Summa Teologica - II-II

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Articolo 7 - Se il possedere in comune diminuisca la perfezione di un ordine religioso

C. G., III, c. 135; Contra Retr., cc. 15, 16

Pare che il possedere in comune diminuisca la perfezione di un ordine religioso.

Infatti:

1. Il Signore [ Mt 19,21 ] ha detto: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri », dal che si rileva che la privazione delle ricchezze rientra nella perfezione della vita cristiana.

Ma quelli che possiedono in comune non sono privi di ricchezze.

Quindi essi non raggiungono la perfezione della vita cristiana.

2. La perfezione dei consigli evangelici esige che l'uomo sia libero dalle preoccupazioni del mondo, secondo le parole di S. Paolo [ 1 Cor 7,32 ] a proposito della verginità: « Io vorrei vedervi senza preoccupazioni ».

Ma il fatto che dei religiosi si riservino qualcosa per il futuro rientra nelle preoccupazioni della vita presente, che il Signore [ Mt 6,34 ] ha proibito ai suoi discepoli dicendo: « Non vi preoccupate per il domani ».

Quindi avere qualcosa in comune diminuisce la perfezione della vita cristiana.

3. I beni comuni appartengono in qualche modo ai singoli membri della comunità.

Per cui S. Girolamo [ Epist. 60 ] affermava di certuni: « Sono più ricchi da monaci di quanto non lo fossero da secolari; con il Cristo povero possiedono più di quanto avevano col diavolo ricco; la Chiesa piange dei ricchi che il mondo aveva prima conservato mendichi ».

Ora, il possesso personale delle ricchezze deroga alla perfezione della vita religiosa.

Quindi vi deroga anche il possesso dei beni in comune.

4. S. Gregorio [ Dial. 3,14 ] narra di un santo monaco di nome Isacco il quale, « geloso della sua povertà, ai discepoli che lo pregavano umilmente di accettare per l'uso del monastero i beni che erano offerti, rispose: "Il monaco che cerca sulla terra dei possessi non è un monaco" ».

E si riferiva ai beni in comune, offerti per l'uso del monastero.

Perciò possedere qualcosa in comune distrugge la perfezione della vita religiosa.

5. Il Signore [ Mt 10,9s ] ha dato le norme della perfezione religiosa ai suoi discepoli in questi termini: « Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio »: con le quali parole, secondo S. Girolamo [ In Mt 1 ], « egli condanna quei filosofi che il popolo chiamava Portabisaccia, i quali mentre disprezzavano il mondo e ritenevano un nulla tutte le cose, portavano con sé la propria dispensa ».

Quindi riservarsi qualcosa, o come bene proprio o come bene in comune, deroga alla perfezione della vita religiosa.

In contrario:

Il Decreto [ di Graz. 2,12,1,13 ] riporta queste parole di S. Prospero [ Pomerio, De vita contempl. 2,9 ]: « È evidente che la perfezione esige l'abbandono dei beni propri; essa invece è compatibile con il possesso dei beni della Chiesa, che sono beni comuni ».

Dimostrazione:

La perfezione, come si è visto [ q. 184, a. 3, ad 1; q. 185, a. 6, ad 1 ], non consiste essenzialmente nella povertà, ma nel seguire Cristo, secondo le parole di S. Girolamo [ In Mt 3, su 19,27 ]: « Poiché non basta abbandonare ogni cosa, Pietro aggiunge ciò che costituisce la perfezione: "E ti abbiamo seguito" ».

La povertà dunque è un mezzo o esercizio per giungere alla perfezione.

Da cui le parole dell'abate Mosé, riferite dalle Conferenze dei Padri [ 1,7 ]: « I digiuni, le veglie, la meditazione delle Scritture, la nudità e la privazione di tutti i beni non sono la perfezione, ma mezzi di perfezione ».

Ora, la privazione di tutti i beni, cioè la povertà, è un mezzo di perfezione in quanto con l'eliminazione delle ricchezze vengono tolti alcuni impedimenti della carità.

E questi sono principalmente tre.

Il primo è la preoccupazione che accompagna le ricchezze.

