Gli stati di vita del cristiano

Indice

Lo stato laicale nel mondo

I membri della Chiesa che non sono né nello stato dei consigli, né nello stato sacerdotale, si trovano nello stato laicale nel mondo.

Non è semplicemente come se il polo opposto allo stato sacerdotale formasse uno stato diverso dal polo opposto allo stato religioso, malgrado ci siano preti che non sono nello stato dei consigli e uomini nello stato dei consigli che non sono preti.

Lo stato secolare, che non è stato presbiterale, e lo stato laicale, che non è stato dei consigli, non formano due stati diversi.

Da ciò si vede ancora una volta che lo stato laicale nel mondo si rapporta ( teologicamente ) allo stato presbiterale e allo stato dei consigli non come un terzo elemento specifico, ma bensì come il generale si rapporta a ciò che è stato reso speciale da contrassegni differenzianti.

Così non c'è infatti nessuna speciale consacrazione allo stato laicale, quale c'è invece per il sacerdozio o per lo stato religioso: la consacrazione del laico è quella del cristiano in generale, il Battesimo, che garantisce l'accesso a tutti gli altri Sacramenti e a tutta la perfezione dell'amore, il quale è però comune a tutti i cristiani, anche ai preti e alle persone che sono nello stato dei consigli.

Certo il matrimonio sarà correlato in maniera speciale allo stato laicale e gli darà un nuovo carattere soprannaturale, una forma che non è accessibile agli altri stati.

Il matrimonio soltanto fonda infatti lo « stato matrimoniale » come una possibilità per eccellenza dello stato laicale, ma non fonda lo stato laicale come tale.

Non è in contrasto con ciò il fatto che nella sua dottrina dei ministeri ecclesiali Paolo enumera molti ministeri in più di quelli che spettano agli stati di vita qualificati.

Questi « ministeri » sono in quanto doni di grazia ( charismata ) certo più che un puro e semplice impegno provvisorio.

Essi sono stati distribuiti dallo Spirito Santo ( 1 Cor 12,11 ) e donano al cristiano una funzione vera e propria nell'economia complessiva del Corpo Mistico.

Ma già le differenze nella descrizione e classificazione dei doni mostrano che questi conservano nella loro maggioranza qualcosa di mobile, che non può fondare uno stato di vita.

La prima Lettera ai Corinti enumera i doni della sapienza, della conoscenza, della fede, delle guarigioni, dell'operar miracoli, della profezia, del discernimento degli spiriti, del parlare in lingue diverse, dell'interpretazione di queste lingue ( 1 Cor 12,8-10 ).

E poco dopo: « in primo luogo l'apostolato, in secondo luogo la profezia, in terzo l'insegnamento, poi i doni di operar miracoli, di far guarigioni, di assistere, di parlare in lingue » ( 1 Cor 12,28 ).

La lettera ai Romani distingue i doni della profezia, dell'assistenza, dell'insegnare, dell'ammonire, del donare in elemosina, del presiedere, del fare opere di misericordia ( Rm 12,6-8 ).

Ma poi la lista prosegue con attività ecclesiali generali, alle quali un cristiano può essere in speciali circostanze, ma provvisoriamente, spinto dallo Spirito Santo: questo è già il caso dell'ammonire, del donare in elemosina o del fare opere di misericordia, ma anche delle prescrizioni che vengono subito dopo, che a modo loro sono tutte in relazione a doni dello Spirito, senza però che questi fondino una durevole funzione differenziata, o addirittura un ufficio.

Paolo può anche ammonire insieme un'intera comunità: « Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti » ( 1 Ts 5,14 ), d'altra parte può dare istruzioni a Timoteo di dedicarsi all'esortazione e all'insegnamento ( 1 Tm 4,13 ).

La dottrina di questi ministeri carismaticamente fondati mostra chiaramente due cose: che lo stato laicale nella Chiesa non consiste affatto di una massa inarticolata, senza forma, che riceve passivamente le grazie di Dio trasmesse dalla Gerarchia, ma che la Grazia contiene piuttosto sempre anche una missione, un compito ecclesialmente determinato, impone una responsabilità per tutto l'insieme del Corpo di Cristo, del quale noi, "ciascuno per la sua parte" ( 1 Cor 12,27 ), siamo membra. Corrisponde sicuramente al modo di pensare di Paolo l'attribuire un simile carisma ad ogni cristiano nella Chiesa, poiché risiede nell'essenza stessa della Grazia l'essere tanto ecclesiale quanto missionaria.

