Le ritrattazioni

Indice

Libro I

I - La controversia accademica, tre libri

1.1. Avevo già rinunciato, nell'ambito delle aspirazioni di questo mondo, alle mète che ero riuscito a conseguire o aspiravo ancora a raggiungere e m'ero rifugiato nella pace serena della vita cristiana.

Non avevo ancora ricevuto il battesimo e, per prima cosa, mi detti a scrivere Contro gli Academici o Sugli Academici.

Mio intendimento era quello di rimuovere con tutte le possibili obiezioni dal mio animo - visto che io stesso ne restavo turbato - le argomentazioni con le quali costoro tolgono a molti ogni speranza di trovare la verità, e inibiscono al saggio di dare il suo assenso ad alcun enunciato e di giungere ad una dichiarazione di evidenza e di certezza su alcunché: a loro parere infatti tutto sarebbe avvolto nell'oscurità e nell'incertezza.

Quest'opera giunse a compimento grazie all'aiuto della misericordia divina.

1.2. In questi stessi miei tre libri però non approvo di aver tanto spesso fatto il nome della fortuna,2 anche se non era mio intendimento che con questa denominazione si designasse una qualche divinità, ma solo il fortuito verificarsi di eventi favorevoli o sfavorevoli attinenti alla nostra persona fisica o al mondo esterno.

Di qui quei vocaboli che nessuno scrupolo religioso ci vieta di pronunciare: Per caso, forse, per sorte, per avventura, fortuitamente.

Il che non toglie, tuttavia, che tutto ciò che viene interpretato in questi termini vada, comunque, ricondotto all'azione provvidenziale di Dio.

È quanto, del resto, io stesso non ho passato sotto silenzio in quest'opera quando affermo: Forse quella che prende comunemente il nome di fortuna è retta da un ordine misterioso e null'altro è quello che negli eventi chiamiamo caso se non ciò di cui ci sfugge il senso e la causa.3

È vero, ho affermato questo. Mi pento però ugualmente di avere in quel passo menzionato in questo modo la fortuna: mi capita infatti di constatare che gli uomini hanno la pessima abitudine di dire: "L'ha voluto la fortuna", quando si dovrebbe dire: "L'ha voluto Iddio".

Ho poi detto in un passo: È stato così disposto vuoi per responsabilità nostra vuoi per una irrevocabile legge di natura che uno spirito divino che resti legato alle cose mortali non trovi accoglienza nel porto della filosofia,4 con ciò che segue.

Al riguardo occorreva fare una scelta: o non si sarebbe dovuta menzionare nessuna delle due condizioni alternative, visto che anche così la frase avrebbe un senso compiuto, o sarebbe stato sufficiente dire: per responsabilità nostra, senza aggiungere: per una irrevocabile legge di natura; è un fatto che il nostro attuale stato di miseria deriva da Adamo, ( Rm 5,12 ) e la dura necessità inerente alla nostra natura s'è costituita in conseguenza di un precedente e cosciente atto di iniquità.

Analogamente la frase: Non si deve tenere in alcun conto e deve essere totalmente rifiutato tutto ciò che è visto da occhi mortali, tutto ciò che è raggiunto dal senso,5 andava così integrato: tutto ciò che è raggiunto dal senso del corpo mortale; esiste infatti anche un senso della mente.

In quel passo mi esprimevo al modo di coloro che parlano di una sensibilità solo in rapporto col corpo e dicono sensibile solo ciò che è materiale.

Ne viene di conseguenza che ogni qualvolta mi sono espresso così non s'è evitata del tutto una certa ambiguità, anche se trattasi di ambiguità nella quale possono cadere solo coloro che non fanno abitualmente uso di quell'espressione.

Ho anche detto: Che altro pensi che sia vivere nella felicità se non vivere secondo quella che dell'uomo è la componente più alta?6

E poco dopo, chiarendo che cosa avessi inteso definire come componente più alta dell'uomo: Chi potrebbe dubitare - dissi - che nell'uomo occupa la posizione più alta quella parte dell'anima alla cui autorità conviene che sottostiano tutte le altre componenti dell'uomo?

Si tratta di quella parte - perché tu non esiga da me un'altra definizione - che possiamo denominare mente o ragione.7

E ciò corrisponde senz'altro a verità, visto che, se si considera la natura dell'uomo, nulla vi è in lui di superiore alla mente e alla ragione.

Chi però intende vivere nella felicità non deve vivere secondo quella parte: così facendo vive secondo l'uomo, mentre per attingere la felicità bisogna vivere secondo Dio; ( 1 Pt 4,6 )  e, per raggiungere la mèta, la nostra mente non deve essere paga di se stessa, ma sottomettersi a Dio.

Parimenti rispondendo al mio interlocutore: In questo - dissi - non sbagli, e vorrei tanto che ciò ti fosse di buon auspicio per tutto il resto.8

Benché il tono dell'espressione non sia serio, ma scherzoso, preferirei non ricorrere più al termine omen [ auspicio ].

Non ricordo di averlo rilevato né nelle nostre Sacre Scritture ( 1 Re 20,33 ) né nel linguaggio di qualche scrittore ecclesiastico, benché da omen derivi abominazione, un vocabolo che ricorre frequentemente nei Libri sacri.

1.3. Nel secondo libro è del tutto sciocca e insulsa quella sorta di favola di filocalia e filosofia che le designa come sorelle e nate dallo stesso padre.9

O quella che viene denominata filocalia è da annoverare fra le sciocchezze dei poeti e non è perciò a nessun patto sorella di filosofia, ovvero, se questo nome merita considerazione per il fatto che, tradotto in latino, significa amore della bellezza e designa la vera e suprema bellezza della sapienza, filosofia e filocalia, nella sfera delle supreme realtà immateriali cui appartengono, non possono che essere la stessa persona e non sono quindi in nessun modo assimilabili a due sorelle.

In un altro passo, trattando dell'anima, ho detto: Per tornare, resa più sicura, in cielo.10

Per maggior sicurezza avrei dovuto dire "per andare" piuttosto che per tornare, e ciò per evitare l'errore di coloro secondo i quali le anime umane, cadute o cacciate dal cielo in conseguenza dei loro peccati, verrebbero costrette a entrare in questi nostri corpi.11

Non ho esitato ad esprimermi in questo modo in quanto dicendo in cielo intendevo dire "a Dio", che dell'anima è autore e creatore.

Allo stesso modo il beato Cipriano non si è peritato di scrivere: Poiché il nostro corpo deriva dalla terra e il nostro spirito dal cielo, noi stessi siamo nel contempo cielo e terra;12 e nell'Ecclesiaste è scritto: Lo spirito ritorni a Dio che l'ha dato, ( Qo 12,7 )  il che va in ogni caso inteso in un senso che non si opponga all'affermazione dell'Apostolo secondo la quale gli uomini non ancora nati nulla hanno compiuto né di bene né di male. ( Rm 9,11 )

Senza alcun dubbio dunque Dio stesso è una sorta di sede originaria della felicità dell'anima, quel Dio che non l'ha creata da se stesso, ma dal nulla, allo stesso modo in cui ha creato il corpo umano dalla terra.

Per quanto infatti attiene al problema della sua origine e della sua presenza in un corpo, se cioè derivi da quell'unica anima che fu creata quando fu creato l'uomo come essere vivente ( Gen 2,7 ) o se le anime siano create singolarmente una per ciascuno né lo sapevo allora né lo so adesso.

1.4. Nel terzo libro ho detto: Se vuoi conoscere il mio parere sappi che per me il bene supremo dell'uomo risiede nella mente.13

Con maggiore aderenza alla verità avrei dovuto dire: "in Dio".

Di lui infatti la mente, ai fini della felicità, gode come del suo massimo bene.

Non mi piace neppure l'altra espressione: Posso giurare per tutto ciò che è divino.14

Non è stato del pari corretto da parte mia affermare che gli Academici dimostravano di conoscere la verità per il fatto stesso di definire verisimile ciò che al vero assomiglia e tacciare poi di falsità quel verisimile cui essi danno il loro assenso.15

E non è stato corretto per due motivi.

Da un lato, stando alle mie parole, sarebbe falso ciò che in qualche modo assomiglia alla verità ( ma anche questa, nel suo genere, è una verità ); dall'altro, sempre stando alle mie parole, gli Academici avrebbero dato il loro assenso a quelle falsità che definivano verisimili, mentre sono essi stessi a negare quell'assenso ad ogni possibile enunciazione e ad attribuire questo stesso comportamento al sapiente.

Se, comunque, mi sono espresso in quel modo su di loro è perché definiscono quel loro "verisimile" anche come "probabile".

Non senza ragione mi sono altresì dispiaciuto di aver esaltato Platone o i Platonici ( o Academici che dir si voglia )16 in una misura che non s'addice certo a pensatori rei d'empietà, visto che è soprattutto contro i loro gravi errori che va difesa la dottrina cristiana.