Da cui l'affermazione del Signore [ Mt 13,22 ]: « Il seme caduto tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola ».

- Il secondo è l'amore delle ricchezze, il quale cresce col possederle.

Scrive infatti S. Girolamo [ In Mt 3, su 19,23 ]: « Poiché le ricchezze possedute difficilmente sono disprezzate, il Signore disse non che "è impossibile", ma che "è difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli" ».

- Il terzo ostacolo è la vanagloria e l'orgoglio che nascono dalle ricchezze, secondo le parole del Salmo [ Sal 49,7 ]: « Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza ».

Dei tre ostacoli dunque il primo non è mai del tutto separabile dalle ricchezze, siano esse grandi o piccole: poiché è inevitabile che l'uomo in qualche modo sia preoccupato di acquistare o di conservare i beni esterni.

Ma se questi beni esterni non sono cercati e posseduti che in piccola quantità, quanto basta al semplice sostentamento, tale preoccupazione non ostacola l'uomo in modo rilevante, per cui neppure è incompatibile con la perfezione della vita cristiana.

Infatti il Signore non condanna qualsiasi preoccupazione, ma quella esagerata e dannosa.

Per cui nel commentare quel passo evangelico [ Mt 6,25 ]: « Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete », ecc., S. Agostino [ De op. monach. 26.34 ] afferma: « Non dice di non procurare queste cose per quanto la necessità lo richiede, ma di non mirare a queste cose e a non agire per esse nella predicazione del Vangelo ».

Il possesso invece di abbondanti ricchezze implica una preoccupazione più grande, che distoglie e impedisce gravemente l'animo umano dall'attendere totalmente al servizio di Dio.

- Gli altri due ostacoli poi, cioè l'amore delle ricchezze e l'orgoglio o la vanagloria per esse, non accompagnano se non le grandi ricchezze.

Tuttavia c'è una grande differenza tra il possedere le ricchezze, piccole o grandi, in proprio, e il possederle in comune.

Poiché la sollecitudine circa le proprie ricchezze appartiene all'amore privato, con cui uno ama se stesso temporalmente, mentre la sollecitudine per le cose comuni fa parte dell'amore di carità, che « non cerca il proprio interesse » [ 1 Cor 13,5 ], ma attende al bene comune.

Essendo dunque la vita religiosa ordinata alla perfezione della carità, che consiste nell'« amore di Dio fino al disprezzo di sé » [ Agost., De civ. Dei 14,28 ], è chiaro che il possedere qualcosa in proprio è incompatibile con la perfezione religiosa.

Invece la sollecitudine per i beni comuni può appartenere alla carità: sebbene anch'essa possa impedire degli atti più perfetti di carità, come la contemplazione di Dio o l'istruzione del prossimo.

Da ciò si dimostra quindi che possedere abbondanti ricchezze in comune, sia di beni mobili che di beni immobili, è un ostacolo alla perfezione, sebbene non la escluda totalmente.

Il possedere invece dei beni esterni in comune, sia mobili che immobili, nella misura sufficiente al semplice sostentamento non impedisce la perfezione della vita religiosa, se si considera la povertà in rapporto al fine comune a tutti gli ordini religiosi, che è il dedicarsi al servizio di Dio.

Se poi si considera la povertà in rapporto al fine specifico di ciascun istituto, allora, presupposto tale fine, la povertà più confacente potrà essere maggiore o minore: e ciascun ordine sarà più perfetto in materia di povertà quanto più la povertà sarà proporzionata al suo fine.

Ora, è evidente che per le opere esterne della vita attiva l'uomo ha bisogno di molti beni esterni, mentre per la contemplazione si richiedono poche cose.

Scrive infatti il Filosofo [ Ethic. 10,8 ] che « per le azioni c'è bisogno di molte cose, e tanto più numerose quanto più le azioni sono importanti e di valore; invece chi contempla non ha bisogno di nessuna di queste cose per la sua attività », ma solo del necessario, mentre il resto « è di ostacolo alla contemplazione ».

