti e sarebbero essi a compiere tutte queste azioni che all'apparenza possono esser buone o cattive.

Del resto, per quanto riguarda le azioni che sono buone secondo verità, essi non servono a nulla.

Anzi neanche le conoscono ma rendono discordi, calunniano e ostacolano talora i diligenti operatori della virtù.

Sono pieni di sfrontatezza e alterigia, godono del lezzo delle vittime, sono allettati dalle adulazioni.

Infine, Porfirio non afferma come convinzioni proprie le altre teorie che riguardano questa categoria di spiriti menzogneri e maligni che dal di fuori vengono nell'anima e ingannano i sensi umani nel sonno e nella veglia; ma le propone in forma di opinione infondata o di dubbio al punto da affermare che sono gli altri a pensarla così.29

Fu difficile a un filosofo per quanto grande conoscere e riprovare apertamente la lega diabolica che qualsiasi vecchietta cristiana ammette senza esitazione e detesta in piena libertà.

Ma forse egli teme di offendere lo stesso Anebon a cui scrive, poiché era sacerdote illustre di simili misteri, e altri ammiratori di tali riti considerati religiosi e relativi al culto degli dèi.

11.2 - … e le incoerenze della teurgia

Prosegue tuttavia e nella sua indagine ricorda pratiche che esaminate senza prevenzioni si possono attribuire soltanto a spiriti maligni e impostori.

Si chiede infatti perché con l'invocare quelli che sembrano migliori ci si impone ai peggiori affinché eseguano ingiusti ordini umani;

per quale motivo non esaudiscono chi li invoca perché assalito dalla passione amorosa, mentre essi non esitano ad indurre chiunque ad amplessi incestuosi;

perché dichiarano indispensabili che i propri sacerdoti si astengano dalle carni di animali affinché non siano contaminati dalle esalazioni dei corpi ed essi si deliziano di altre esalazioni e del lezzo delle vittime e mentre si proibisce al celebrante il contatto con un cadavere, spesso essi sono celebrati con i cadaveri;

per quale motivo un individuo colpevole rivolge minacce non a un demone o all'anima di un defunto ma al sole stesso, alla luna o ad un altro dei corpi celesti e li spaventa con la menzogna per estorcere da loro la verità.

Infatti un tizio minaccia di far cadere il cielo e altre simili imprese umanamente impossibili affinché gli dèi, come fanciulli sciocchi, atterriti da fasulle e ridicole minacce, compiano ciò che è loro comandato.

Un certo Cheremone, continua Porfirio, esperto di simili riti sacri o piuttosto sacrileghi, ha scritto che i misteri celebrati con grida nei confronti di Iside e del marito Osiride hanno la massima efficacia per costringere ad eseguire gli ordini.

Il tizio che costringe mediante le formule magiche minaccia di cacciarli via e di sterminarli e dice perfino con accento terribile che sparpaglierà le membra di Osiride se trascurano di eseguire i suoi comandi.30

Dunque l'uomo rivolge agli dèi una minaccia così sciocca e brutale e non a uno qualsiasi ma a quelli celesti splendenti di luce stellare, e non senza effetto, ma costringendoli con un mezzo violento e inducendoli con questi spaventi a fare quel che egli vorrà.

Porfirio giustamente se ne meraviglia.

Anzi l'atteggiamento di chi si meraviglia e ricerca le ragioni di simili fatti dà a capire che si comportano così gli spiriti dei quali in precedenza, riportando l'opinione di altri, ha esposto la caratteristica.

Essi non essendo, come egli ha affermato, impostori per natura ma per difetto, scimmiottano gli dèi e le anime dei defunti.

Però non scimmiottano, come egli dice, i demoni, perché lo sono.

A lui sembra che con erbe, pietre e animali, con determinati suoni della voce e delineazioni di figure ed anche con l'attenzione ad alcuni movimenti degli astri nella rivoluzione del cielo si ottengano in terra dagli uomini poteri adatti a raggiungere i vari effetti.

Ma tutto questo è proprio degli stessi demoni che ingannano le anime ad essi soggette e che dagli errori degli uomini offrono divertimenti a se stessi.

Dunque Porfirio, essendo in stato di dubbio e di ricerca, espone queste pratiche perché siano confutate e condannate e si mostri così che non appartengono a quegli spiriti che ci aiutano nel conseguire la felicità ma a demoni impostori; oppure, per pensare più benevolmente del filosofo, non volle con l'altera autorevolezza dell'insegnante offendere l'egiziano che era dedito a tali errori e si illudeva di conoscere una grande dottrina e non volle turbarlo apertamente con una diatriba ma, quasi con l'umiltà di chi ricerca e desidera di sapere, stimolarlo a rifletterci sopra e mostragli così che tali errori si devono disprezzare ed anche evitare.

