La Trinità

Indice

Libro XIII

7.10 - La seconda condizione: avere ciò che si vuole

Ecco perché in questa vita mortale, così piena di errori e di miserie, è supremamente necessaria la fede con cui si crede in Dio.

Infatti per tutti i beni, di qualsiasi genere, in particolar modo per quelli che rendono l'uomo buono e per quelli che lo renderanno beato non si può trovare altro fonte, eccetto Dio, dal quale vengano nell'uomo e siano messi alla sua portata.

Ma quando colui che rimase giusto e buono fra queste miserie sarà giunto da questa vita alla vita beata, allora si realizzerà ciò che adesso è del tutto impossibile: l'uomo vivrà come vuole. Perché non desidererà vivere male in quella felicità, non vorrà nulla che gli manchi, né gli mancherà nulla di ciò che vuole.

Tutto ciò che si amerà, ci sarà, né si desidererà ciò che non ci sarà.

Tutto ciò che ci sarà, sarà bene, e il Dio supremo sarà il Bene supremo,15 e sarà alla portata di tutti coloro che lo amano perché ne fruiscano e, cosa che riempie di beatitudine, si avrà la certezza che sarà sempre così.

Ma di fatto i filosofi, ciascuno a suo modo, si costruirono la loro propria vita beata, come se potessero, con la loro virtù personale, vivere come volevano,16 cosa impossibile nella comune condizione di mortali.

Sapevano infatti che nessuno può essere beato se non avendo ciò che vuole e se non soffre nulla di ciò che non vuole.

Ma quale uomo non si augurerebbe che fosse in suo potere di conservare eternamente quella vita, qualunque essa sia, in cui trova la sua gioia, e che per questo motivo chiama beata?

Ma chi ha questo potere? Chi vuole essere in preda alle difficoltà per sopportarle con coraggio, ancorché le voglia e le possa tollerare, nel caso che le patisca?

Chi vorrebbe vivere nei tormenti, sebbene sia uno che può, conservandosi in mezzo ad essi giusto tramite la pazienza, condurre una vita degna di lode?

Coloro che hanno sopportato questi mali li hanno considerati come passeggeri, o desiderando di avere o temendo di perdere ciò che amavano, sia che l'abbiano fatto con amore colpevole o con amore degno di lode.

Perché molti, attraverso i mali passeggeri, hanno mirato, con animo coraggioso, ai beni permanenti.

Costoro sono beati in speranza, anche quando sono in mezzo ai mali passeggeri, attraverso i quali giungono ai beni che non passano.

Ma chi è beato in speranza non è ancora beato: aspetta infatti con pazienza la beatitudine che ancora non possiede.

Colui invece che senza questa speranza, senza aver in vista una tale ricompensa, è in preda ai tormenti, qualunque sia la sua forza di sopportazione, non è beato in verità, ma infelice con coraggio.

Né si può dire che non è infelice, perché sarebbe più infelice se, oltre tutto, sopportasse la sua infelicità senza alcuna pazienza.

Si deve anzi aggiungere che, pur supponendo che non soffra quei mali che non vorrebbe soffrire nel suo corpo, nemmeno in tal caso si ha da ritenere felice, perché non vive come vuole.

Infatti, senza parlare di un'infinità di altri mali, che colpiscono l'anima, pur non toccando il corpo, e dai quali vorremmo vivere immuni, in ogni caso questi vorrebbe, se potesse, che il conservare sano ed integro il suo corpo, il non soffrire a causa di esso molestia alcuna, dipendessero dalla sua volontà o gli fossero garantiti dall'incolumità del suo corpo stesso; poiché non ha questo privilegio e resta nell'incertezza, senza dubbio non vive come vuole.

Sebbene per il suo coraggio sia pronto ad affrontare e sopportare serenamente ogni avversità che gli possa accadere, preferisce non soffrirla e, se può, la evita.

È pronto all'una e all'altra eventualità nel senso che, per quanto dipende da lui, desidera questo, evita quello, ma se gli accade ciò che evita, lo sopporta di buon grado, perché il suo desiderio non ha potuto realizzarsi.17

Perciò sopporta per non lasciarsi opprimere, ma non vorrebbe essere pressato da tali avversità.

In quale senso vive egli dunque come vuole? Forse perché vuole essere forte nel sopportare ciò che non voleva che gli accadesse?

Ma allora vuole ciò che può, perché non può ciò che vuole.