Quanto al fatto che a paragone con le argomentazioni usate da Cicerone nei suoi libri academici, ho definito sciocchezzuole17 quelle cui ero ricorso per demolire in modo inconfutabile le tesi di quella scuola, è chiaro che il tono era scherzoso e di più che trasparente ironia: non avrei tuttavia ugualmente dovuto esprimermi in quel modo.

Quest'opera incomincia così: Voglia il cielo, o Romaniano, che un uomo ben disposto verso di lei.

II - La felicità, un libro

2. Mi è occorso di scrivere il libro su La felicità non dopo la composizione dei libri Sugli Academici, ma in alternanza con essi.

Nacque da una circostanza occasionale, la ricorrenza del mio giorno natalizio, e comprende una discussione durata tre giorni, come chiaramente si evince dal testo.

Dal libro risulta che tutti noi, che avevamo condotto assieme la ricerca, giungemmo alla fine all'unanime conclusione che la felicità altro non è che la compiuta conoscenza di Dio.

Mi rammarico però di avere in quella sede concesso più onore del dovuto a Manlio Teodoro dedicatario del libro,18 pur trattandosi di persona dotta e cristiana; e di avere anche lì nominato spesso la fortuna;19 e di aver affermato che durante questa nostra vita la felicità alberga solo nell'animo del sapiente, qualunque sia la condizione del suo corpo;20 affermazione, quest'ultima, in contrasto con le parole dell'Apostolo, ( 1 Cor 13,12 ) il quale manifesta la speranza che la compiuta conoscenza di Dio, nella forma cioè più alta concessa all'uomo, si avrà nella vita futura, la sola che possa essere definita felice, quando anche il corpo, reso incorruttibile e immortale, ( 1 Cor 15,53 ) sarà sottomesso alla sua componente spirituale senza difficoltà o contrasto.

Nel mio manoscritto ho trovato questo libro lacunoso e mancante di una parte non piccola; è stato trascritto da alcuni confratelli nelle sue attuali condizioni e nel tempo in cui ho provveduto alla presente revisione non ero ancora riuscito a trovarne in casa di nessuno un esemplare completo che mi permettesse di eseguire le dovute correzioni.

Questo libro incomincia così: Se al porto della filosofia.

III - L'ordine, due libri

3.1. In quel medesimo periodo, e sempre intercalandone la stesura a quella dei libri Sugli Academici, scrissi anche due libri su L'ordine.

In essi viene dibattuta la grossa questione relativa alla presenza o meno di tutti i beni e di tutti i mali nell'ordine stabilito dalla provvidenza divina.

Mi accorsi però che un argomento di difficile comprensione come quello, con notevole difficoltà avrebbe potuto essere chiaramente recepito da coloro coi quali mi intrattenevo in discussione e preferii quindi limitarmi a parlare dell'ordine degli studi grazie al quale è possibile progredire verso la conoscenza delle realtà immateriali partendo da quelle materiali.

3.2. Mi rammarico però di aver spesso introdotto anche in questi libri il nome della fortuna;21 e di non aver aggiunto la specificazione del corpo ogni qualvolta nominavo i sensi del corpo;22 e di aver dato troppo peso alle discipline liberali23 sulle quali grande è l'ignoranza di molti santi, mentre alcuni, pur conoscendole, non sono dei santi;24 e di aver menzionato, pur se con tono scherzoso, le Muse come se fossero delle dee;25 e di aver chiamato imperfezione il fatto di meravigliarsi;26 e di aver affermato che rifulsero della luce della virtù dei filosofi privi della vera fede.27

Mi rammarico anche di aver sostenuto, non a nome di Platone o dei platonici, ma come si trattasse di una posizione mia, che esistono due mondi, l'uno sensibile, l'altro intelligibile,28 e di aver insinuato che questo avrebbe voluto intendere il Signore29 in quanto anziché dire: "Il mio regno non è del mondo", dice invece: Il mio regno non è di questo mondo. ( Gv 18,36 )

Si potrebbe scoprire che alla base di quelle parole v'è una qualche locuzione consacrata dall'uso.

In ogni caso, se Cristo Signore fa riferimento ad un altro mondo, lo si potrebbe più convenientemente identificare con quel mondo in cui ci saranno un cielo nuovo ed una terra nuova, ( Is 65,17; Is 66,22; 2 Pt 3,13; Ap 21,1 ) quando avrà compimento quella realtà che invochiamo con le parole: Venga il tuo regno. ( Mt 6,10 )

Né aveva torto Platone nel parlarci di un mondo intelligibile, sempre che ci si voglia riferire alla sua realtà e non al vocabolo mondo che nel linguaggio della Chiesa non assume mai quel significato.

Egli infatti ha denominato mondo intelligibile la stessa eterna ed immutabile ragione con la quale Dio ha creato il mondo.

Chi ne nega l'esistenza deve, per coerenza, ammettere l'irrazionalità dell'azione creatrice di Dio, o riconoscere che Dio, sia al momento della creazione, sia in precedenza, non sapesse quel che faceva, visto che non ci sarebbe stata in lui la ragione quale criterio del suo operare.

Se era in lui, come in realtà lo era, è chiaro che Platone ha inteso riferirsi a tale realtà con l'espressione mondo intelligibile.

Non saremmo tuttavia ricorsi a tale denominazione, se fossimo già stati sufficientemente esperti nella letteratura ecclesiastica.

3.3. Neppure questo approvo, di aver detto che occorre impegnarsi in una condotta irreprensibile e di aver subito aggiunto: altrimenti il nostro Dio non potrà esaudirci.

Aiuterà invece assai facilmente chi imposta correttamente la propria vita.30

S'è detto questo come se Dio non esaudisse i peccatori. ( Gv 9,31 )

Qualcuno, è vero, si era espresso in questo modo nel Vangelo, ma si trattava di un uomo che, pur non avendo ancora riconosciuto il Cristo, ne era stato illuminato nel corpo.

Neppure approvo di aver tributato al filosofo Pitagora una lode tanto grande da indurre chi ascolta o legge a ritenere che secondo me non ci sarebbe nell'insegnamento di Pitagora errore alcuno:31 ce ne sono invece parecchi e gravissimi.

Quest'opera incomincia così: L'ordine delle cose, o Zenobio.

IV - I Soliloqui, due libri

4.1. Nel frattempo scrissi altri due volumi per soddisfare una mia ardente aspirazione, quella di cercare razionalmente la verità su ciò che più intensamente desideravo conoscere; e l'ho fatto rivolgendo domande e rispondendo a me stesso, quasi che io e la mia ragione fossimo due realtà distinte, mentre ero presente io solo.

Di qui il titolo di Soliloqui da me assegnato a quest'opera.

Essa è rimasta incompiuta e pur tuttavia nel primo libro, attraverso la ricerca, si giunge comunque alla rappresentazione delle caratteristiche di chi aspira ad attingere la sapienza, quella sapienza che si raggiunge non col senso del corpo, ma con la mente; e alla fine del libro, con una ben definita argomentazione, si conclude che ciò che partecipa veramente dell'essere è immortale; nel secondo libro si dibatte a lungo, senza terminare il discorso, il tema dell'immortalità dell'anima.

4.2. In questi libri non approvo di aver detto in una preghiera: O Dio, che hai voluto che solo i puri conoscessero il vero.32

Si può obiettare che anche molti che non sono puri conoscono molte verità.

Inoltre in quella sede non viene definito quale sia il vero che solo i puri possono conoscere né che cosa significhi conoscere.

Non approvo neppure l'altra frase: O Dio, il cui regno è tutto il mondo, che il senso non può conoscere.33

Se per oggetto del conoscere si deve intendere Dio si sarebbe dovuto integrare così: che il senso del corpo mortale non può conoscere; se invece è il mondo ad essere ignorato dal senso, si dovrà intendere quello che verrà con cielo nuovo e terra nuova. ( Is 65,17; Is 66,22 )

Ma anche in questo caso sarebbe stata necessaria l'integrazione: "senso del corpo mortale".

Io però seguivo la comune consuetudine per cui si parla propriamente di senso solo in rapporto a quello del corpo.

Non occorre comunque continuamente ripetere ciò che ho già scritto anche in precedenza:34 basta ricordarlo ogni qualvolta questo modo di esprimersi ricorre nei miei scritti.

4.3. E quando ho detto del Padre e del Figlio: È una cosa sola chi genera e chi è generato,35 avrei dovuto dire "sono una cosa sola", ( Gv 10,30 ) come la Verità stessa proclama quando dice: Io e il Padre siamo una cosa sola.

Non approvo neppure di aver detto che in questa vita l'anima può esser felice una volta che abbia conosciuto Dio:36 l'affermazione potrebbe forse essere valida, ma solo a patto che tale felicità sia oggetto di speranza.

