Summa Teologica - II-II

Indice

Peccati contro la carità

( II-II, qq. 34-46 )

1 Nella nostra edizione vizi e peccati contro la carità si presentano staccati e smembrati dalla virtù corrispondente.

É solo una triste conseguenza dei limiti materiali di spazio imposti praticamente a tutte le edizioni bilingue della Somma Teologica.

Perché nella mente dell'Autore i contrari si richiamano a vicenda: proprio come avviene con perfetta naturalezza nella mente di tutti gli uomini.

Accanto a ogni virtù, infatti, egli prende in esame i vizi corrispondenti, secondo il programma tracciato nel prologo della Secunda Secundae.

Sempre secondo codesto programma, il trattato sulla carità si chiude con uno studio sui precetti relativi a questa virtù, e sul dono annesso, che è il più sublime: la sapienza ( qq. 44,4 ), con l'appendice del suo vizio contrario, la stoltezza ( q. 46 ).

Non crediamo utile per i nostri lettori anticipare qui nell'introduzione quanto potranno leggere diffusamente nel testo.

Ci limiteremo perciò a precisare alcuni problemi, che oggi si presentano particolarmente ardui, e sotto certi aspetti erano ignoti all'Autore della Somma Teologica: l'odio di Dio e la guerra.

I L'odio di Dio e l'ateismo moderno.

2 - A rendere attuale il primo argomento ai nostri giorni è l'apparizione di due fenomeni inquietanti, e tra loro intimamente connessi: l'ateismo militante e l'ateismo di massa.

Qualcuno forse potrebbe pensare che questi due fatti, e specialmente il secondo, non debbano interessare il nostro tema; perché l'ateo, negando l'esistenza di Dio, non è in condizione di rivolgere un sentimento qualsiasi verso di lui.

A fil di logica la situazione dei negatori di Dio dovrebbe esser questa; ma di fatto l'ateismo di massa si risolve in un atteggiamento più affettivo che intellettuale, dove l'odio supplisce la mancanza di convinzioni e di ragioni sufficienti.

L'ateismo contemporaneo, e soprattutto l'ateismo di massa, è un fenomeno molto complesso, che impegna seriamente chi voglia conoscerne le origini.

Chi lo considerasse una conseguenza spontanea del progresso tecnico-scientifico mostrerebbe un'ignoranza assoluta della storia europea degli ultimi secoli.

Anzi, per un giudizio sicuro sulle vicende che hanno condotto all'ateismo di massa, bisogna risalire addirittura all'epoca del rinascimento, in cui si sono forgiate le prime armi contro la civiltà cristiana del nostro occidente.

- Non si spiega, p. es., la denunzia marxista della religione come « oppio del popolo », senza risalire al Machiavelli che accusò il cristianesimo di avere educato i popoli alla "debolezza" e alla sopportazione ( cfr. Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, lib. I, Prol.; lib. 11, c. 2 ).

Alle brutali accuse dei letterati gli uomini di Chiesa non reagirono sempre con inflessibile energia.

E tutti sanno che una repressione saltuaria, anche se crudele, invece di stroncare un sentimento o un' idea, riesce a favore di quest'ultima, dandole l'aureola dell'audacia e del martirio.

Quando poi la repressione divenne addirittura irrisoria, come nel secolo XVIII, si ebbe una vera inflazione di audacia blasfema: e fu il secolo dei lumi, del deismo e finalmente dell'ateismo.

Nel secolo XIX le idee irreligiose dell'illuminismo raggiunsero larghi strati di persone colte, o di media cultura per meglio dire, non senza l'apporto organizzativo e manovriero delle sette anticristiane, facenti capo alla massoneria.

Negli ultimi decenni del suddetto secolo e nei primi del XX il motivo antireligioso scendeva decisamente alla conquista delle masse sotto la spinta del socialismo e del comunismo.

Dire che è spontaneo questo processo è come dire che è spontaneo lo sviluppo di un'azienda petrolifera.

Oggi, in Italia almeno, l'ateismo di massa si fonda su una propaganda capillare, organizzata tecnicamente con larghi mezzi finanziari: per molti dei suoi agenti la rivoluzione ateo-marxista è un affare economico in tutto analogo a quello dei produttori di una ditta commerciale.

Ma non tutto è organizzazione e tecnica propagandistica: tra gli ingranaggi di questo macchinario mastodontico, e specialmente al suo centro di propulsione, troviamo dei sentimenti, umani o disumani che dir si voglia.

E purtroppo in questi ultimi non manca una forte carica antireligiosa, soprattutto anticristiana.

E di questa che vogliamo qui interessarci, per coglierne gli aspetti più genuini, la cui conoscenza è indispensabile per qualsiasi tentativo di ricupero.

3 - I teologi non hanno molto approfondito le loro indagini sull'odio di Dio.

In sostanza siamo rimasti agli articoli della Somma Teologica.

S. Tommaso si chiede ( q. 34, a. 1 ) se quest'odio è realmente possibile, perché se consideriamo le cose in astratto non ci può essere un'assurdità più inaudita.

Dio infatti « è il bene universale e sotto questo bene rientrano l'angelo, l'uomo e ogni altra creatura.

Essendo perciò ogni creatura in tutto il suo essere qualcosa di Dio, ne segue che anche nell'ordine di natura l'angelo e l'uomo amino Dio più di se stessi.

Altrimenti …, la dilezione naturale sarebbe perversa » ( I, q. 60, a. 5 ).

Ma se dalla sfera del dover essere noi scendiamo alla concretezza della realtà, vediamo subito che l'odio verso Dio è straordinariamente diffuso negli esseri spirituali.

S. Tommaso non esita ad affermare che persino nelle più alte gerarchie angeliche ci sono state delle defezioni, e quindi dei dannati che per tutta l'eternità odiano Dio ( I, q. 63, a. 9, ad 3 ).

Chi ha dimestichezza col trattato tomistico sugli angeli sa bene come sia difficile spiegare il peccato di queste creature del tutto spirituali, e perfettamente intelligenti.