Questa è tutta la beatitudine - non si sa se ridicola, o piuttosto degna di compassione - dei mortali orgogliosi, che si gloriano di vivere come vogliono, perché volontariamente sopportano con pazienza i mali che non vogliono che loro accadano.

È questo, si dice, il saggio consiglio di Terenzio: Poiché non può realizzarsi ciò che vuoi, desidera ciò che puoi.18

Espressione bella, chi lo nega? Ma è un consiglio dato ad un infelice, perché non fosse maggiormente infelice.

Però, a chi è beato, come tutti vogliono essere, non è né giusto, né vero dire: Non può realizzarsi ciò che tu vuoi.

Se infatti è felice, tutto ciò che vuole può realizzarsi, perché non vuole ciò che non può realizzarsi.

Ma questa condizione non è propria di questa vita mortale, essa si realizzerà solo quando si accederà alla vita caratterizzata dall'immortalità.

Se questa fosse del tutto inaccessibile all'uomo, vana sarebbe pure la ricerca della beatitudine, perché senza immortalità non vi può essere beatitudine.

8.11 - Non c'è beatitudine senza immortalità

Poiché dunque tutti gli uomini vogliono essere beati,19 se lo vogliono veramente, vogliono di certo essere anche immortali; diversamente infatti non possono essere beati.

Finalmente se li si interroga anche circa l'immortalità, come circa la beatitudine, rispondono tutti che la vogliono.

Ma si cerca, anzi ci si foggia, in questa vita una parvenza di beatitudine, beatitudine più di nome che di fatto, mentre si dispera dell'immortalità, senza la quale non può esistere vera beatitudine.

Vive felice, come abbiamo detto e fermamente stabilito nelle pagine precedenti, colui che vive bene e non vuole nulla di male.

Ma non è cosa colpevole per nessuno volere l'immortalità, se la natura umana è capace di riceverla come un dono di Dio; se non ne è capace, non è nemmeno capace di beatitudine.

Infatti, perché l'uomo viva felice, occorre che viva.

Consideriamo un morente: perde la vita, come potrebbe conservare la vita beata?

Quando perde la vita, senza dubbio ciò accade contro il suo volere, o con il suo consenso o lasciandolo indifferente.

Se accade contro il suo volere, come può essere felice questa vita che egli vuole, ma che non può conservare?

Se nessuno è beato quando non ha ciò che vuole, quanto meno sarà beato colui che si vede privato contro la sua volontà, non degli onori, non dei beni, non di qualsiasi altra cosa, ma della stessa vita beata, perché non c'è più vita per lui?

Per questo, sebbene non gli resti più alcuna coscienza che lo renda infelice ( la vita beata non scompare se non perché tutta la vita scompare ), tuttavia questo uomo è infelice, fino a quando ha coscienza, perché vede finire, contro la sua volontà, ciò per cui ama le altre cose e ciò che ama più delle altre cose.

Non è dunque compatibile che la vita sia insieme beata e che la si perda contro la propria volontà, perché nessuno è felice quando gli accade qualcosa contro la sua volontà; dunque quanto è più infelice perdendo la vita contro la sua volontà di quello che non sarebbe sopportando la vita presente contro la sua volontà?

Se invece la perde di buon grado, anche in questo caso come poteva essere felice quella vita di cui, chi la possedeva, ha voluto l'annientamento?

Resta la terza ipotesi: l'uomo sarebbe felice nell'indifferenza, cioè perderebbe la vita beata quando, per la morte, perdesse totalmente la vita, senza ripugnarvi e senza desiderarlo, con il cuore preparato ed indifferente a vivere come a morire.

Ma non è nemmeno beata quella vita che non è degna dell'amore di colui che rende beato.

Come è beata la vita che colui che è beato non ama?

O come si ama ciò di cui si accetta con indifferenza il rigoglio o l'annientamento?

A meno che, forse, le virtù, che noi amiamo soltanto in vista della beatitudine, non osino persuaderci di non amare la beatitudine stessa.

Ma se fanno questo, non v'è dubbio che cessiamo di amare anch'esse, se non amiamo più la beatitudine che sola ce le ha fatte amare.

Inoltre, come sarà vera quell'affermazione così attentamente esaminata, così indagata, così chiarificata, così certa, che tutti gli uomini vogliono essere felici,20 se quelli stessi che sono felici non lo vogliono, né vogliono esserlo?