Quanto all'affermazione che l'unione con la sapienza non si raggiunge seguendo un'unica via,37 non suona bene, è come se si affermasse che esiste un'altra via oltre al Cristo il quale ha affermato: Io sono la via. ( Gv 14,6 )

Si sarebbe dovuto evitare di turbare in questo modo la sensibilità degli spiriti religiosi, anche se è vero che altra è la via universale, altre le vie a proposito delle quali cantiamo nel Salmo: Fammi conoscere le tue vie, Signore, e insegnami i tuoi sentieri. ( Sal 25,4 )

Anche nell'affermazione che bisogna del tutto fuggire da codeste realtà sensibili,38 si sarebbe dovuto evitare il sospetto che facessimo nostra la posizione dello pseudofilosofo Porfirio, secondo il quale si deve fuggire da ogni realtà corporea.39

Non ho detto "da tutte le realtà sensibili", ma solo da quelle di questo mondo soggette a corruzione.

Avrei dovuto piuttosto dire: non ci saranno più realtà sensibili come queste nel cielo nuovo e nella terra nuova del mondo che verrà.

4.4. Ho anche detto in un passo che gli esperti nelle discipline liberali ne recuperano sicuramente la conoscenza in se stessi dove giace nell'oblio attraverso l'apprendimento e, in certo qual senso, la dissotterrano.40

Anche questo non incontra la mia approvazione.

C'è piuttosto da ritenere che anche degli indotti siano in grado di fornire risposte conformi a verità su talune discipline, quando vengono fatte loro delle domande in forma corretta; ma ciò avviene perché risplende in loro la luce della ragione eterna nella quale contemplano, nei limiti in cui è dato loro di farlo, le verità immutabili, non perché le abbiano conosciute un tempo e se ne siano poi dimenticati, come hanno creduto Platone e quelli che la pensano come lui.41

Contro la loro opinione ho già dissertato nel dodicesimo libro su La Trinità, nei limiti in cui l'argomento affrontato me ne offriva l'occasione.42

Quest'opera incomincia così: Considerando dentro di me molte e svariate questioni.

V - L'immortalità dell'anima, un libro

5.1. Dopo i libri dei Soliloqui, rientrato a Milano dalla campagna, scrissi un libro sull'immortalità dell'anima, che avevo concepito come un promemoria in vista del completamento dei Soliloqui, che erano rimasti incompiuti.

Non so come, però, e contro le mie intenzioni lo scritto divenne di pubblica ragione ed è menzionato fra i miei opuscoli.

Innanzitutto per il procedere contorto delle argomentazioni e per l'estrema concisione è così oscuro, che è anche per me molto faticoso concentrarmi nella sua lettura, e a malapena riesco a ricavarne un senso.

5.2. Ma c'è dell'altro. In un'argomentazione di quel libro, nella quale prendo in considerazione solo le anime degli uomini, ho detto: Non ci può essere disciplina in chi non apprende;43 analogamente in un altro passo ho detto: Nulla abbraccia la scienza se non ciò che è di pertinenza di una qualche disciplina.44

Non avevo considerato che Dio non apprende nessuna disciplina, ma possiede la conoscenza di tutto e che in tale conoscenza è compresa anche quella del futuro.

Pure erronea è l'altra mia affermazione che l'unione di vita e ragione non appartengono che all'anima;45 neppure in Dio infatti c'è vita senza ragione, che anzi vita e ragione sono in lui al massimo grado; altrettanto errato è quanto ho detto un po' prima: Ciò che è oggetto del pensiero è sempre lo stesso.46

Anche l'anima è oggetto del pensiero, eppure non è sempre la stessa.

Quanto all'altra affermazione - l'anima non si può separare dalla ragione eterna poiché non è ad essa unita spazialmente47 - non mi sarei espresso così se fossi stato tanto esperto nelle Sacre Scritture da ricordarmi quanto è scritto: I vostri peccati vi separano da Dio. ( Is 59,2 )

Da ciò è possibile comprendere che ci può essere separazione anche di quanto era unito non spazialmente, ma spiritualmente.

5.3. Non sono riuscito a ricordare che cosa intendessi dire con la frase: L'anima, se manca del corpo, non è in questo mondo.48

Forse che l'alternativa per le anime dei morti è o di non mancare del corpo o di non essere in questo mondo, quasi che gli inferi non siano in questo mondo?

Poiché però assegnavo all'espressione mancare del corpo una valenza positiva, è possibile che col termine corpo intendessi designare i mali del corpo.

Se è così devo ammettere di essermi servito in modo troppo inusitato del vocabolo corpo.

Frutto di sconsideratezza è anche quest'altro tratto: Attraverso l'anima da parte della Somma Essenza viene data una forma al corpo, in virtù della quale è tutto ciò che è.

In virtù dell'anima dunque il corpo sussiste ed acquista esistenza, per il principio stesso da cui è animato sia in generale come il mondo sia in particolare come un qualsiasi essere fornito d'anima che è nel mondo.49

Tutto ciò è stato detto con estrema sconsideratezza.

Questo libro incomincia così: Se una disciplina ha una sua sede specifica.

VI - Libri sulle discipline, un libro

6. Nel medesimo torno di tempo in cui soggiornavo a Milano in attesa di ricevere il battesimo tentai anche di portare avanti un'opera in più libri sulle discipline, coinvolgendo nella discussione, attraverso la tecnica dell'interrogazione, le persone che erano con me e che non rifuggivano da quel tipo di interessi.

Mi ripromettevo così, seguendo un ben articolato e graduale percorso, di giungere io stesso e di condurre gli altri alla conoscenza delle realtà incorporee passando prima attraverso quelle corporee.

Di quel progetto sono però riuscito a condurre a termine solo il libro su La grammatica, che non ho più trovato nel mio armadio, e sei libri su La musica limitati a quella parte che prende il nome di ritmo.

Ho scritto questi sei libri da battezzato, dopo essere rientrato in Africa dall'Italia: in quel di Milano infatti avevo appena abbordato la trattazione di tale disciplina.

Delle altre cinque discipline, alle quali avevo pure posto mano in quella medesima circostanza, vale a dire la dialettica, la retorica, la geometria, l'aritmetica, la filosofia, sono rimasti solo gli inizi appena abbozzati, anch'essi scomparsi dall'armadio, ma che suppongo siano ancora in possesso di qualcuno.

VII (VI) - La morale della Chiesa cattolica e la morale dei Manichei, due libri

7.1. Avevo già ricevuto il battesimo e, soggiornando a Roma, non me la sentii di tollerare in silenzio la presunzione dei Manichei.

Forti della loro ingannevole continenza o astinenza costoro, per ingannare gli ignari, si pongono al di sopra dei veri Cristiani, coi quali non possono ambire ad alcun possibile confronto.

Scrissi allora due libri, uno su La morale della Chiesa cattolica, l'altro su La morale dei Manichei.

7.2. Nel libro su La morale della Chiesa Cattolica avevo adottato come testimonianza un passo scritturistico così redatto: Per causa tua veniamo colpiti per una intera giornata, siamo stati considerati alla stregua di pecore da macello.50

Mi aveva tratto in inganno la scorrettezza del mio esemplare, non avendo io ricordato l'esatta lezione, data la scarsa consuetudine che allora avevo con le Scritture.

Infatti altri esemplari contenenti la stessa traduzione non recano: per causa tua siamo colpiti, bensì: per causa tua siamo colpiti a morte, espressione che altri, servendosi di un unico vocabolo, rendono con: siamo fatti morire.

Che si tratti del testo esatto è provato dai codici recanti la versione greca delle Scritture antiche fatta dai Settanta e dalla quale deriva quella latina.

Eppure proprio partendo dalle parole: per causa tua siamo colpiti, ho potuto impostare delle discussioni la cui sostanza non me la sento di disapprovare.

Non sono però assolutamente riuscito a provare, partendo da quelle parole, l'accordo fra antiche e nuove Scritture.

Ho chiarito l'origine del mio errore: sono però ugualmente riuscito a dimostrare sufficientemente quell'accordo sulla base di altri testi.

7.3. Poco più avanti, ho addotto un passo del Libro della Sapienza secondo l'esemplare in nostro possesso dove si leggeva: La Sapienza insegna la sobrietà, la giustizia e la virtù. ( Sap 8,7 )

Anche partendo da queste parole ho potuto discutere delle verità, ma ero occasionalmente addivenuto alla loro scoperta attraverso un errore.

Che c'è di più vero del fatto che la Sapienza insegna la verità della contemplazione, concetto che ritenevo espresso dal termine "sobrietà", o che insegna la correttezza dell'agire, che pensavo indicata dagli altri due termini: "giustizia" e "virtù"?

Ma i codici migliori di quella traduzione recano: insegna la sobrietà e la sapienza e la giustizia e la virtù.