Tuttavia una possibilità "fisica" dello stesso peccato di odio sussiste anche in esse, perché non godono la visione dell'essenza divina.

Dio in se stesso, essendo la bontà infinita, non può essere oggetto di odio; "ma quelli che non lo vedono nella sua essenza, lo conoscono attraverso effetti particolari, che talvolta sono in contrasto con la loro volontà" ( I, q. 60, a. 5, ad 5 ).

Anche per l'uomo l'odio di Dio è materialmente possibile per questo motivo fondamentale: perché non lo conosciamo nella sua essenza, bensì in certi suoi effetti che contrastano con la volontà pervertita dal peccato.

« L'adultero, p. es., odia Dio in quanto odia il precetto Non commettere adulterio.

E così tutti i peccatori, in quanto si rifiutano di sottostare alla legge di Dio, sono nemici di Dio » ( Rm 8,2 ).

4 - Per ben chiarire il problema dobbiamo distinguere nettamente a questo punto due tipi di odio verso Dio:

a) l'odio di abominazione;

b) l'odio d'inimicizia.

Il primo, che consiste nel senso di fastidio o di insofferenza verso una data persona, è implicito in ogni peccato mortale.

Di suo l'abominazione non è diretta contro la persona per se stessa, ma per certe sue doti o qualità.

Per lo più il peccatore si contenterebbe di una certa condiscendenza da parte di Dio verso le proprie colpe.

L'odio d'inimicizia invece si volge direttamente contro la divinità, pur essendo motivato da certi suoi effetti, o da certi attributi.

E l'odio di cui formalmente stiamo trattando.

I teologi ne hanno parlato meno forse del Vangelo stesso, preoccupati di rispettare con assoluto rigore la distinzione surriferita.

Ma, nota giustamente a questo proposito il celebre D. Bañez: « Da principio i peccatori, amando se stessi con amore di concupiscenza e volendo delle cose che sono contrarie alla legge di Dio, hanno in odio in qualche modo la legge, e per partecipazione il legislatore: il che si riscontra in qualsiasi peccato mortale.

Dopo però, crescendo l'affetto per i beni sensibili, prendono in odio espressamente la legge e il legislatore come tale, e allora codesto odio è un peccato speciale.

E finalmente arrivano a odiare Dio per se stesso come termine della loro malevolenza » ( Scholastica Commentaria in II-II Anqelici Doctoris, Salmanticae, 1586, col. 1294 ).

Questi trapassi son più facili di quanto si creda in coloro che vivono abitualmente nella colpa.

Ecco perché il Signore nel Vangelo ha parlato dell'odio contro Dio come di un peccato niente affatto peregrino: « Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me.

Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo …

Chi odia me, odia anche il Padre mio.

Se non avessi fatto tra loro opere che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio.

Ma ciò è avvenuto affinché si adempisse la parola scritta nella Legge: "Mi odiarono senza ragione" » ( Gv 15,18-25 ).

É interessante il commento che il Dottore Angelico fa seguire a codesto brano evangelico.

Prima di tutto notiamo che egli non si limita alla questione astratta se è possibile l'odio verso Dio, ma in concreto si domanda in che modo i Giudei potevano odiare il Padre, di cui non avevano la diretta e vera conoscenza.

Al quesito risponde, con S. Agostino, che « Si può amare e odiare una persona che non si è mai vista, e che realmente non si conosce, fondandosi sulla fama che ne dice bene o male » ( Gv 15,5 ).

Ma l'osservazione più importante è quella relativa all'intima connessione riscontrabile tra l'odio di Dio e l'incredulità.

Considerando le cose in astratto, potrebbe sembrare che il peccato più grave, l'odio verso Dio, debba essere all'ultimo posto, come l'estremo limite cui può giungere l'umana malizia.

Invece S. Tommaso vede in esso la radice dell'incredulità che è meno grave per l'intrinseca cattiveria, ma più irreparabile: « Qui [ il Signore ] mostra da quale radice derivasse il loro peccato d'incredulità: cioè dall'odio, che loro impediva di credere alle opere che vedevano ».

E non si tratta, ben inteso, di una dipendenza occasionale e sporadica, bensì ordinaria, come potremmo accertare e documentare ampiamente attraverso gli sviluppi dell'ateismo moderno, senza dimenticare che i moti psicologici non si susseguono con la costanza delle deduzioni algebriche.

Inoltre va ricordato che l'odium Dei che precede I'incredulità non sempre è l'odio « d'inimicizia » ; perché la sola insofferenza verso la legge morale ( odium abominationis ) basta a provocare i primi moti d'incredulità o addirittura l'incredulità medesima.

Qualcuno potrebbe obiettare che nel caso dell'ateismo non viene compromessa soltanto la fede, ma anche la ragionevolezza di un uomo; perché l'esistenza di Dio, oggettivamente almeno, è una verità di ordine naturale.

Perciò la semplice insofferenza che può mettere in crisi la fede cristiana, la quale si fonda sulla rivelazione dei divini misteri, non sembra sufficiente a distruggere la convinzione profonda dell'esistenza di Dio, fondata sulla ragione umana.

S. Tommaso risponde che la negazione del Dio della rivelazione è negazione sic et simpliciter di Dio, perché l'unico vero Dio è precisamente quello della rivelazione ( Sal 14; II-II, q. 10, a. 3 ).

Come abbiamo accennato, questa osservazione è suffragata dalla esperienza: la storia infatti dell'ateismo moderno dimostra che dalla negazione della religione positiva si giunge presto all'espulsione di Dio, nonostante ogni sforzo per rimanere ancorati al deismo naturalistico ( cfr. FABRO C., Introduzione all'ateismo moderno, Roma, 1964 ).

5 - In questo momento a noi interessa precisare il contributo dell'odio verso Dio in questo processo storico, e più ancora nelle varie forme di ateismo che offre il mondo contemporaneo.

Tra queste ne emergono due ben differenziate, che potranno servirci per lo meno come schemi approssimativi: l'ateismo di massa, o ateismo volgare, e l'ateismo personalistico dei filosofi o degli uomini di scienza.