O se vogliono, come la verità lo proclama e lo esige la natura in cui il Creatore supremamente buono ed immutabilmente beato ha posto questo desiderio; se, dico, vogliono essere beati coloro che sono beati, dunque non vogliono non essere beati.

Se poi non vogliono non essere beati, non v'è dubbio che non vogliono che svanisca e perisca la loro beatitudine.

Ma solo vivendo possono essere beati: dunque non vogliono che perisca la loro vita.

Dunque vogliono essere immortali tutti coloro che sono o vogliono essere veramente beati.

Ma non vive beatamente colui che non ha ciò che vuole; non vi sarà dunque in nessun modo vita veramente beata che non sia eterna.

9.12 - Solo la fede permette l'immortalità dell'uomo nella sua interezza

Non è problema di poco conto chiarire se la natura umana sia capace di ricevere questa eterna felicità che tuttavia riconosce come desiderabile.

Ma se esiste la fede, che è presente a coloro ai quali Gesù ha dato il potere di diventare figli di Dio, ( Gv 1,12 ) non c'è alcun problema.

Ma tra coloro che si sono sforzati di trovare una soluzione con l'aiuto di argomentazioni umane, solo assai pochi, dotati di potente ingegno, in possesso di molto tempo da dedicare alle cose dello spirito, scaltriti nei ragionamenti più sottili, poterono giungere a scoprire l'immortalità dell'anima soltanto.21

Tuttavia non hanno pensato che ci fosse per l'anima una vita beata durevole, cioè vera.

Affermarono infatti che, anche dopo aver goduto della beatitudine, l'anima tornava alle miserie di questa vita.

E coloro che tra essi arrossirono di questa opinione e hanno pensato che l'anima, una volta purificata e separata dal corpo, doveva essere posta nella beatitudine eterna, contraddittoriamente hanno sostenuto tali teorie circa l'eternità del mondo, che essi stessi confutano questa loro opinione circa l'anima.22

Sarebbe troppo lungo dimostrarlo qui, ma è stato da noi sufficientemente dimostrato, credo, nel libro XII de La città di Dio.23

Ma la fede, appoggiandosi non su argomenti umani, ma sull'autorità divina, promette che l'uomo tutto intero, l'uomo composto di anima e di corpo,24 sarà immortale e dunque veramente beato.

Ecco perché, dopo aver detto nel Vangelo che Gesù ha dato il potere di divenire figli di Dio a coloro che l'hanno ricevuto, ( Gv 1,12 ) dopo aver esposto brevemente cosa significhi averlo ricevuto, con le parole: ai credenti nel suo nome, ed aver aggiunto in quale maniera divenissero figli di Dio: perché non sono nati dal sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell'uomo, ma da Dio, ( Gv 1,13 ) perché la debolezza umana, che vediamo e portiamo in noi, non ci facesse disperare di una condizione così elevata, l'Evangelista aggiunge subito: E il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi, ( Gv 1,14 ) per persuaderci, presentandoci il movimento contrario, di una cosa che ci sembrava incredibile.

Se, infatti, colui che per natura è Figlio di Dio, si è fatto figlio dell'uomo per compassione verso i figli degli uomini ( è ciò che significa l'affermazione: Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra gli uomini ), quanto è più credibile che coloro che per natura sono figli dell'uomo divengano per grazia figli di Dio, ed abitino in Dio, nel quale e per il quale solo possono essere beati, fatti partecipi della sua immortalità?

È per persuaderci di questo che il Figlio di Dio si è fatto partecipe della nostra mortalità. ( Dn 7,13; 2 Cor 1,19 )

10.13 - L'Incarnazione del Verbo impedisce agli spiriti degli uomini di disperare della beatitudine

Vi sono di quelli che dicono: "Dio non aveva un altro modo di liberare gli uomini dalla miseria di questa condizione mortale?

Era necessario che egli volesse che il suo Figlio unigenito, Dio eterno come lui, si facesse uomo, rivestendo un'anima ed una carne umana, ed una volta divenuto mortale, soffrisse la morte?".

Per confutare questa obiezione è insufficiente affermare che è buono e conforme alla dignità divina questo modo con il quale Dio si è degnato di liberarci per mezzo del Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo; ( 1 Tm 2,5 ) è pure insufficiente rispondere mostrando che Dio, alla cui potenza tutto è ugualmente sottomesso, aveva la possibilità di fare uso di un altro modo; ma bisogna mostrare che non c'era né vi sarebbe potuto essere un altro modo più conveniente per risanare la nostra miseria.