Questa missione personale conferita dallo Spirito è connessa al sacramento della Cresima, col quale il cristiano viene elevato da una vita prevalentemente passiva e ancora infantile, disimpegnata, ad un'esistenza condeterminante, poiché corresponsabile, nella comunità ecclesiale.

Non diventa soltanto, come il cittadino maggiorenne idoneo a votare, ma gli viene assegnato un compito ininterscambiabile nella cura per la comunità ecclesiale.

La Grazia, infatti, guida ognuno in maniera differenziata e personale, e richiede una risposta personale.

La coscienza di questa funzione personale, che anche il laico non si sceglie da sé, ma gli viene conferita dall'alto in divina sovranità, e che egli deve ricoprire con la medesima cura e coscienziosità come per una funzione civile, nella maggior parte dei laici è presto andata smarrita e anche oggi, nell'epoca dei movimenti ecclesiali laicali, non è ancora sbocciata in essi in tutta la sua piena portata.

Le liste di S. Paolo mostrano addirittura che sotto il punto di vista dei « ministeri carismatici » la distanza tra gli stati non viene sottolineata: l'apostolato e il ministero ecclesiastico ( diakonìa, Rm 12,7 ) vengono menzionati coralmente insieme ad altri ministeri accessibili ai laici o riservati ad essi.

Paolo rimprovera piuttosto la comunità perché essa per colpa propria sopporta soltanto o addirittura non compie nemmeno il passaggio dalla condizione del ricevere passivamente a quella del contribuire attivamente, rimane intanata in un « cristianesimo infantile » ( os nepìous en Christó ), che vuol sempre il latte e non intende ricevere un cibo più solido ( 1 Cor 3,1-2 ).

« Voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di anzianità, avete di nuovo bisogno che qualcuno v'insegni i primi elementi della dottrina divina, e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido.

Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora bambino.

Il nutrimento solido, invece, è per gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo » ( Eb 5,12-14 ).

Col suo colpevole infantilismo questa comunità si è giocata perlomeno tre missioni dello Spirito Santo: il dono dell'insegnamento, quello del riconoscimento della Parola divina e quello del discernimento degli spiriti, che, quantunque siano grazie carismatiche ( 1 Cor 12,10 ), presuppongono però la cooperazione del cristiano spiritualmente adulto e cosciente della sua responsabilità, e perciò il suo impegno personalmente esercitato.

Di fronte a ciò sta il secondo aspetto: se le grazie, i ministeri, le funzioni conferite dallo Spirito non sono semplicemente grazie private, ma privilegi intesi in dimensione ecclesiale, conferiti in favore della comunità, essi non sono tuttavia in grado di fondare uno stato di vita.

Ne nella Scrittura stessa - ad esempio nella descrizione della comunità di Corinto con la sua proliferante vita carismatica, i cui eccessi personalistici Paolo reintegra in una salda dottrina dei ministeri e delle funzioni che sono oggettivamente ecclesiali - né nella cristianità delle origini, né nell'insieme della storia della Chiesa questi ministeri - a prescindere da poche eccezioni, come quelle dei « confessores »1 - innalzano la pretesa di entrare in concorrenza con la gerarchia ecclesiale o con lo stato dei consigli.

Essi sono stati forse piuttosto troppo poco messi in rilievo, che non fortemente accentuati.

Essi sono infine per lo più tramontati, perché la comunità dei laici poté sempre di nuovo riferire a se stessa i mordenti rimproveri di Paolo: sedersi ancora sui banchi di scuola, dove essa doveva invece già da lungo tempo essere maestra.

È un'antica esperienza della Chiesa, che molto spesso il laico non voglia affatto nella Chiesa essere adulto nel senso spirituale, poiché maturità cristiana non significa semplicemente il più serio impegno in tutti i servizi suggeriti dallo Spirito Santo e donati come compito, ma presuppone una maturità soprannaturale raggiungibile soltanto attraverso molta preghiera e rinuncia, maturità che però proprio in tanti laici che a tutta voce si proclamano adulti risulta mancante.

Una volta che i credenti sono stati dotati di speciali doni di grazia, istruzioni e richieste dello Spirito risulta, dove non abbia luogo una elezione qualitativa, la condizione distintiva dello stato laicale.

Abbiamo visto prima che considerato a partire dalla strumentalità dell'ufficio ecclesiale e della vita secondo i consigli ( S Th II II q 184 a 3 ) esso può venir indicato come lo stato principale, per così dire, lo stato basilare della Chiesa.