Sull'ateismo di massa influiscono molti fattori di ordine tecnico: la dissipazione quotidiana del lavoro collettivo e delle tecniche pubblicitarie che rende la vita impersonale; la conquista in atto del benessere economico; la cultura mediocre e divulgativa, priva di senso critico e di profondità.

Ma su questi fattori tecnici giuocano motivi di carattere affettivo: lo spettacolo e l'avvenimento politico non solo dissipano, ma provocano reazioni di massa abilmente orchestrate; il benessere materiale nei suoi elementi frammentari occupa e preoccupa al punto da escludere abitualmente preoccupazioni di ordine superiore; nella cultura media sono immessi sistematicamente elementi incompatibili con una visione religiosa o cristiana del mondo.

Le reazioni negative che tutto ciò è in grado di provocare vengono promosse ad arte dalla propaganda atea del marxismo.

Sono ben noti nelle grandi linee questi sistemi d'indottrinamento:

a) si cerca di esasperare il marasma passionale delle masse giovanili accentuando così il disgusto e l'insofferenza per ogni remora morale e per la religione che la rappresenta;

b) si riduce la zona d'interesse vitale ai soli problemi d indole economica o temporale, respingendo le prospettive ultraterrene nel mondo dell'ipotesi, del mito, o dei sogni;

c) in un secondo tempo s'insiste a presentare queste "evasioni" come abili manovre dello sfruttamento capitalista, così da provocare sentimenti di diffidenza verso la religione e i suoi rappresentanti;

d) all'occorrenza si scatenano campagne di odio contro il clero, che travolgono di prepotenza gli ultimi legami affettivi e pratici con la religione.

In tutto questo processo l'odio verso Dio ha un peso determinante.

Infatti, come abbiamo accennato, in ogni colpa c'è già implicito l'odio di abominazione.

Dall'attaccamento ai beni terreni, nota S. Tommaso, nasce l'accidia, cioè il disgusto dei beni spirituali, la quale a sua volta provoca il rancore verso le persone spirituali e i beni che esse promuovono ( cfr. q. 35, a. 4, ad 2 ).

- Ma tale rancore si concreta in atti di vera inimicizia, quando un uomo nella sua pretesa evoluzione verso l'indipendenza più spregiudicata si abbandona coscientemente alla bestemmia.

Di suo, dicono i moralisti, la bestemmia può avvenire anche per puro sfogo d'ira verso il prossimo, che nelle persone più volgari può anche non raggiungere la gravità di un peccato mortale.

Ma nel giovane che inizia codesta abitudine, per provare a se stesso e ad altri la propria emancipazione, essa è un gesto inqualificabile di odio, e di disprezzo verso la divinità.

Oppure si tratta di una suprema vigliaccheria, quando si compie non di proprio arbitrio, bensì per assecondare o sfidare la malizia altrui.

In certi paesi la bestemmia costituisce ormai un'abitudine di massa, perché si è costituito un legame psicologico tra I'ira e il disprezzo delle cose sante.

Anzi in molti casi si riscontra un legame tra la bestemmia e qualsiasi stato emotivo, come se si trattasse di un'esclamazione insostituibile.

Ed è proprio quest'abitudine che talora rende quasi innocua la bestemmia per il sentimento religioso del popolo.

Ma insistere in queste usanze dopo aver preso coscienza della loro gravità non è senza una carica di odio e di disprezzo.

- S. Tommaso ci ricorda che l'ira, pur non identificandosi con l'odio, è un incentivo ovvero un sentimento che predispone all'odio ( q. 34, a. 6, ad 3 ).

Perciò non è da meravigliarsi che in questi paesi, dove per lunga tradizione familiare imperversa la bestemmia, l'ateismo di massa abbia trovato un terreno fertilissimo.

Ma l'ateismo che ne è derivato risente gravemente delle sue origini emotive.

Più che di convinzioni codesto atteggiamento irreligioso si alimenta di una carica puerile di rancore verso Dio, e soprattutto verso le persone o le istituzioni che lo rappresentano.

Più che negazione convinta è negazione blasfema della divinità: odio spesso incosciente verso una realtà che non si conosce neppure in maniera approssimativa.

Ed è proprio codesto odio a dar corpo e consistenza a una « fede » nell'ateismo, com' è l'amore incipiente verso Dio a giustificare psicologicamente l'atto di fede soprannaturale.

6 - Nell'ateismo personalistico dei filosofi, degli scienziati e dei letterati la carica emotiva potrebbe sembrare del tutto inesistente, stando all'analisi oggettiva di certe dichiarazioni.

Lo scienziato positivista che respinge il problema stesso della « causa del mondo » ( cfr. RUSSELL B., Perché non sono cristiano, Milano, 1959, p. 193 ), potrà essere accusato forse di commettere un suicidio intellettuale; ma non sembra che possa essere accusato di odio verso Dio e verso la religione.

Però basta sollevare questo velo sottile di preteso agnosticismo, per vedere in codesti portatori della cultura le tare del fanatismo antireligioso.

Si osservi, p. es., il giudizio "storico" seguente: « Il cristianesimo, così com'è organizzato, è stato ed è tuttora il più grande nemico del progresso morale del mondo » ( ibid., p. 26 ).

Senza una carica emotiva giudizi come questo non si giustificano.

Non parliamo poi dei letterati, che, lungi dal nascondere, esasperano i loro sentimenti.

L'odio e il disprezzo di Dio sono stati cantati in tutti i toni da certa letteratura contemporanea ( cfr. SOMMAVILLA O., Incognite religiose della letteratura contemporanea, Milano, 1963, pp. 113ss. ).

Non è qui il caso di esaminare le singole esperienze.

Notiamo soltanto che in questi canti e in queste bestemmie ritroviamo gli stessi sentimenti riscontrati nella massa.

« Ma già si sa che la bestemmia spesso non è che un modo per imputare a Dio il male che egli permette, allo scopo di non dover imputare a se stessi il male che Dio proibisce » ( SOMMAVILLA, op. cit., p. 351 ).

