Summa Teologica - III

Indice

L'incarnazione

b) difetti assunti e implicanze ( III, qq. 14-26 )

Introduzione

1 - Il volume XXIV della nostra traduzione della Somma Teologica non contiene un trattato, ma la sola seconda parte di un trattato.

Perciò la vera introduzione è nel volume precedente.

Uno sguardo alla tavola schematica serve a orientare più e meglio di un lungo discorso sullo smembramento materiale che ci è stato imposto dall'ampiezza del De Verbo Incarnato.

Nel sottotitolo abbiamo messo in evidenza il gruppo principale delle questioni qui incluse ( qq. 16-26 ) e abbiamo tradotto il termine consequentiae con quello di implicanze, perché esprime in questo caso meglio di ogni altro il pensiero dell'Autore.

« La sezione De consequentibus unionem », scrive il P. L. B. Gìllon, « non potrebbe essere considerata come una serie di appendici marginali, riallacciate al mistero con un legame più o meno elastico.

Non si tratta di un seguito qualsiasi, ma di una serie di conclusioni virtualmente contenute nei principi di cui la sezione precedente ( qq. 2-15 ) ci ha messo in possesso, conclusioni che un procedimento rigorosamente dimostrativo è incaricato di rendere esplicite » ( « La notion de conséquence de l'union hypostatique », in Angelicum, 1938, p. 33 ).

Ci fermeremo dunque a considerare alcuni problemi che si presentano di particolare importanza, o per il loro valore intrinseco, o per la sensibilità mostrata dai teologi moderni nei loro riguardi.

I Fonti immediate del trattato tomistico e vicende storiche della Cristologia.

2 - Pochi trattati della Somma Teologica sono così legati alle fonti immediate come il De Verbo Incarnato nella sua struttura materiale.

Il controllo è facile, perché si tratta delle due opere teologiche più in voga nel secolo XIII: il De Fide Orthodoxa di S Giovanni Damasceno, e il 3 Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo.

Il primo di questi scritti è regolarmente citato, il secondo non viene neppure ricordato.

E questo per la semplice ragione che si tratta di una raccolta di testi, comoda quanto si vuole, ma priva di qualsiasi originalità.

Del resto una citazione esplicita sarebbe stata inutile per i contemporanei dell'Aquinate ; perché tutti, studenti e studiosi di teologia, avevano sempre le Sentenze a portata di mano.

Le due opere ricordate offrivano allo studioso un abbondante materiale di riflessione; ma neppure il De Fide Orthodoxa poteva considerarsi organicamente ben congegnato, così da soddisfare le esigenze di una mente speculativa come quella del Dottore Angelico.

L'opera del Damasceno aveva però il vantaggio di far conoscere, sia pure per sommi capi, le vicende della cristologia cattolica in mezzo alle molte eresie che l'avevano minacciata nei primi sette secoli dell'era cristiana.

3 - L'informazione storica dell'Aquinate fu in proposito meno perfetta di quella che oggi noi possiamo ricavare da un buon manuale di patrologia.

Ed è questo l'unico apporto che noi potremmo offrire facilmente al suo trattato.

Si sa che nelle monografie moderne sull'argomento non manca mai un excursus sulle controversie cristologiche.

Tale esigenza, possiamo dire che era sentita anche dai teologi medioevali.

Infatti nel commentare il prologo di S. Giovanni, S. Tommaso aveva abbozzato lo schema seguente a proposito delle prime quattro proposizioni del quarto Vangelo « Se uno ben consideri queste quattro proposizioni troverà che con esse vengono distrutti in modo evidente tutti gli errori [ in proposito ] degli eretici e dei filosofi.

- Infatti alcuni eretici, come Ebione e Cerinto dissero che Cristo non preesisteva alla Beata Vergine, ma che da lei aveva preso inizio il suo essere e la sua durata, facendone cioè un puro uomo, che però aveva meritato la divinità mediante i suoi meriti.

Errore questo che fu condiviso anche da Fotino e da Paolo di Samosata.

E l'Evangelista lo esclude affermando: "In principio erat Verbum", egli, cioè era prima di ogni cosa ed eternamente nel Padre, perciò non prese inizio dalla Vergine.

« Sabellio invece, pur affermando che Dio il quale assunse la carne non ebbe inizio dalla Vergine, ma esisteva dall'eternità, tuttavia riteneva che la Persona del Figlio la quale assunse la carne dalla Vergine non fosse distinta da quella del Padre, ma che Padre e Figlio fossero l'identica persona, negando così in Dio la trinità delle persone.

Contro questo errore l'Evangelista afferma: "Et Verbum erat apud Deum", cioè il Figlio era presso il Padre e distinto da lui.

- Eunomio riteneva che il Figlio fosse del tutto dissimile dal Padre; e l'Evangelista esclude anche quest'errore affermando: "Et Deus erat Verbum".

- Ano poi diceva che il Figlio "era minore del Padre" ; ma l'Evangelista lo esclude con le parole che abbiamo già commentato: "Hoc erat in principio apud Deum" » ( In Ioann. e. 1, lect. 1, n. 64 ).