Infatti, per risollevare la nostra speranza, per impedire agli spiriti dei mortali, abbattuti per la condizione della loro mortalità, di disperare nell'immortalità, che c'era di più necessario che mostrarci quanto Dio ci apprezzi e quanto ci ami?

Esisteva di ciò una prova più luminosa e convincente di questa: che il Figlio di Dio, immutabilmente buono, restando in se stesso ciò che egli era, e ricevendo da noi, per noi, ciò che non era, degnatosi, senza nulla perdere della sua natura, di divenire partecipe della nostra, abbia prima portato su di sé i nostri mali senza aver mai demeritato, commettendo qualcosa di male, e così, credendo noi ormai quanto Dio ci ami e sperando ormai ciò di cui disperavamo, abbia sparso su di noi, con una larghezza totalmente gratuita, i suoi doni, senza che nulla meritassimo per aver fatto qualcosa di buono, anzi avendo demeritato per quanto abbiamo fatto di male?

10.14 - I nostri meriti sono doni di Dio

Perché anche quelli che sono chiamati meriti nostri, sono suoi doni.

Infatti affinché: La fede operi per mezzo dell'amore, ( Gal 5,6 ) la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )

Ora ci è stato dato quando Gesù è stato glorificato con la risurrezione.

È allora infatti che egli ha promesso di mandare lo Spirito e l'ha mandato, ( Gv 7,39; Gv 14,26; Gv 16,7; Gv 20,22 ) perché allora, come è stato scritto e predetto di lui: Ascendendo in alto, ha resa schiava la schiavitù, dette doni agli uomini. ( Ef 4,8; Sal 68,19 )

Questi doni sono i nostri meriti, mediante i quali giungiamo al Bene supremo della beatitudine eterna.25

Dio, dice l'Apostolo, mostra la sua carità verso di noi, in questo, che, quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

A maggior ragione ora, che siamo giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dalla sua ira. ( Rm 5,8-9 )

Egli aggiunge ancora: Se infatti, essendo nemici, siamo stati riconciliati con Dio, per mezzo della morte del Figlio suo, a maggior ragione, una volta riconciliati, saremo salvi nella sua vita. ( Rm 5,10 )

Coloro che prima ha chiamato peccatori, li chiama poi nemici di Dio, e coloro che prima ha chiamato giustificati per mezzo del sangue di Gesù Cristo, li chiama poi riconciliati per mezzo della morte del Figlio di Dio, e coloro che prima ha chiamato salvi dall'ira per mezzo di lui, li chiama poi salvi nella vita di lui.

Dunque, prima di questa grazia non eravamo dei peccatori qualsiasi, ma eravamo immersi in tali peccati da essere nemici di Dio.

Prima lo stesso Apostolo ci aveva chiamati peccatori e nemici di Dio, con due nomi nello stesso tempo, uno in qualche modo indulgente, l'altro senz'altro molto severo, affermando: Se dunque Cristo, quando noi ancora eravamo deboli, nel tempo stabilito, è morto per gli empi. ( Rm 5,6 )

Coloro che chiama deboli, li chiama anche empi.

La debolezza sembra un male leggero, ma essa giunge talvolta al punto di meritare il nome di empietà.

Tuttavia, se non fosse debolezza, non avrebbe necessità del medico; che è ciò che significa Gesù in ebraico, Σωτήρ in greco, Salvatore nella nostra lingua.

Prima la lingua latina non possedeva questa parola, ma poteva possederla, come poté possederla quando lo volle.

Ora questa frase dell'Apostolo che ho appena citato: Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito è morto per gli empi, è in armonia con le due seguenti in cui, nell'una ci chiama peccatori, nell'altra nemici di Dio, come se volesse stabilire una corrispondenza, parola per parola, tra i peccatori e i deboli, i nemici di Dio e gli empi.

11.15 - Difficoltà circa la redenzione

Ma che significano le parole: Giustificati nel suo sangue? ( Rm 5,9 )

Qual è, chiedo, la forza di questo sangue, capace di giustificare i credenti?

E che significano queste parole: Riconciliati per mezzo della morte del Figlio suo? ( Rm 5,10 )

Bisognerà forse pensare che, essendo Dio Padre adirato contro di noi, vide morire il Figlio suo per noi e placò la sua ira contro di noi?

Suo Figlio si era dunque riconciliato con noi fino al punto di degnarsi di morire per noi, mentre il Padre restava ancora adirato contro di noi fino al punto di non riconciliarsi con noi, se non nel caso che il Figlio suo morisse per noi?