Nella misura in cui esso è tale ( mentre gli altri due stati sono stabiliti da specifiche differenze ), questi ultimi possono venir visti anche come esplicitazioni, sottolineature, concretizzazioni del primo, verso il quale essi stanno in rapporto di servizio.

Questo vale per lo stato sacerdotale, che in effetti è essenzialmente funzione ( quella di rappresentare Cristo ), ed è quindi ordinato al tutto.

Vale in misura ancora maggiore per lo stato dei consigli, che non vuole realizzare altro ideale « più alto » che quello universalmente cristiano e deve perciò, sulla sua via particolare, rappresentare per tutti la perfezione evangelica alla quale tutti dovrebbero aspirare.

Esso è come l'elevazione a potenza di un numero di base nel quale tutti sono compresi, il prendere sul serio una richiesta che è rivolta a tutti, l'erezione di un modello che tutti dovrebbero imitare, il dar forma a un tipo d'umanità al quale tutti dovrebbero partecipare.

Così gli stati qualificati stanno a servizio dell'insieme e non hanno alcuna giustificazione del proprio esserci all'infuori di questo servizio.

Essi devono sempre nuovamente comunicare allo stato fondamentale della Chiesa la pienezza della Grazia divina, chiarirgliela, fargliela arrivare in ogni maniera possibile.

La ricchezza che sembra essere peculiare di essi, la possiedono solo in favore dell'universalità della Chiesa, la quale la possiede quando essa si trova in possesso a Cristo.

Essi sono un tesoro dal quale può prendere la Chiesa dei laici, un tesoro che essa a ragione può definire proprietà sua in Cristo.

Il sacerdozio le mostra e le dà a nome di Cristo ciò a cui essa ha diritto; lo stato dei consigli le mostra quello che la sua propria vita cristiana contiene quanto a possibilità di dispiegamento, e glielo pone a disposizione tanto col suo essere quanto col suo esempio.

Tutto ciò che a quelli accade, anche le cose più interiori, personali, rivolte verso Dio, accade a loro in favore della comunità.

« Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è parimenti per la vostra consolazione, ( … ) così la nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione » ( 2 Cor 1,6-7 ).

Tutto il drammatico accadere che fa degli Apostoli « uno spettacolo per il mondo, gli angeli e gli uomini » ( 1 Cor 4,9 ) non rimane sospeso in se stesso: « Tutto questo accade in vostro favore, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio » ( 2 Cor 4,15 ).

I vistosi doni di grazia degli stati speciali ci sono affinché i cristiani « abbiano di che rispondere a coloro il cui vanto è esteriore e non nel cuore » ( 2 Cor 5,12 ); anzi l'intera economia particolare, che ripresenta sacramentalmente o personalmente la storia della salvezza, è in possesso dell'insieme della Chiesa: « Tutto è vostro. Paolo, Apollo e Cefa, il mondo, la vita e la morte, il presente e il futuro: tutto è vostro! » ( 1 Cor 3,21-22 ).

Colui che è stato collocato a servizio di questa ricchezza della Chiesa sopporta perciò « tutto in favore degli eletti, affinché essi pervengano alla salvezza che è in Cristo Gesù e alla gloria eterna » ( 2 Tm 2,10 ), egli si inserisce nel mistero di Cristo, che ha scelto per sé il niente e la povertà affinché la sua sposa, la Chiesa, sia ricca: « Voi conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » ( 2 Cor 8,9 ).

Così anche l'eletto: « Noi siamo stolti a causa di Cristo, voi siete sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati, ( … ) siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi » ( 1 Cor 4,10-13 ).

Egli « si abbassa, per esaltare voi » ( 2 Cor 11,7 ), egli si rallegra quando è « debole, mentre voi siete forti » ( 2 Cor 13,9 ).

Infatti come il Signore « che non aveva conosciuto peccato, fu reso per noi peccato, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » ( 2 Cor 5,21 ), così anche l'Apostolo può dire di sé: « Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero » ( 1 Cor 9,19 ).

Egli si mette ai piedi della comunità con tutta la sua esistenza: « Cos'è Apollo? Cos'è Paolo? Solo servitori » ( 1 Cor 3,5 ), « ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio » ( 1 Cor 4,1 ).

« Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù » ( 2 Cor 4,5 ).

« Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita » ( 2 Cor 4,12 ).

Ma mostrando questo contrasto fra sé e la comunità, l'Apostolo vuoi solo annodare tanto più saldamente l'unità.

La contrapposizione ha per presupposto l'unità dell'amore e per fine il suo aumento.