Un'esposizione anche più ampia si trova nel 4 Cont. Gent. ( cc. 4-9; cc. 28-38 ).

Pensiamo quindi di essere in perfetto stile con S. Tommaso, offrendo ai nostri lettori un quadro storico più esatto, sebbene sommano, per meglio comprendere le sue preoccupazioni nel controllare l'ortodossia di ogni espressione in campo cristologico ( vedi qq. 16-17 ).

4 - Le prime eresie nacquero dalla paura di isolarsi, scostandosi dalla rigida e razionale convezione di Dio esistente nella cultura giudaica e tra i filosofi dell'ellenismo.

L'unità di Dio vi era concepita come un'unità di persona alla quale era irriducibile la Trinità della rivelazione cristiana : di qui il così detto monarchismo.

Mettendosi da questo punto di vista, il cristiano era costretto a risolvere il problema del Cristo, o affermandone l'identità col Padre, per difenderne la divinità; oppure era portato a ridurlo a una realtà creata, a un'energia divina impersonale che si sarebbe rivelata in un puro uomo.

Il primo tipo di monarchismo fu chiamato modalista, poiché riduceva le tre persone divine a dei semplici modi, nei quali si sarebbe manifestato l'unico Dio.

Questi eretici furono chiamati anche patripassiani, perché secondo la loro concezione il Padre stesso avrebbe, sotto nome di Cristo, sofferto la passione e la morte.

Tra questi eretici vanno inseriti i nomi di Noeto, Prassea e soprattutto di Sabellio.

Questa setta fu subito affrontata da Tertulliano, da S. Ippolito, e da S. Dionigi d'Alessandria.

Dionigi però ebbe a sua volta delle espressioni così poco felici da far pensare a una nuova eresia, cioè al subordinazionismo, che sarebbe stato poi difeso da Ano e dai suoi seguaci.

A ristabilire l'ordine e la chiarezza d'idee, turbati da queste lotte, intervenne nel 260 il Papa S. Dionigi [ 268 ]; il quale oltre a condannare i patripassiani, corresse le formule poco felici del suo omonimo patriarca di Alessandria.

Intanto i cristiani giudaizzanti, gli Ebioniti, ai quali i teologi medioevali attribuiranno un corifeo di nome Ebione, avevano dato vita a un'altra eresia, che faceva di Cristo un puro uomo, figlio di Dio solo per adozione.

Il propalatore più noto di questo errore fu Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, condannato e deposto nel 268.

Ma l'idea dell'inferiorità di Cristo rispetto al Padre doveva provocare ancora gravissimi turbamenti nella Chiesa.

Nel secondo decennio del secolo IV l'oriente cristiano era di nuovo in agitazione per le teorie di un prete alessandrino, Ano [ 256- 336 ], discepolo di Luciano d'Antiochia.

Per il nuovo eresiarca il Verbo non sarebbe che un intermediano tra Dio e il mondo una realtà creata.

5 - Nel combattere l'arianesimo, Apollinare di Laodicea [ 310- 390 ] incorse nel primo di quegli errori che si possono chiamare cristologici in senso rigoroso; poiché quelli visti finora sono innanzi tutto errori trinitari.

Apollinare invece riteneva con i Padri niceni che Cristo fosse realmente il Figlio consostanziale di Dio; ma pensava che l'umanità assunta dal Verbo non fosse integra.

Cristo, cioè, non avrebbe avuto un'anima razionale: le funzioni di essa sarebbero state assolte in lui dal Verbo divino.

Qualche cosa di simile avevano già detto fin dalla prima generazione cristiana anche i doceti, i quali riducevano l'umanità assunta, e specialmente il corpo, a pura apparenza.

Ma spesso il docetismo gnostico si era mescolato col monarchismo modalista o con l'adozionismo di cui abbiamo parlato.

Invece con Apollinare abbiamo l'avvio a quelle controversie cristologiche, le quali avrebbero impegnato per vari secoli la teologia cattolica.

L'errore fu condannato solennemente nel I Concilio di Costantinopoli [ 381 ]; e da allora nella teologia cattolica si ebbe la precauzione di spiegare che Dio assunse il corpo « mediante anima ».

La scuola antiochena, che aveva avuto un grande merito nel respingere l'eresia di Apollinare, ebbe poi il torto d'insistere troppo sull'integrità dell'uomo assunto, fino al punto di ipostatizzarlo.

E così nacque l'errore di Nestorio, il quale certamente lo derivò dal suo grande maestro Teodoro di Mopsuestia.

- Ci volle il Concilio di Efeso del 431 per definire con tutta chiarezza che in Cristo c'è un'unica ipostasi, pur essendoci in lui due nature.

La storia del pensiero pare proprio che abbia un moto pendolare, perché puntualmente all'errore di Nestorio fece seguito subito l'errore opposto, quello di Eutiche; il quale, nel combattere a favore dell'unità ipostatica del Cristo, giunse a sostenere l'unità delle due nature in Cristo dopo l'assunzione.

Ci volle un altro concilio ecumenico, quello di Calcedonia [451], per difendere l'ortodossia cattolica.

Ma purtroppo il monofisismo ebbe strascichi lunghissimi, dando origine al monotelismo e al monergismo.