Ma allora che significa ciò che dice in un altro passo lo stesso Dottore dei Gentili: Che diremo allora a riguardo di tutto questo?

Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?

Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma che l'ha consegnato per tutti noi, come non sarà disposto a darci ogni altra cosa insieme a lui? ( Rm 8,31-32 )

Se non fosse già stato placato, il Padre, non risparmiando il suo proprio Figlio, l'avrebbe forse consegnato per noi?

Questa affermazione non sembra contraddire la precedente?

Secondo la prima, il Figlio muore per noi e il Padre è riconciliato con noi per mezzo della sua morte; ( Rm 5,6-10 ) nella seconda è il Padre che, come se ci avesse amato per primo, lui stesso non risparmia il Figlio a causa di noi, lui stesso per noi lo consegna alla morte. ( 1 Gv 4,10; Rm 8,32 )

Ma vedo che il Padre ci ha amato anche prima, non solo prima che il Figlio morisse per noi, ma prima che creasse il mondo, ( 1 Pt 1,20 ) secondo la testimonianza dello stesso Apostolo che dice: Come in lui ci ha eletti, prima ancora della fondazione del mondo. ( Ef 1,4 )

E il Figlio, che il Padre non ha risparmiato, non è stato consegnato per noi, come se ciò fosse contrario al suo volere, perché anche di lui l'Apostolo dice: Lui che mi ha amato e si è consegnato per me. ( Gal 2,20 )

Dunque tutto ciò che fanno il Padre, il Figlio e lo Spirito di ambedue, lo fanno insieme, tutti ugualmente ed in perfetto accordo; tuttavia siamo stati giustificati nel sangue di Cristo, e siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo. ( Rm 5,9-10 )

In che modo questo è accaduto lo spiegherò ora, come lo potrò e quanto mi sembrerà sufficiente.

12.16 - A causa del peccato di Adamo per giusto giudizio di Dio il genere umano è stato dato in potere del diavolo

Per un effetto della giustizia divina il genere umano è stato consegnato in potere del diavolo, poiché il peccato del primo uomo si trasmette per via d'origine a tutti coloro che nascono dall'unione dei due sessi, e il debito dei nostri primi genitori grava su tutti i loro discendenti.

Questa sottomissione al diavolo si trova già espressa nel Genesi, dove, dopo aver detto al serpente: Mangerai terra, ( Gen 3,14 ) Dio dice all'uomo: Tu sei terra e ritornerai alla terra. ( Gen 3,19 )

Le parole: Tu ritornerai alla terra preannunciano la morte del corpo, morte che, anch'essa, sarebbe stata risparmiata all'uomo se fosse rimasto nella giustizia nella quale è stato creato.

Ma le parole: Tu sei terra, dette all'uomo ancora vivente, mostrano che tutto l'uomo si è cambiato in peggio.

Le parole: Tu sei terra, hanno infatti lo stesso senso di quelle: Il mio Spirito non rimarrà in questi uomini, perché sono carne. ( Gen 6,3 )

Così dunque Dio dimostrò che aveva consegnato l'uomo a colui al quale aveva detto: Mangerai terra. ( Gen 3,14 )

L'Apostolo dichiara questa stessa cosa più apertamente, quando scrive: E voi, essendo morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali in un certo tempo camminaste, secondo lo spirito di questo mondo, secondo lo spirito del principe della potenza dell'aria, lo spirito che agisce ora nei figli della disobbedienza, con i quali anche noi tutti abbiamo vissuto un tempo secondo i desideri della carne, compiendo le volontà delle nostre concupiscenze carnali; ed eravamo per natura figli dell'ira, come gli altri. ( Ef 2,1-3 )

I figli della disobbedienza sono gli infedeli, ma chi non lo è, prima di divenire fedele?

Perciò tutti gli uomini sono dall'origine sottomessi al principe della potenza dell'aria che opera nei figli della disobbedienza.

L'espressione "dall'origine" equivale a quella dell'Apostolo: per natura, quando egli anche confessa di essere stato come gli altri; si tratta della natura come è stata degradata dal peccato, non come è stata creata giusta al principio.

Quanto al modo in cui l'uomo è stato consegnato al potere del diavolo non bisogna intendere che Dio abbia comandato o fatto che accadesse questo, ma lo ha soltanto permesso, giustamente tuttavia.