Con questi termini il traduttore latino ha inteso designare le quattro virtù che entrano soprattutto nel linguaggio filosofico: chiama sobrietà la temperanza, assegna alla prudenza il nome di sapienza, nomina la fortezza mediante il termine virtù ed ha tradotto solo la giustizia col suo nome.

Molto tempo dopo, consultando gli esemplari greci, ho constatato che nel Libro della Sapienza le quattro virtù sono designate con gli esatti vocaboli loro assegnati dai Greci.

Analogo è il caso di questo passo del libro di Salomone - Vanità dei vanitosi, ha detto l'Ecclesiaste - una frase che ho letto in questa forma in molti manoscritti.

Non così però il testo greco che reca: Vanità delle vanità.51

In seguito ho constatato che erano migliori gli esemplari latini che recano delle vanità, non dei vanitosi.

Risulta comunque tutto vero ciò che ho detto traendo spunto da questo errore, come si evince dal contenuto di tutta la mia esposizione.

7.4. Ho anche detto: Quello stesso che desideriamo conoscere, cioè Dio, amiamolo prima con amore pieno.52

Sarebbe stato meglio dire "sincero", anziché pieno, per evitare che si pensasse che l'amore di Dio non sarà maggiore quando lo vedremo faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )

S'accetti dunque l'espressione, ma intendendo per pieno ciò di cui non vi può essere nulla di più grande durante la nostra peregrinazione terrena guidata dalla fede.

Il nostro amore sarà pieno, anzi pienissimo, ma al momento della visione diretta?

Analogamente di coloro che soccorrono i bisognosi ho detto che vengono chiamati misericordiosi, anche se sono talmente saggi da non provare più alcun dolore nell'animo.53

La frase non va intesa nel senso che, secondo me, vi sarebbero in questa vita saggi di questo tipo: infatti non ho detto "quando sono", ma: anche se sono.

7.5. In un altro passo ho detto: Una volta che questo amore umano abbia nutrito e rafforzato l'anima e questa, attaccata alle tue mammelle, sia stata messa in grado di seguire Dio, una volta che la sua Maestà abbia incominciato a manifestarsi entro limiti sufficientemente ampi per chi soggiorna in questa terra, ne nasce un tale ardore di carità e l'amore divino erompe in un tale incendio da distruggere col fuoco ogni vizio, da restituire all'essere umano santità e purezza e da mostrare quanto sia degna di Dio l'affermazione: "sono un fuoco che consuma".54

I Pelagiani su questa base potrebbero attribuirmi l'affermazione che tale perfezione possa toccarci in questa vita mortale. Si guardino però bene dal farlo.

L'ardore della carità, messo in grado di seguire Dio e reso così grande da consumare tutti i vizi, può senza dubbio nascere e svilupparsi in questa vita.

Non può però raggiungere compiutamente quaggiù lo scopo per cui ha nascimento, quello di togliere all'uomo ogni menda, anche se resta vero che un risultato così grande si realizza compiutamente grazie a questo stesso ardore di carità quando e dove è possibile.

E come il bagno della rigenerazione lava la macchia di tutti i peccati che la nascita dell'uomo portò con sé e che contrasse la sua iniquità, così possa quella perfezione purificarlo dalle brutture di tutti i vizi senza dei quali non vi sarebbe per l'uomo debolezza alcuna in questo mondo.

Così vanno intese anche le parole dell'Apostolo: Cristo ha amato la Chiesa e si è offerto per essa purificandola col bagno dell'acqua unito alla parola, sì da far sorgere dinanzi a sé una Chiesa gloriosa, senza macchia né ruga né consimili imperfezioni. ( Ef 5,25 27 )

Nella attuale situazione è il bagno dell'acqua unito alla parola che purifica la Chiesa.

Ma poiché essa, finché è quaggiù, è unanime nel dire: rimetti i nostri peccati, ( Mt 6,12 ) è chiaro che in tale situazione non è del tutto senza macchia o ruga o difetti consimili.

Da quanto tuttavia riceve quaggiù, viene condotta verso quella gloria e quella perfezione che qui non esiste.

7.6. Nell'altro libro intitolato La morale dei Manichei ho scritto: La bontà di Dio dispone le creature che hanno deviato in modo ch'esse vengano a trovarsi nella posizione che loro maggiormente conviene, in attesa che, restaurato l'ordine dei loro movimenti, ritornino al punto a partire dal quale avevano deviato.55

Queste parole non vanno intese nel senso che tutte ritorneranno al punto a partire dal quale avevano deviato, come aveva sostenuto Origene,56 ma vanno riferite solo a quelle creature che di fatto compiono questo ritorno.

Non ritorneranno infatti a Dio, dal quale si sono allontanati, coloro che saranno puniti col fuoco eterno; né ciò è in contrasto col fatto che tutte le creature che hanno deviato sono disposte in modo da trovarsi nella posizione che loro maggiormente conviene: per coloro infatti che non ritorneranno è perfettamente congruente trovarsi nei tormenti.

In un altro passo ho scritto: Nessuno dubita che gli scarabei nascano da fimo plasmato a forma di palla e da essi sepolto;57 in realtà molti dubitano che ciò sia vero e molti altri non ne hanno neppure sentito parlare.

Quest'opera inizia così: In altri libri penso di aver sufficientemente trattato.

VIII (VII) - La grandezza dell'anima, un libro

8.1. Sempre a Roma ho composto un dialogo nel quale vengono indagate e discusse molte questioni relative all'anima quali la sua origine, la sua natura, la sua grandezza, il motivo della sua unione col corpo, ciò ch'essa diviene al momento dell'entrata e dell'uscita dal corpo.58

Poiché vi ho discusso con grande impegno e con approfondimenti sottili della sua grandezza, e mio intendimento era quello di dimostrare se possibile che tale grandezza non è riportabile alla dimensione dei corpi materiali, pur trattandosi di qualcosa di veramente grande, il libro nel suo insieme ha ricevuto il suo titolo da quest'unica questione, titolo che, pertanto, suona: La grandezza dell'anima.

8.2. In questo libro ho espresso l'opinione che l'anima abbia recato con sé i contenuti di tutte le arti e che quello che chiamiamo apprendere altro non sia che richiamare alla memoria e ricordare.59

Questa affermazione non va però intesa nel senso che si accetta una di queste ipotesi: o che l'anima sia già vissuta in questo mondo, inserita in un altro corpo, o che sia vissuta altrove, non importa se nel corpo o fuori del corpo, e che abbia precedentemente appreso in un'altra vita ciò cui è in grado di rispondere se interrogata, visto che in questa non può averlo appreso.60

Può essere infatti, come s'è già detto in quest'opera,61 che l'anima abbia tale capacità in quanto rientra nella sfera delle nature intelligibili e le realtà cui essa è connessa sono non solo intelligibili, ma anche immortali.

Pertanto l'ordine in cui rientra comporta che, ogni qualvolta si volge alle realtà cui è connessa o a se stessa, è in grado di dare su tali realtà risposte conformi al vero in quanto ne ha diretta intuizione.

Né ha recato con sé e possiede in quel modo i contenuti di tutte le arti: su quelle che attengono ai sensi del corpo, come per esempio su molti aspetti della medicina e su tutti i contenuti dell'astronomia, non è in grado di esporre se non ciò che ha potuto apprendere in questo mondo.

È invece in grado di rispondere, in base a quanto s'è detto, sulle verità colte dalla sola intelligenza ogni qualvolta sia stata correttamente interrogata da se stessa o da altri e quando le abbia richiamate alla memoria.

8.3. In un altro passo ho detto: Vorrei a questo punto dire di più ed impormi, mentre in certo qual modo ti faccio da maestro, di non por mano ad altro se non al compito di restituirmi a me stesso cui soprattutto mi debbo.62

Mi sembra che avrei dovuto piuttosto dire: restituirmi a Dio al quale soprattutto mi debbo.

Mi ero espresso così poiché l'uomo deve in primo luogo restituirsi a se stesso: solo a questo punto, fatto in un certo senso il primo passo, può alzarsi e salire fino a Dio come il figlio minore della parabola che, dopo esser rientrato in se stesso disse: M'alzerò e andrò da mio padre. ( Lc 15,18 )

Subito dopo ho aggiunto: e diventare uno schiavo amico del padrone.63

Quanto alla frase: cui soprattutto mi debbo, è da intendersi in riferimento agli uomini: mi debbo infatti a me stesso più che a tutti gli altri uomini, anche se a Dio più che a me stesso.

Questo libro incomincia così: Poiché vedo che hai molto tempo libero.