Di questi ultimi errori avremo modo di parlare più a lungo nelle qq. 18 e 19.

6 - Nel riepilogare queste vicende del dogma cattolico abbiamo taciuto il nome dei grandi difensori dell'ortodossia; ma essi affiorano con la massima evidenza tra le fonti del trattato tomistico.

Al primo posto troviamo S. Agostino, al quale spetta il merito di aver preparato la Chiesa latina alle grandi controversie cristologiche dei secoli V, VI e VII con le sue sintesi profonde e luminose, e con la sua esegesi accorta e ingegnosa dei passi scritturistici più scabrosi.

E neppure manca nelle questioni qui tradotte M. S. Boezio [ 470-525 ], al quale si deve l'analisi dei due concetti chiave di tutta la cristologia, cioè dei concetti di natura e di persona.

Accanto a lui e prima di lui l'Autore colloca S. Leone Magno [ 440-461 ], il Papa di Calcedonia, e S. Girolamo.

- Un'importanza sempre eccezionale viene concessa ai testi dello Pseudo-Dionigi, che era venerato nel secolo XIII come l'interprete autentico del pensiero paolino, e come la voce più autorevole dei Padri apostolici.

Un discorso a parte meriterebbe l'utilizzazione tomistica della sacra Scrittura in questo trattato.

È evidente che i passi più citati sono quelli del nuovo Testamento.

La parte del leone spetta a S. Paolo, come capita in quasi tutti i trattati tomistici.

Ma colpisce pure l'abbondanza delle citazioni tratte dall'evangelista teologo, cioè da S. Giovanni ; e meraviglia addirittura la frequenza con la quale vengono citati i libri dell'antico Testamento, e in modo specialissimo i Salmi.

Va notato in proposito che per l'Aquinate il messianismo del Salterio non si riduceva a pochi brani, ma abbracciava e permeava il libro per intero: « Tutto ciò che appartiene alla fede dell'Incarnazione è trattato con tanta chiarezza in quest'opera, da sembrare quasi un vangelo e non una profezia ». ( In Psalmos, proem. ).

II Le « infermità » di Cristo nella descrizione scolastica.

7 - Nel leggere con attenzione le pagine del Vangelo allo scopo di rilevare gl'intimi sentimenti di Cristo, si rimane colpiti da due serie ben diverse di affermazioni.

La prima è composta di dichiarazioni esplicite della sua potenza, scienza, e santità senza limiti, che trovano la loro spiegazione coerente nella frase categorica: « Io e il Padre siamo una cosa sola » ( Gv 1,30 ).

- La seconda risulta da tutte quelle dichiarazioni di umiltà e di debolezza, che vanno dalla preghiera d'implorazione al rifiuto esplicito di promuovere personalmente la propria gloria come una nullità: « Io non cerco la mia gloria … Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla » ( Gv 8,50.54 ).

Sappiamo che si deve proprio all'esistenza di queste apparenti contraddizioni, se nel corso dei secoli il magistero ecclesiastico ha potuto precisare le idee fondamentali della cristologia, presentando il Cristo come « perfetto Dio e perfetto uomo » ( Simbolo Atanas. ; cfr. Dnz.-S., 76 ).

Tutti i teologi sanno quale sia il valore dell'aggettivo perfetta in quest'ultimo caso.

Cristo è perfetto come uomo nel senso che è integro, non già nel senso cha da lui debba essere escluso qualsiasi difetto.

Anzi proprio in forza di codesta formula si vuole riaffermare in Cristo la presenza di tutti quei difetti che sono impliciti nella condizione fisica e fisiologica dell'uomo dopo il peccato originale.

Nelle qq. 7-13 della Terza Parte, che nella nostra edizione appartengono al volume XXIII, si è parlato a lungo delle perfezioni dovute all'umanità assunta dal Verbo.

Qui ormai resta da parlare soltanto dei difetti, che dai Padri specialmente vengono denominati « infirmitates », ma che potrebbero essere indicati da tutti i loro sinonimi, oppure da termini più concreti come passioni, sofferenze, tribolazioni.

8 - Le perfezioni della santa umanità di Cristo, durante la sua vita mortale, avevano la loro sede nell'anima; le imperfezioni e i difetti erano invece connessi in modo più o meno diretto con il corpo.

Sarebbe pericoloso però insistere troppo in questa spartizione, perché potrebbe facilmente nascere l'idea che le due parti sostanziali dell'uomo assunto non siano ugualmente reali.

Così infatti pensarono i doceti, che fecero del corpo di Cristo un'entità fantastica di sola apparenza.

Del resto non sarebbe reale la sofferenza che il Verbo incarnato ha accettato per noi, se si fosse trattato solo di una macerazione del corpo, senza una vera angoscia da parte della sua anima.

Di qui la necessità di distinguere vari strati nelle profondità psicologiche dell'uomo Cristo-Gesù.

La teologia cattolica non potrà mai rinunziare al concetto di perfezione assoluta e consumata da parte di colui, che fu visto « pieno di grazia e di verità » ( Gv 1,14 ).