- Notiamo con S. Tommaso che la stoltezza, così evidente nell'atteggiamento di tanti letterati, deriva per lo più dalla lussuria ( cfr. q. 46, a. 3; q. 153, a. 5 ).

7 - Più complesso è invece l'ateismo dei filosofi, i quali sviluppano in maniera coerente dei principi da cui logicamente sembra derivare l'espulsione di Dio.

A detta del P. Cornelio Fabro, questa sembra essere la triste sorte della filosofia immanentista ( cfr. op. cit., pp. 19ss.; 921 ss. ).

Ma posta una possibilità di questo genere, si ripropone sotto una luce nuova un problema connesso con quello che noi stiamo studiando.

É possibile un ateo in buona fede?

Il quesito si può porre anche per l'ateismo volgare, o di massa; ma solo nel caso dell'ateo razionalmente convinto sembra avere una soluzione positiva.

Ecco in proposito la conclusione del P. Fabro: "Può essere quindi, può accadere, che l'ambiente in cui si trova l'uomo e l'educazione ch'egli riceve lo portino ad assorbire il principio d'immanenza e a svolgerlo fino a coglierne l'inevitabile istanza atea ed a riposare in essa "per qualche tempo".

Ma non per sempre.

Egli vive in un mondo storico qualificato e deve chiedersi anzitutto perché mai fino alla comparsa del cogito non era ateo; e poi perché ancora dopo la comparsa del cogito altri filosofi impugnano il principio d'immanenza come intrinsecamente insignificante e contraddittorio; inoltre perché alcuni filosofi, proprio per sfuggire al vuoto di essere del principio d' immanenza, sono ritornati e ritornano al principio metafisico … ben consci che ciò va contro la logica del principio dell'immanenza ma in conformità però della "esigenza del fondamento".

La buona fede "atea" pertanto, se c' è stata o se ci può essere all'inizio come effetto di ambiente e di educazione, non può e non deve rimanere molto a lungo e per tutta la vita; ciò vale non soltanto perché non si può ammettere che Dio non abbia dato all'uomo i principi sufficienti per poterlo trovare ed avere una certezza valida della sua esistenza, ma anche perché non si può ammettere che l'uomo sia incapace di trovare il fondamento della verità » ( op. cit, p. 37 ).

Dobbiamo tener presente che nella concretezza storica rientra anche la vita affettiva e umana del filosofo in tutta la sua complessità.

Non è normale che un uomo possa respingere il sentimento religioso con i soli postulati della ragione: quel sentimento viene coartato e annullato da sentimenti contrastanti.

L'intelligenza nell'uomo non si esercita mai allo stato puro, soprattutto quando tratta di problemi che interessano i destini supremi individuali e sociali.

A parte questa considerazione pregiudiziale, nell'atto pratico vediamo bene dal comportamento dei filosofi l'intervento inoppugnabile dei loro sentimenti nell'affermazione dell'ateismo.

« Tanto per Hegel quanto per Fichte abbiamo potuto dimostrare », scrive G. Sigmund, « che il loro idealismo - il quale ha una portata così decisa su tutto quanto l'ateismo moderno - si fonda su una decisione volontaria preliminare peculiare, a carattere volontaristico, presa in favore della libertà assoluta dell'uomo e contro una personalità assoluta e predominante di Dio.

Essa rappresenta la ybris, la superbia, come dichiara senza ambagi Nietzsche » ( Storia e diagnosi dell'ateismo, Roma, 1960, p. 550 ).

Ora, la superbia non è un coefficiente della sapienza, ma conduce alla stoltezza: "Chi è d'animo superbo ed orgoglioso viene chiamato stolto, perché con la superbia l'uomo passa i limiti della ragione; mentre l'umiltà prepara le vie della sapienza, secondo il detto dei Proverbi [ Pr 11,2 ]: "Ubi umilitas, ibi sapientia" » ( Gb 5,1 ).

E la stoltezza, come nota lo stesso S. Tommaso, ha un legame intimo con l'odio verso Dio: "É proprio della stoltezza far sentire il disgusto di Dio e dei suoi doni.

Ecco perché S. Gregorio enumera tra le figlie della lussuria due cose che si riducono alla stoltezza, e cioè l'odio di Dio, e la disperazione del secolo futuro" ( q. 46, a. 3, ad 1 ).

Alcuni scrittori cattolici insistono molto oggi nello scusare gli atei delle loro bordate di odio contro Dio e contro la religione, affermando che molte volte essi non hanno dell'uno e dell'altra che delle idee deformate, le quali in buona parte dipendono dalla falsa religiosità di tanta gente di Chiesa.

- Pur riconoscendo in questa osservazione qualche cosa di vero, non possiamo accettarla senza riserve.

« É un errore far ricadere ogni avversione alla religione, a Cristo e alla Chiesa, sulle deficienze della Chiesa e dei suoi sacerdoti.

Vi sono, certo, delle colpe.

Ma oggi è una vera mania in alcuni mettere a conto della Chiesa ogni ostilità contro Dio.

É venuto al mondo Cristo, la santità, la sapienza, la bontà in persona; in Lui ha preso forma la santità e la benignità di Dio verso l'uomo; e tuttavia, proprio contro di Lui si è accanito l'odio dei nemici di Dio, appunto perchè nemici e odiatori del Padre Celeste [ Gv 15,24 ].

Come la venuta di Cristo ha fatto divampare tutta la malvagità del peccato [ Gv 15,22 ], così anche la venuta dello Spirito Santo, Spirito di amore, svelerà il peccato nella sua forma peggiore ( nella miscredenza e nell'odio di Dio ) [ cfr. Gv 16,8s ]: "Egli convincerà il mondo del suo peccato" ) ( HÄRING B., La legge di Cristo, II, p. 81 ).

É inutile dire che l'odio contro Dio derivante dalla superbia costituisce il più grave di tutti i peccati: è l'odio d' inimicizia, che proviene dal diabolico proposito di sostituirsi alla divinità nell'ordine della causa finale.

Invece l'odio volgare dell'ateismo di massa per lo più rimane un odio di abominazione.