IX (VIII) - Il libero arbitrio, tre libri

9.1. Mentre ci trovavamo ancora a Roma si manifestò in noi la volontà di approfondire, attraverso una disputa, il problema dell'origine del male e impostammo la discussione secondo un progetto ben preciso, quello di esperire la possibilità che un'argomentazione ben meditata e articolata, compatibilmente con quanto attraverso tale discussione era possibile realizzare in tale direzione con l'aiuto di Dio, conducesse alla nostra comprensione la verità su questo argomento cui già aderivamo in obbedienza all'autorità divina.

E poiché, dopo aver attentamente discusso la questione, giungemmo unanimemente alla conclusione che il male deriva dal libero arbitrio della volontà, i tre libri scaturiti dalla disputa ebbero come titolo Il libero arbitrio.

Condussi a termine come potei il terzo e il quarto in Africa, quando ero già stato ordinato sacerdote ad Ippona.

9.2. In questi libri i temi discussi erano talmente tanti da indurmi a rimandare la soluzione di talune questioni che mi si erano presentate cammin facendo e che non ero riuscito a sviluppare adeguatamente o che avrebbero comunque richiesto sul momento un lungo discorso.

S'era però fatto in modo che, partendo da due o da tutte le posizioni alternative che quelle questioni, in mancanza dell'evidenza del vero, comportavano, il nostro argomentare dovesse comunque addivenire al risultato che, quale che fosse la vera fra le soluzioni proposte, si fosse tenuti a ritenere o anche a dimostrare che a Dio spetta la lode.64

Quella discussione fu intrapresa per coloro che escludono che l'origine del male possa essere ricondotta al libero arbitrio della volontà e sostengono che, se si accetta tale origine, si è costretti ad attribuirne la colpa a Dio, creatore di tutti gli esseri.

Scopo di questo loro atteggiamento è l'introduzione di un principio del male immutabile e coeterno a Dio e ciò fanno - trattasi infatti dei Manichei - per tener fede a un errore della loro empia dottrina.

Da quei libri invece, data la specificità della questione proposta, è del tutto assente ogni discussione sulla grazia mediante la quale Dio ha predestinato i suoi eletti predisponendo la volontà di quelli fra loro che già nell'esercitare tale volontà fruiscono del libero arbitrio.

Quando se n'è offerta l'occasione se n'è fatta solo una rapida menzione e si è evitato di fornirne una approfondita e laboriosa difesa quasi che quello fosse il tema affrontato.

Altro è infatti interrogarsi sull'origine del male, altro è chiedersi donde prendere l'avvio per tornare al bene di un tempo o per raggiungerne uno maggiore.

9.3. Non si esaltino troppo però i nuovi eretici seguaci di Pelagio.

Se in questi libri ci siamo lasciati andare a molte affermazioni favorevoli al libero arbitrio in conformità con quanto il tema affrontato esigeva, ciò non significa che intendessimo metterci sullo stesso piano di gente come loro, che sostengono il libero arbitrio della volontà fino al punto di togliere spazio alla grazia divina e di ritenere che questa ci sia concessa in conseguenza dei nostri meriti.

Ho detto, è vero, nel primo libro: Le cattive azioni sono punite dalla giustizia di Dio; ed ho aggiunto: Non sarebbe giusta la punizione se non fossero commesse volontariamente.65

Parimenti, nel sostenere che la buona volontà è un bene così grande da sopravanzare giustamente tutti i beni propri del corpo e ad esso esterni, ho detto: Ti sarà ormai chiaro, a quanto mi par di capire, che dipende dalla volontà il fruire o il non fruire di un bene così grande e così autentico: che v'è infatti di più interno alla volontà della volontà stessa?66

E in un altro passo: Che motivo c'è di porre in dubbio una verità come questa, che cioè è in forza della volontà che noi, pur se in passato fummo sempre privi di saggezza, conduciamo meritatamente una vita apprezzabile e felice e che, sempre per opera della volontà, ne conduciamo una indegna ed infelice?67

Così pure ho scritto in un altro passo: Ne consegue che chiunque vuol vivere con rettitudine ed onestà, se è sua volontà il volerlo, rinunciando ai beni fugaci, conseguirà un bene così grande con tanta facilità che per lui il conseguire l'oggetto della sua volontà coinciderà con l'atto stesso di volerlo.68

Così pure altrove ho scritto: Quella legge divina, che è tempo di riprendere in considerazione, ha fissato con immutabile decreto questo principio, che nella volontà stia il merito, nella felicità e nella miseria il premio e il castigo.69

E altrove: Risulta legata alla volontà la decisione che ciascuno sceglie liberamente di seguire e di adottare.70

Nel secondo libro poi ho detto: L'uomo stesso, infatti, in quanto uomo, è un bene, dal momento che, qualora lo voglia, può realizzare una retta condotta di vita.71

In un altro passo dello stesso libro ho affermato che il libero arbitrio della volontà è condizione necessaria per un agire corretto.72

Nel terzo libro poi ho detto: Che motivo c'è di chiedersi donde derivi questo impulso in conseguenza del quale la volontà è stornata da un bene non soggetto a mutamento e volta verso un bene mutevole?

Non riconosciamo forse che tale impulso è peculiare dell'anima, volontario e per ciò stesso colpevole e che ogni regola utile al riguardo ha un ben preciso scopo, quello di disapprovare e fermare quell'impulso e di volgere la nostra volontà dalla mutabilità di ciò che è temporale alla fruizione del bene eterno?73

In un altro passo ho detto: Ciò che dici di te è la verità a proclamarlo nel modo migliore.

Non potresti avvertire che è in nostro potere se non il fatto stesso di fare ciò che vogliamo.

Nulla pertanto è in nostro potere quanto la stessa volontà: essa infatti è completamente e senza indugio a nostra disposizione non appena lo vogliamo.74

Così pure ho detto in un altro passo: Se ricevi lode quando vedi ciò che devi fare, anche se non lo vedi se non in colui che è l'immutabile verità, quanto più si dovrà rendere lode a colui che ci ha ordinato di volerlo, ci ha offerto la possibilità di farlo e non ha permesso che rimanesse impunito il nostro rifiuto.75

Quindi ho aggiunto: Se il dovere di ciascuno è in rapporto con ciò che ha ricevuto e se l'uomo è fatto in modo che deve necessariamente peccare, il suo dovere sarà di peccare.

Quando dunque pecca fa ciò che deve.

Ma poiché dire questo è un delitto, ne deriva che nessuno è spinto dalla sua peculiare natura a peccare.76

E ancora: Quale infine potrà essere una causa della volontà che preceda la volontà?

O infatti si identifica con la volontà stessa e non ci si allontana da quella prima radice che è la volontà, o è altro dalla volontà e non contempla alcun peccato.

O dunque la volontà è la prima causa del peccare, o nessun peccato lo può essere.

Ma non si può ragionevolmente imputare il peccato se non a chi pecca.

Non è quindi giusto imputarlo ad alcuno se non a chi pecca volontariamente.77

Dico poco più avanti: Chi pecca nel fare ciò che non può assolutamente essere evitato?

Visto però che di fatto si pecca, ciò significa che evitare è possibile.78

Di questa mia testimonianza si è servito Pelagio in un suo libro, ed io, nel rispondergli con un altro libro, ho voluto che il titolo del mio fosse: La natura e la grazia.

9.4. Poiché nelle espressioni citate e in altre consimili non si fa menzione alcuna della grazia divina, che non era allora in questione, i Pelagiani ritengono o possono ritenere che noi fossimo sulla loro stessa linea. Ma è una supposizione infondata.

È certamente la volontà che ci fa peccare e vivere rettamente, e questo è il concetto che abbiamo sviluppato nelle espressioni qui riportate.

Se quindi non interviene la grazia divina a liberare la stessa volontà dalla condizione servile che la fa schiava del peccato ( Rm 6, 17.20 ) e non l'aiuta a superare i suoi difetti, non è possibile ai mortali vivere secondo pietà e giustizia.

E se questo benefico intervento divino, che libera la volontà, non la precedesse, lo si dovrebbe considerare come un compenso concesso ai suoi meriti e non sarebbe più grazia, visto che per grazia s'intende in ogni caso ciò che è dato gratuitamente.

Di questo abbiamo sufficientemente trattato in altri nostri opuscoli,79 nel contesto della confutazione dei nuovi eretici che di questa grazia si dichiarano nemici.

Ciò non toglie che nei libri sul libero arbitrio ora in esame, che non abbiamo assolutamente scritto contro di loro, visto che a quel tempo ancora non esistevano, bensì contro i Manichei, non abbiamo del tutto passato sotto silenzio codesta grazia divina ch'essi si sforzano di togliere di mezzo con indicibile empietà.

Abbiamo detto nel secondo libro: Non solo i beni grandi, ma anche gli infimi non possono trarre il loro essere che da colui che è la fonte di tutti i beni, cioè da Dio.80

E poco oltre: Le virtù, grazie alle quali viviamo rettamente, sono dei beni grandi.