Si tratta di una perfezione istituzionale, dovuta al fatto irreversibile dell'unione ipostatica, cosicché non ammette sviluppi successivi.

Ma accanto a questo fondo imperturbabile d'inesauribile perfezione, che si riscontra nella parte più nobile dell'anima, deve trovar posto il vasto mondo delle passioni, con le sue vicissitudini.

Contro i monoteliti che pretendevano di assorbire la volontà umana del Cristo nel volere divino, S. Tommaso accetta la distinzione dei maestri, cioè dei teologi scolastici, tra « voluntas ut natura » e « voluntas ut ratio » ( cfr. q. 18, a. 3 ).

Ma per assicurare una reazione psicologica autonoma di fronte alle sofferenze fisiche o all'esperienza vissuta, è necessario ammettere nella psicologia umana una pluralità di potenze sensitive e appetitive, di cui spesso i moderni si sono sbarazzati senza seri motivi.

Qui nel trattato dell'incarnazione S. Tommaso non ha bisogno di spendere molte parole: si contenta di un accenno ( q. 15, a. 4 ).

Ma egli suppone che i suoi lettori sappiano quanto egli ha detto già a suo tempo, cioè nella I-II, q. 22, sulla sede propria delle passioni che è l'appetito sensitivo.

E neppure va dimenticato quanto aveva precisato nella Prima Parte, alla q. 81: « De sensualitate ».

In codesta questione egli si era posto persino il quesito: « Se la sensualità [ ossia la parte appetitiva sensibile dell'anima ] si divida in irascibile e concupiscibile, come in due potenze distinte » ( a. 2 ).

9 - Si può sorridere quanto si vuole alla rievocazione di queste antiche denominazioni.

Sta il fatto però che con esse è ancora possibile distinguere nettamente nella complessa psicologia umana quei fenomeni sui quali si basa la stessa indagine moderna, quando ci parla di sdoppiamento della personalità.

In tutti i casi è certo che S. Tommaso riesce con questi mezzi a disimpegnarsi, offrendoci una ricostruzione ragionevole della psicologia del Cristo persino nelle drammatiche vicende della sua passione dolorosa.

Ecco, p. es., come commenta le parole con le quali Cristo medesimo confessa il proprio turbamento nell'atto in cui rivolge il pensiero alla morte imminente: « Considera che è una cosa mirabile quanto egli dice [ Gv 12,27 ]: "Adesso l'anima è turbata".

Sopra infatti il Signore aveva esortato i suoi discepoli a odiare la loro anima in questo mondo, ed ora nell'imminenza della morte sentiamo il Signore stesso che dice: "Adesso l'anima mia è turbata".

Per questo S. Agostino si domanda: "Signore, tu comandi che la mia anima ti segua, e vedo che l'anima tua si turba: ma quale sostegno cercherò, se la rupe stessa cede?".

Perciò si deve considerare: primo, che cosa sia questo turbamento in Cristo secondo, perché egli volle subirlo.

« Ebbene si deve riflettere che si parla di turbamento quando una cosa si muove: diciamo infatti che il mare è turbato quando è mosso.

Perciò quando uno oltrepassa la misura propria della quiete e tranquillità, si dice che è turbato.

Ora, nell'anima umana c'è una parte sensitiva e una parte razionale.

E nella parte sensitiva abbiamo turbamento, quando viene agitata da qualche moto: p. es., quando viene oppressa dal timore, elevata dalla speranza, dilatata dalla gioia, o commossa da qualche altra passione.

Ma questo turbamento talora rimane sotto il controllo della ragione; altre volte invece oltrepassa i limiti della ragione, quando cioè la ragione stessa viene turbata.

E questo in noi capita spesso; ma in Cristo non poteva capitare, essendo egli la sapienza stessa del Padre; e neppure capita nel sapiente, in rapporto cioè alla ragione.

« Stando quindi a questa spiegazione la frase evangelica, "Adesso l'anima mia è turbata", significa: è agitata dalle passioni del timore e della tristezza secondo la parte sensitiva, da esse però non è turbata la ragione, che non ha abbandonato il suo ordine « Ora, queste passioni furono in Cristo diversamente da come si producono in noi.

In noi infatti esse sono dovute a una necessità, poiché da esse siamo mossi e toccati quasi come dall'esterno; in Cristo invece esse non sono dovute a una necessità, ma al comando della ragione, non essendoci stata in lui una passione che egli non abbia eccitato.

Infatti in Cristo le potenze inferiori erano così sottoposte alla ragione, da non poter agire o patire niente che non fosse stato ordinato dalla ragione.

Ecco perché S. Giovanni aveva detto in precedenza ( Gv 11,33 ), che "Gesù ebbe un fremito nel suo spirito, e turbò se stesso".

Riguardo poi allo scopo di questo turbamento, si deve notare che il Signore volle turbarsi per due motivi.

Primo, per dare un insegnamento di fede, cioè per confermare la verità della natura umana [ assunta ]: e per questo nell'imminenza della passione egli oramai compie tutto umanamente.

- Secondo per darci l'esempio.

Se infatti egli avesse sopportato tutto senza turbamento, senza provare nessuna passione nella sua anima, non avrebbe offerto agli uomini un esempio convincente di come va affrontata la morte.