Gli eletti, riversando sulla comunità tutta la pienezza della vita cristiana - oggettivamente nei sacramenti e nella dottrina trasmessa, soggettivamente col loro esempio, la ricchezza delle loro esperienze cristiane in gioia e dolore, estasi e persecuzione -, mirano solo sempre a che la comunità possa partecipare a questa ricchezza.

Con la parola e con l'esempio essi comunicano ad essa ciò che le appartiene in base alla grazia, che però essa non ha mai sufficientemente realizzato e riconosciuto come suo proprio.

Così per un momento la comunità laicale appare nei confronti del ministero sacerdotale come colei che passivamente riceve i doni, come ricolmata dell'intera pienezza di Dio, quale la portano e rappresentano gli eletti, al di là di ogni possibilità d'immaginazione.

« Noi siamo i collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio » ( 1 Cor 3,9 ).

« Non siete voi forse mia opera nel Signore? » ( 1 Cor 9,1 ).

In ogni maniera possibile le viene detto quanto essa valga agli occhi di Dio, quanto il Padre, il Figlio, lo Spirito, gli eletti hanno fatto per lei, quanto tutto ciò che essa possiede superi le sue aspettative e la sua capacità di comprendere.

E ciò che alla comunità viene detto e comunicato dagli incaricati di questo è il massimo che nella fede può ancora venir reso intuibile: « Non siete coscienti che Gesù Cristo abita in voi? » ( 2 Cor 13,5 ).

« Cristo in voi: speranza della gloria! » ( Col 1,27 ).

Questo in - essere di Cristo nei credenti è un essenziale essere inseriti nella sua morte e resurrezione: « essere morti con Cristo, risorgere con Cristo » ( Rm 6,8 ), « con-risuscitati con Cristo, e fatti sedere nel Regno dei Cieli » ( Ef 2,6 ), « vita in Cristo come nuova creatura » ( 2 Cor 5,17 ), e di conseguenza « vita per lui, che è morto e risorto per noi » ( 2 Cor 5,15 ), come coloro a cui Dio « ha impresso il sigillo e ha dato la caparra dello Spirito nei cuori » ( 2 Cor 1,22 ).

Dà l'effetto di un vero e proprio profluvio di grazia la descrizione dell'elezione cristiana all'inizio della Lettera agli Efesini: partendo dalle remote origini dell'eternità divina, nelle quali già noi fummo amati e in Cristo predestinati ad essere santi e figli del Padre, passando attraverso la pienezza dei tempi, in cui grazie a Cristo diventammo partecipi dell'eredità « per la ricchezza della sua grazia, che egli ha riversato su di noi con ogni sapienza e intelligenza », fino alla sigillazione per opera dello Spirito Santo, l'ultimo mistero della Trinità.

Così l'Apostolo prorompe davanti alla comunità nella fervente preghiera: « Possa Dio illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi, e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti, secondo l'efficacia della sua forza, che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli ( … ) e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose » ( Ef 1,18-23 ).

Questo venir ricolmati con tutti i misteri di Cristo, anzi questa ammissione a partecipare alla stessa natura divina ( 2 Pt 1,4 ), questo ricevere in dono senza riserve tutte le ricchezze che Dio ha da distribuire - « lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio ( … ) i suoi intimi segreti ( … ) ora, noi possediamo lo Spirito di Cristo » ( 1 Cor 2,10-11-16 ) -, tutto questo la comunità non può però lasciarlo accadere su di sé in modo solamente passivo.

Infatti la pura passività non riceve realmente.

Per possedere, bisogna accettare; e quanto più spirituale è il dono, tanto più bisogna accettarlo con gratitudine e con gioia.

Allora il ricevere la grazia si muta da sé in una azione attiva, nell'azione dell'accettare, prendere in mano, comprendere, eseguire e donare ad altri.

Chi potrebbe lasciare accadere su di sé l'amore divino, affidarsi ad esso, senza divenire egli stesso un amante?

Questo è già compreso nello stesso gesto del ricevere, e la risposta a Dio diventa di per sé un donare ulteriormente ai fratelli ciò che si è ricevuto.

Anzi questo donare ulteriormente diventa proprio la pietra di paragone per vedere se l'accoglienza della Grazia ha veramente avuto luogo.

A tal punto sono una sola cosa il ricevere la Grazia e l'essere inviati in missione!

« Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.

Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.

In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,7-11 ).

Il vivere a partire dalla fede ( ciò che in senso più ampio si chiama missione e apostolato ) non è una realtà secondaria accanto alla prima, quella dell'essere in stato di grazia.