I pregi esteriori dei corpi, quali essi siano, la cui assenza è compatibile con una vita conforme a rettitudine, sono beni infimi.

Le potenzialità dell'anima, in mancanza delle quali vivere rettamente è impossibile, sono beni medi.

Ora non c'è nessuno che faccia cattivo uso delle virtù, ma chiunque non solo può far buon uso degli altri beni, cioè dei medi e degli infimi, ma anche farne uno cattivo.

E il motivo per cui nessuno può far cattivo uso della virtù consiste nel fatto che funzione della virtù è il buon uso di quei beni dei quali è possibile anche fare un uso non buono.

Ma nessuno, facendone buon uso, può farne uno cattivo.

È per questo che la generosità e la grandezza della bontà divina ha concesso che ci siano beni grandi, ma anche beni medi ed infimi.

La sua bontà va lodata più nei grandi beni che nei medi, e più nei medi che negli infimi.

Ma in tutti più che se non ce li avesse tutti forniti.81

E in un altro passo ho detto: Tu però mantieni saldo il tuo sentimento religioso sì che alla tua sensibilità, o alla tua intelligenza, o al tuo pensiero, comunque sia orientato, nulla si presenti come un bene che non derivi da Dio.82

Così pure in un altro passo ho detto: Ma poiché l'uomo, che di sua iniziativa è caduto, non può allo stesso modo risollevarsi di sua iniziativa, afferriamo con fede sicura la mano di Dio che ci viene tesa dall'alto nella persona del Signore nostro Gesù Cristo.83

9.5. Nel terzo libro, l'ammetto, ero ricorso a un'espressione che, come s'è ricordato, aveva indotto Pelagio a trarre dai miei scritti argomenti a suo favore.84

Essa suona: Chi pecca nel fare ciò che non può essere evitato?

Visto però che di fatto si pecca, ciò significa che evitare è possibile.85

Subito dopo però avevo aggiunto: E tuttavia ci sono azioni compiute per ignoranza che vengono riprovate e che si ritiene debbano essere corrette in base all'autorità delle Sacre Scritture.

Dice infatti l'Apostolo: "Ho ottenuto misericordia poiché ho agito per ignoranza". ( 1 Tm 1,13 )

E il Profeta: "Dimentica i peccati dovuti alla mia giovane età ed alla mia ignoranza". ( Sal 25,7 )

Anche ciò che si fa per necessità va riprovato, quando l'uomo vuole agire correttamente, ma non è in grado di farlo.

Che fondamento avrebbero altrimenti espressioni come questa: "Non faccio il bene che voglio, ma il male che odio"; ( Rm 7,15 ) o l'altra: "Non mi manca la volontà, ma la possibilità di fare il bene"; ( Rm 7,18 ) o l'altra ancora: "La carne concepisce desideri in contrasto con lo spirito, e lo spirito in contrasto con la carne: queste due componenti infatti si avversano reciprocamente sì da non permettervi di fare ciò che volete"? ( Gal 5,17 )

Ma tutte queste miserie sono appannaggio degli uomini che hanno alle loro spalle la nota condanna a morire.

Se infatti questa non è una punizione per l'uomo, ma una legge di natura, allora codesti non sono peccati.

E se non si allontana da quella situazione nella quale è stato creato e che non contempla un miglioramento, l'uomo, comportandosi come si comporta, fa solo ciò che deve.

Ovviamente se l'uomo fosse buono, la sua situazione sarebbe diversa.

In realtà però, dato ch'è così com'è, non è buono e non ha la possibilità di esserlo sia che non veda quale dovrebbe essere, sia che lo veda e non riesca ad essere quale vede di dover essere.

Chi dubiterebbe che questa sia una punizione?

Ma ogni punizione, se è giusta, è punizione del peccato e prende il nome di castigo.

Se invece è ingiusta, visto che nessuno pone in dubbio che si tratti di una punizione, ciò vuol dire che è stata inflitta all'uomo in forza di un potere ingiusto.

Poiché tuttavia è da folle dubitare dell'onnipotenza e della giustizia di Dio, questa punizione è giusta e viene scontata per qualche peccato.

È infatti impensabile che un tiranno ingiusto abbia potuto o sottrarre l'uomo a Dio senza che se n'accorgesse o che, al fine di tormentare l'uomo con una ingiusta punizione, glielo abbia strappato suo malgrado e abbia approfittato della sua debolezza terrorizzandolo o lottando con lui.

Resta dunque come unica soluzione che questa giusta punizione derivi da una condanna nei riguardi dell'uomo.86

E in un altro passo ho detto: Sostenere il falso in luogo del vero pur cadendo nell'errore contro la propria volontà e non riuscire a trattenersi da un comportamento passionale per la resistenza e il tormento provocati dalla dolorosa schiavitù della carne, non rientra nella naturale costituzione dell'uomo, ma costituisce la pena di un condannato.

Quando perciò parliamo della libera volontà di agire rettamente, intendiamo riferirci a quella libertà nella quale l'uomo è stato creato.87

9.6. Ed ecco che, prima ancora che facesse la sua comparsa l'eresia pelagiana, avevamo impostato la nostra discussione come se già avessimo i Pelagiani come bersaglio.

Visto che, come s'è detto, tutti i beni derivano da Dio, sia quelli grandi, sia quelli medi, sia quelli infimi, il libero arbitrio della volontà trova posto fra i medi, in quanto se ne può fare anche un uso cattivo; e tale sua classificazione è valida anche se esso è tale che, ove venga a mancare, è impossibile tenere una corretta condotta di vita.

Il suo buon uso però è già una virtù che fa parte dei grandi beni dei quali nessuno può far cattivo uso.

E poiché, come si è detto, tutti i beni, sia quelli grandi, sia quelli medi, sia quelli infimi, derivano da Dio, se ne conclude che da Dio deriva anche il buon uso della libera volontà che è una virtù ed è annoverato fra i grandi beni.88

Quindi si è detto: possa la grazia divina liberarci da quale infelicità, anche se inflitta ai peccatori con somma giustizia, possa la grazia divina liberarci: è un fatto che l'uomo poté di sua iniziativa cadere in conseguenza del libero arbitrio, ma non allo stesso modo risorgere.

A questa infelicità di una giusta condanna si riferisce l'ignoranza e la difficoltà di cui è vittima l'uomo fin dal momento della nascita, né alcuno può essere liberato da questo male senza l'intervento della grazia divina.89

Negando il peccato originale i Pelagiani escludono che questa infelicità possa discendere da una giusta condanna.

Pur tuttavia, anche nel caso che ignoranza e difficoltà fossero ascrivibili alla originaria natura dell'uomo, non per questo Dio sarebbe da incolpare, ma piuttosto da lodare, come risulta dalla discussione contenuta nel terzo libro.90

La discussione contenuta nell'opera in questione va intesa come rivolta contro i Manichei i quali non accettano le Sacre Scritture comprese nell'Antico Testamento contenente il racconto del peccato originale, e sostengono che quanto si legge al riguardo nelle Lettere degli Apostoli vi sarebbe stato introdotto con detestabile impudenza dai corruttori delle Scritture, quasi che gli Apostoli non ne avessero punto parlato.

Contro i Pelagiani invece occorre difendere ciò che raccomandano entrambe le Scritture ch'essi affermano di accettare.

Quest'opera incomincia così: Dimmi, te ne prego, se Dio non sia autore del male.

X (IX) - La Genesi difesa contro i Manichei, due libri

10.1. Quando mi ero stabilito già in Africa scrissi due libri in difesa de La Genesi contro i Manichei.

L'intento di oppormi ai Manichei non era estraneo ai libri precedenti ed era già presente in tutte le mie discussioni miranti a dimostrare che Dio nella sua suprema bontà e immutabilità è il creatore di tutte le nature soggette a mutamento e che nessuna natura o sostanza è cattiva in quanto natura o sostanza.

Questi due libri però furono scritti espressamente contro costoro a difesa dell'Antica Legge ch'essi attaccano con la veemente passione suscitata in loro da un folle errore.

Il primo dei due libri prende avvio dalle parole: In principio Dio creò il cielo e la terra, ( Gen 1,1 ) e prosegue per sette giorni fino al punto in cui è detto che nel settimo giorno Dio si riposò.

Il secondo parte dalle parole: Questo è il libro della creazione del cielo e della terra, ( Gen 2,4 ) e continua fino alla cacciata di Adamo e della sua donna dal Paradiso ed alla collocazione di una guardia a difesa dell'albero della vita.

Alla fine del libro ho contrapposto la fede della verità cattolica all'errore dei Manichei e ho esposto brevemente, ma con molta chiarezza, le loro e le nostre posizioni.