Si parla oggi di ateismo « positivo » o « costruttivo », per indicare in sostanza questo tentativo di sublimare i valori umani e temporali per innalzarli alla sfera dell'Assoluto.

Ma in realtà non c'è niente di più distruttivo; perché con la negazione del Dio personale tutto è irreparabilmente compromesso: immortalità e felicità come prospettiva per il futuro, libertà e dignità umana per il presente.

Al deprecato timor di Dio subentra la vigliaccheria, cioè la paura degli uomini sotto tutte le forme: dal rispetto umano al conformismo letterario e filosofico, dall'opportunismo politico alla rinunzia positiva di ogni elementare libertà.

La negazione di Dio si risolve così nell'alienazione dell' uomo.

I La guerra.

8 - I teologi, mentre parlano ben poco dell'odio verso Dio, hanno parlato fin troppo, si direbbe, di quella massiccia manifestazione dell'odio contro il prossimo che è la guerra.

Specialmente dalla prima metà di questo secolo i loro scritti in proposito sono così numerosi da rendere difficile una cernita.

Ci limitiamo qui a ricapitolare brevemente il pensiero di S. Tommaso sull'argomento, e ad affrontare quegli aspetti nuovi della guerra che egli non poteva conoscere.

Il problema che c'interessa è stato trattato organicamente dall'Aquinate una volta sola nelle sue opere: l'unica questione dedicata alla guerra è quella della Somma Teologica, II-II, q. 40.

E di tutta la questione l'unico articolo d'interesse generale sull'argomento è il primo: « Utrum bellare semper sit peccatum ».

Non esistono luoghi paralleli veri e propri.

Non sarebbe però un lettore molto accorto colui che trascurasse il contesto in cui il problema è inserito.

L'Autore della Somma parla della guerra, che è anche una violazione della giustizia, nel trattato della carità.

L'osservazione è molto importante per comprendere le sue prospettive e le sue conclusioni.

Serve inoltre a meraviglia tale rilievo, per integrare il pensiero dell'Autore con le pericopi logicamente connesse con gli altri vizi contrari alla carità ( odio-invidia ), e in modo speciale contro la pace ( discordia e contesa: q. 37, q. 38 ).

Dobbiamo lamentare che i moralisti e i commentatori non si siano fermati a considerare i rapporti esistenti tra la guerra e lo scandalo: eppure anche questi legami sono innegabili, là dove si discute se siamo tenuti alla rinunzia di beni spirituali e temporali per evitare disordini e scandalo, cioè per non dare ad altri occasione di peccato ( q. 43, aa. 7,8 ).

Sappiamo infatti che la guerra si presenta come un'occasione spaventosa di peccati gravissimi.

S. Tommaso così risponde all'obbiezione di chi vede nella pace stessa occasioni di peccato: « La pace dello stato di suo è cosa buona, e non è resa cattiva dal fatto che alcuni ne abusano.

Ci sono infatti molti altri che ne usano bene; e d'altra parte con essa si evitano omicidi e sacrilegi, cioè mali assai peggiori di quelli cui essa può dare occasione, quali sono appunto i vizi della carne » ( q. 123, a. 5, ad 3 ).

Tutti questi legami della guerra con altri vizi consimili non sono percepibili, se noi la consideriamo sotto l'aspetto della giustizia.

E i commentatori purtroppo non li hanno posti in evidenza, perché specialmente dal secolo XVI in poi hanno considerato la guerra nel quadro di una virtù naturale, qual'è appunto la giustizia, in cui essa si può presentare come un diritto.

Speriamo che nessuno fraintenda la nostra osservazione: non intendiamo negare affatto la legittimità di una considerazione meno teologica della guerra; ma rileviamo che S. Tommaso l'ha inquadrata in una visuale diversa, cioè in una prospettiva evangelica.

Considerandola come atto contrario alla carità cristiana, egli non esamina formalmente la possibilità di un diritto alla guerra; ma parte dal presupposto che essa è essenzialmente deprecabile, ed è peccaminosa da parte di colui che ne assume moralmente la diretta responsabilità.

Ciò posto, nasce per il teologo il problema se esistano dei casi in cui sia lecito e doveroso impugnare le armi anche per un cristiano, al quale è comandato di amare persino i suoi nemici.

9 - Se non teniamo presente questa presupposizione, può destare meraviglia il tono del primo articolo ricordato della q. 40: può sembrare che l'Autore parta dal proposito di giustificare la guerra.

Invece si tratta solo di sapere se i mansueti discepoli di Cristo abbiano in certi casi il dovere di combattere; e se il mestiere delle armi, in una società mal compaginata dalla prepotenza, sia lecito a un cristiano. Il problema, posto in questi termini, è antico, come si sa, quanto il cristianesimo.

S. Tommaso si richiama espressamente a S. Agostino, che ha avuto il merito di affrontarlo nella sua sostanziale complessità, senza indulgere a facili estremismi.

L'Aquinate non fa che riepilogarne l'insegnamento in maniera sistematica, ponendo tre condizioni fondamentali per la liceità della guerra da parte di coloro che vi sono ingiustamente costretti:

a) l'autorità legittima che la dichiari ( l'autorità suprema dello stato )

b) la giusta causa, ossia un motivo proporzionatamente grave;

c) la retta intenzione, cioè la prosecuzione di un bene morale universalmente valido, o l'espulsione di un male dello stesso genere ( cfr. q. 40, a. 1 ).

Nonostante la brevità della sua esposizione S. Tommaso ha avuto un influsso grandissimo sui teologi e sui giuristi cristiani posteriori che hanno trattato il problema della guerra: F.. De Vitoria e F. Suarez, che in questo campo sono considerati i fondatori del diritto internazionale, si richiamano costantemente ai suoi principi.

Non è giusto però ridurre il nostro interesse all'articolo citato della Somma Teologica, come han fatto questi ed altri studiosi dei secoli XVI-XIX: il tema va riportato nel suo contesto, non solo per assumere il suo significato genuino; ma anche per eventuali ampliamenti e per riallacciarvi qualsiasi tentativo di risolvere con la dottrina tomistica i problemi del nostro tempo.