Perciò volle sentirsi turbato, affinché quando noi ci turbiamo non ricusiamo di subire la morte, e non ci perdiamo di coraggio.

Di qui le parole di S. Paolo [ Eb 4,15 ]: "Noi non abbiamo un pontefice che non sia in grado d'aver compassione delle nostre infermità, ma è stato messo alla prova in tutto come noi escluso il peccato".

Questo turbamento di Cristo fu naturale: poiché come l'anima ama naturalmente l'unione col corpo, così naturalmente ha orrore di separarsi da esso, specialmente poi dal momento che la ragione di Cristo ebbe permesso all'anima e alle potenze inferiori di agire secondo le loro proprie tendenze « ( In Ioann., c. 12, lect. 5 ).

10 - Pensiamo che a questa ricostruzione psicologica ci sia poco da aggiungere.

C'è solo da sperare che la moderna psicologia sperimentale possa dirci qualche cosa di più nell'analisi dei sentimenti di Cristo, che affiorano nel Vangelo; ma per il momento non troviamo nulla che possa sostituire validamente e con sicurezza i vecchi schemi.

Quegli stessi esegeti che pretendono di fare a meno delle categorie scolastiche, nella difficile impresa di combinare le affermazioni contrastanti dei Vangeli, cedono spesso alla tentazione di cercare la coerenza al livello più basso e volgare, cioè al livello del razionalismo, che col pretesto di demitizzare nega il mistero.

Ma il teologo cristiano deve partire necessariamente dai dati essenziali della fede, persino nella descrizione e nell'analisi psicologica delle passioni e delle debolezze attribuite al Verbo Incarnato. S. Tommaso, p. es., nel brano riferito ha insistito sulla volontarietà degli stessi turbamenti passionali: perché senza codesto elemento si viene a menomare il merito dell'espiazione compiuta da Cristo con le sue sofferenze, l'efficacia infallibile del suo volere e la perfetta sua adesione alla volontà del Padre celeste.

Più ancora egli si sente obbligato a precisare che queste debolezze coassunte non provocarono mai in Cristo uno stato di coazione, come si addice ai figli di Adamo, che ad esse furono assoggettati in conseguenza del peccato ( cfr. q. 14, aa. 2,3 ).

Inoltre bisogna saper distinguere tra infermità e infermità; perché alcuni dei nostri difetti sono del tutto incompatibili con la santità evidente del Figlio di Dio incarnato.

Perciò il teologo deve escludere da lui il peccato, la propensione al male, ossia il fornite, e la stessa ignoranza ( cfr. q. 15, aa. 1-3 ).

E questo non si può fare in base a frasi più o meno chiare dei testi biblici ; ma solo in base alla consonanza necessaria tra i vari aspetti del mistero cristiano.

III Cristo mediatore e sacerdote.

11 - Nel definire il concetto di sacerdote S. Tommaso scrive: « L'ufficio proprio del sacerdote è di essere mediatore tra Dio e il popolo, in quanto trasmette al popolo le cose divine » ( q. 22, a. 1 ).

Si direbbe quindi che mediatore sia quasi il genere prossimo rispetto alla nozione di Sacerdote.

Eppure nella Somma queste due proprietà del Cristo sono oggetto non solo di questioni ben distinte ma addirittura non contigue.

Il sacerdozio infatti è preso in esame alla q. 22, cioè nel gruppo delle questioni relative ai rapporti di Cristo col Padre, la sua mediazione invece è rimandata alla q. 26, come finale di quelle relative ai suoi rapporti con noi.

Lo smembramento si deve appunto all'accettazione di codesta distinzione tra i due tipi di rapporti come schema di lavoro: e quindi al fatto che nel concetto più generico di mediatore prevale il legame con l'umanità da rappacificare, mentre nel concetto più specifico di sacerdote prevale il legame con Dio.

Tale dissociazione permetteva inoltre di concludere con un tema riassuntivo l'intero trattato « de ipso incarnationis mysterio ».

Quando però vogliamo trattare in maniera completa e monografica del sacerdozio di Cristo non è praticamente possibile distinguere le due funzioni.

- Forse questa riflessione così ovvia non sempre è stata fatta e apprezzata a dovere dai teologi che hanno affrontato l'argomento.

12 - Pensiamo che per una esposizione del pensiero genuino di S. Tommaso sul sacerdozio di Cristo sia opportuno rifarsi a considerazioni molto ampie, perché il sacerdozio come tale investe i rapporti istituzionali che legano la creatura al creatore.

Non è un caso infatti che egli nella Summa Contra Gentiles, trovi un motivo di convenienza dell'assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio nel fatto che l'uomo, essendo composto di una natura insieme spirituale e corporale, costituisce come il confine tra le due, cosicché quanto viene compiuto per la salvezza dell'uomo sembra riguardare sia le nature spirituali che quelle materiali » ( 4 Cont. Gent., e. 55 ).

Questa immagine è resa in modo anche più chiaro nel tratto sull'uomo e sull'anima in particolare: « Si dice appunto l'anima intellettiva è come l'orizzonte e il confine tra le realtà corporee e quelle incorporee, perché è una sostanza incorporea, e tuttavia forma di un corpo » ( 2 Cont. Gent., e. 68 ).