Così dunque risulta evidente che un ordine religioso ordinato alle opere della vita attiva, p. es. a combattere gli infedeli o a ospitare i pellegrini, sarebbe imperfetto se mancasse di beni comuni.

Invece gli ordini religiosi ordinati alla vita contemplativa sono tanto più perfetti quanto più la povertà fa diminuire in essi la sollecitudine per le cose temporali.

E la sollecitudine per le cose temporali è tanto più intollerabile quanto più grande è la sollecitudine che un ordine religioso richiede per le realtà spirituali.

Ora, è evidente che richiede maggiore sollecitudine per le realtà spirituali un ordine religioso istituito per contemplare e per trasmettere ad altri le verità contemplate mediante l'insegnamento e la predicazione che non un ordine istituito per la sola contemplazione.

Perciò un tale ordine richiede una povertà che implichi il minimo di sollecitudine.

È evidente poi che la minima sollecitudine si ha nel conservare le sole cose necessarie per l'uso, procurate a tempo opportuno.

Perciò ai tre gradi degli ordini religiosi sopra descritti corrispondono tre gradi di povertà.

Agli istituti ordinati alle opere della vita attiva si addice di avere l'abbondanza delle ricchezze possedute in comune.

- A quelli ordinati alla vita contemplativa si addice invece il possesso moderato dei beni: a meno che tali religiosi non siano tenuti a esercitare l'ospitalità e ad assistere i poveri, o da se stessi o per mezzo di altri.

A quelli infine che sono ordinati a comunicare agli altri la verità contemplata si addice la massima libertà dalle sollecitudini dei beni esterni.

E ciò viene ottenuto conservando lo stretto necessario alla vita, procurato a tempo opportuno.

E ciò fu insegnato dal Signore, iniziatore della povertà, mediante il suo esempio: egli infatti aveva la borsa, affidata a Giuda, in cui venivano riposte le offerte a lui fatte, come riferisce il Vangelo [ Gv 12,6; Gv 13,29 ].

- Né fanno obiezioni quelle parole di S. Girolamo [ In Mt 3, su 17,26 ]: « Se uno volesse obiettare: Come mai Giuda poteva avere del danaro nella sua borsa? rispondiamo: Perché il Signore aveva ritenuto ingiusto impiegare per sé il danaro dei poveri », cioè pagando il tributo.

Poiché tra quei poveri i primi erano i suoi discepoli, per le cui necessità veniva speso il danaro della borsa di Cristo.

Nel Vangelo [ Gv 4,8 ] infatti si legge che « i discepoli erano andati in città a far provvista di cibi »; e altrove [ Gv 13,29 ] si dice che i discepoli « pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: Compra quello che ci occorre per la festa; oppure che dovesse dare qualcosa ai poveri ».

Dal che si rileva che conservare il danaro, o altri beni in comune, per il sostentamento dei religiosi dell'istituto o degli altri poveri, è conforme alla perfezione insegnata da Cristo con il suo esempio.

Del resto anche i discepoli, dai quali hanno preso origine tutte le forme di vita religiosa, dopo la risurrezione [ del Signore ] conservavano il prezzo dei campi venduti, e « lo distribuivano secondo il bisogno di ciascuno » [ At 2,45 ].

Analisi delle obiezioni:

1. Da quelle parole del Signore, come sopra [ q. 184, a. 3, ad 1 ] si è visto, non deriva che la povertà sia essa stessa la perfezione, ma che è un mezzo di perfezione, e precisamente il minore fra i tre mezzi principali, secondo le spiegazioni date [ q. 186, a. 8 ]: infatti il voto di castità è superiore a quello di povertà, e il voto di obbedienza è superiore a entrambi.

E poiché i mezzi non sono cercati per se stessi, ma per il fine, una cosa non è migliore in proporzione alla bontà del mezzo, ma nella misura in cui questo è meglio proporzionato al fine: come il medico più capace di guarire non è quello che dà le dosi più forti di medicina, ma quello che dà la medicina meglio proporzionata alla malattia.

Perciò non è detto che un ordine religioso sia tanto più perfetto quanto più è rigoroso nella povertà, ma nella misura in cui la sua povertà è meglio proporzionata al fine comune e a quello suo particolare.