Infatti al momento in cui Dio ha abbandonato il peccatore, subito l'autore del peccato se ne è impossessato.

Benché veramente Dio non abbia abbandonato la sua creatura fino al punto di non farle sentire la sua azione creatrice e vivificatrice e di non darle, mescolati ai mali che sono la pena del peccato, molti beni.

Perché nella sua ira non ritirò la sua misericordia; ( Sal 77,10 ) né ha sottratto l'uomo alla legge della sua potenza, quando ha permesso che fosse sotto il potere del diavolo, perché nemmeno il diavolo stesso sfugge alla potenza dell'Onnipotente, come neppure alla sua bontà.

Infatti, come potrebbero sussistere anche gli angeli cattivi, qualunque sia la loro vita, se non per virtù di Colui che tutto vivifica? ( 1 Tm 6,13 )

Se dunque l'uomo, commettendo il peccato, per una giusta ira di Dio è stato sottomesso al diavolo, Dio, rimettendo il peccato, per una benevola riconciliazione ha strappato l'uomo al diavolo.

13.17 - Ma Dio per superare il diavolo non scelse la via della potenza, bensì quella della giustizia

Il diavolo non doveva essere superato dalla potenza, ma dalla giustizia di Dio.

Infatti che c'è di più potente dell'Onnipotente? O quale creatura ha una potenza comparabile a quella del Creatore?

Ma il diavolo, per il vizio della sua perversità, si è innamorato della potenza, ha abbandonato e combattuto la giustizia; gli uomini a loro volta imitano tanto più il diavolo quanto più trascurano e perfino aborriscono la giustizia per aspirare alla potenza e godono del possesso o bruciano dal desiderio di essa; e così piacque a Dio, per sottrarre l'uomo al potere del diavolo, di vincere il diavolo non con la potenza ma con la giustizia, affinché anche gli uomini, ad imitazione di Cristo, cercassero di vincere il diavolo con la giustizia, non con la potenza.

Non che la potenza sia da fuggire come qualcosa di male, ma bisogna rispettare l'ordine secondo il quale la giustizia è al primo posto.

Quanto grande può essere infatti la potenza dei mortali?

Conservino dunque la giustizia fin che sono mortali, la potenza sarà loro data quando saranno immortali.

In confronto a questa, la potenza di quegli uomini che sono chiamati potenti sulla terra - per quanto grande essa sia - non è che una debolezza ridicola, e là dove sembra che i cattivi manifestino finalmente la loro potenza si scava la fossa per il peccatore. ( Sal 94,13 )

Il giusto invece canta e dice: Beato l'uomo che tu istruisci, o Signore, e al quale dai l'insegnamento della tua legge perché sia tranquillo nei giorni dell'afflizione, fino a quando si scavi una fossa per il peccatore.

Perché il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità; fino a quando la giustizia si muti in giudizio; e tutti coloro che la possiedono hanno il cuore retto. ( Sal 94,12-15 )

Dunque, durante il tempo in cui non si manifesta ancora la potenza del popolo di Dio il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità, per quanto grandi siano le amarezze e le umiliazioni che essa debba subire nella sua umiltà e debolezza, fino a quando la giustizia che posseggono, malgrado la loro debolezza, gli uomini pii, si muti in giudizio, cioè fino a quando la giustizia non riceva il potere di giudicare.

Tale privilegio è riservato ai giusti per la fine dei tempi, allorquando la potenza, seguendo il suo ordine, farà seguito alla giustizia che l'ha preceduta.

Infatti è la potenza appoggiata sulla giustizia, o la giustizia unita con la potenza, che costituisce il potere di giudicare.

Ora la giustizia appartiene alla volontà buona: per questo gli Angeli, alla nascita di Cristo, hanno detto: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. ( Lc 2,14 )

La potenza deve seguire la giustizia, non precederla, perciò trova il suo posto nelle res secundae, cioè nella prosperità.

Ora la parola secundae ( prospere ), deriva dal verbo sequi ( seguire ).

Infatti, poiché come abbiamo detto prima sono necessarie due cose per rendere l'uomo beato: volere il bene e potere ciò che si vuole, bisogna, come abbiamo notato nella medesima discussione, che sia assente quel disordine perverso che fa sì che l'uomo, fra queste due condizioni della felicità, scelga di potere ciò che vuole e trascuri di volere ciò che conviene, dato che deve prima avere una volontà buona e, soltanto dopo, una grande potenza.