L'esigenza di vivere cristianamente non è qualcosa che deve venir dedotto in un secondo tempo dal fatto di essere cristiani.

In questo consiste il paradosso cristiano: che la grazia donata comprende essenzialmente in sé l'esigenza assoluta di vivere secondo la grazia, e che Dio ha il misterioso potere di infrangere ultimamente anche le resistenze dell'uomo.

La grazia di Dio ha una « preponderanza » ( Rm 5,15-21 ) che non può venir espressa altrimenti che nella formula paradossale: « Se noi lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso » ( 2 Tm 2,12-13 ).

La grazia è quindi una richiesta rivolta ad ogni vita cristiana.

E come la grazia non conosce alcuna superiore frontiera, così anche la richiesta rivolta ad ogni cristiano non conosce alcuna frontiera superiore.

I misteri dello stato sacerdotale e dello stato dei consigli non formano un piano superiore, esoterico, al di sopra dell'umile pianterreno della « vita cristiana normale »; essi piuttosto ci sono per promuovere e rivelare in ogni cristiano « le profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio » ( Rm 11,33 ).

I Sacramenti hanno la loro « verità » non al di fuori della cristianità che li riceve: essi vogliono venir vissuti, in base al loro contenuto, nella vita dei cristiani.

Se Cristo nella Messa si offre in sacrificio per noi, allora questo esige e include « che anche noi offriamo la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ), che anche noi « offriamo la nostra esistenza come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio » ( Rm 12,1 ) e « offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio » ( Eb 13,15 ).

E se Egli dimora sacramentalmente in mezzo a noi, questo è in favore dei credenti, affinché anch'essi possano attuare questa presenza fuori del sacramento: la comunione di due o tre nel suo nome è sufficiente perché egli sia in mezzo ad essi ( Mt 18,20 ).

Se c'è un sacerdozio ministeriale che deve amministrare le grazie di Dio, questo è solo perché l'intera comunità della Chiesa con tutti i laici sia « una stirpe eletta, un sacerdozio regale » ( 1 Pt 2,9 ).

Se il Signore attraverso il ministero si distribuisce eucaristicamente a tutti, questo è perché « noi tutti siamo un solo corpo, noi che partecipiamo a un unico pane » ( 1 Cor 10,17 ) e perché siano « tutti, giudei e greci, schiavi e liberi, uniti in un solo corpo per mezzo di un solo Spirito » ( 1 Cor 12,13 ) e perché corrispondentemente vivano, muoiano, si prendano cura l'uno dell'altro.

Nel Battesimo siamo tutti essenzialmente morti al peccato e alla vita egoistica ( Rm 6,2 ), dove è già incluso che dobbiamo consegnare le nostre membra a Dio come strumenti di giustizia ( Rm 6,13 ).

« Non sapete che non appartenete più a voi stessi? » ( 1 Cor 6,19 ).

« Se uno è morto per tutti, allora tutti sono morti; egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi » ( 2 Cor 5,15 ).

« Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno di noi muore per se stesso.

Se viviamo, viviamo per il Signore; se muoriamo, muoriamo per il Signore » ( Rm 14,7-8 ).

Essere battezzati significa dunque in modo assoluto rinuncia ad una conduzione di vita secondo il proprio arbitrio, poiché « vivo non più io, ma Cristo vive in me » ( Gal 2,20 ).

Poiché però « Cristo non si è orientato a seconda del proprio piacimento, ( … ) anche noi non possiamo orientarci a nostro piacimento » ( Rm 15,3 ).

La regola del nostro agire e subire non sarà più ciò che è permesso al singolo come persona privata, ciò di cui egli può assumere la responsabilità in base alla sua propria coscienza, ma bensì ciò che conviene per la comunità e in ogni caso ciò che non può suscitar scandalo presso i membri delle comunità più deboli.

« Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare le mancanze dei più deboli, e non possiamo orientarci secondo il nostro arbitrio.

Diamoci dunque alle opere di pace e alla edificazione vicendevole » ( Rm 15,1; Rm 14,19 ).

« Portate i pesi gli uni degli altri » ( Gal 6,2 ).

Se il Battesimo acquista così la sua verità immediata nella vita dei cristiani, ciò accade nondimeno per la Confessione sacramentale.

Se infatti gli Apostoli hanno ottenuto il potere di legare e di sciogliere, cioè di perdonare i peccati in nome di Cristo e con la sua divina autorità, questo ministero deve tuttavia ripercuotersi lungo tutta la Chiesa.