E anche se il rigore della povertà rendesse un ordine religioso più perfetto in quanto più povero, non lo renderebbe però più perfetto in senso assoluto.

Poiché un altro ordine potrebbe essergli superiore nella continenza e nell'obbedienza, e così sarebbe superiore in senso assoluto: poiché chi eccelle nelle cose più importanti è più perfetto in senso assoluto.

2. Le parole del Signore: « Non vi preoccupate per il domani » non intendono proibire ogni provvigione per il futuro.

Ciò infatti sarebbe pericoloso, notava S. Antonio [ Coll. Patrum 2,2 ], ricordando come « i monaci che si erano privati di tutto, al punto di non riservarsi né il vitto di un giorno, né un solo danaro », o che facevano altre cose del genere, « si siano visti ben presto così ingannati da non poter portare a termine felicemente l'opera intrapresa ».

E come dice S. Agostino [ De op. monach. 23.29 ], se le parole del Signore: « Non vi preoccupate per il domani » dovessero essere intese nel senso di non conservare nulla per il domani, « non potrebbero essere osservate da quelli che si appartano per molti giorni da tutti gli uomini, vivendo tutti assorti intensamente nella preghiera ».

E aggiunge: « O bisognerà forse dire che più essi sono santi, meno assomigliano agli uccelli? ».

E poco dopo [ De op. monach. 24.31 ]: « Se poi si volessero costringere in forza del Vangelo a non serbare nulla per il domani, potrebbero rispondere: Perché dunque il Signore stesso ebbe una borsa dove riponeva il danaro delle offerte?

Perché i santi Padri furono provvisti di grano tanto tempo prima che venisse la carestia?

E perché gli Apostoli provvidero del necessario i santi nella loro indigenza? ».

Perciò la frase: « Non vi preoccupate per il domani », secondo S. Girolamo [ In Mt 1 ], va intesa così: « Basta pensare al momento presente, lasciando al Signore le incertezze del futuro ».

E secondo il Crisostomo [ Op. imperf. in Mt hom. 16 ]: « Basta il travaglio che ti è imposto per l'acquisto del necessario; non ti tormentare per il superfluo ».

- S. Agostino [ De serm. Dom. in monte 2,17.56 ] poi la spiega così: « Quando facciamo qualcosa di buono, non pensiamo ai beni temporali, indicati dal domani, ma ai beni eterni ».

3. Le parole di S. Girolamo valgono nel caso di ricchezze sovrabbondanti ritenute come proprie, e per il cui abuso i singoli membri della comunità si insuperbiscono e vivono nel lusso.

Ma ciò non avviene nel caso di ricchezze moderate conservate in comune per il solo sostentamento necessario a ciascuno: poiché la conservazione dei beni fatta in comune è giustificata dalla necessità che i singoli hanno di usarne come persone private.

4. Il monaco Isacco ricusò di ricevere i possessi perché temeva che in tal modo si giungesse alle ricchezze superflue, che sono un ostacolo alla perfezione religiosa.

Aggiunge infatti S. Gregorio: « Egli temeva di perdere la tranquillità della sua povertà come i ricchi avari temono di perdere le ricchezze periture ».

Non si legge però che egli abbia ricusato di conservare qualcosa per il necessario sostentamento.

5. Il pane, il vino e altre cose del genere sono ricchezze naturali, come spiega il Filosofo [ Polit. 1,3 ], mentre il danaro è una ricchezza artificiale.

E per questo alcuni filosofi ricusavano l'uso del danaro, servendosi invece degli altri beni, come per vivere una vita più conforme alla natura.

E così S. Girolamo, con le parole del Signore il quale proibisce l'una e l'altra cosa, dimostra che è lo stesso possedere il danaro e possedere i beni necessari alla vita.

- Tuttavia il Signore non proibì a tutti di conservare tali cose, ma proibì solo di portarle per via a quelli che erano mandati a predicare.

D'altra parte noi abbiamo già visto sopra [ q. 185, a. 6, ad 2; I-II, q. 108, a. 2, ad 3 ] come vadano intese queste parole del Signore.

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