Ora la volontà per essere buona deve essere purgata dai vizi; se l'uomo è vinto da essi, la sconfitta lo trascina a volere il male; come allora la sua volontà sarà buona?

Perciò bisogna augurarsi che la potenza sia data fin d'ora, però contro i vizi, ma gli uomini non vogliono essere potenti per vincere i vizi, bensì per vincere gli uomini.

A che cosa li porta questo se non ad essere effettivamente vinti riportando una vittoria ingannevole, essendo vincitori apparentemente, non realmente?

L'uomo voglia essere prudente, forte, temperante, giusto e, per poter esserlo veramente, ambisca in realtà la potenza e desideri di essere potente su se stesso e paradossalmente potente contro se stesso in favore di se stesso.

Quanto agli altri beni che vuole con una volontà buona, ma che esulano dal suo potere, come l'immortalità, la vera e perfetta felicità, non cessi di desiderarli e li aspetti con pazienza.

14.18 - Gratuità della morte di Cristo

Qual è dunque questa giustizia che ha vinto il diavolo? Quale, se non quella di Gesù Cristo?

E come fu vinto il demonio? Perché ha ucciso Cristo, benché non trovasse in lui nulla che meritasse la morte.

Allora è giusto che siano messi in libertà i debitori che teneva sotto di sé, quando credono in Colui che senza alcun debito è stato ucciso da lui.

Questo significa l'affermazione che noi siamo giustificati nel sangue di Cristo, ( Rm 5,9 ) perché è così che quel sangue innocente è stato sparso per la remissione dei nostri peccati. ( Col 1,14; Mt 26,28 )

Ecco perché nei Salmi Cristo si dice libero tra i morti, ( Sal 88,6 ) perché è il solo ad essere morto senza dover pagare il debito della morte.

Per questo in un altro Salmo dice: Ho pagato ciò che non avevo rubato, ( Sal 69,5 ) volendo far comprendere che il peccato è una rapina, perché è arrogarsi un diritto che non si ha.

Così Cristo dice nel Vangelo, e questa volta con le sue proprie labbra: Ecco che viene il principe di questo mondo e non trova nulla in me, ( Gv 14,30 ) cioè nessun peccato; ma affinché tutti sappiano che faccio la volontà del Padre mio, alzatevi ed usciamo di qui. ( Gv 14,31 )

E va verso la sua passione al fine di pagare, egli che non doveva nulla, per i nostri debiti.

Il diavolo sarebbe stato vinto con questa rigorosa equità, se Cristo avesse voluto trattare con lui sul piano della potenza e non su quello della giustizia?

Ma rimandò ad un secondo tempo ciò che poteva, per fare prima ciò che conveniva.

È per questo che bisognava che egli fosse insieme uomo e Dio.

Se non fosse stato uomo, non avrebbe potuto essere ucciso; se non fosse stato anche Dio, non si sarebbe creduto che non voleva ciò che poteva, ma invece che non poteva ciò che voleva, e non penseremmo che abbia preferito la giustizia alla potenza, ma che la potenza gli mancò.

In realtà ha patito per noi sofferenze umane, perché era uomo, ma se non lo avesse voluto, avrebbe anche potuto non patirle, perché era anche Dio.

Perciò la giustizia ci è divenuta più gradita in queste umiliazioni, perché egli avrebbe potuto, se lo avesse voluto, non soffrire queste umiliazioni, tanto è grande la potenza nella divinità e così, morendo, lui che è tanto potente, ha insegnato a noi mortali impotenti la giustizia e promesso la potenza; di queste due cose una fece morendo, l'altra risorgendo.

Che c'è infatti di più giusto che giungere fino a morire in croce ( Fil 2,8 ) per la giustizia?

E che c'è di più potente che risorgere dai morti e salire al cielo con la stessa carne nella quale è stato ucciso?

Egli ha dunque vinto il diavolo prima con la giustizia, poi con la potenza; con la giustizia, perché fu senza peccato, ( 2 Cor 5,21; 1 Pt 2,22 ) e fu da lui ucciso in modo supremamente ingiusto; con la potenza, perché, morto, è ritornato alla vita per non più morire. ( Rm 6,9 )

Ma avrebbe vinto il diavolo con la potenza, anche se questi non avesse potuto ucciderlo, sebbene sia frutto di maggior potenza vincere anche la stessa morte risorgendo, che evitarla vivendo.