Non soltanto nel senso che « dobbiamo perdonarci l'un l'altro, come Dio ci ha perdonato in Cristo » ( Ef 4,32; « come il Signore vi ha perdonato, così perdonate anche voi ». Col 3,13 ), ma ancor più espressamente nel senso del tenere aperti i cuori e gli animi gli uni agli altri: « davanti a Dio gli siamo ben noti, e spero di esserlo anche davanti alle vostre coscienze » ( 2 Cor 5,11 ).

« Confessate i vostri peccati perciò gli uni agli altri, e pregate gli uni per gli altri, per trovare guarigione » ( Gc 5,16 ), fino al punto che si deve anche strappare al fratello la confessione dei suoi errori: « Se egli ti ascolta, tu hai guadagnato tuo fratello » ( Mt 18,15 ).

« Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salva la sua anima e copre una moltitudine di peccati » ( Gc 5,20 ).

Così anche l'obbligo ministeriale del prete di ammonire e riprendere ( 2 Tm 2,25 ) trapassa senza perdere di intensità ai laici: « Perciò ammonitevi a vicenda ed edificatevi l'un l'altro » ( 1 Ts 5,11 ), « chi non obbedisce non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello » ( 2 Ts 3,15 ).

Infine l'immagine archetipa di Cristo viene tradotta in esperienza di vita nella comunità laicale così direttamente che il mistero centrale della sua dedizione sacrificale alla Chiesa diviene per i laici un sacramento vero e proprio, il sacramento laicale del matrimonio, che i coniugi davanti alla Chiesa ( rappresentata dal sacerdote ) si amministrano vicendevolmente ( Ef 5,21-33 ).

Come i laici ricevono la parola sacramentale di Dio per tradurla immediatamente nella verità della loro vita e lasciarla operare in essa ulteriormente in modo autonomo, così essi accolgono anche il Vangelo annunciato ufficialmente nella predicazione non in modo passivo, ma assolutamente attivo, per farlo diventare in se stessi annuncio vissuto.

Poiché la comunità « ha accolto la parola della predicazione non come parola d'uomini, ma qual essa è in verità, come parola di Dio », per questo « essa si mostra in voi efficace » fino alla rappresentazione di questa parola nella persecuzione e nel martirio ( 1 Ts 2,13-14 ).

Anzi, ogni parola di un cristiano deve essere « una parola buona, che possa servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che la ascoltano » ( Ef 4,29 ).

La predicazione ministeriale mira a che la Parola di Dio rimanga, abiti e operi in mezzo alla comunità laicale ( Laiengemeinde ): « La parola di Dio dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza » ( Col 3,16 ).

Dai laici adulti nella Chiesa ci si aspetta che essi sappiano maneggiare senza far ricorso al prete « la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio » ( Ef 6,17 ).

La trasmissione ad altri della fede non può essere per essi qualcosa di lasciato al caso, ma deve derivare continuamente dalla stessa grazia della fede: « Come sta scritto: "Ho creduto, perciò ho parlato", anche noi crediamo e perciò parliamo » ( 2 Cor 4,13 ), e così vale per ogni cristiano quello che l'Apostolo dice di sé: « Guai a me, se non predicassi il Vangelo! » ( 1 Cor 9,16 ).

Egli si aspetta che la comunità trasmetta ad altri la Parola seminata in essa, diventi una annunciatrice del Vangelo, non solo nel suo clero, ma come laicato in tutto il suo insieme.

« Così voi siete diventati un modello per tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell'Acaia.

Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell'Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto » ( 1 Ts 1,7-8 ).

Predicazione con la parola o con l'esempio: le due cose non si possono separare, poiché la testimonianza circa Cristo è sempre contemporaneamente una testimonianza con la parola e con le opere ( Gv 10,38; Gv25,36 ), al punto che la testimonianza della parola senza le opere non vale nulla; al contrario, soltanto la testimonianza della vita può parlare come testimonianza con parole: « Voi mogli obbedite ai vostri mariti, perché anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati, considerando la vostra condotta casta e rispettosa » ( 1 Pt 3,1s ).

Come il laico deve non solo far diventare in se stesso fruttuose le funzioni sacerdotali, l'amministrazione di Sacramenti e Parola, ma anche tradurle nella verità del suo stato di vita, affinché esse possano raggiungere il loro scopo, allo stesso modo egli deve ora trasferire nella sua vita anche l'esempio e le vie particolari dello stato dei consigli.