In base a questa concezione l'uomo stesso per la sua natura è posto in una condizione di intermediano.

Se vogliamo che una premessa soltanto della mediazione vera e propria, che non si ferma alla collocazione in un punto intermedio nella scala gerarchica, ma esige un complesso di funzioni per stabilire un contatto dinamico tra la realtà superiore e quella inferiore.

Però non va dimenticato che « agere sequitur esse » e ciò ha posto l'uomo come punto di contatto tra la realtà visibile e quella invisibile, è chiaro che voleva affidargli un compito di mediatore.

Infatti tutte le creature inferiori, prive d'intelletto, risalgono a Dio attraverso l'intelletto e la volontà dell'uomo, chiamato a esprimerne l'intelligibilità e a gustarne.

E d'altra parte la tecnica umana è fatta per guidare le creature visibili secondo il piano divino, rendendole docili strumenti del vivere umano fino alle sue espressioni più alte e più pure.

I teologi non sono propensi a concedere la dignità sacerdotale ad Adamo nello stato d'innocenza; perché non si vede quale mediazione egli potesse esercitare tra Dio e il resto dell'umanità.

Ma se consideriamo l'uomo nel quadro generale della creazione, quella dignità non può escludersi; sebbene l'esercizio di codesta dignità debba essere concepito in forme assai diverse da quelle dovute alla condizione di peccatori.

S. Tommaso non esclude che Adamo abbia offerto dei sacrifici, forse a ch prima del peccato ( cfr. II-II, q. 85, a. 1, ad 2 ).

Come tutti i teologi medioevali S. Tommaso è disposto a « scontrare nell'uomo creato in grazia ogni virtù ed ogni perfezione ( cfr. I, q. 95, aa. 1, 3 ).

Ma col peccato tutto è irreparabilmente perduto.

E quindi la stessa mediazione naturale dell'uomo rispetto al mondo visibile viene compromessa in quello che ha di sacro e di soprannaturale.

Nessun omaggio dell'uomo peccatore può essere gradito a Dio.

Perciò l'intervento del Redentore dovrà servire a recuperare il piano divino, assumendo egli stesso quei compiti che l'uomo decaduto non è ormai più in grado di assolvere.

In più egli dovrà ristabilire i rapporti di amicizia tra Dio e l'umanità peccatrice.

A tutto rigore, nota S. Tommaso, Dio avrebbe anche potuto contentarsi di una soddisfazione imperfetta e inadeguata.

E in tal senso anche la soddisfazione di un puro uomo poteva essere sufficiente.

Ma se pensiamo che « ogni realtà imperfetta presuppone una corrispondente realtà perfetta che le sia di sostegno, ogni soddisfazione di un puro uomo si comprende che viene ad avere efficacia dalla soddisfazione di Cristo » ( III, q. 1, a. 2, ad 2 ).

I teologi qui non discutono, perché la funzione mediatrice di Cristo è troppo evidente nei testi biblici, specialmente nelle lettere di S. Paolo.

Del resto il concetto stesso di mediatore è talmente affine a quello di Redentore e di Salvatore da non lasciare in proposito ombra di dubbio.

I quesiti impostati in proposito da Pietro Lombardo nel 3 Sent., d. 19 sono del tutto marginali.

Più complessa è invece la questione relativa al costitutivo formale del sacerdozio di Cristo, e gli stessi teologi mostrano di non aver maturato abbastanza la loro riflessione su questo tema piuttosto tardivo.

È vero infatti che del sacerdozio di Cristo offre un'esposizione meravigliosa l'Epistola agli Ebrei; ma i SS. Padri si contentarono praticamente di ripeterne le formule, e gli stessi grandi teologi del secolo XIII non insistono nella speculazione del mistero.

Si deve perciò a S. Tommaso il merito di aver impostato su questo tema i quesiti essenziali, proponendo il sacerdozio di Cristo all'indagine dei teologi posteriori.

Dal concetto di mediatore egli deduce la necessità di attribuire a Cristo la dignità di sacerdote non in quanto Dio, ma in quanto uomo: « In quanto uomo [ Cristo ] era superiore agli uomini per la pienezza della grazia e per l'unione [ ipostatica ], e inferiore a Dio per la natura creata assunta.

Perciò propriamente parlando egli è mediatore in forza della sua natura umana » ( 3 Sent., d. 19, a. 5, qc. 3, ad 2 ).

14 - I compiti specifici del sacerdozio sono la preghiera e il sacrificio: « Come è ufficio del sacerdote pregare, così lo è pure offrire sacrifici » ( 3 Sent., d. 17, a. 3, qc. 2, arg. i ; cfr. ibid., qc. 1, 2 arg. 5. c. ).

Sembra però che questa affermazione del Commento giovanile alle Sentenze debba essere precisata dal seguente rilievo della Somma Teologica: « Sebbene la preghiera si addica ai sacerdoti, non è però il loro compito esclusivo, perché a tutti spetta pregare per sé e per gli altri » ( q. 22, a. 4, ad 1 ).