10 - Come quasi tutti i mortali, S. Tommaso ha imparato a conoscere il problema della guerra prima dalla vita che dai libri.

Nel mezzo secolo in cui visse ( 1225-1274 ) l'Europa fu scossa e travagliata da continue guerre: guerra tra il papato e l'impero, che durò quasi ininterrottamente dal 1227 al 1250; si chiuse l'epoca delle crociate con la disastrosa fine del regno di Gerusalemme [ 1260 ], dell'impresa tunisina del re S. Luigi IX [ 1270 ] e dell'impero latino di Costantinopoli [ 1261 ]; continuarono intanto le guerre di successione in Germania, di indipendenza comunale in Italia, di riconquista in Spagna.

Negli anni della sua giovinezza si era abbattuto in Europa lo spaventoso flagello dell'invasione dei mongoli, che si spinse fino alle rive dell'Adriatico.

Nato da una famiglia di nobili feudatari, e ascrittosi giovanissimo a un Ordine di carattere internazionale come quello domenicano, fu interessato a molte di queste vicende anche per le loro ripercussioni sui propri familiari e sui propri confratelli.

Ma nella sua questione sulla guerra si cercherebbe invano un accenno al momento storico in cui fu scritta.

L'unico indizio cronologico lo riscontriamo nell'aperta condanna dei tornei cavallereschi dell'epoca, contro i quali quasi inutilmente si accanirono le censure ecclesiastiche ( cfr. q. 40, a. 1, ad 4 ).

Nel trattato sulla giustizia emerge un'altra indicazione cronologica, là dove si giustifica l'uso medioevale ( e non solo medioevale ) del saccheggio di guerra ( cfr. q. 66, a. 8, ad 1 ).

- Non si può portare questa pericope, che ripugna alla nostra sensibilità moderna, come pretesto per svalutare le conclusioni dell'Aquinate sulla guerra; perché si tratta di un aspetto affatto marginale.

La condotta di guerra segue, purtroppo solo formalmente del resto, la lenta evoluzione del costume sociale.

11 - Torniamo dunque ad inquadrare la questione nel contesto del trattato, per coglierne gli elementi essenziali e risolutivi.

Più che al modo di condurre la guerra bisogna rivolgere l'attenzione alle cause che possono provocarla.

S. Tommaso ci ricorda che le guerre, come tutte le inimicizie, nascono dall'odio ( q. 3 ), e l'odio verso il prossimo nasce dall'invidia ( q. 36 ).

Perciò il sincero amor di pace si dimostra non con le dichiarazioni vaghe di pacifismo, bensì con la condanna di questi sentimenti deleteri per le sorti dell'umanità.

In tale prospettiva è facile scorgere l'ipocrisia del comunismo internazionale, p. es., che pretende di presentarsi alle masse come promotore di pace, mentre con tutti i mezzi cerca di acuire la lotta di classe e di scatenare campagne di xenofobia nei paesi sottosviluppati.

Inoltre S. Tommaso ci dice implicitamente che la guerra inizia, prima ancora del ricorso alle armi, con quegli atti che sono anch'essi contrari alla pace: cioè con la discordia ( q. 37 ) e la contesa ( q. 38 ).

Egli parla di queste cose con assoluta proprietà di linguaggio.

Invece i nostri contemporanei preferiscono odiare, fomentare discordie e contendere, senza ricorrere a queste chiare parole del dizionario; anche se i clamori delle loro contese e discordie sono così forti da far coniare l'espressione di « guerra fredda ».

Quello che ci rende perplessi non è il fatto che queste cose avvengano, ma che non si considerino abbastanza nocive, come se non costituissero autentiche iniquità e non fossero i veri prodromi di una guerra futura.

Ci si preoccupa molto di più, p. es., degli armamenti, come se le armi potessero funzionare per un certo automatismo e non piuttosto perché impugnate da esseri umani spinti dall'odio, dal rancore e dall'invidia.

Per l'abitudine di considerare le cose materialmente oggi si fa molto caso alla distinzione tra guerra offensiva e difensiva, con l'idea di poter scorgere a colpo sicuro chi è l'ingiusto aggressore, mentre può darsi che l'aggressore sia stato « aggredito da gravi ingiustizie ».

S. Tommaso non conosce altra distinzione che quella formale, tra guerra giusta e guerra ingiusta.

Per il fatto che all'atto pratico non si sa quasi mai da che parte penda la bilancia della giustizia, un moralista non può rinunciare a tale distinzione che è l'unica degna d'interessarlo.

12 - Abbiamo già ricordato quali sono per S. Tommaso i requisiti per una guerra giusta; che naturalmente potrà esser tale solo da parte di uno dei belligeranti, non da entrambe le parti.

Ecco come uno studioso moderno tenta di allargare, con le precisazioni successive dei moralisti, questo discorso, aggiungendovi le perplessità dei nostri contemporanei: « Fino ad oggi, i teologi rassicuravano le coscienze con la teoria della "guerra giusta".

Non si può affermare che essa sia diventata del tutto accademica: un certo valore lo conserva ancora.

Ma mentre un tempo gli avversari - che erano simultaneamente giudici e parti in causa - l'interpretavano ciascuno a modo suo per giustificare la propria posizione, oggi anziché rasserenarle, essa turba le coscienze e le mette in crisi: le condizioni perché una guerra sia "giusta" si verificano in maniera così vaga e così parziale per i combattenti di tutt'e due i campi, che, se non hanno perduto il ben dell'intelletto, essi dovrebbero avere una bella dose d'ipocrisia per considerarsi difensori della giustizia quando seminano intorno a sè la morte.

Basta appena enunciarle, queste condizioni, per avvertire quanto siano tragicamente ridicole dopo tutto quel che si sa sul vero volto della guerra totale.

Esse sono:

1) che la causa sia giusta;

2) che l'intenzione si conservi retta lungo tutto il corso delle ostilità;

3) che la guerra sia veramente l'estrema risorsa, dopo aver impiegato tutti i mezzi pacifici;

4) che i mezzi bellici siano giusti;

5) che il bene previsto come legittimo risultato della guerra sia maggiore, per l'umanità, dei mali che ne deriveranno;

6) che la vittoria sia certa;

7) che la stipulazione della pace sia giusta e tale da evitare un nuovo conflitto armato.