Poi verso la fine della lettera chiede di essere informato da lui quale, secondo la filosofia egiziana, sia la via alla felicità.31

Del resto per quanto riguarda gli individui che avessero un rapporto con gli dèi al punto da infastidire l'intelligenza divina per ritrovare uno schiavo fuggitivo o per comprare un terreno, o per le nozze, il commercio e simili, egli afferma che, secondo lui, invano si dedicano alla filosofia.32

Per quanto poi riguarda le divinità, con cui sarebbero in rapporto, anche se nelle altre cose predicessero il vero, tuttavia, poiché non dichiarano nulla di sicuro e di sufficientemente idoneo sulla felicità, non sono dèi né demoni benigni ma o quello che è detto l'impostore o senz'altro una mistificazione umana.

Indice

1 Platone, Eutidemo 278e;
Aristotele, Et. Nic. 1153b7-28;
Cicerone, Tuscul. 5, 10, 28;
Seneca, De vita b. 1, 1;
Agostino, De b. vita 2, 10: NBA, III/1;
Sermo 150, 3, 4: NBA, XXI/1
2 Sopra 8,5
3 Plotino, Enn. 1, 5, 2. 6, 4, 7 (anche 1, 5, 10. 6, 9, 9-11);
Corp. herm. Poim. 2, 12-17;
Porfirio, Ep. ad Marc. 11-12
4 Plotino, Enn. 3, 5, 6;
Plutarco, De def. orac. 10-13, 414f-417c;
Porfirio, Epist. Aneb., fr. 10 (Faggin)
5 Agostino, Quaestio in Hept. 1, 61; 2, 94;
C. Faustum M. 15, 9; 20, 21; Ep. 102, 20: NBA, XXI
6 ad es.: Platone, Apol. 29c1; Fedro 244e; Euripide, Iph. Tau. 1275
7 Frequente in Virgilio, es. Aen. 6, 554.787; anche Ovidio, Met. 4, 174.8
8 Virgilio, Aen. 1, 12
9 Nel senso più generale di vincolo: cf. Cicerone, Pro Rosc. Am. 24, 64
10 Nella letteratura profana, es. Platone, Conv. 193d;
Sofocle, El. 1097;
Nella letteratura sacra, Is 11,2; Rm 4,8
11 Tanto negli scrittori greci (es. Platone, Politeia 615c; Sofocle, El. 968), come nei latini (es. Cicerone, Pro Rosc. Am. 13, 37; Pro Cn. Pl. 33, 80
12 Più raramente tanto negli autori sacri ( es. Gb 28,28; 1 Tm 2,10 ) che profani (es. Platone, Epin. 985d-e; Erodoto, I, 86)
13 Agostino, De spir. et littera 11, 18
14 Platone, Epin. 984d-986d; Plotino, Enn. 2, 9, 9, 27-39. 5, 6, 4, 19-22
15 Plotino, Enn. 5, 1, 2-3. 5, 1, 10
16 Plotino, Enn. 5, 6, 4, 16-21
17 Igino, Astron. 4, 14, 161;
Manilio, Astron. 2, 90-98
18 Plotino, Enn. 5, 1, 10, 12-18
19 Virgilio, Aen. 1, 704
20 Cicerone, De nat. deor. 2, 28, 72;
Nigidio Figulo, in Gellio, 4, 9;
Servio, Ad Aen. 8, 549;
Anche Agostino, De vera rel., 55, 111;
Retract. 1, 13,9;
Lattanzio, Div. inst. 4, 28.39
21 Gen 4,3-5.
De civ. Dei 10, 5-6; Ep. 102, 17, 3
22 Così anche Isidoro, Etym. 6, 19, 38
23 Gen 15,17;
Retract. 2,43
24 Platone, Conv. 203e;
Filebo 44c; Plotino, Enn. 4, 4, 42-44;
Giamblico, De myst. 1, 9. 3, 25;
Diodoro, 1, 76
25 Agostino, De Gen. ad litt. 12, 24, 50-51
26 Apuleio, De deo Socr. 12; cf. supra 9, 3
27 Platone, Epin. 984d; Apuleio, De deo Socr. 5ss
28 Virgilio, Georg. 4, 411
29 Porfirio, Epist. Aneb., fr. 3. 8-9. 12-14. 17-22. 24
30 Porfirio, Epist. Aneb., fr. 27
31 Porfirio, fr. 29-32;
Eusebio di Cesarea, Praep. evang. 3, 4
32 Porfirio, Epist. Aneb., fr. 35, 46-49