Tuttavia anche se non è il compito esclusivo del sacerdote, la preghiera è uno dei suoi impegni fondamentali.

Ecco perché Cristo vi si applicò costantemente; e, come ci narra l'evangelista Giovanni, egli volle far precedere l'immolazione cruenta del Calvario dalla preghiera sacerdotale del Cenacolo.

E S. Paolo proprio illustrando la dottrina riguardante il sacerdozio di Cristo scrive: « Nei giorni della sua carne, avendo offerto preghiere e suppliche a Colui che poteva salvarlo da morte, insieme a forte grido e lacrime, fu esaudito per la sua pietà » ( Eb 5,7 ).

Il Dottore Angelico commenta: « Atto del suo sacerdozio fu l'offerta di preghiere e di suppliche, cioè il sacrificio spirituale, che Cristo offrì » ( In ad Hebr., c. 5, lect. 1 ).

In questo caso è evidente che la preghiera si accompagna al sacrificio vero e proprio; ma anche indipendentemente da quello essa riveste sempre l'aspetto di sacrificio spirituale, quale elevazione dell'anima a Dio.

Il secondo atto del sacerdozio di Cristo, quello peculiare e proprio, è il sacrificio.

- Seguendo l'insegnamento di S. Paolo e di tutta la tradizione, S. Tommaso vede l'atto sacrificale del Cristo nella sua immolazione sul Calvario.

E quindi i teologi della sua scuola hanno trovato già pronte nei suoi scritti le armi per respingere la tesi stranissima di Fausto Socini [ 1539-1604 ], per il quale Cristo non avrebbe raggiunto la dignità di Sacerdote, se non con l'offerta di sé al Padre in seguito alla sua ascensione al cielo.

Né mancano nella Somma Teologica gli argomenti per combattere le idee peregrine di quei teologi ( soprattutto della scuola francese : leggi De Condren, Olier, ecc. ), i quali, non contenti dell'oblazione consumata sul Calvario, elaborarono una macchinosa liturgia celeste, nella quale Cristo offrirebbe un sacrificio perenne presentando se stesso al Padre nello stato di vittima.

Infatti S. Tommaso per giustificare l'eternità del sacerdozio di Cristo ( « Tu es sacerdos in aeternum … », Eb 5,4-6 ), non ricorre a una nuova immolazione, ma alla perennità degli effetti prodotti da quella del Calvario ( cfr. q. 22, a. 5 ).

15 - Né va dimenticato che questo sacerdozio del Signore ha un terzo atto, e cioè il conferimento della grazia e della gloria.

La mediazione sacerdotale non consiste solo nell'offrire qualche cosa a Dio, per ottenerne la riconciliazione con l'umanità peccatrice ; ma ha anche il compito di porgere all'umanità i doni di Dio.

Ora, questo non è un atto che si compie una volta per sempre, pur derivando da un'azione sacrificale circoscritta nel tempo e nello spazio: questa trasmissione della grazia e della gloria è una trasmissione inesauribile.

Perché anche dopo la morte dell'ultimo uomo chiamato alla salvezza, Cristo continuerà a trasmettere agli eletti la grazia e la gloria.

Con l'accenno all'eternità siamo ormai passati a parlare dei caratteri singolarissimi del sacerdozio di Cristo.

Si tratta di un sacerdozio eterno e universale; poiché abbraccia l'umanità di tutti i tempi.

Qui va ricordato che l'efficacia purificatrice e santificatrice del culto ebraico, come del culto cristiano dopo la morte di Cristo, deriva dal sacerdozio del Verbo incarnato ( cfr. q. 26, a. 1, ad 1 ).

Altra particolarità è costituita dal fatto che Cristo è insieme sacerdote e vittima ( vedi q. 22, a. 2 ).

Trattandosi poi di un sacerdote santissimo e immacolato, egli non è il diretto beneficiano del proprio sacerdozio, come avviene invece per gli altri sacerdoti ( vedi q. 22, a. 4 ).

Finalmente va sottolineato la quasi connaturalità del sacerdozio di Cristo.

Questi infatti non fu sacerdote per sua deputazione accidentale indipendente dall'unione ipostatica che lo costituiva uomo-Dio.

Vale cioè per il suo sacerdozio quanto si dice della sua grazia abituale ( III, q. 2, a. 12, ad 3 ).

16 - Questo però non significa che l'unione ipostatica sia il costitutivo formale del sacerdozio di Cristo, perché il compito sacerdotale esige direttamente la sublimazione dell'umanità assunta in funzione operativa e non semplicemente ontologica.

Questo, come tutti i teologi sanno, è oggetto di controversia tra gli stessi discepoli di S. Tommaso.

Alcuni infatti ritengono che per costituire Cristo sacerdote basti l'unione ipostatica con l'annessa grazia capitale, o gratia capitis, poste sullo stesso piano ( tra costoro troviamo i nomi di Scheller e di Sluis ).

- Altri ( e tra questi Scheeben, Hugon, Héris e Garrigou-Lagrange ) ritengono che Cristo sia sacerdote in forza dell'unione ipostatica, che lo costituisce mediatore, a prescindere dalla grazia capitale.