La penultima condizione è senza dubbio contestabile.

Ma si considerino tutte le altre.

Da una parte, è indiscutibile che una guerra non può veramente esser "giusta" se non si conforma ad esse.

Dall'altra, è fuori dubbio che anche se nel passato sono state talvolta osservate con una certa rigorosità, - lo vedremo soltanto nel Giudizio universale - ciò accadrà però sempre più raramente nell'avvenire.

Per essere "giusta", la guerra dovrà svolgersi in un ambito strettissimamente delimitato: qualcosa di paragonabile ad una grossa operazione di polizia.

Basterebbe la sola clausola dell'"estrema risorsa" - a meno che non si tratti di resistere a un attacco - per diminuire il numero delle guerre "giuste": quanti organismi internazionali, quanti mezzi d'arbitrato esistono oggigiorno!

Proprio perché queste clausole appaiono fuori della realtà, noi siamo obbligati in coscienza a custodirle decisamente, a prenderle molto sul serio: lungi dall'essere condannate da questa non-concordanza con la realtà, son esse a condannare il mondo così com'è » ( REGAMEY P., Non-violenza e coscienza cristiana, Roma, 1962, pp. 357-358 ).

Forse non tutti i pensatori cattolici accettano ogni pericope del testo riferito, che calca le tinte in senso pacifista, essi però sono unanimi oggi nel sottoscrivere il n. 192 del Codice Sociale proposto dall' Unione Internazionale di Studi Sociali: « La guerra non è giusta se non quando si tratti di sostenere il diritto con la forza.

Essa non è legittima se non quando vi sia stata violazione di un diritto, e tutti gli altri mezzi di ristabilire il diritto violato siano riusciti vani.

La guerra dev'essere un mezzo efficace per conseguire il fine che la giustifica, cioè il ristabilimento dell'ordine.

Essa dev'esser condotta con moderazione ».

Per condannare questo punto di vista bisognerebbe dimostrare che son veri i presupposti del pacifismo, o del fatalismo storicista cui si oppone recisamente.

Quest'ultimo, ch'è l'errore dei fautori della guerra, nel nostro tempo ha preso l'aspetto di un'applicazione del principio darwinista della lotta per la vita.

Esso non merita neppure una confutazione; perché principalmente contro di esso valgono le parole di Pio XII: « Dal gigantesco vortice di errori e di movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica » ( Settembre 1940 ).

13 - Per quanto riguarda il pacifismo il discorso è più complesso.

Ci limitiamo qui a ricordare i capisaldi di questa dottrina, come in genere vengono presentati dagli obbiettori di coscienza: « Sotto l'aspetto religioso, si osserva che l'uso della forza, e conseguentemente anche la guerra, è contrario al precetto divino della non resistenza al male, della carità verso il prossimo e allo spirito di mitezza, che pervade il Discorso della montagna, nel quale è racchiusa la più squisita essenza del cristianesimo.

Inoltre esiste il V comandamento non ammazzare, che tanto l'individuo quanto lo Stato sono chiamati ad osservare.

A confortare queste posizioni viene invocata la tradizione della Chiesa primitiva, la quale sarebbe stata contraria al servizio militare, e si citano, come rappresentanti di tale tradizione, Tertulliano, Lattanzio e Origene con qualche caso di renitenza militare dei cristiani …

Tanto più, si aggiunge, che la guerra moderna, a causa degli immensi mali che produce e della loro sproporzione con il diritto che con essa s'intenderebbe difendere, deve riputarsi in ogni caso ingiusta … » ( MESSINEO A., « Obiezione di coscienza », in Enc. Catt., voi. IX, col. 18 ).

Sebbene non manchino ai nostri giorni scrittori cattolici favorevoli a queste dottrine, rimane sostanzialmente valida la tesi tradizionale che le condanna; perché l'uso della forza - per quanto deprecabile - in una società umana com'è possibile dopo il peccato originale, non solo è lecito ma strettamente doveroso in certe circostanze.

L'autorità pubblica non ha il diritto di astenersene quando la forza è indispensabile per la difesa dei diritti elementari del bene comune.

Quando il Signore comandava di non resistere al male, o dava il consiglio di porgere l'altra guancia « a chi ti percuote », certamente non intendeva risolvere problemi di diritto internazionale, ma di tracciare la linea di condotta più eroica dell'ascesi individuale.

Applicare materialmente questi criteri alla vita pubblica significa snaturarli e mettere in caricatura il cristianesimo.

Per promuovere la pace non è necessario condividere le opinioni illogiche dei pacifisti, anche se dettate dai più nobili ideali: basta condannare le iniquità commesse in tutte le guerre del passato, e all'atto pratico disporsi a condannare le iniquità che ora si commettono.

Così nel prender parte a una campagna per l'abolizione della pena di morte non è necessario spingersi a negare tale diritto alla pubblica autorità.

A proposito ditale diritto, impugnato anch'esso dai pacifisti, per quanto crude possano sembrare alla nostra sensibilità, valgono pienamente le parole seguenti di S. Tommaso, che traggono ispirazione da tutta l'antica sapienza: « Col peccato l'uomo abbandona l'ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità umana, che consiste nell'esser liberi e nell'esistere per se stessi, degenerando in qualche modo nell'asservimento della bestia, dal quale deriva la subordinazione all'altrui vantaggio.

Così infatti si legge nella Scrittura: "L'uomo, non avendo compreso la sua dignità, è disceso al livello dei giumenti privi di senno, e si è fatto simile ad essi"; e ancora: " l'insensato sarà schiavo di chi è saggio".

Perciò, sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia: infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il Filosofo è peggiore e più nocivo di una bestia » ( II-II, q. 64, a. 2, ad 3 ).