Già molte volte si è spiegato che complessivamente la luce dello stato dei consigli ha una finalità esterna a sé, deve illuminare la Chiesa intera.

E questo è così intimamente vero che lo stesso stato laicale diventa grazie a ciò « sale della terra », « luce del mondo », « città posta in cima al monte », « lucerna sopra il lucerniere »; « Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini! » ( Mt 5,13-16 ).

Paolo non si stanca di presentare la sua propria eccezionale vita come « modello » per la Chiesa intera: « Fatevi miei imitatori, o fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi ».

« Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori! » ( 1 Cor 4,16 ); « fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » ( 1 Cor 11,1 ).

« Voi sapete infatti come dovete imitarci » ( 2 Ts 3,7 ).

« Voi siete diventati imitatori nostri e del Signore » ( 1 Ts 1,6 ).

« Io dovetti essere un modello per coloro che credono in Cristo e pervengono alla vita eterna » ( 1 Tm 1,16 ).

« Prendi come modello ciò che hai ricevuto da me, come dottrina salvifica nella fede » ( 2 Tm 1,13 ).

E infine riassumendo tutta la sua esistenza: « Tu invece mi hai seguito da vicino nell'insegnamento, nella condotta, nei propositi, nella fede, nella magnanimità, nell'amore del prossimo, nella pazienza, nelle persecuzioni e nelle sofferenze » ( 2 Tm 3,10s ).

Tutto nell'Apostolo è nutrimento per la comunità, tutto di lui viene usato per edificarla e rafforzarla.

Lo stesso vale per tutti quelli che hanno il compito di essere « forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ).

Paolo non sceglie dalla sua vita nessuna cosa in particolare da raccomandare alla imitazione della comunità in modo speciale; egli non può farlo, perché anche le sofferenze che sopporta per amore della comunità appartengono alla comunità e sono ultimamente la cosa più preziosa che egli le trasmette prendendola dal suo esempio.

Addirittura anche la speciale sorte di vittima sacrificale che è riservata allo stato dei consigli viene presentata al laicato per essere imitata.

In primo luogo a coloro che stanno a capo della comunità: « In tutte le maniere vi ho mostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: vi è più gioia nel dare che nel ricevere » ( At 20,35 ).

« Soffri anche tu, prendendo parte alle mie sofferenze per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio! » ( 2 Tm 1,8 ), « come un buon soldato di Cristo Gesù prendi parte alle mie sofferenze » ( 2 Tm 2,3 ).

Poi però anche all'intera comunità: « Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù devono subire persecuzioni » ( 2 Tm 3,12 ).

« Dovete venir trovati degni del Regno di Dio, per il quale ora soffrite » ( 2 Ts 1,5 ).

« Voi sapete che è per questo che noi siamo qui, per confortarvi nelle tribolazioni » ( 1 Ts 3,3 ).

« A voi è conferita la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui » ( Fil 1,29 ).

« Se facendo il bene sopportate con pazienza la sofferenza, ciò è gradito davanti a Dio.

A questo intatti siete chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme » ( 1 Pt 2,20-21 ).

Così la comunità diventa partecipe non solo dei frutti della sofferenza degli uomini che vivono nello stato dei consigli, ma può partecipare attivamente alla loro vocazione al sacrificio.

« Io vi porto nel mio cuore, voi tutti che siete partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo » ( Fil 1,7 ).

Ambedue ( difesa e consolidamento ) sono una sola cosa nel loro lottare: « Voi avete infatti da sostenere la stessa lotta che mi avete veduto sostenere » ( Fil 1,30 ), la « lotta per il Vangelo » ( Fil 1,27 ), che Paolo, includendo tutti, può chiamare « la nostra battaglia » ( Ef 6,12 ).

Siamo infatti tutti « santificati e chiamati ad essere santi » ( 1 Cor 1,2 ).

Il Vangelo non conosce alcuna casistica su fino a che punto il laico deve tendere alla perfezione e sino a che punto egli si può considerare da ciò dispensato.

Esso conosce solo la perfezione stessa: quella dell'essere, grazie alla partecipazione a Dio, e quella del dover essere, a motivo di questa stessa grazia.

Tutti i cattolici sono « eletti, santi e amati da Dio » ( Col 3,12 ), e l'Apostolo lotta nella preghiera per essi « perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio » ( Col 4,12 ).

È vera perfezione ( « Noi tutti che siamo perfetti dobbiamo avere questi sentimenti », Fil 3,15 ), anche se è una perfezione in tensione, pellegrinante, aperta verso Dio ( « Non che io abbia già raggiunto la meta e sia già perfetto », Fil 3,12 ).