Finalmente c'è l'opinione dei Salmanticensi, di Giovanni da S. Tommaso, di Journet, Lavaud, ecc., che ci sembra la più convincente.

Secondo questi ultimi teologi il costitutivo formale del sacerdozio di Cristo non è l'unione ipostatica, ma la grazia capitale, che s'identifica con la grazia santificante o abituale, in quanto questa è caratterizzata dalla gratia unionis.

Per non trovare troppo complicato questo discorso, bisogna ricordare che la santa umanità di Cristo non è santa in forza della sua natura, ma in forza dell'unione col Verbo di Dio nell'unità della medesima ipostasi.

L'ipostasi divina però non ce come causa formale, bensì come supposito efficiente.

Quindi necessaria la concessione di un dono creato per la santa e santificante l'umanità assunta.

L'ipostasi è principio radicale di questa santificazione, ma non può seme il principio formale prossimo.

Il principio formale è grazia santificante.

Ora, il sacerdozio di Cristo non è che potere gerarchico di santificazione fondato sull'eminenza [ la grazia per la quale egli è capo dei redenti, re e sacerdote.

Ci sembra che i sostenitori delle altre opinioni riferite non tengano nel debito conto quanto il Dottore Angelico ha giustamente notato in una delle prime questioni di questa Terza « La grazia personale e la grazia capitale sono ordinate operazione, invece la grazia dell'unione non ha per fine l'operazione, ma l'esistenza personale.

Perciò la grazia personale e la grazia capitale sono sostanzialmente il medesimo abito, non così la grazia dell'unione.

Tuttavia sotto un certo aspetto la grazia personale si potrebbe anche dire grazia d'unione in quanto in qualche modo dispone ad essa.

E in tal senso una grazia essenzialmente identica è grazia d'unione, grazia capitale, e grazia personale con sole differenze di unioni formali » ( III, q. 8, a. 5 ; ad 3 ).

Se vogliamo precisare la dottrina, è chiaro che bisogna mettere bene in luce quanto S. Tommaso afferma nella prima parte di questa sua soluzione, ricordando che il sacerdozio è un compito di mediazione attiva, e quindi un aspetto dinamico della grazia concessa all'umanità di Cristo.

Chi invece si fermasse a considerare le cose in maniera sommaria « sotto un certo aspetto », come il Santo concede nella seconda parte successiva alla lineetta, non potrebbe giustificare la terza opinione che noi sottoscriviamo; ma neppure avrebbe motivi sufficienti per condannarla.

Dovrebbe contentarsi di non risolvere il problema, come hanno fatto non pochi valenti teologi, quali il Capreolo [ + 1444 ], il Gaetano [ + 1534 ], il Bañez [ + 1604 ], il Bellarmino [ + 1621 ], il Billuart [ + 1757 ], fino al nostro collaboratore P. M. Daffara [ + 1952 ].

17 - Ci sembra però che oggi un approfondimento di questo tema non si possa eludere.

Infatti se è vero che del sacerdozio di Cristo si è sempre parlato nei documenti del magistero ordinano in quelli emanati dal Concilio Vaticano II esso costituisce una nota dominante.

Uno dei temi più cari alla pietà contemporanea risulta così partecipazione di tutta la Chiesa ai compiti sacerdotali del suo Capo.

Ci contentiamo qui di riferire quanto è detto a proposito dei semplici sacerdoti e dei semplici fedeli del nuovo Testamento, nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium: « I presbiteri, pur non possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio del loro potere, sono tuttavia a loro congiunti per l'onore sacerdotale in virtù del sacramento dell'Ordine, ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote [ cfr. Eb 5,1-10; Eb 7,24; Eb 9,11-28 ], sono consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del nuovo Testamento.

Partecipi nel loro grado di ministero dell'ufficio dell'unico Mediatore Cristo [ 1 Tm 2,5 ], annunziano a tutti la divina parola.

Ma soprattutto esercitano il loro sacro ministero nel culto eucaristico o sinassi; dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano e applicando fino alla venuta del Signore [ cfr. 1 Cor 11,26 ] l'unico sacrificio del nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata » ( n. 28 ).

« Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini ( Eb 5,1-5 ) fece del nuovo popolo "un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo" [ Ap 1,6; cfr. Ap 5,9-10 ].

Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce [ cfr. 1 Pt 2,4-10 ].

Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio [ cfr. Rm 12,1 ], rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della loro speranza nella vita eterna [ cfr. 1 Pt 3,15 ].

- Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro; poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo.

Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucarestia, e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità » ( Lumen Gent., n. 10 ).

18 - Non è il caso di cercare la soluzione al problema posto i molti testi conciliari relativi al sacerdozio in genere e a quello di Cristo in particolare.

Ma un'indagine accurata non sarebbe inutile, perché dal testo medesimo riferito e da altri consimili sembrano emergere le più ampie prospettive circa i compiti di Cristo come mediatore, anche se non proprio come sacerdote.

Non rientra forse tra i compiti del teologo quello di ridurre all'esattezza l'insegnamento pastorale del magistero?

P. TIT0 S. CENTI, O. P.

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