10.2. Ho detto: Quella luce non nutre gli occhi degli uccelli privi di ragione, ma i cuori puri di coloro che credono in Dio e si volgono dall'amore delle realtà visibili e temporanee verso l'adempimento dei suoi precetti; e questo è in potere di tutti gli uomini, qualora lo vogliano.91

Non credano però i nuovi eretici seguaci di Pelagio che la frase sia stata detta nel senso che intendono loro.

È senz'altro vero che tutti gli uomini possono farlo, qualora lo vogliano, ma la loro volontà viene preparata dal Signore e riceve un tale incremento dal dono dell'amore da metterli in grado di farlo.

Non ho fatto allora questa precisazione perché non necessaria a chiarire il tema al momento in discussione.

Nel mio scritto si legge altresì che la benedizione del Signore espressa con le parole: Crescete e moltiplicatevi, ( Gen 1,28 ) si trasformò, dopo il peccato, in fecondità carnale.92

Non sono però assolutamente d'accordo se si intendono queste mie parole unicamente nel senso che gli uomini non avrebbero avuto figli se non avessero peccato.

La constatazione poi che ci sono sia quadrupedi sia volatili, che si nutrono solo di carni, non implica come logica conseguenza che si debba interpretare in senso esclusivamente allegorico quanto si legge nel libro della Genesi, che cioè ad ogni genere di animali e a tutti gli uccelli e a tutti i serpenti vengono forniti, perché possano nutrirsi, erbe fresche e alberi da frutto.93

Tali animali infatti avrebbero potuto esser nutriti dagli uomini anche coi frutti della terra qualora essi, servendo Dio in perfetta innocenza, avessero meritato, come corrispettivo di tale obbedienza, la totale sottomissione al loro volere di tutte le bestie e di tutti i volatili.

Allo stesso modo può meravigliare il modo col quale mi sono espresso a proposito del popolo d'Israele quando ho affermato che quel popolo serviva ancora la legge con la pratica materiale della circoncisione e con i sacrifici, come se si trovasse nel mare dei pagani.94

In realtà gli Israeliti non avrebbero potuto sacrificare fra i pagani: anche oggi possiamo constatare che non seguono la pratica dei sacrifici,95 a meno che non si consideri un sacrificio l'uccisione di un agnello in occasione della Pasqua.

10.3. Nel secondo libro non mi sembra congruente l'affermazione che il termine nutrimento potrebbe simboleggiare la vita; i codici che ci hanno trasmesso la traduzione migliore recano fieno e non nutrimento e il termine fieno si adatta assai meno di nutrimento a simboleggiare la vita.96

Non mi sembra,97 inoltre, di aver correttamente denominato parole profetiche quelle contenute nel passo della Scrittura che suona: Perché insuperbiscono la terra e la cenere? ( Sir 10,9 )

Trattasi di un'espressione che non si legge nel libro di un autore al quale siamo certi che spetti il nome di profeta.

Non ho neppure esattamente inteso il senso del passo dell'Apostolo nel quale egli adduce le parole della Genesi: Il primo uomo, Adamo, fu creato come anima vivente. ( 1 Cor 15,45 )

L'errore l'ho fatto nel commentare le parole, sempre della Genesi: Dio soffiò sul suo volto il soffio della vita e l'uomo fu creato come anima viva o anima vivente. ( Gen 2,7 )

In realtà l'Apostolo aveva addotto quel passo per dimostrare che il corpo umano è fornito di anima, io invece, partendo da quello da me citato, pensavo di poter dimostrare che in principio tutto l'uomo, e non solo il corpo dell'uomo, fu fornito di anima.98

Ho anche detto che nessuna natura riceve un danno che provenga da peccati non suoi,99 e l'ho detto in quanto chi fa del male a un giusto non lo fa a lui, che anzi aumenta il suo compenso nei cieli; ( Mt 5,12; Lc 6,23 ) lo fa invece concretamente a se stesso poiché, in conseguenza della sua volontà di nuocere, riceverà il male che ha fatto.

I Pelagiani - inutile dirlo - possono interpretare questa affermazione nel senso da loro voluto e sostenere che i peccati altrui non hanno danneggiato i bambini in quanto sono stato io ad affermare che nessuna natura può ricevere un danno che non provenga da peccati non suoi.

Essi però non considerano che i bambini - i quali in ogni caso appartengono alla natura umana - ereditano il peccato originale in quanto fu la natura umana a peccare nei primi uomini: è esatto pertanto dire che nessuna natura riceve un danno che non provenga dai suoi peccati.

Sappiamo infatti che fu a causa di un sol uomo, nel quale tutti peccarono, che il peccato entrò nel mondo. ( Rm 5,12 )

Non ho infatti detto che nessun uomo, ma che nessuna natura riceve un danno che provenga da peccati non suoi.

I Pelagiani potrebbero anche rifugiarsi nell'affermazione da me fatta poco dopo che non esiste un male naturale.100

Intendevamo però riferirci alla natura quale era all'inizio, senza difetto alcuno, ed in realtà è quella la natura che viene propriamente definita natura dell'uomo.

Noi invece ci serviamo del termine natura in senso metaforico per designare l'uomo qual è alla sua nascita.

Ed è in questa chiave che s'esprime l'Apostolo dicendo: Siamo stati anche noi un tempo per natura figli dell'ira come tutti gli altri. ( Ef 2,3 )

Quest'opera incomincia così: Se i Manichei scegliessero le persone da ingannare.

XI (X) - La musica, sei libri

11.1. In seguito, come ho già ricordato,101 ho scritto sei libri su La musica.

Di questi è stato soprattutto il sesto ad ottenere notorietà, data la dignità del tema in esso affrontato.

Vi si descrive infatti come dai ritmi corporei e da quelli spirituali, ma mutevoli, si giunge a quelli immutabili, che già si trovano nella stessa immutabile verità e come, per conseguenza, attraverso le creature, vengono comprese e conosciute le realtà invisibili relative a Dio. ( Rm 1,20 )

Ma vi si dice anche che coloro che non possono fare questa esperienza, e pur tuttavia vivono della fede in Cristo, ( Rm 1,17; Rm 3,26; Gal 3,11; Eb 10,38 ) addivengono dopo questa vita alla contemplazione di quelle verità con maggiore certezza e provando una gioia più grande.

Coloro invece che sono in grado di farla, se manca loro la fede in Cristo, che è l'unico Mediatore fra Dio e gli uomini,102 sono destinati a perire con tutta la loro sapienza.

11.2. In questo libro ho detto: I corpi tanto più si avvantaggiano in dignità quanto più fruiscono di tali ritmi; l'anima invece trae vantaggio proprio dalla mancanza di questi ritmi, che riceve per tramite del corpo, tutte le volte che si affranca dai sensi della carne e si lascia informare dai ritmi divini della Sapienza.103

Queste parole non vanno però intese nel senso che i ritmi corporei non sussisteranno più nei corpi spirituali e incorruttibili, in quanto questi saranno molto più belli e armoniosi; e neppure si deve pensare che l'anima, giunta al massimo della perfezione, non avvertirà più quei ritmi dalla cui mancanza oggi trae vantaggio.

In questa vita occorre che si affranchi dai sensi della carne per recepire le realtà intelligibili, e ciò avviene per la sua debolezza e per la sua incapacità a volgersi con uguale intensità ad entrambe le realtà.

Rimanendo inoltre in una dimensione dominata dalla materia l'anima deve guardarsi dai rischi della seduzione per tutto il tempo in cui può essere stornata verso un piacere indecoroso.

Nell'altra vita invece si rafforzerà e perfezionerà a tal punto che i ritmi legati alla materia non potranno più stornarla dalla contemplazione della Sapienza e li avvertirà senza esserne sedotta, ma anche senza avvantaggiarsi della loro mancanza.

Tale sarà il suo grado di bontà e di rettitudine che tali ritmi non le sfuggiranno e, al tempo stesso, non la domineranno.

11.3. Ho anche detto: Questo stato di salute raggiungerà il massimo di consistenza e di certezza quando, in un tempo e secondo un ordine stabilito, questo corpo sarà restituito alla sua originaria stabilità.104

Non si deve intendere però con questo che dopo la risurrezione i nostri corpi non sopravanzeranno quelli dei primi uomini collocati nel paradiso.

Basti pensare che, a differenza di questi ultimi, i corpi risuscitati non avranno più bisogno di alimenti di cui nutrirsi.

La stabilità originaria va invece intesa nel senso che quei corpi non soffriranno più alcuna affezione dolorosa, così come non avrebbero potuto soffrirla gli uomini nati prima del peccato.

11.4. Ho anche detto in un altro passo: L'amore di questo mondo è fonte di maggiore affanno.

Ciò che in esso l'anima cerca, l'eternità e la stabilità, non riesce a trovarlo: la bellezza di quaggiù trova il suo limite nel fluire delle cose e ciò che in esso imita la stabilità è trasmesso da Dio per tramite dell'anima, in quanto la bellezza che muta soltanto nel tempo precede quella che muta a seconda del tempo e dello spazio.105

Se possiamo intendere queste parole nel senso che per bellezza di quaggiù s'intende solo quella dei corpi degli uomini e degli animali che vivono fruendo del senso corporeo, l'affermazione risulta manifestamente conforme a ragione.