Ma è la giustizia che ci giustifica nel sangue di Cristo, ( Rm 5,9 ) quando siamo strappati per mezzo della remissione dei peccati al potere del diavolo.

Ciò è dovuto al fatto che il diavolo viene vinto da Cristo con la giustizia, non con la potenza.

Cristo infatti fu crocifisso per la debolezza che assunse nella carne mortale, ( Mt 8,17; 1 Pt 2,24 ) non per la sua immortale potenza; sebbene della sua debolezza l'Apostolo dica: La debolezza di Dio è più forte degli uomini. ( 1 Cor 1,25 )

15.19 Non è dunque difficile vedere che il diavolo è vinto, una volta risuscitato Colui che egli ha ucciso.

È una cosa più grande, un mistero più profondo per la nostra intelligenza, vedere che il diavolo è stato vinto, quando gli sembrava di aver vinto, cioè quando Cristo fu ucciso.

Allora infatti quel sangue, perché era il sangue di Colui che non aveva assolutamente alcun peccato, ( 2 Cor 5,21; 1 Pt 2,22 ) fu sparso in remissione dei nostri peccati; ( Mt 26,28; Col 1,14 ) così coloro che il diavolo con piena giustizia teneva incatenati in una condizione di morte, perché colpevoli di peccato, doveva lasciarli liberi con piena giustizia per merito di Colui al quale, benché innocente da ogni peccato, ha fatto subire ingiustamente la pena della morte.

È con questa giustizia che il forte è stato vinto, e con questo legame è stato incatenato, affinché gli fossero rapiti i suoi vasi, quelli che presso di lui, con lui e con i suoi angeli erano stati vasi di ira e furono mutati in vasi di misericordia. ( Rm 9,22-23; Mt 12,29; Mc 3,27 )

Sono queste le parole che l'apostolo Paolo ( At 26,13-15 ) narra gli siano state indirizzate dal cielo dallo stesso Signore Gesù Cristo nel primo momento della sua vocazione.

Infatti, fra le altre parole che egli udì, egli dice che gli furono indirizzate anche queste: Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che ti mostro e di quelle per le quali ancora ti apparirò, liberandoti dal popolo e dai Gentili ai quali ti mando per aprire gli occhi ai ciechi, affinché passino dalle tenebre e dalla potestà di Satana a Dio, affinché ricevano la remissione dei peccati, la eredità dei santi e la fede in me. ( At 26,16-18 )

Per questo lo stesso Apostolo, esortando i credenti a rendere grazie a Dio Padre, dice: Lui che ci ha strappato al potere delle tenebre e ci ha fatto passare nel regno del Figlio del suo amore, nel quale siamo redenti per la remissione dei peccati. ( Col 1,13-14 )

In questa redenzione, come prezzo per noi, è stato dato il sangue di Cristo; ricevutolo, il diavolo non è stato arricchito, ma incatenato, cosicché noi fossimo liberati dalle sue catene ed egli non trascinasse con sé nella rovina della morte seconda ed eterna, ( Ap 21,8 ) avviluppato nelle reti del peccato, nessuno di coloro che Cristo, esente da ogni debito, ha redento con il suo sangue versato gratuitamente, ma a condizione che morissero nella grazia di Cristo, preconosciuti, ( 1 Pt 1,20 ) predestinati ( Ef 1,5 ) ed eletti prima della fondazione del mondo, ( Ef 1,4 ) come Cristo è morto per essi, con una morte della carne soltanto, non dello spirito.26

Indice

15 Agostino, C. Acad. 3, 12,27;
Serm. D.ni in monte 1, 3;
Retract. 1,1,9
16 Cicerone, Hort., fragm. 39 (ed. Müller, p. 317)
17 Terenzio, Andr. 2, 1, 5
18 Terenzio, Andr. 2, 1, 5-6
19 Epicuro, Ep. ad Menoec. (in Diogene Laerzio, Vir. ill. 10)
20 Ibid
21 Cicerone, De orat. 1, 1, 22
22 Platone, Phaedr. 249a;
Phaido 81e; Tim. 42c;
Plotino, Enn. 3, 4, 2; 4, 3, 2
23 Agostino, De civ. Dei 12, 20
24 Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 12, 34;
Sallustio, Iug. 2, 1;
Lattanzio, Instit. 7, 5, 16
25 Agostino, C. Acad. 3,12,27;
Serm. D.ni in monte 1, 3, 10;
Retract. 1,1,9: NBA, II
26 Agostino, De spir. et litt. 24,40