Con queste parole il Santo non intendeva affatto promuovere una Campagna per la soppressione di tutti i peccatori ( cfr. ibid., ad 2; ma voleva stabilire logicamente un diritto inoppugnabile il fatto che le autorità costituite abbiano abusato in modo spaventoso di tale diritto ( e di che cosa non abusano gli uomini? ), non è un motivo per negarlo.

Tutt'al più si potrà contestare l'utilità pratica he esercitano, specialmente in società organizzate e stabili come i grandi stati democratici moderni.

14 - Lo stesso discorso può valere anche per la guerra.

Non possiamo oggi non condividere l'affermazione di Pio XII: « La guerra, come mezzo adatto e proporzionato per risolvere i conflitti internazionali, è ormai sorpassata » ( La pace internazionale, Roma, 1958, p. 425, dal Radiomessaggio Nat. 1944 ).

Ma fino a che l'umanità intera non sarà organizzata e guidata efficacemente da un'autorità supernazionale, è impossibile negare allo stato il diritto e il dovere di salvaguardare con tutti i mezzi ( compresa la guerra ) i beni supremi dei propri sudditi.

La minaccia di armi spaventose che fanno temere l'annientamento totale non può cambiare una situazione di diritto: il cristiano non esita ad affermare l'esistenza di beni che è lecito difendere anche a costo della vita.

Ma non si tratterà certamente dei beni materiali, bensì di quei beni e valori universali, che vanno difesi per il bene stesso dei nemici.

E questo un concetto ben chiaro in S. Tommaso, ma non sempre posto in luce dai commentatori e dai moralisti: « É lecito combattere i nemici per stornarli dai peccati: il che ridonda a loro bene e al bene degli altri » ( II-II, q. 83, a. 8, ad 3 ).

- « I moralisti più recenti, seguendo le precisazioni degli esegeti, distinguono il nemico di guerra ( hostis ) dal nemico personale ( inimicus ).

E così non trovano nessuna opposizione tra il precetto di amare i nemici, e il diritto del singolo e dello stato di difendersi legittimamente » ( MAUSBACH G., Teologia Morale, Alba, 1957, p. 619 ).

S. Tommaso mostra di non conoscere questa distinzione; ma per non cadere nell'insidia del pacifismo gli bastò il buon senso, cioè il suo perfetto equilibrio razionale.

E soprattutto da questo punto di vista che il cristiano deve giudicare deprecabili le guerre, specialmente dell'era moderna.

Gli uomini di governo, col loro preteso « realismo politico », le hanno intraprese soltanto con intenti di egemonia e di interessi economici, i quali le hanno rese in partenza veri e propri latrocini.

- Inoltre una guerra per essere giusta deve considerare quest'alta finalità universalistica anche come norma di condotta.

Il soldato cioè deve combattere non per il solo vantaggio della patria, ma per il bene dell'umanità e degli stessi nemici.

Perciò non sarà mai giustificato il massacro diretto dei civili inermi della nazione nemica, pur di assicurare la vita ai combattenti della propria nazione.

Nell'ultimo testo citato S. Tommaso parla direttamente della preghiera che dobbiamo fare anche per i nostri nemici, e si richiama espressamente al precetto universale della carità.

E ad esso che in definitiva dobbiamo risalire per risolvere cristianamente ogni problema, e molto più il problema della pace: « La pace è [ solo ] indirettamente opera della giustizia, in quanto essa ne rimuove gli ostacoli.

Ma direttamente è opera della carità: poiché la carità causa la pace in forza della sua natura.

Infatti l'amore, come insegna Dionigi, è "una forza unitiva", e la pace è l'unificazione tra le inclinazioni dell'appetito » ( II-II, q. 29, a. 3, ad 3 ).

15 - Non insisteremo mai abbastanza sul vero concetto di pace, che è essenzialmente cristiano, in quanto la pace implica l'esercizio della carità ( cfr. II-II, q. 29, a. 4 ).

Il turbamento esistente nei rapporti internazionali non proviene tanto dalle condizioni esterne, quanto dalle disposizioni interiori delle persone singole, soprattutto di quelle che hanno la responsabilità politica delle nazioni.

La guerra inizia con la ribellione interiore a uno stato di fatto che si considera assolutamente inaccettabile ( cfr. ibid., a. 1 ).

I veri amanti della pace cercano di dominare questi moti di ribellione, e di tentare così un accordo ragionevole, facendo trionfare la carità di Dio e l'amore del prossimo. « Invece gli uomini feroci e privi di mitezza con litigi e guerre cercano di conquistare la propria sicurezza, distruggendo i propri nemici » ( II-II, q. 69, a. 4 ).

"La pace", scrive ancora S. Tommaso, consiste nella quiete e nell'armonica unione degli appetiti.

Ora, come l'appetito può avere per oggetto il bene vero o il bene apparente, così anche Il la pace può essere vera o apparente.

Ma non può esserci vera pace che nel desiderio del vero bene; perché ogni male, anche se sotto un certo aspetto può sembrare un bene e capace quindi di appagare il desiderio, ha tuttavia molte carenze, per cui I appetito rimane inquieto e turbato.

Perciò la vera pace non può trovarsi che nei buoni e nel bene.

Mentre la pace dei malvagi è una pace apparente e falsa » ( II-II, q. 29, a. 2, ad 2 ).

L'esasperazione degli appetiti inferiori, la brama delle ricchezze e degli onori, rimane dunque la causa prima di ogni guerra.

Perciò N. Machiavelli aveva ragione di attribuire al cristianesimo la responsabilità ( oggi noi diciamo meglio: il merito ) di aver attutito lo spirito militaresco e aggressivo della nostra gente.

Chi sinceramente desidera l'edificazione della pace non ha che da promuovere l'aspirazione dell'umanità verso i beni superiori dello spirito, cioè il regno della grazia e delle virtù; pur sapendo che "nella vita presente non potremo avere a pace senza nessun turbamento, nè rispetto a noi stessi, nè in rapporto a Dio, nè in rapporto al prossimo; sed in futuro abebimus eam perfecte, quando sine hoste regnabimus: ubi numquam poterimus dissentire » ( Gv 14,7 ).

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