Ciò che in questo tipo di bellezza imita la stabilità è il fatto che questi medesimi corpi conservano la loro struttura finché sussistono, una peculiarità che viene loro trasmessa dal sommo Iddio per tramite dell'anima.106

È l'anima che conserva tale struttura evitando che si dissolva e svanisca, il che è proprio quello che constatiamo nei corpi degli animali quando l'anima se ne allontana.

Se però si deve intendere che la bellezza di quaggiù è presente in tutti i corpi, questa affermazione ci costringe a credere che il mondo stesso sia animato e che ciò che in esso imita la stabilità vi sia stato immesso dal sommo Iddio per tramite dell'anima.

Ma che codesto mondo sia un essere vivente, come hanno ritenuto Platone e moltissimi altri filosofi,107 non ho potuto appurarlo con certezza né mi risulta che ce ne possa convincere l'autorità delle divine Scritture.

Ho perciò definito avventata una consimile affermazione che mi è occorso di fare nel libro su L'immortalità dell'anima e che può essere interpretata in questo senso.108

Ciò però non significa che giudichi falsa questa dottrina, ma solo che non riesco neppure a convincermi che il mondo sia veramente un essere vivente.

Non ho dubbi però che una cosa si debba dare per certa, che non è un dio codesto mondo, sia che possegga un'anima, sia che non la possegga.

Se la possiede è stato certamente il nostro Dio a crearla; in caso contrario codesto dio non può essere di nessuno, né tanto meno il nostro.

Anche però nel caso che il mondo non sia un essere vivente, è perfettamente legittimo credere che vi sia una potenzialità spirituale e vitale, una potenzialità che nei santi angeli è al servizio di Dio al fine di conferire al mondo bellezza e ordine e che ad essi stessi rimane incomprensibile.

Intenderei qui designare con l'espressione angeli santi ogni santa creatura d'ordine spirituale impegnata nell'occulto e misterioso servizio di Dio.

Ma non è nell'uso della Sacra Scrittura ricorrere al termine anima per indicare gli spiriti angelici.

E veniamo a quanto ho detto verso la fine di questo libro: I ritmi razionali e intelligibili propri delle anime sante e beate accolgono in sé, senza intermediari, la stessa legge divina senza la quale non cade foglia dall'albero e dalla quale è fissato il numero dei nostri capelli e la trasmettono all'ordine giuridico che domina la terra e gli inferi.109

Non vedo come il termine anime possa trovare una giustificazione sulla base delle Sacre Scritture, dal momento che in questo passo non intendevo riferirmi se non agli angeli a proposito dei quali non ricordo di aver mai letto nei testi canonici che abbiano un'anima.

Questo libro incomincia così: Troppo a lungo in realtà.

XII (XI) - Il maestro, un libro

12. Nel medesimo periodo scrissi un libro intitolato Il maestro.

In esso si discute, si indaga e si scopre che il maestro che insegna la scienza all'uomo altro non è se non Dio, secondo quanto è scritto nel Vangelo: L'unico vostro maestro è Cristo. ( Mt 23,10 )

Questo libro incomincia così: Che cosa ti sembra che noi intendiamo fare quando parliamo?

Indice

2 C. Acad. 1, 1, 1.
3 C. Acad. 1, 1, 3.
4 Ibidem.
5 C. Acad. 1, 1, 3
6 C. Acad. 1, 2, 5
7 Ibidem
8 C. Acad. 1, 4, 11
9 C. Acad. 2, 3, 7
10 C. Acad. 2, 9, 22
11 Plot., Enn. 4, 8, 5;
Orig., Princ. 1, 6, 23
12 Cypr., De Dom. Orat. 16
13 C. Acad. 3, 12, 27
14 C. Acad. 3, 16, 35;
De serm. Dom. in m. 1, 17, 51-52
15 C. Acad. 3, 18, 40
16 C. Acad. 2, 10, 24; 3, 17, 37. 18, 41
17 C. Acad. 3, 20, 45
18 De b. vita 1, 5
19 Ibidem
20 De b. vita 4, 25
21 De ord. 2, 9, 27
22 De ord. 1, 1, 3
23 Retract. 1,1,2
24 De ord. 1, 5, 15. 8, 24; 2, 14, 39
25 De ord. 1, 3, 6. 8, 24; 2, 14, 41
26 De ord. 1, 3, 8
27 De ord. 1, 11, 31
28 Plat., De rep. 508c
29 De ord. 1, 11, 32
30 De ord. 2, 20, 52
31 De ord. 2, 20, 53
32 Solil. 1, 1, 2
33 Solil. 1, 1, 3
34 Retract. 1,1,2
35 Solil. 1, 1, 4
36 Solil. 1, 7, 14
37 Solil. 1, 13, 23
38 Solil. 1, 14, 24
39 Porf., Ad Marc. 8, 32, 34;
De civ. Dei 10, 29; 22, 12, 26-28
40 Solil. 2, 20, 35
41 Plat., Phedon 72e;
Menon 81e-86b
42 De Trin. 12, 15, 24
43 De imm. an. 1, 1
44 Ibidem
45 De imm. an. 4, 5
46 De imm. an. 1, 1
47 De imm. an. 6, 11
48 De imm. an. 13, 22
49 De imm. an. 15, 24
50 De mor. Eccl. cath. 1, 9, 14;
Sal 44,22;
Rm 8,36
51 De mor. Eccl. cath. 1, 21, 39;
Sir 1,2
52 De mor. Eccl. cath. 1, 25, 47
53 De mor. Eccl. cath. 1, 27, 53
54 De mor. Eccl. cath. 1, 30, 64;
Eb 12,29
55 De mor. Eccl. cath. 2, 7, 9
56 Orig., De princ. 2, 3, 3
57 De mor. Eccl. cath. 2, 17, 63
58 De quant. an. 1, 1
59 De quant. an. 20, 34
60 De Trin. 12, 15, 24;
Plat., Phaedo 72
61 Retract. 1,4,4
62 De quant. an. 28, 55
63 De quant. an. 28, 55;
Hor.Sat.2, 7, 2-3
64 De lib. arb. 1, 2, 4. 16, 35; 3, 16, 46. 22, 65
65 De lib. arb. 1, 1, 1
66 De lib. arb. 1, 12, 26
67 De lib. arb. 1, 13, 28
68 De lib. arb. 1, 13, 29
69 De lib. arb. 1, 14, 30
70 De lib. arb. 1, 16, 34
71 De lib. arb. 2, 1, 2
72 De lib. arb. 2, 18, 47
73 De lib. arb. 3, 1, 2
74 De lib. arb. 3, 3, 7
75 De lib. arb. 3, 16, 46
76 De lib. arb. 3, 16, 46
77 De lib. arb. 3, 17, 49
78 De lib. arb. 3, 18, 50
79 C. duas epp. Pelag. 1, 18, 36;
De Spir. et litt. 27 ss.;
De nat. et grat. 47, 55;
De gesta Pel. 7 ss.;
De grat. Chr. 1,4, 5;
De grat. et lib. arb. 5, 10; 21, 42
80 De lib. arb. 2, 19, 50
81 De lib. arb. 2, 19, 50
82 De lib. arb. 2, 20, 54
83 De lib. arb. 2, 20, 54
84 Retract. 1,9,3
85 De lib. arb. 3, 18, 50
86 De lib. arb. 3, 18, 51
87 De lib. arb. 3, 18, 52
88 De lib. arb. 2, 19, 50-53
89 De lib. arb. 2, 20, 54; 3, 18, 50
90 De lib. arb. 3, 20, 58; cf. 3, 22, 64
91 De Gn c. Man. 1, 3, 6
92 De Gn c. Man. 1, 19, 30
93 De Gn c. Man. 1, 20, 31
94 De Gn c. Man. 1, 23, 40
95 C. litt. Petil. 2, 27, 87
96 De Gn c. Man. 2, 3, 4;
Gen 2,5
97 De Gn c. Man. 2, 5, 6
98 De Gn c. Man. 2, 8, 10
99 De Gn c. Man. 2, 29, 43
100 De Gn c. Man. 2, 29, 43
101 Retract. 1,6
102 De musica 6, 1, 1;
1 Tm 2,5
103 De musica 6, 4, 7
104 De musica 6, 5, 13
105 De musica 6, 14, 44
106 De civ. Dei 7, 6
107 Plato., Tm. 30b. Cicer., De nat. deor. 1, 30, 52. 2, 22, 30, 32
108 De imm. an. 15, 24;
Retract. 1,5,3
109 De musica 6, 17, 58