« Irreprensibili e semplici, figli di Dio senza macchia » ( Fil 2,15 ), i cristiani camminano sulla loro strada, che è una « via di perfezione » mai conclusa, verso la perfezione, « un sovrabbondare sempre più » ( Fil 1,9 ), una « via che conduce sempre più in là » ( 1 Cor 12,31 ), un « venir trasformati di gloria in gloria » ( 2 Cor 3,18 ).

E però: « Chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto » ( 1 Gv 2,5 ).

Si giunge così ad un reciproco darsi forma l'uno all'altro tra stato d'elezione e stato laicale: « Fratelli miei, diventate simili a me, ve ne prego; anch'io sono diventato simile a voi » ( Gal 4,12 ), e ambedue si vantano e si gloriano rispettivamente nell'altro: « Spero che comprenderete perfettamente: ( … ) che noi siamo il vostro vanto, come voi siete il nostro » ( 2 Cor 1,13s ).

La reciprocità si compie nella scambievole inclusione nella preghiera.

Come infatti l'Apostolo « si ricorda incessantemente » della comunità e nelle sue « preghiere implora continuamente per essa » ( Rm 1,9-10 ) che è « legata a noi nel nostro cuore per la vita e per la morte » ( 2 Cor 7,3 ), così egli confida alla comunità tutte le sue pene e si aspetta che la sua missione venga resa possibile grazie alla preghiera della comunità: « Pregate per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione » ( Col 4,3 ).

« Dio ci ha liberato da un grande pericolo di morte e ci libererà ancora, per la speranza che abbiamo riposto in lui che si libererà ancora grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi » ( 2 Cor 1,10s ).

E come la preghiera dell'Apostolo si estende sempre su un raggio universale, giacché egli effettivamente porta nel cuore « la preoccupazione per tutte le comunità » ( 2 Cor 11,28 ), così anche la preghiera delle Chiese si estenderà sino a diventare una preghiera universale, cattolica, per il mondo intero: « Domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere » ( 1 Tm 2,1s ), cosicché l'universalità specifica che è propria dello stato dei consigli a motivo della promessa del centuplo si incontra con l'universalità specifica della Chiesa in generale, in cui sono uniti insieme tutti i laici, per crescere grazie ad essa dalla sua particolarità e maturare verso l'unità di Cristo che tutto abbraccia.

A rappresentare questa unità cooperano insieme tutti gli stati: « Voi siete un solo corpo e un solo spirito, come già nella vostra vocazione siete stati chiamati ad una sola speranza: un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo, un solo Dio e Padre di tutti » ( Ef 4,4-6 ).

Gli « apostoli, profeti, messaggeri del Vangelo, pastori o dottori » ( Ef 4,11 ), perciò tutti coloro che ricoprono un ufficio qualificato, ci sono per « rendere idonei i fratelli a compiere il ( loro ) ministero, al fine di edificare il Corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » ( Ef 4,12-15 ).

In questa reciprocità degli stati l'uno verso l'altro e l'uno nell'altro si adempie il « sacerdozio comune » della Chiesa tutta nel senso più pieno, dove essa viene inserita come corpo e sposa del Capo crocifisso nell'unico incessante sacrificio di lode dell'amore a Dio Padre ( Agostino, De civ. Dei X,6-7 ).

Il particolare sacerdozio ministeriale dello stato clericale e il particolare sacerdozio esistenziale dello stato dei consigli non sono adesso più distinguibili dal complessivo sacerdozio di tutti nella Chiesa ( come in effetti il sacerdozio particolare degli stati d'elezione non li estrania o dispensa affatto dal sacerdozio comune ).

Se il sacerdozio ministeriale come rappresentazione del capo per il corpo sottolinea all'interno dell'unità ecclesiale l'opposizione, lo stato dei consigli sta di per sé dalla parte dello stato dei laici ( come evidenziammo parlando di Dionigi l'Areopagita ), per dare col suo sacrificio della vita intera la sua piena misura al sacrificio del sacerdozio comune dei laici.

Indice

1 Essi furono quei testimoni della fede che nelle persecuzioni subirono torture e prigionia, ma non la morte. Poiché essi in base al sentimento comune erano considerati di rango uguale ai martiri uccisi, e valevano perciò come persone che soggettivamente erano state conformate al sacerdozio di Cristo, furono sporadicamente concesse ad essi funzioni presbiterali.